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1 Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto, che furo al tempo che passaro i Mori d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto, seguendo l’ire e i giovenil furori d’Agramante lor re, che si diè vanto di vendicar la morte di Troiano sopra re Carlo imperator romano. 2 Dirò d’Orlando in un medesmo tratto cosa non detta in prosa mai, né in rima: che per amor venne in furore e matto, d’uom che sì saggio era stimato prima; se da colei che tal quasi m’ha fatto, che ’l poco ingegno ad or ad or mi lima, me ne sarà però tanto concesso, che mi basti a finir quanto ho promesso. 3 Piacciavi, generosa Erculea prole, ornamento e splendor del secol nostro, Ippolito, aggradir questo che vuole e darvi sol può l’umil servo vostro. Quel ch’io vi debbo, posso di parole pagare in parte e d’opera d’inchiostro; né che poco io vi dia da imputar sono, che quanto io posso dar, tutto vi dono. 4 Voi sentirete fra i più degni eroi, che nominar con laude m’apparecchio, ricordar quel Ruggier, che fu di voi e de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio. L’alto valore e’ chiari gesti suoi vi farò udir, se voi mi date orecchio, e vostri alti pensieri cedino un poco, sì che tra lor miei versi abbiano loco. 5 Orlando, che gran tempo innamorato fu de la bella Angelica, e per lei in India, in Media, in Tartaria lasciato avea infiniti ed immortal trofei, in Ponente con essa era tornato, dove sotto i gran monti Pirenei con la gente di Francia e de Lamagna re Carlo era attendato alla campagna, 6 per far al re Marsilio e al re Agramante battersi ancor del folle ardir la guancia, d’aver condotto, l’un, d’Africa quante genti erano atte a portar spada e lancia; l’altro, d’aver spinta la Spagna inante a destruzion del bel regno di Francia. E così Orlando arrivò quivi a punto: ma tosto si pentì d’esservi giunto: 7 Che vi fu tolta la sua donna poi: ecco il giudicio uman come spesso erra! Quella che dagli esperi ai liti eoi avea difesa con sì lunga guerra, or tolta gli è fra tanti amici suoi, senza spada adoprar, ne la sua terra. Il savio imperator, ch’estinguer volse un grave incendio, fu che gli la tolse. 8 Nata pochi dì inanzi era una gara tra il conte Orlando e il suo cugin Rinaldo, che entrambi avean per la bellezza rara d’amoroso disio l’animo caldo. Carlo, che non avea tal lite cara, che gli rendea l’aiuto lor men saldo, questa donzella, che la causa n’era, tolse, e diè in mano al duca di Bavera; 9 in premio promettendola a quel d’essi, ch’in quel conflitto, in quella gran giornata, degl’infideli più copia uccidessi, e di sua man prestasse opra più grata. Contrari ai voti poi furo i successi; ch’in fuga andò la gente battezzata, e con molti altri fu ’l duca prigione, e restò abbandonato il padiglione. 10 Dove, poi che rimase la donzella ch’esser dovea del vincitor mercede, inanzi al caso era salita in sella, e quando bisognò le spalle diede, presaga che quel giorno esser rubella dovea Fortuna alla cristiana fede: entrò in un bosco, e ne la stretta via rincontrò un cavallier ch’a piè venìa. 11 Indosso la corazza, l’elmo in testa, la spada al fianco, e in braccio avea lo scudo; e più leggier correa per la foresta, ch’al pallio rosso il villan mezzo ignudo. Timida pastorella mai sì presta non volse piede inanzi a serpe crudo, come Angelica tosto il freno torse, che del guerrier, ch’a piè venìa, s’accorse. 12 Era costui quel paladin gagliardo, figliuol d’Amon, signor di Montalbano, a cui pur dianzi il suo destrier Baiardo per strano caso uscito era di mano. Come alla donna egli drizzò lo sguardo, riconobbe, quantunque di lontano, l’angelico sembiante e quel bel volto ch’all’amorose reti il tenea involto. 13 La donna il palafreno a dietro volta, e per la selva a tutta briglia il caccia; né per la rara più che per la folta, la più sicura e miglior via procaccia: ma pallida, tremando, e di sé tolta, lascia cura al destrier che la via faccia. Di sù di giù, ne l’alta selva fiera tanto girò, che venne a una riviera. 14 Su la riviera Ferraù trovosse di sudor pieno e tutto polveroso. Da la battaglia dianzi lo rimosse un gran disio di bere e di riposo; e poi, mal grado suo, quivi fermosse, perché, de l’acqua ingordo e frettoloso, l’elmo nel fiume si lasciò cadere, né l’avea potuto anco riavere. 15 Quanto potea più forte, ne veniva gridando la donzella ispaventata. A quella voce salta in su la riva il Saracino, e nel viso la guata; e la conosce subito ch’arriva, ben che di timor pallida e turbata, e sien più dì che non n’udì novella, che senza dubbio ell’è Angelica bella. 16 E perché era cortese, e n’avea forse non men de’ dui cugini il petto caldo, l’aiuto che potea tutto le porse, pur come avesse l’elmo, ardito e baldo: trasse la spada, e minacciando corse dove poco di lui temea Rinaldo. Più volte s’eran già non pur veduti, m’al paragon de l’arme conosciuti. 17 Cominciar quivi una crudel battaglia, come a piè si trovar, coi brandi ignudi: non che le piastre e la minuta maglia, ma ai colpi lor non reggerian gl’incudi. Or, mentre l’un con l’altro si travaglia, bisogna al palafren che ’l passo studi; che quanto può menar de le calcagna, colei lo caccia al bosco e alla campagna. 18 Poi che s’affaticar gran pezzo invano i dui guerrier per por l’un l’altro sotto, quando non meno era con l’arme in mano questo di quel, né quel di questo dotto; fu primiero il signor di Montalbano, ch’al cavallier di Spagna fece motto, sì come quel ch’ha nel cuor tanto fuoco, che tutto n’arde e non ritrova loco. 19 Disse al pagan: – Me sol creduto avrai, e pur avrai te meco ancora offeso: se questo avvien perché i fulgenti rai del nuovo sol t’abbino il petto acceso, di farmi qui tardar che guadagno hai? che quando ancor tu m’abbi morto o preso, non però tua la bella donna fia; che, mentre noi tardiam, se ne va via. 20 Quanto fia meglio, amandola tu ancora, che tu le venga a traversar la strada, a ritenerla e farle far dimora, prima che più lontana se ne vada! Come l’avremo in potestate, allora di chi esser de’ si provi con la spada: non so altrimenti, dopo un lungo affanno, che possa riuscirci altro che danno. – 21 Al pagan la proposta non dispiacque: così fu differita la tenzone; e tal tregua tra lor subito nacque, sì l’odio e l’ira va in oblivione, che ’l pagano al partir da le fresche acque non lasciò a piedi il buon figliuol d’Amone: con preghi invita, ed al fin toglie in groppa, e per l’orme d’Angelica galoppa. 22 Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui! Eran rivali, eran di fé diversi, e si sentian degli aspri colpi iniqui per tutta la persona anco dolersi; e pur per selve oscure e calli obliqui insieme van senza sospetto aversi. Da quattro sproni il destrier punto arriva ove una strada in due si dipartiva. 23 E come quei che non sapean se l’una o l’altra via facesse la donzella (però che senza differenza alcuna apparia in amendue l’orma novella), si messero ad arbitrio di fortuna, Rinaldo a questa, il Saracino a quella. Pel bosco Ferraù molto s’avvolse, e ritrovossi al fine onde si tolse. 24 Pur si ritrova ancor su la rivera, là dove l’elmo gli cascò ne l’onde. Poi che la donna ritrovar non spera, per aver l’elmo che ’l fiume gli asconde, in quella parte onde caduto gli era discende ne l’estreme umide sponde: ma quello era sì fitto ne la sabbia, che molto avrà da far prima che l’abbia. 25 Con un gran ramo d’albero rimondo, di ch’avea fatto una pertica lunga, tenta il fiume e ricerca sino al fondo, né loco lascia ove non batta e punga. Mentre con la maggior stizza del mondo tanto l’indugio suo quivi prolunga, vede di mezzo il fiume un cavalliero insino al petto uscir, d’aspetto fiero. 26 Era, fuor che la testa, tutto armato, ed avea un elmo ne la destra mano: avea il medesimo elmo che cercato da Ferraù fu lungamente invano. A Ferraù parlò come adirato, e disse: – Ah mancator di fé, marano! perché di lasciar l’elmo anche t’aggrevi, che render già gran tempo mi dovevi? 27 Ricordati, pagan, quando uccidesti d’Angelica il fratel (che son quell’io), dietro all’altr’arme tu mi promettesti gittar fra pochi dì l’elmo nel rio. Or se Fortuna (quel che non volesti far tu) pone ad effetto il voler mio, non ti turbare; e se turbar ti déi, turbati che di fé mancato sei. 28 Ma se desir pur hai d’un elmo fino, trovane un altro, ed abbil con più onore; un tal ne porta Orlando paladino, un tal Rinaldo, e forse anco migliore: l’un fu d’Almonte, e l’altro di Mambrino: acquista un di quei dui col tuo valore; e questo, ch’hai già di lasciarmi detto, farai bene a lasciarmi con effetto. – 29 All’apparir che fece all’improvviso de l’acqua l’ombra, ogni pelo arricciossi, e scolorossi al Saracino il viso; la voce, ch’era per uscir, fermossi. Udendo poi da l’Argalia, ch’ucciso quivi avea già (che l’Argalia nomossi) la rotta fede così improverarse, di scorno e d’ira dentro e di fuor arse. 30 Né tempo avendo a pensar altra scusa, e conoscendo ben che ’l ver gli disse, restò senza risposta a bocca chiusa; ma la vergogna il cor sì gli trafisse, che giurò per la vita di Lanfusa non voler mai ch’altro elmo lo coprisse, se non quel buono che già in Aspramonte trasse dal capo Orlando al fiero Almonte. 31 E servò meglio questo giuramento, che non avea quell’altro fatto prima. Quindi si parte tanto malcontento, che molti giorni poi si rode e lima. Sol di cercare è il paladino intento di qua di là, dove trovarlo stima. Altra ventura al buon Rinaldo accade, che da costui tenea diverse strade. 32 Non molto va Rinaldo, che si vede saltare inanzi il suo destrier feroce: – Ferma, Baiardo mio, deh, ferma il piede! che l’esser senza te troppo mi nuoce. – Per questo il destrier sordo, a lui non riede anzi più se ne va sempre veloce. Segue Rinaldo, e d’ira si distrugge: ma seguitiamo Angelica che fugge. 33 Fugge tra selve spaventose e scure, per lochi inabitati, ermi e selvaggi. Il mover de le frondi e di verzure, che di cerri sentia, d’olmi e di faggi, fatto le avea con subite paure trovar di qua di là strani viaggi; ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle, temea Rinaldo aver sempre alle spalle. 34 Qual pargoletta o damma o capriuola, che tra le fronde del natio boschetto alla madre veduta abbia la gola stringer dal pardo, o aprirle ’l fianco o ’l petto, di selva in selva dal crudel s’invola, e di paura trema e di sospetto: ad ogni sterpo che passando tocca, esser si crede all’empia fera in bocca. 35 Quel dì e la notte a mezzo l’altro giorno s’andò aggirando, e non sapeva dove. Trovossi al fin in un boschetto adorno, che lievemente la fresca aura muove. Duo chiari rivi, mormorando intorno, sempre l’erbe vi fan tenere e nuove; e rendea ad ascoltar dolce concento, rotto tra picciol sassi, il correr lento. 36 Quivi parendo a lei d’esser sicura e lontana a Rinaldo mille miglia, da la via stanca e da l’estiva arsura, di riposare alquanto si consiglia: tra’ fiori smonta, e lascia alla pastura andare il palafren senza la briglia; e quel va errando intorno alle chiare onde, che di fresca erba avean piene le sponde. 37 Ecco non lungi un bel cespuglio vede di prun fioriti e di vermiglie rose, che de le liquide onde al specchio siede, chiuso dal sol fra l’alte querce ombrose; così voto nel mezzo, che concede fresca stanza fra l’ombre più nascose: e la foglia coi rami in modo è mista, che ’l sol non v’entra, non che minor vista. 38 Dentro letto vi fan tenere erbette, ch’invitano a posar chi s’appresenta. La bella donna in mezzo a quel si mette, ivi si corca ed ivi s’addormenta. Ma non per lungo spazio così stette, che un calpestio le par che venir senta: cheta si leva e appresso alla riviera vede ch’armato un cavallier giunt’era. 39 Se gli è amico o nemico non comprende: tema e speranza il dubbio cor le scuote; e di quella aventura il fine attende, né pur d’un sol sospir l’aria percuote. Il cavalliero in riva al fiume scende sopra l’un braccio a riposar le gote; e in un suo gran pensier tanto penètra, che par cangiato in insensibil pietra. 40 Pensoso più d’un’ora a capo basso stette, Signore, il cavallier dolente; poi cominciò con suono afflitto e lasso a lamentarsi sì soavemente, ch’avrebbe di pietà spezzato un sasso, una tigre crudel fatta clemente. Sospirante piangea, tal ch’un ruscello parean le guance, e ’l petto un Mongibello. 41 – Pensier (dicea) che ’l cor m’agghiacci ed ardi, e causi il duol che sempre il rode e lima, che debbo far, poi ch’io son giunto tardi, e ch’altri a corre il frutto è andato prima? a pena avuto io n’ho parole e sguardi, ed altri n’ha tutta la spoglia opima. Se non ne tocca a me frutto né fiore, perché affligger per lei mi vuo’ più il core? 42 La verginella è simile alla rosa, ch’in bel giardin su la nativa spina mentre sola e sicura si riposa, né gregge né pastor se le avvicina; l’aura soave e l’alba rugiadosa, l’acqua, la terra al suo favor s’inchina: gioveni vaghi e donne inamorate amano averne e seni e tempie ornate. 43 Ma non sì tosto dal materno stelo rimossa viene e dal suo ceppo verde, che quanto avea dagli uomini e dal cielo favor, grazia e bellezza, tutto perde. La vergine che ’l fior, di che più zelo che de’ begli occhi e de la vita aver de’, lascia altrui corre, il pregio ch’avea inanti perde nel cor di tutti gli altri amanti. 44 Sia Vile agli altri, e da quel solo amata a cui di sé fece sì larga copia. Ah, Fortuna crudel, Fortuna ingrata! trionfan gli altri, e ne moro io d’inopia. Dunque esser può che non mi sia più grata? dunque io posso lasciar mia vita propia? Ah più tosto oggi manchino i dì miei, ch’io viva più, s’amar non debbo lei! – 45 Se mi domanda alcun chi costui sia, che versa sopra il rio lacrime tante, io dirò ch’egli è il re di Circassia, quel d’amor travagliato Sacripante; io dirò ancor, che di sua pena ria sia prima e sola causa essere amante, è pur un degli amanti di costei: e ben riconosciuto fu da lei. 46 Appresso ove il sol cade, per suo amore venuto era dal capo d’Oriente; che seppe in India con suo gran dolore, come ella Orlando sequitò in Ponente: poi seppe in Francia che l’imperatore sequestrata l’avea da l’altra gente, per darla all’un de’ duo che contra il Moro più quel giorno aiutasse i Gigli d’oro. 47 Stato era in campo, e inteso avea di quella rotta crudel che dianzi ebbe re Carlo: cercò vestigio d’Angelica bella, né potuto avea ancora ritrovarlo. Questa è dunque la trista e ria novella che d’amorosa doglia fa penarlo, affligger, lamentare, e dir parole che di pietà potrian fermare il sole. 48 Mentre costui così s’affligge e duole, e fa degli occhi suoi tepida fonte, e dice queste e molte altre parole, che non mi par bisogno esser racconte; l’aventurosa sua fortuna vuole ch’alle orecchie d’Angelica sian conte: e così quel ne viene a un’ora, a un punto, ch’in mille anni o mai più non è raggiunto. 49 Con molta attenzion la bella donna al pianto, alle parole, al modo attende di colui ch’in amarla non assonna; né questo è il primo dì ch’ella l’intende: ma dura e fredda più d’una colonna, ad averne pietà non però scende, come colei c’ha tutto il mondo a sdegno, e non le par ch’alcun sia di lei degno. 50 Pur tra quei boschi il ritrovarsi sola le fa pensar di tor costui per guida; che chi ne l’acqua sta fin alla gola ben è ostinato se mercé non grida. Se questa occasione or se l’invola, non troverà mai più scorta sì fida; ch’a lunga prova conosciuto inante s’avea quel re fedel sopra ogni amante. 51 Ma non però disegna de l’affanno che lo distrugge alleggierir chi l’ama, e ristorar d’ogni passato danno con quel piacer ch’ogni amator più brama: ma alcuna fizione, alcuno inganno di tenerlo in speranza ordisce e trama; tanto ch’a quel bisogno se ne serva, poi torni all’uso suo dura e proterva. 52 E fuor di quel cespuglio oscuro e cieco fa di sé bella ed improvvisa mostra, come di selva o fuor d’ombroso speco Diana in scena o Citerea si mostra; e dice all’apparir: – Pace sia teco; teco difenda Dio la fama nostra, e non comporti, contra ogni ragione, ch’abbi di me sì falsa opinione. – 53 Non mai con tanto gaudio o stupor tanto levò gli occhi al figliuolo alcuna madre, ch’avea per morto sospirato e pianto, poi che senza esso udì tornar le squadre; con quanto gaudio il Saracin, con quanto stupor l’alta presenza e le leggiadre maniere, e il vero angelico sembiante, improviso apparir si vide inante. 54 Pieno di dolce e d’amoroso affetto, alla sua donna, alla sua diva corse, che con le braccia al collo il tenne stretto, quel ch’al Catai non avria fatto forse. Al patrio regno, al suo natio ricetto, seco avendo costui, l’animo torse: subito in lei s’avviva la speranza di tosto riveder sua ricca stanza. 55 Ella gli rende conto pienamente dal giorno che mandato fu da lei a domandar soccorso in Oriente al re de’ Sericani e Nabatei; e come Orlando la guardò sovente da morte, da disnor, da casi rei: e che ’l fior virginal così avea salvo, come se lo portò del materno alvo. 56 Forse era ver, ma non però credibile a chi del senso suo fosse signore; ma parve facilmente a lui possibile, ch’era perduto in via più grave errore. Quel che l’uom vede, Amor gli fa invisibiIe, e l’invisibil fa vedere Amore. Questo creduto fu; che ’l miser suole dar facile credenza a quel che vuole. 57 – Se mal si seppe il cavallier d’Anglante pigliar per sua sciocchezza il tempo buono, il danno se ne avrà; che da qui inante nol chiamerà Fortuna a sì gran dono (tra sé tacito parla Sacripante): ma io per imitarlo già non sono, che lasci tanto ben che m’è concesso, e ch’a doler poi m’abbia di me stesso. 58 Corrò la fresca e matutina rosa, che, tardando, stagion perder potria. So ben ch’a donna non si può far cosa che più soave e più piacevol sia, ancor che se ne mostri disdegnosa, e talor mesta e flebil se ne stia: non starò per repulsa o finto sdegno, ch’io non adombri e incarni il mio disegno. – 59 Così dice egli; e mentre s’apparecchia al dolce assalto, un gran rumor che suona dal vicin bosco gl’intruona l’orecchia, sì che mal grado l’impresa abbandona: e si pon l’elmo (ch’avea usanza vecchia di portar sempre armata la persona), viene al destriero e gli ripon la briglia, rimonta in sella e la sua lancia piglia. 60 Ecco pel bosco un cavallier venire, il cui sembiante è d’uom gagliardo e fiero: candido come nieve è il suo vestire, un bianco pennoncello ha per cimiero. Re Sacripante, che non può patire che quel con l’importuno suo sentiero gli abbia interrotto il gran piacer ch’avea, con vista il guarda disdegnosa e rea. 61 Come è più appresso, lo sfida a battaglia; che crede ben fargli votar l’arcione. Quel che di lui non stimo già che vaglia un grano meno, e ne fa paragone, l’orgogliose minacce a mezzo taglia, sprona a un tempo, e la lancia in resta pone. Sacripante ritorna con tempesta, e corronsi a ferir testa per testa. 62 Non si vanno i leoni o i tori in salto a dar di petto, ad accozzar sì crudi, sì come i duo guerrieri al fiero assalto, che parimente si passar li scudi. Fe’ lo scontro tremar dal basso all’alto l’erbose valli insino ai poggi ignudi; e ben giovò che fur buoni e perfetti gli osberghi sì, che lor salvaro i petti. 63 Già non fero i cavalli un correr torto, anzi cozzaro a guisa di montoni: quel del guerrier pagan morì di corto, ch’era vivendo in numero de’ buoni: quell’altro cadde ancor, ma fu risorto tosto ch’al fianco si sentì gli sproni. Quel del re saracin restò disteso adosso al suo signor con tutto il peso. 64 L’incognito campion che restò ritto, e vide l’altro col cavallo in terra, stimando avere assai di quel conflitto, non si curò di rinovar la guerra; ma dove per la selva è il camin dritto, correndo a tutta briglia si disserra; e prima che di briga esca il pagano, un miglio o poco meno è già lontano. 65 Qual istordito e stupido aratore, poi ch’è passato il fulmine, si leva di là dove l’altissimo fragore appresso ai morti buoi steso l’aveva; che mira senza fronde e senza onore il pin che di lontan veder soleva: tal si levò il pagano a piè rimaso, Angelica presente al duro caso. 66 Sospira e geme, non perché l’annoi che piede o braccio s’abbi rotto o mosso, ma per vergogna sola, onde a’ dì suoi né pria né dopo il viso ebbe sì rosso: e più, ch’oltre il cader, sua donna poi fu che gli tolse il gran peso d’adosso. Muto restava, mi cred’io, se quella non gli rendea la voce e la favella. 67 – Deh! (diss’ella) signor, non vi rincresca! che del cader non è la colpa vostra, ma del cavallo, a cui riposo ed esca meglio si convenia che nuova giostra. Né perciò quel guerrier sua gloria accresca che d’esser stato il perditor dimostra: così, per quel ch’io me ne sappia, stimo, quando a lasciare il campo è stato primo. – 68 Mentre costei conforta il Saracino, ecco col corno e con la tasca al fianco, galoppando venir sopra un ronzino un messagger che parea afflitto e stanco; che come a Sacripante fu vicino, gli domandò se con un scudo bianco e con un bianco pennoncello in testa vide un guerrier passar per la foresta. 69 Rispose Sacripante: – Come vedi, m’ha qui abbattuto, e se ne parte or ora; e perch’io sappia chi m’ha messo a piedi, fa che per nome io lo conosca ancora. – Ed egli a lui: – Di quel che tu mi chiedi io ti satisfarò senza dimora: tu dei saper che ti levò di sella l’alto valor d’una gentil donzella. 70 Ella è gagliarda ed è più bella molto; né il suo famoso nome anco t’ascondo: fu Bradamante quella che t’ha tolto quanto onor mai tu guadagnasti al mondo. – Poi ch’ebbe così detto, a freno sciolto il Saracin lasciò poco giocondo, che non sa che si dica o che si faccia, tutto avvampato di vergogna in faccia. 71 Poi che gran pezzo al caso intervenuto ebbe pensato invano, e finalmente si trovò da una femina abbattuto, che pensandovi più, più dolor sente; montò l’altro destrier, tacito e muto: e senza far parola, chetamente tolse Angelica in groppa, e differilla a più lieto uso, a stanza più tranquilla. 72 Non furo iti due miglia, che sonare odon la selva che li cinge intorno, con tal rumore e strepito, che pare che triemi la foresta d’ogn’intorno; e poco dopo un gran destrier n’appare, d’oro guernito e riccamente adorno, che salta macchie e rivi, ed a fracasso arbori mena e ciò che vieta il passo. 73 – Se l’intricati rami e l’aer fosco, (disse la donna) agli occhi non contende, Baiardo è quel destrier ch’in mezzo il bosco con tal rumor la chiusa via si fende. Questo è certo Baiardo, io ’l riconosco: deh, come ben nostro bisogno intende! ch’un sol ronzin per dui saria mal atto, e ne viene egli a satisfarci ratto. – 74 Smonta il Circasso ed al destrier s’accosta, e si pensava dar di mano al freno. Colle groppe il destrier gli fa risposta, che fu presto al girar come un baleno; ma non arriva dove i calci apposta: misero il cavallier se giungea a pieno! che nei calci tal possa avea il cavallo, ch’avria spezzato un monte di metallo. 75 Indi va mansueto alla donzella, con umile sembiante e gesto umano, come intorno al padrone il can saltella, che sia duo giorni o tre stato lontano. Baiardo ancora avea memoria d’ella, ch’in Albracca il servia già di sua mano nel tempo che da lei tanto era amato Rinaldo, allor crudele, allor ingrato. 76 Con la sinistra man prende la briglia, con l’altra tocca e palpa il collo e ’l petto: quel destrier, ch’avea ingegno a maraviglia, a lei, come un agnel, si fa suggetto. Intanto Sacripante il tempo piglia: monta Baiardo e l’urta e lo tien stretto. Del ronzin disgravato la donzella lascia la groppa, e si ripone in sella. 77 Poi rivolgendo a caso gli occhi, mira venir sonando d’arme un gran pedone. Tutta s’avvampa di dispetto e d’ira, che conosce il figliuol del duca Amone. Più che sua vita l’ama egli e desira; l’odia e fugge ella più che gru falcone. Già fu ch’esso odiò lei più che la morte; ella amò lui: or han cangiato sorte. 78 E questo hanno causato due fontane che di diverso effetto hanno liquore, ambe in Ardenna, e non sono lontane: d’amoroso disio l’una empie il core; chi bee de l’altra, senza amor rimane, e volge tutto in ghiaccio il primo ardore. Rinaldo gustò d’una, e amor lo strugge; Angelica de l’altra, e l’odia e fugge. 79 Quel liquor di secreto venen misto, che muta in odio l’amorosa cura, fa che la donna che Rinaldo ha visto, nei sereni occhi subito s’oscura; e con voce tremante e viso tristo supplica Sacripante e lo scongiura che quel guerrier più appresso non attenda, ma ch’insieme con lei la fuga prenda. 80 – Son dunque (disse il Saracino), sono dunque in sì poco credito con vui, che mi stimiate inutile e non buono da potervi difender da costui? Le battaglie d’Albracca già vi sono di mente uscite, e la notte ch’io fui per la salute vostra, solo e nudo, contra Agricane e tutto il campo, scudo? – 81 Non risponde ella, e non sa che si faccia, perché Rinaldo ormai l’è troppo appresso, che da lontan al Saracin minaccia, come vide il cavallo e conobbe esso, e riconohbe l’angelica faccia che l’amoroso incendio in cor gli ha messo. Quel che seguì tra questi duo superbi vo’ che per l’altro canto si riserbi.
Angelica ed Orlando tornano insieme dall’Oriente e si recano là dove re Carlo aveva insediato il proprio esercio, per dare battaglia a re Agramante, giunto dall’Africa per vendicare la morte di Traiano, e al suo alleato il re Marsilio. Rinaldo, anch’egli innamorato di Angelica, giunge anche lui sul posto ed entra subito in conflitto con Orlando. Carlo Magno è quindi costretto, per porre fine al conflitto amoroso, ad affidare la bella donna a Namo di Baviera, promettendola quindi in dono a chi dei due duellanti risulterà il più valoroso nella imminente battaglia contro i saraceni. I cristiani vengono però sconfitti e sono costretti a ritirarsi. Il duca Namo viene fatto prigioniero ed Angelica, rimasta incustodita, approfitta della situazione per fuggire a cavallo. Inoltratasi in un bosco, incontra Rinaldo che avanza correndo, avendo in precedenza perduto il proprio cavallo. Angelica impaurita, cambia prontamente direzione e fugge al cavaliere. Giunta sulla riva di un fiume incontra quindi il saraceno Ferraù che, spinto da un grande desiderio di dissetarsi e di riposarsi, si era allontanato dal campo di battaglia. Nel gesto di bere aveva però perduto il proprio elmo e si si era quindi poi dovuto fermare oltre per cercarlo. Ferraù, probabilmente anch’egli vittima del fascino di Angelica, corre in aiuto della donzella, sguaina la spada ed affronta Rinaldo. Angelica approfitta della situazione e riprende la fuga. Dopo un feroce combattimento senza vincitore i due però decidono di non perdere ulteriormente tempo e di correre insieme, sullo stesso cavallo, all’inseguimento della donna, rimandando quindi il duello. Ad un bivio devono però separarsi. Dopo diverse vicissitudini, Ferraù si ritrova infine nuovamente al fiume e si rimette a cercare l’emo. Dalle acqua vede comparire Argalia, cavaliere ucciso da Ferrù, che lo rimprovera per non avere mantenuto, se non per caso (con la perdita dell’elmo), la promessa data di gettare le sue armi. Argalia lo incita quindi a conquistare l’elmo di Orlando o di Rinaldo in sostituzione del suo, promesso ma mai restituito. Ferraù per la vergonga e per l’ira decide di fare qualunque cosa per soddisfare almeno questa ultima richiesta e si lancia alla ricerca di Orlando. Poco dopo aver lasciato Ferraù Rinaldo vede ricomparire il suo cavallo Baiardo. Cerca di richiamarlo a se ma il cavallo si allontana. Temendo di avere ancora alle spalle Rinaldo, Angelica prosegue nella sua fuga fino a giungere il giorno dopo presso un ruscelletto presso il quale decide di riposarsi, nascosta in un cespuglio. Ginge al ruscello anche un cavaliere, Sacripante, piangente e disperato per non essere riuscito ad avere Angelica. La donzella lo riconosce, sa dell’amore di lui e decide di sfruttarlo per farsi fare da guida. Esce dal cespuglio e si mostra quindi a lui. Ma proprio mentre Sacripante è deciso ad approfittare egli stesso della situazione, compare un cavaliere misterioso completamente vestito di bianco che lo interrompe. I due si affrontano subito in duello. Il cavallo di Sacripante viene ucciso e cadendo, tiene imprigionato sotto il proprio peso il proprio padrone. Angelica aiuta allora il cavaliere, nuovamente sospirante per la vergogna della situazione, a rialzarsi e lo conforta. Arriva in quel momento anche un messaggero lanciato all’inseguimento del cavaliere bianco e in cambia delle informazioni ricevute circa la direzione da prendere, annuncia a Sacripante che a disarcionarlo è stata una donna, Bradamante. Sacripante ed Angelica montano quindi sul cavallo di Angelica e si allontanano. Percorsa poca strada incontrano Baiardo, che, dopo aver allontanato Scaripante, viene avvicinato da Angelica e si lascia quindi montare dal cavaliere. Sopraggiunge infine Rinaldo a piedi. Rinaldo ama con tutto se stesso Angelica, tanto quanto lei lo odia. In passato i sentimenti dei due erano esattamanete il contrario, è stata una fontana fatata ad invertire la situazione.
1 Ingiustissimo Amor, perché sì raro corrispondenti fai nostri desiri? onde, perfido, avvien che t'è sì caro il discorde voler ch'in duo cor miri? Gir non mi lasci al facil guado e chiaro, e nel più cieco e maggior fondo tiri: da chi disia il mio amor tu mi richiami, e chi m'ha in odio vuoi ch'adori et ami. 2 Fai ch'a Rinaldo Angelica par bella, quando esso a lei brutto e spiacevol pare: quando le parea bello e l'amava ella, egli odiò lei quanto si può più odiare. Ora s'affligge indarno e si flagella; così renduto ben gli è pare a pare: ella l'ha in odio, e l'odio è di tal sorte, che piu tosto che lui vorria la morte. 3 Rinaldo al Saracin con molto orgoglio gridò: - Scendi, ladron, del mio cavallo! Che mi sia tolto il mio, patir non soglio, ma ben fo, a chi lo vuol, caro costallo: e levar questa donna anco ti voglio; che sarebbe a lasciartela gran fallo. Sì perfetto destrier, donna sì degna a un ladron non mi par che si convegna. - 4 Tu te ne menti che ladrone io sia (rispose il Saracin non meno altiero): chi dicesse a te ladro, lo diria (quanto io n'odo per fama) più con vero. La pruova or si vedrà, chi di noi sia più degno de la donna e del destriero; ben che, quanto a lei, teco io mi convegna che non è cosa al mondo altra sì degna. - 5 Come soglion talor duo can mordenti, o per invidia o per altro odio mossi, avicinarsi digrignando i denti, con occhi bieci e più che bracia rossi; indi a' morsi venir, di rabbia ardenti, con aspri ringhi e ribuffati dossi: così alle spade e dai gridi e da l'onte venne il Circasso e quel di Chiaramonte. 6 A piedi è l'un, l'altro a cavallo: or quale credete ch'abbia il Saracin vantaggio? Né ve n'ha però alcun; che così vale forse ancor men ch'uno inesperto paggio; che 'l destrier per instinto naturale non volea fare al suo signore oltraggio: né con man né con spron potea il Circasso farlo a voluntà sua muover mai passo. 7 Quando crede cacciarlo, egli s'arresta; e se tener lo vuole, o corre o trotta: poi sotto il petto si caccia la testa, giuoca di schiene, e mena calci in frotta. Vedendo il Saracin ch'a domar questa bestia superba era mal tempo allotta, ferma le man sul primo arcione e s'alza, e dal sinistro fianco in piede sbalza. 8 Sciolto che fu il pagan con leggier salto da l'ostinata furia di Baiardo, si vide cominciar ben degno assalto d'un par di cavallier tanto gagliardo. Suona l'un brando e l'altro, or basso or alto: il martel di Vulcano era più tardo ne la spelunca affumicata, dove battea all'incude i folgori di Giove. 9 Fanno or con lunghi, ora con finti e scarsi colpi veder che mastri son del giuoco: or li vedi ire altieri, or rannicchiarsi, ora coprirsi, ora mostrarsi un poco, ora crescere inanzi, ora ritrarsi, ribatter colpi e spesso lor dar loco, girarsi intorno; e donde l'uno cede, l'altro aver posto immantinente il piede. 10 Ecco Rinaldo con la spada adosso a Sacripante tutto s'abbandona; e quel porge lo scudo, ch'era d'osso, con la piastra d'acciar temprata e buona. Taglial Fusberta, ancor che molto grosso: ne geme la foresta e ne risuona. L'osso e l'acciar ne va che par di ghiaccio, e lascia al Saracin stordito il braccio. 11 Quando vide la timida donzella dal fiero colpo uscir tanta ruina, per gran timor cangiò la faccia bella, qual il reo ch'al supplicio s'avvicina; né le par che vi sia da tardar, s'ella non vuol di quel Rinaldo esser rapina, di quel Rinaldo ch'ella tanto odiava, quanto esso lei miseramente amava. 12 Volta il cavallo, e ne la selva folta lo caccia per un aspro e stretto calle: e spesso il viso smorto a dietro volta; che le par che Rinaldo abbia alle spalle. Fuggendo non avea fatto via molta, che scontrò un eremita in una valle, ch'avea lunga la barba a mezzo il petto, devoto e venerabile d'aspetto. 13 Dagli anni e dal digiuno attenuato, sopra un lento asinel se ne veniva; e parea, più ch'alcun fosse mai stato, di conscïenza scrupolosa e schiva. Come egli vide il viso delicato de la donzella che sopra gli arriva, debil quantunque e mal gagliarda fosse, tutta per carità se gli commosse. 14 La donna al fraticel chiede la via che la conduca ad un porto di mare, perché levar di Francia si vorria per non udir Rinaldo nominare. Il frate, che sapea negromanzia, non cessa la donzella confortare che presto la trarrà d'ogni periglio; et ad una sua tasca diè di piglio. 15 Trassene un libro, e mostrò grande effetto; che legger non finì la prima faccia, ch'uscir fa un spirto in forma di valletto, e gli commanda quanto vuol ch'el faccia. Quel se ne va, da la scrittura astretto, dove i dui cavallieri a faccia a faccia eran nel bosco, e non stavano al rezzo; fra' quali entrò con grande audacia in mezzo. 16 - Per cortesia (disse), un di voi mi mostre, quando anco uccida l'altro, che gli vaglia: che merto avrete alle fatiche vostre, finita che tra voi sia la battaglia, se 'l conte Orlando, senza liti o giostre, e senza pur aver rotta una maglia, verso Parigi mena la donzella che v'ha condotti a questa pugna fella? 17 Vicino un miglio ho ritrovato Orlando che ne va con Angelica a Parigi, di voi ridendo insieme, e motteggiando che senza frutto alcun siate in litigi. Il meglio forse vi sarebbe, or quando non son più lungi, a seguir lor vestigi; che s'in Parigi Orlando la può avere, non ve la lascia mai più rivedere. - 18 Veduto avreste i cavallier turbarsi a quel annunzio, e mesti e sbigottiti, senza occhi e senza mente nominarsi, che gli avesse il rival così scherniti; ma il buon Rinaldo al suo cavallo trarsi con sospir che parean del fuoco usciti, e giurar per isdegno e per furore, se giungea Orlando, di cavargli il core. 19 E dove aspetta il suo Baiardo, passa, e sopra vi si lancia, e via galoppa, né al cavallier, ch'a piè nel bosco lassa, pur dice a Dio, non che lo 'nviti in groppa. L'animoso cavallo urta e fracassa, punto dal suo signor, ciò ch'egli 'ntoppa: non ponno fosse o fiumi o sassi o spine far che dal corso il corridor decline. 20 Signor, non voglio che vi paia strano se Rinaldo or sì tosto il destrier piglia, che già più giorni ha seguitato invano, né gli ha possuto mai toccar la briglia. Fece il destrier, ch'avea intelletto umano, non per vizio seguirsi tante miglia, ma per guidar dove la donna giva, il suo signor, da chi bramar l'udiva. 21 Quando ella si fuggí dal padiglione, la vide et appostolla il buon destriero, che si trovava aver vòto l'arcione, però che n'era sceso il cavalliero per combatter di par con un barone, che men di lui non era in arme fiero; poi ne seguitò l'orme di lontano, bramoso porla al suo signore in mano. 22 Bramoso di ritrarlo ove fosse ella, per la gran selva inanzi se gli messe; né lo volea lasciar montare in sella, perché ad altro camin non lo volgesse. Per lui trovò Rinaldo la donzella una e due volte, e mai non gli successe; che fu da Ferraù prima impedito, poi dal Circasso, come avede udito. 23 Ora al demonio che mostrò a Rinaldo de la donzella li falsi vestigi, credette Baiardo anco, e stette saldo e mansueto ai soliti servigi. Rinaldo il caccia, d'ira e d'amor caldo, a tutta briglia, e sempre invêr Parigi; e vola tanto col disio, che lento, non ch'un destrier, ma gli parrebbe il vento. 24 La notte a pena di seguir rimane, per affrontarsi col signor d'Anglante: tanto ha cretuto alle parole vane del messagger del cauto negromante. Non cessa cavalcar sera e dimane, che si vede apparir la terra avante, dove re Carlo, rotto e mal condutto, con le reliquie sue s'era ridutto: 25 e perché dal re d'Africa battaglia et assedio v'aspetta, usa gran cura a raccor buona gente e vettovaglia, far cavamenti e riparar le mura. Ciò ch'a difesa spera che gli vaglia, senza gran diferir, tutto procura: pensa mandare in Inghilterra, e trarne gente onde possa un novo campo farne: 26 che vuole uscir di nuovo alla campagna, e ritentar la sorte de la guerra. Spaccia Rinaldo subito in Bretagna, Bretagna che fu poi detta Inghilterra. Ben de l'andata il paladin si lagna: non ch'abbia così in odio quella terra; ma perché Carlo il manda allora allora, né pur lo lascia un giorno far dimora. 27 Rinaldo mai di ciò non fece meno volentier cosa; poi che fu distolto di gir cercando il bel viso sereno che gli avea il cor di mezzo il petto tolto: ma, per ubidir Carlo, nondimeno a quella via si fu subito volto, et a Calesse in poche ore trovossi; e giunto, il dì medesimo imbarcossi. 28 Contra la voluntà d'ogni nocchiero, pel gran desir che di tornare avea, entrò nel mar ch'era turbato e fiero, e gran procella minacciar parea. Il Vento si sdegnò, che da l'altiero sprezzar si vide; e con tempesta rea sollevò il mar intorno, e con tal rabbia, che gli mandò a bagnar sino alla gabbia. 29 Calano tosto i marinari accorti le maggior vele, e pensano dar volta, e ritornar ne li medesmi porti donde in mal punto avean la nave sciolta. - Non convien (dice il Vento) ch'io comporti tanta licenzia che v'avede tolta; - e soffia e grida e naufragio minaccia, s'altrove van, che dove egli li caccia. 30 Or a poppa, or all'orza hann'il crudele, che mai non cessa, e vien più ognor crescendo: essi di qua di là con umil vele vansi aggirando, e l'alto mar scorrendo. Ma perché varie fila a varie tele uopo mi son, che tutte ordire intendo, lascio Rinaldo e l'agitata prua, e torno a dir di Bradamante sua. 31 Io parlo di quella inclita donzella, per cui re Sacripante in terra giacque, che di questo signor degna sorella, del duca Amone e di Beatrice nacque. La gran possanza e il molto ardir di quella non meno a Carlo e tutta Francia piacque (che più d'un paragon ne vide saldo), che 'l lodato valor del buon Rinaldo. 32 La donna amata fu da un cavalliero che d'Africa passò col re Agramante, che partorí del seme di Ruggiero la disperata figlia d' Agolante: e costei, che né d'orso né di fiero leone uscí, non sdegnò tal amante; ben che concesso, fuor che vedersi una volta e parlarsi, non ha lor Fortuna. 33 Quindi cercando Bradamante gía l'amante suo, ch'avea nome dal padre, così sicura senza compagnia, come avesse in sua guardia mille squadre: e fatto ch'ebbe il re di Circassia battere il volto dell'antiqua madre, traversò un bosco, e dopo il bosco un monte, tanto che giunse ad una bella fonte. 34 La fonte discorrea per mezzo un prato, d'arbori antiqui e di bell'ombre adorno, Ch'i vïandanti col mormorio grato a ber invita e a far seco soggiorno: un culto monticel dal manco lato le difende il calor del mezzo giorno. Quivi, come i begli occhi prima torse, d'un cavallier la giovane s'accorse; 35 d'un cavallier, ch'all'ombra d'un boschetto, nel margin verde e bianco e rosso e giallo sedea pensoso, tacito e soletto sopra quel chiaro e liquido cristallo. Lo scudo non lontan pende e l'elmetto dal faggio, ove legato era il cavallo; et avea gli occhi molli e 'l viso basso, e si mostrava addolorato e lasso. 36 Questo disir, ch'a tutti sta nel core, de' fatti altrui sempre cercar novella, fece a quel cavallier del suo dolore la cagion domandar da la donzella. Egli l'aperse e tutta mostrò fuore, dal cortese parlar mosso di quella, e dal sembiante altier, ch'al primo sguardo gli sembrò di guerrier molto gagliardo. 37 E cominciò: - Signor, io conducea pedoni e cavallieri, e venía in campo là dove Carlo Marsilio attendea, perch'al scender del monte avesse inciampo; e una giovane bella meco avea, del cui fervido amor nel petto avampo: e ritrovai presso a Rodonna armato un che frenava un gran destriero alato. 38 Tosto che 'l ladro, o sia mortale, o sia una de l'infernali anime orrende, vede la bella e cara donna mia; come falcon che per ferir discende, cala e poggia in uno atimo, e tra via getta le mani, e lei smarrita prende. Ancor non m'era accorto de l'assalto, che de la donna io senti' il grido in alto. 39 Così il rapace nibio furar suole il misero pulcin presso alla chioccia, che di sua inavvertenza poi si duole, e invan gli grida, e invan dietro gli croccia. Io non posso seguir un uom che vole, chiuso tra' monti, a piè d'un'erta roccia: stanco ho il destrier, che muta a pena i passi ne l'aspre vie de' faticosi sassi. 40 Ma, come quel che men curato avrei vedermi trar di mezzo il petto il core, lasciai lor via seguir quegli altri miei, senza mia guida e senza alcun rettore: per li scoscesi poggi e manco rei presi la via che mi mostrava Amore, e dove mi parea che quel rapace portassi il mio conforto e la mia pace. 41 Sei giorni me n'andai matina e sera per balze e per pendici orride e strane, dove non via, dove sentier non era, dove né segno di vestigie umane; poi giunse in una valle inculta e fiera, di ripe cinta e spaventose tane, che nel mezzo s'un sasso avea un castello forte e ben posto, a maraviglia bello. 42 Da lungi par che come fiamma lustri, né sia di terra cotta, né di marmi. Come più m'avicino ai muri illustri, l'opra più bella e più mirabil parmi. E seppi poi, come i demoni industri, da suffumigi tratti e sacri carmi, tutto d'acciaio avean cinto il bel loco, temprato all'onda et allo stigio foco. 43 Di sì forbito acciar luce ogni torre, che non vi può né ruggine né macchia. Tutto il paese giorno e notte scorre, E poi là dentro il rio ladron s'immacchia. Cosa non ha ripar che voglia tôrre: sol dietro invan se li bestemia e gracchia. Quivi la donna, anzi il mio cor mi tiene, che di mai ricovrar lascio ogni spene. 44 Ah lasso! che poss'io più che mirare la ròcca lungi, ove il mio ben m'è chiuso? come la volpe, che 'l figlio gridare nel nido oda de l'aquila di giuso, s'aggira intorno, e non sa che si fare, poi che l'ali non ha da gir là suso. Erto è quel sasso sì, tale è il castello, che non vi può salir chi non è augello. 45 Mentre io tardava quivi, ecco venire duo cavallier ch'avean per guida un nano, che la speranza aggiunsero al desire; ma ben fu la speranza e il desir vano. Ambi erano guerrier di sommo ardire: era Gradasso l'un, re sericano; era l'altro Ruggier, giovene forte, pregiato assai ne l'africana corte. 46 « Vengon (mi disse il nano) per far pruova di lor virtù col sir di quel castello, che per via strana, inusitata e nuova cavalca armato il quadrupede augello ». « Deh, signor (dissi io lor), pietà vi muova del duro caso mio spietato e fello! Quando, come ho speranza, voi vinciate, vi prego la mia donna mi rendiate ». 47 E come mi fu tolta lor narrai, con lacrime affermando il dolor mio. Quei, lor mercé, mi proferiro assai, e giú calaro il poggio alpestre e rio. Di lontan la battaglia io riguardai, pregando per la lor vittoria Dio. Era sotto il castel tanto di piano, quanto in due volte si può trar con mano. 48 Poi che fur giunti a piè de l'alta ròcca, l'uno e l' altro volea combatter prima; pur a Gradasso, o fosse sorte, tocca, o pur che non ne fe' Ruggier più stima. Quel Serican si pone il corno a bocca: rimbomba il sasso e la fortezza in cima. Ecco apparire il cavalliero armato fuor de la porta, e sul cavallo alato. 49 Cominciò a poco a poco indi a levarse, come suol far la peregrina grue, che corre prima, e poi vediamo alzarse alla terra vicina un braccio o due; e quando tutte sono all'aria sparse, velocissime mostra l'ale sue. Sì ad alto il negromante batte l'ale, ch'a tanta altezza a pena aquila sale. 50 Quando gli parve poi, volse il destriero, che chiuse i vanni e venne a terra a piombo, come casca dal ciel falcon maniero che levar veggia l'anitra o il colombo. Con la lancia arrestata il cavalliero l'aria fendendo vien d'orribil rombo. Gradasso a pena del calar s'avede, che se lo sente addosso e che lo fiede. 51 Sopra Gradasso il mago l'asta roppe; ferí Gradasso il vento e l'aria vana: per questo il volator non interroppe il batter l'ale, e quindi s'allontana. Il grave scontro fa chinar le groppe sul verde prato alla gagliarda alfana. Gradasso avea una alfana, la più bella e la miglior che mai portasse sella. 52 Sin alle stelle il volator trascorse; indi girossi e tornò in fretta al basso, e percosse Ruggier che non s'accorse, Ruggier che tutto intento era a Gradasso. Ruggier del grave colpo si distorse, e 'l suo destrier più rinculò d'un passo: e quando si voltò per lui ferire, da sé lontano il vide al ciel salire. 53 Or su Gradasso, or su Ruggier percote ne la fronte, nel petto e ne la schiena, e le botte di quei lascia ognor vòte, perché è sì presto, che si vede a pena. Girando va con spazïose rote, e quando all'uno accenna, all'altro mena: all'uno e all'altro sì gli occhi abbarbaglia, che non ponno veder donde gli assaglia. 54 Fra duo guerrieri in terra et uno in cielo la battaglia durò sino a quella ora, che spiegando pel mondo oscuro velo, tutte le belle cose discolora. Fu quel ch'io dico, e non v'aggiungo un pelo: io 'l vidi, i' 'l so; né m'assicuro ancora di dirlo altrui; che questa maraviglia al falso più ch'al ver si rassimiglia. 55 D'un bel drappo di seta avea coperto lo scudo in braccio il cavallier celeste. Come avesse, non so, tanto sofferto di tenerlo nascosto in quella veste; ch'immantinente che lo mostra aperto, forza è, ch'l mira, abbarbagliato reste, e cada come corpo morto cade, e venga al negromante in potestade. 56 Splende lo scudo a guisa di piropo, e luce altra non è tanto lucente. Cadere in terra allo splendor fu d'uopo con gli occhi abbacinati, e senza mente. Perdei da lungi anch'io li sensi, e dopo gran spazio mi rïebbi finalmente; né più i guerrier né più vidi quel nano, ma vòto il campo, e scuro il monte e il piano. 57 Pensai per questo che l'incantatore avesse amendui colti a un tratto insieme, e tolto per virtù de lo splendore la libertade a-lloro, e a me la speme. Così a quel loco, che chiudea il mio core, dissi, partendo, le parole estreme. Or giudicate s'altra pena ria, che causi Amor, può pareggiar la mia. - 58 Ritornò il cavallier nel primo duolo, fatta che n'ebbe la cagion palese. Questo era il conte Pinabel, figliuolo d'Anselmo d'Altaripa, maganzese; che tra sua gente scelerata, solo leale esser non vòlse né cortese, ma ne li vizii abominandi e brutti non pur gli altri adeguò, ma passò tutti. 59 La bella donna con diverso aspetto stette ascoltando il Maganzese cheta; che come prima di Ruggier fu detto, nel viso si mostrò più che mai lieta: ma quando sentí poi ch'era in distretto, turbossi tutta d'amorosa pieta; né per una o due volte contentosse che ritornato a replicar le fosse. 60 E poi ch'al fin le parve esserne chiara, gli disse: - Cavallier, datti riposo; che ben può la mia giunta esserti cara, parerti questo giorno aventuroso. Andiam pur tosto a quella stanza avara, che sì ricco tesor ci tiene ascoso; né spesa sarà invan questa fatica, se Fortuna non m'è troppo nemica. - 61 Rispose il cavallier: - Tu vòi ch'io passi di nuovo i monti, e mostriti la via? A me molto non è perdere i passi, perduta avendo ogni altra cosa mia; ma tu per balze e ruinosi sassi cerchi entrar in pregione; e così sia. Non hai di che dolerti di me, poi ch'io tel predìco, e tu pur gir vi vòi. - 62 Così dice egli, e torna al suo destriero, e di quella animosa si fa guida, che si mette a periglio per Ruggiero, che la pigli quel mago o che la ancida. In questo, ecco alle spalle il messaggiero, ch': - Aspetta, aspetta! - a tutta voce grida, il messaggier da chi il Circasso intese che costei fu ch'all'erba lo distese. 63 A Bradamante il messaggier novella di Mompolier e di Narbona porta, ch'alzato li stendardi di Castella avean, con tutto il lito d'Acquamorta; e che Marsilia, non v'essendo quella che la dovea guardar, mal si conforta, e consiglio e soccorso le domanda per questo messo, e se le raccomanda. 64 Questa cittade, e intorno a molte miglia ciò che fra Varo e Rodano al mar siede, avea l'imperator dato alla figlia del duca Amon, in ch'avea speme e fede; però che 'l suo valor con maraviglia riguardar suol, quando armeggiar la vede. Or, com'io dico, a domandar aiuto quel messo da Marsilia era venuto. 65 Tra sì e no la giovane suspesa, di voler ritornar dubita un poco: quinci l'onore e il debito le pesa, quindi l'incalza l'amoroso foco. Fermasi al fin di seguitar l'impresa, e trar Ruggier de l'incantato loco; e quando sua virtù non possa tanto, almen restargli prigioniera a canto. 66 E fece iscusa tal, che quel messaggio parve contento rimanere e cheto. Indi girò la briglia al suo vïaggio, con Pinabel che non ne parve lieto; che seppe esser costei di quel lignaggio che tanto ha in odio in publico e in secreto: e già s'avisa le future angosce, se lui per maganzese ella conosce. 67 Tra casa di Maganza e di Chiarmonte era odio antico e inimicizia intensa; e più volte s'avean rotta la fronte, e sparso di lor sangue copia immensa: e però nel suo cor l'iniquo conte tradir l'incauta giovane si pensa; o, come prima commodo gli accada, lasciarla sola, e trovar altra strada. 68 E tanto gli occupò la fantasia il nativo odio, il dubbio e la paura, ch'inavedutamente uscí di via: e ritrovossi in una selva oscura, che nel mezzo avea un monte che finia la nuda cima in una pietra dura; e la figlia del duca di Dordona gli è sempre dietro, e mai non l'abandona. 69 Come si vide il Maganzese al bosco, pensò tôrsi la donna da le spalle. Disse: - Prima che 'l ciel torni più fosco, verso uno albergo è meglio farsi il calle. Oltra quel monte, s'io lo riconosco, siede un ricco castel giú ne la valle. Tu qui m'aspetta; che dal nudo scoglio certificar con gli occhi me ne voglio. - 70 Così dicendo, alla cima superna del solitario monte il destrier caccia, mirando pur s'alcuna via discerna, come lei possa tor da la sua traccia. Ecco nel sasso truova una caverna, che si profonda più di trenta braccia. Tagliato a picchi et a scarpelli il sasso scende giú al dritto, et ha una porta al basso. 71 Nel fondo avea una porta ampla e capace, ch'in maggior stanza largo adito dava; e fuor n'uscia splendor, come di face ch'ardesse in mezzo alla montana cava. Mentre quivi il fellon suspeso tace, la donna, che da lungi il seguitava (perché perderne l'orme si temea), alla spelonca gli sopragiungea. 72 Poi che si vide il traditore uscire, quel ch'avea prima disegnato, invano, o da sé torla, o di farla morire, nuovo argumento imaginossi e strano. Le si fe' incontra, e su la fe' salire là dove il monte era forato e vano; e le disse ch'avea visto nel fondo una donzella di viso giocondo, 73 ch' a' bei sembianti et alla ricca vesta esser parea di non ignobil grado; ma, quanto più potea, turbata e mesta, mostrava esservi chiusa suo mal grado: e per saper la condizion di questa, ch'avea già cominciato a entrar nel guado; e che era uscito de l'interna grotta un che dentro a furor l'avea ridotta. 74 Bradamante, che come era animosa, così mal cauta, a Pinabel diè fede; e d'aiutar la donna, disïosa, si pensa come por colà giú il piede. Ecco d'un olmo alla cima frondosa volgendo gli occhi, un lungo ramo vede; e con la spada quel subito tronca, e lo declina giú ne la spelonca. 75 Dove è tagliato, in man lo raccomanda a Pinabello, e poscia a quel s'apprende: prima giú i piedi ne la tana manda, e su le braccia tutta si suspende. Sorride Pinabello, e le domanda come ella salti; e le man apre e stende, dicendole: - Qui fosser teco insieme tutti li tuoi, ch'io ne spegnessi il seme! - 76 Non come vòlse Pinabello avvenne de l'innocente giovane la sorte; perché, giú diròccando, a ferir venne prima nel fondo il ramo saldo e forte. Ben si spezzò, ma tanto la sostenne, che 'l suo favor la liberò da morte. Giacque stordita la donzella alquanto, come io vi seguirò ne l'altro canto.
1 Chi mi darà la voce e le parole convenïenti a sì nobil suggetto? chi l'ale al verso presterà, che vole tanto ch'arrivi all'alto mio concetto? Molto maggior di quel furor che suole, ben or convien che mi riscaldi il petto; che questa parte al mio signor si debbe, che canta gli avi onde l'origine ebbe: 2 di cui fra tutti li signori illustri, dal ciel sortiti a governar la terra, non vedi, o Febo, che 'l gran mondo lustri, più glorïosa stirpe o in pace o in guerra; né che sua nobiltade abbia più lustri servata, e servarà (s'in me non erra quel profetico lume che m'inspiri) fin che d'intorno al polo il ciel s'aggiri. 3 E volendone a pien dicer gli onori, bisogna non la mia, ma quella cetra con che tu dopo i gigantei furori rendesti grazia al regnator de l'etra. S'instrumenti avrò mai da te migliori, atti a sculpire in così degna pietra, in queste belle imagini disegno porre ogni mia fatica, ogni mio ingegno. 4 Levando intanto queste prime rudi scaglie n'andrò con lo scarpello inetto: forse ch'ancor con più solerti studi poi ridurrò questo lavor perfetto. Ma ritorniamo a quello, a cui né scudi potran né usberghi assicurare il petto: parlo di Pinabello di Maganza, che d'uccider la donna ebbe speranza. 5 Il traditor pensò che la donzella fosse ne l'alto precipizio morta; e con pallida faccia lasciò quella trista e per lui contaminata porta, e tornò presto a rimontare in sella: e come quel ch'avea l'anima torta, per giunger colpa a colpa e fallo a fallo, di Bradamante ne menò il cavallo. 6 Lasciàn costui, che mentre all'altrui vita ordisce inganno, il suo morir procura; e torniamo alla donna che, tradita, quasi ebbe a un tempo e morte e sepoltura. Poi ch'ella si levò tutta stordita, ch'avea percosso in su la pietra dura, dentro la porta andò, ch'adito dava ne la seconda assai più larga cava. 7 La stanza, quadra e spazïosa, pare una devota e venerabil chiesa, che su colonne alabastrine e rare con bella architettura era suspesa. Surgea nel mezzo un ben locato altare, ch'avea dinanzi una lampada accesa; e quella di splendente e chiaro foco rendea gran lume all'uno e all'altro loco. 8 Di devota umiltà la donna tocca, come si vide in loco sacro e pio, incominciò col core e con la bocca, inginocchiata, a mandar prieghi a Dio. Un picciol uscio intanto stride e cròcca, ch'era all'incontro, onde una donna uscío discinta e scalza, e sciolte avea le chiome, che la donzella salutò per nome. 9 E disse: - O generosa Bradamante, non giunta qui senza voler divino, di te più giorni m'ha predetto inante il profetico spirto di Merlino, che visitar le sue reliquie sante dovevi per insolito camino: e qui son stata acciò ch'io ti riveli quel c'han di te già statuito i cieli. 10 Questa è l'antiqua e memorabil grotta ch'edificò Merlino, il savio mago che forse ricordare odi talotta, dove ingannollo la Donna del Lago. Il sepolcro è qui giú, dove corrotta giace la carne sua; dove egli, vago di sodisfare a lei, che glil suase, vivo corcossi, e morto ci rimase. 11 Col corpo morto il vivo spirto alberga, sin ch'oda il suon de l'angelica tromba che dal ciel lo bandisca o che ve l'erga, secondo che sarà corvo o colomba. Vive la voce; e come chiara emerga, udir potrai da la marmorea tomba, che le passate e le future cose a chi gli domandò, sempre rispose. 12 Più giorni son ch'in questo cimiterio venni di remotissimo paese, perché circa il mio studio alto misterio mi facesse Merlin meglio palese: e perché ebbi vederti desiderio, poi ci son stata oltre il disegno un mese; che Merlin, che 'l ver sempre mi predisse, termine al venir tuo questo dì fisse. - 13 Stassi d'Amon la sbigottita figlia tacita e fissa al ragionar di questa; et ha sì pieno il cor di maraviglia, che non sa s'ella dorme o s'ella è desta: e con rimesse e vergognose ciglia (come quella che tutta era modesta) rispose: - Di che merito son io, ch'antiveggian profeti il venir mio? - 14 E lieta de l'insolita aventura, dietro alla Maga subito fu mossa, che la condusse a quella sepoltura che chiudea di Merlin l'anima e l'ossa. Era quell'arca d'una pietra dura, lucida e tersa, e come fiamma rossa; tal ch'alla stanza, ben che di sol priva, dava splendore il lume che n'usciva. 15 O che natura sia d'alcuni marmi che muovin l'ombre a guisa di facelle, o forza pur di suffumigi e carmi e segni impressi all'osservate stelle (come più questo verisimil parmi), discopria lo splendor più cose belle e di scultura e di color, ch'intorno il venerabil luogo aveano adorno. 16 A pena ha Bradamante da la soglia levato il piè ne la secreta cella, che 'l vivo spirto da la morta spoglia con chiarissima voce le favella: - Favorisca Fortuna ogni tua voglia, o casta e nobilissima donzella, del cui ventre uscirà il seme fecondo che onorar deve Italia e tutto il mondo. 17 L'antiquo sangue che venne da Troia, per li duo miglior rivi in te commisto, produrrà l'ornamento, il fior, la gioia d'ogni lignaggio ch'abbi il sol mai visto tra l'Indo e 'l Tago e 'l Nilo e la Danoia, tra quanto è 'n mezzo Antartico e Calisto. Ne la progenie tua con sommi onori saran marchesi, duci e imperatori. 18 I capitani e i cavallier robusti quindi usciran, che col ferro e col senno ricuperar tutti gli onor vetusti de l'arme invitte alla sua Italia denno. Quindi terran lo scettro i signor giusti, che, come il savio Augusto e Numa fenno, sotto il benigno e buon governo loro ritorneran la prima età de l'oro. 19 Acciò dunque il voler del ciel si metta in effetto per te, che di Ruggiero t'ha per moglier fin da principio eletta, segue animosamente il tuo sentiero; che cosa non sarà che s'intrometta da poterti turbar questo pensiero, sì che non mandi al primo assalto in terra quel rio ladron ch'ogni tuo ben ti serra. - 20 Tacque Merlino avendo così detto, et agio all'opre de la Maga diede, ch'a Bradamante dimostrar l'aspetto si preparava di ciascun suo erede. Avea de spirti un gran numero eletto, non so se da l'inferno o da qual sede, e tutti quelli in un luogo raccolti sotto abiti diversi e varii volti. 21 Poi la donzella a sé richiama in chiesa, là dove prima avea tirato un cerchio che la potea capir tutta distesa, et avea un palmo ancora di superchio. E perché da li spirti non sia offesa, le fa d'un gran pentacolo coperchio; e le dice che taccia e stia a mirarla: poi scioglie il libro, e coi demoni parla. 22 Eccovi fuor de la prima spelonca, che gente intorno al sacro cerchio ingrossa; ma, come vuole entrar, la via l'è tronca, come lo cinga intorno muro e fossa. In quella stanza, ove la bella conca in sé chiudea del gran profeta l'ossa, entravan l'ombre, poi ch'avean tre volte fatto d'intorno lor debite volte. 23 - Se i nomi e i gesti di ciascun vo' dirti (dicea l'incantatrice a Bradamante), di questi ch'or per gl'incantati spirti, prima che nati sien, ci sono avante, non so veder quando abbia da espedirti; che non basta una notte a cose tante: sì ch'io te ne verrò scegliendo alcuno, secondo il tempo, e che sarà oportuno. 24 Vedi quel primo che ti rassimiglia ne' bei sembianti e nel giocondo aspetto: capo in Italia fia di tua famiglia, del seme di Ruggiero in te concetto. Veder del sangue di Pontier vermiglia per mano di costui la terra aspetto, e vendicato il tradimento e il torto contra quei che gli avranno il padre morto. 25 Per opra di costui sarà deserto il re de' Longobardi Desiderio: d'Este e di Calaon per questo merto il bel domíno avrà dal sommo Imperio. Quel che gli è dietro, è il tuo nipote Uberto, onor de l'arme e del paese esperio: per costui contra barbari difesa più d'una volta fia la santa Chiesa. 26 Vedi qui Alberto, invitto capitano ch'ornerà di trofei tanti delubri: Ugo il figlio è con lui, che di Milano farà l'acquisto, e spiegherà i colubri. Azzo è quell'altro, a cui resterà in mano dopo il fratello, il regno degl' Insubri. Ecco Albertazzo, il cui savio consiglio torrà d'Italia Beringario e il figlio; 27 e sarà degno a cui Cesare Otone Alda, sua figlia, in matrimonio aggiunga. Vedi un altro Ugo: oh bella successione, che dal patrio valor non si dislunga! Costui sarà, che per giusta cagione ai superbi Roman l'orgoglio emunga, che 'l terzo Otone e il pontefice tolga de le man loro, e 'l grave assedio sciolga. 28 Vedi Folco, che par ch'al suo germano, ciò che in Italia avea, tutto abbi dato, e vada a possedere indi lontano in mezzo agli Alamanni un gran ducato; e dia alla casa di Sansogna mano, che caduta sarà tutta da un lato; e per la linea de la madre, erede, con la progenie sua la terrà in piede. 29 Questo ch'or a nui viene è il secondo Azzo, di cortesia più che di guerre amico, tra dui figli, Bertoldo et Albertazzo. Vinto da l'un sarà il secondo Enrico, e del sangue tedesco orribil guazzo Parma vedrà per tutto il campo aprico; de l'altro la contessa glorïosa, saggia e casta Matilde, sarà sposa. 30 Virtù il farà di tal connubio degno; ch'a quella età non poca laude estimo quasi di mezza Italia in dote il regno, e la nipote aver d'Enrico primo. Ecco di quel Bertoldo il caro pegno, Rinaldo tuo, ch'avrà l'onor opimo d'aver la Chiesa de le man riscossa de l'empio Federico Barbarossa. 31 Ecco un altro Azzo, et è quel che Verona avrà in poter col suo bel tenitorio; e sarà detto marchese d'Ancona dal quarto Otone e dal secondo Onorio. Lungo sarà s'io mostro ogni persona del sangue tuo, ch'avrà del consistorio il confalone, e s'io narro ogni impresa vinta da lor per la romana Chiesa. 32 Obizzo vedi e Folco, altri Azzi, altri Ughi, ambi gli Enrichi, il figlio al padre a canto; duo Guelfi, di quai l'uno Umbria suggiughi, e vesta di Spoleti il ducal manto. Ecco che 'l sangue e le gran piaghe asciughi d'Italia afflitta, e volga in riso il pianto: di costui parlo (e mostrolle Azzo quinto) onde Ezellin fia rotto, preso, estinto. 33 Ezellino, immanissimo tiranno, che fia creduto figlio del demonio, farà, troncando i sudditi, tal danno, e distruggendo il bel paese ausonio, che pietosi apo lui stati saranno Mario, Silla, Neron, Caio et Antonio. E Federico imperator secondo fia per questo Azzo rotto e messo al fondo. 34 Terrà costui con più felice scettro la bella terra che siede sul fiume, dove chiamò con lacrimoso plettro Febo il figliuol ch'avea mal retto il lume, quando fu pianto il fabuloso elettro, e Cigno si vestí di bianche piume; e questa di mille oblighi mercede gli donerà l'Apostolica sede. 35 Dove lascio il fratel Aldrobandino? che per dar al pontefice soccorso contra Oton quarto e il campo ghibellino che sarà presso al Campidoglio corso, et avrà preso ogni luogo vicino, e posto agli Umbri e alli Piceni il morso; né potendo prestargli aiuto senza molto tesor, ne chiederà a Fiorenza; 36 e non avendo gioie o miglior pegni, per sicurtà daralle il frate in mano. Spiegherà i suoi vittorïosi segni, e romperà l'esercito germano; in seggio riporrà la Chiesa, e degni darà supplicii ai conti di Celano; et al servizio del sommo Pastore finirà gli anni suoi nel più bel fiore. 37 Et Azzo, il suo fratel, lascierà erede del dominio d'Ancona e di Pisauro, d'ogni città che da Troento siede tra il mare e l'Apenin fin all'Isauro, e di grandezza d'animo e di fede, e di virtù, miglior che gemme et auro: che dona e tolle ogn'altro ben Fortuna; sol in virtù non ha possanza alcuna. 38 Vedi Rinaldo, in cui non minor raggio splenderà di valor, pur che non sia a tanta essaltazion del bel lignaggio Morte o Fortuna invidïosa e ria. Udirne il duol fin qui da Napoli aggio, dove del padre allor statico fia. Or Obizzo ne vien, che giovinetto dopo l'avo sarà principe eletto. 39 Al bel dominio accrescerà costui Reggio giocondo e Modona feroce. Tal sarà il suo valor, che signor lui domanderanno i populi a una voce. Vedi Azzo sesto, un de' figliuoli sui, confalonier de la cristiana croce: avrà il ducato d'Andria con la figlia del secondo re Carlo di Siciglia. 40 Vedi in un bello et amichevol groppo de li principi illustri l'eccellenza: Obizzo, Aldrobandin, Nicolò zoppo, Alberto, d'amor pieno e di clemenza. Io tacerò, per non tenerti troppo, come al bel regno aggiungeran Favenza, e con maggior fermezza Adria, che valse da sé nomar l'indomite acque salse; 41 come la terra, il cui produr di rose le diè piacevol nome in greche voci, e la città ch'in mezzo alle piscose paludi, del Po teme ambe le foci, dove abitan le genti disïose che 'l mar si turbi e sieno i venti atroci. Taccio d'Argenta, di Lugo e di mille altre castella e populose ville. 42 Ve' Nicolò, che tenero fanciullo il popul crea signor de la sua terra, e di Tideo fa il pensier vano e nullo, che contra lui le civil arme afferra. Sarà di questo il pueril trastullo sudar nel ferro e travagliarsi in guerra; e da lo studio del tempo primiero il fior riuscirà d'ogni guerriero. 43 Farà de' suoi ribelli uscire a vòto ogni disegno, e lor tornare in danno; et ogni stratagema avrà sì noto, che sarà duro il poter fargli inganno. Tardi di questo s'avedrà il Terzo Oto, e di Reggio e di Parma aspro tiranno, che da costui spogliato a un tempo fia e del dominio e de la vita ria. 44 Avrà il bel regno poi sempre augumento senza torcer mai piè dal camin dritto; né ad alcuno farà mai nocumento, da cui prima non sia d'ingiuria afflitto: et è per questo il gran Motor contento che non gli sia alcun termine prescritto; ma duri prosperando in meglio sempre, fin che si volga il ciel ne le sue tempre. 45 Vedi Leonello, e vedi il primo duce, fama de la sua età, l'inclito Borso, che siede in pace, e più trionfo adduce di quanti in altrui terre abbino corso. Chiuderà Marte ove non veggia luce, e stringerà al Furor le mani al dorso. Di questo signor splendido ogni intento sarà che 'l popul suo viva contento. 46 Ercole or vien, ch'al suo vicin rinfaccia, col piè mezzo arso e con quei debol passi, come a Budrio col petto e con la faccia il campo volto in fuga gli fermassi; non perché in premio poi guerra gli faccia, né, per cacciarlo, fin nel Barco passi. Questo è il signor, di cui non so esplicarme se fia maggior la gloria o in pace o in arme. 47 Terran Pugliesi, Calabri e Lucani de' gesti di costui lunga memoria, là dove avrà dal Re de' Catalani di pugna singular la prima gloria; e nome tra gl'invitti capitani s'acquisterà con più d'una vittoria: avrà per sua virtù la signoria, più di trenta anni, a lui debita pria. 48 E quanto più aver obligo si possa a principe, sua terra avrà a costui; non perché fia de le paludi mossa tra campi fertilissimi da lui; non perché la farà con muro e fossa meglio capace a' cittadini sui, e l'ornarà di templi e di palagi, di piazze, di teatri e di mille agi; 49 non perché dagli artigli de l'audace aligero Leon terrà difesa; non perché, quando la gallica face per tutto avrà la bella Italia accesa, si starà sola col suo stato in pace, e dal timore e dai tributi illesa; non sì per questi et altri benefici saran sue genti ad Ercol debitrici: 50 quanto che darà lor l'inclita prole, il giusto Alfonso e Ippolito benigno, che saran quai l'antiqua fama suole narrar de' figli del Tindareo cigno, ch'alternamente si privan del sole per trar l'un l'altro de l'aer maligno. Sarà ciascuno d'essi e pronto e forte l'altro salvar con sua perpetua morte. 51 Il grande amor di questa bella coppia renderà il popul suo via più sicuro, che se, per opra di Vulcan, di doppia cinta di ferro avesse intorno il muro. Alfonso è quel che col saper accoppia sì la bontà, ch'al secolo futuro la gente crederà che sia dal cielo tornata Astrea dove può il caldo e il gielo. 52 A grande uopo gli fia l'esser prudente, e di valore assimigliarsi al padre; che si ritroverà, con poca gente, da un lato aver le veneziane squadre, colei da l'altro, che più giustamente non so se devrà dir matrigna o madre; ma se pur madre, a lui poco più pia, che Medea ai figli o Progne stata sia. 53 E quante volte uscirà giorno o notte col suo popul fedel fuor de la terra, tante sconfitte e memorabil rotte darà a' nimici o per acqua o per terra. Le genti di Romagna mal condotte, contra i vicini e lor già amici, in guerra, se n'avedranno, insanguinando il suolo che serra il Po, Santerno e Zannïolo. 54 Nei medesmi confini anco saprallo del gran Pastore il mercenario Ispano, che gli avrà dopo con poco intervallo la Bastía tolta, e morto il castellano, quando l'avrà già preso; e per tal fallo non fia, dal minor fante al capitano, che del racquisto e del presidio ucciso a Roma riportar possa l'aviso. 55 Costui sarà, col senno e con la lancia, ch'avrà l'onor, nei campi di Romagna, d'aver dato all'esercito di Francia la gran vittoria contra Iulio e Spagna. Nuoteranno i destrier fin alla pancia nel sangue uman per tutta la campagna; ch'a sepelire il popul verrà manco tetesco, ispano, greco, italo, e franco. 56 Quel ch'in pontificale abito imprime del purpureo capel la sacra chioma, è il liberal, magnanimo, sublime, gran cardinal de la Chiesa di Roma Ippolito, ch'a prose, a versi, a rime darà materia eterna in ogni idioma; la cui fiorita età vuol il ciel iusto ch'abbia un Maron, come un altro ebbe Augusto. 57 Adornerà la sua progenie bella, come orna il sol la machina del mondo molto più de la luna e d'ogni stella; ch'ogn'altro lume a lui sempre è secondo. Costui con pochi a piedi e meno in sella veggio uscir mesto, e poi tornar iocondo; che quindici galee mena captive, oltra mill'altri legni alle sue rive. 58 Vedi poi l'uno e l'altro Sigismondo. Vedi d'Alfonso i cinque figli cari, alla cui fama ostar, che di sé il mondo non empia, i monti non potran né i mari: gener del re di Francia, Ercol secondo è l'un; quest'altro (acciò tutti gl'impari) Ippolito è, che non con minor raggio che 'l zio, risplenderà nel suo lignaggio; 59 Francesco, il terzo; Alfonsi gli altri dui ambi son detti. Or, come io dissi prima, s'ho da mostrarti ogni tuo ramo, il cui valor la stirpe sua tanto sublima, bisognerà che si rischiari e abbui più volte prima il ciel, ch'io te li esprima: e sarà tempo ormai, quando ti piaccia, ch'io dia licenza all'ombre e ch'io mi taccia. - 60 Così con voluntà de la donzella la dotta incantatrice il libro chiuse. Tutti gli spirti allora ne la cella spariro in fretta, ove eran l'ossa chiuse. Qui Bradamante, poi che la favella le fu concessa usar, la bocca schiuse, e domandò: - Chi son li dua sì tristi, che tra Ippolito e Alfonso abbiamo visti? 61 Veniano sospirando, e gli occhi bassi parean tener d'ogni baldanza privi; e gir lontan da loro io vedea i passi dei frati sì, che ne pareano schivi. - Parve ch'a tal domanda si cangiassi la maga in viso, e fe' degli occhi rivi, e gridò: - Ah sfortunati, a quanta pena lungo istigar d'uomini rei vi mena! 62 O bona prole, o degna d'Ercol buono, non vinca il lor fallir vostra bontade: di vostro sangue i miseri pur sono: qui ceda la iustizia alla pietade. - Indi soggiunse con più basso suono: - Di ciò dirti più inanzi non accade. Statti col dolcie in bocca, e non ti doglia ch'amareggiare al fin non te la voglia. 63 Tosto che spunti in ciel la prima luce, piglierai meco la più dritta via ch'al lucente castel d'acciai' conduce, dove Ruggier vive in altrui balía. Io tanto ti sarò compagna e duce, che tu sia fuor de l'aspra selva ria: t'insegnerò, poi che saren sul mare, sì ben la via, che non potresti errare. - 64 Quivi l'audace giovane rimase tutta la notte, e gran pezzo ne spese a parlar con Merlin, che le suase rendersi tosto al suo Ruggier cortese. Lasciò di poi le sotterranee case, che di nuovo splendor l'aria s'accese, per un camin gran spazio oscuro e cieco, avendo la spirtal femina seco. 65 E riusciro in un burrone ascoso tra monti inaccessibili alle genti; e tutto 'l dì senza pigliar riposo saliron balze e traversâr torrenti. E perché men l'andar fosse noioso, di piacevoli e bei ragionamenti, di quel che fu più conferir soave, l'aspro camin facean parer men grave: 66 di quali era però la maggior parte, ch'a Bradamante vien la dotta maga mostrando con che astuzia e con qual arte proceder de', se di Ruggiero è vaga. - Se tu fossi (dicea) Pallade o Marte, e conducessi gente alla tua paga più che non ha il re Carlo e il re Agramante, non dureresti contra il negromante; 67 che oltre che d'acciar murata sia la ròcca inespugnabile, e tant'alta; oltre che 'l suo destrier si faccia via per mezzo l'aria, ove galoppa e salta; ha lo scudo mortal, che come pria si scopre, il suo splendor sì gli occhi assalta, la vista tolle, e tanto occupa i sensi, che come morto rimaner conviensi. 68 E se forse ti pensi che ti vaglia combattendo tener serrati gli occhi, come potrai saper ne la battaglia quando ti schivi, o l'aversario tocchi? Ma per fuggire il lume ch'abbarbaglia, e gli altri incanti di colui far sciocchi, ti mostrerò un rimedio, una via presta; né altra in tutto 'l mondo è se non questa. 69 Il re Agramante d'Africa uno annello, che fu rubato in India a una regina, ha dato a un suo baron detto Brunello, che poche miglia inanzi ne camina; di tal virtù, che chi nel dito ha quello, contra il mal degl'incanti ha medicina. Sa de furti e d'inganni Brunel, quanto colui, che tien Ruggier, sappia d'incanto. 70 Questo Brunel sì pratico e sì astuto, come io ti dico, è dal suo re mandato acciò che col suo ingegno e con l'aiuto di questo annello, in tal cose provato, di quella ròcca dove è ritenuto, traggia Ruggier, che così s'è vantato, et ha così promesso al suo signore, a cui Ruggiero è più d'ogn'altro a core. 71 Ma perché il tuo Ruggiero a te sol abbia, e non al re Agramante, ad obligarsi che tratto sia de l'incantata gabbia, t'insegnerò il rimedio che de' usarsi. Tu te n'andrai tre dì lungo la sabbia del mar, ch'è oramai presso a dimostrarsi; il terzo giorno in un albergo teco arriverà costui c'ha l'annel seco. 72 La sua statura, acciò tu lo conosca, non è sei palmi, et ha il capo ricciuto; le chiome ha nere, et ha la pelle fosca; pallido il viso, oltre il dover barbuto; gli occhi gonfiati e guardatura losca; schiacciato il naso, e ne le ciglia irsuto: l'abito, acciò ch'io lo dipinga intero, è stretto e corto, e sembra di corriero. 73 Con esso lui t'accaderà soggetto di ragionar di quelli incanti strani: mostra d'aver, come tu avra' in effetto, disio che 'l mago sia teco alle mani; ma non monstrar che ti sia stato detto di quel suo annel che fa gl'incanti vani. Egli t'offerirà mostrar la via fin alla ròcca e farti compagnia. 74 Tu gli va dietro: e come t'avicini a quella ròcca sì ch'ella si scopra, dàgli la morte; né pietà t'inchini che tu non metta il mio consiglio in opra. Né far ch'egli il pensier tuo s'indovini, e ch'abbia tempo che l'annel lo copra; perché ti spariria dagli occhi, tosto ch'in bocca il sacro annel s'avesse posto. - 75 Così parlando, giunsero sul mare, dove presso a Bordea mette Garonna. Quivi, non senza alquanto lagrimare, si dipartí l'una da l'altra donna. La figliuola d'Amon, che per slegare di prigione il suo amante non assonna, caminò tanto, che venne una sera ad uno albergo, ove Brunel prim'era. 76 Conosce ella Brunel come lo vede, di cui la forma avea sculpita in mente: onde ne viene, ove ne va, gli chiede; quel le risponde, e d'ogni cosa mente. La donna, già prevista, non gli cede in dir menzogne, e simula ugualmente e patria e stirpe e setta e nome e sesso; e gli volta alle man pur gli occhi spesso. 77 Gli va gli occhi alle man spesso voltando, in dubbio sempre esser da lui rubata; né lo lascia venir troppo accostando, di sua condizïon bene informata. Stavano insieme in questa guisa, quando l'orecchia da un rumor lor fu intruonata. Poi vi dirò, Signor, che ne fu causa, ch'avrò fatto al cantar debita pausa.
1 Quantunque il simular sia le più volte ripreso, e dia di mala mente indici, si truova pur in molte cose e molte aver fatti evidenti benefici, e danni e biasmi e morti aver già tolte; che non conversiam sempre con gli amici in questa assai più oscura che serena vita mortal, tutta d'invidia piena. 2 Se, dopo lunga prova, a gran fatica trovar si può chi ti sia amico vero, et a chi senza alcun sospetto dica e discoperto mostri il tuo pensiero; che de' far di Ruggier la bella amica con quel Brunel non puro e non sincero, ma tutto simulato e tutto finto, come la maga le l'avea dipinto? 3 Simula anch'ella; e così far conviene con esso lui di finzïoni padre; e, come io dissi, spesso ella gli tiene gli occhi alle man, ch'eran rapaci e ladre. Ecco all'orecchie un gran rumor lor viene. Disse la donna: - O glorïosa Madre, o Re del ciel, che cosa sarà questa? - E dove era il rumor si trovò presta. 4 E vede l'oste e tutta la famiglia, e chi a finestre e chi fuor ne la via, tener levati al ciel gli occhi e le ciglia, come l'ecclisse o la cometa sia. Vede la donna un'altra maraviglia, che di leggier creduta non saria: vede passar un gran destriero alato, che porta in aria un cavalliero armato. 5 Grandi eran l'ale e di color diverso, e vi sedea nel mezzo un cavalliero, di ferro armato luminoso e terso; e vêr ponente avea dritto il sentiero. Calossi, e fu tra le montagne immerso: e, come dicea l'oste (e dicea il vero), quel era un negromante, e facea spesso quel varco, or più da lungi, or più da presso. 6 Volando, talor s'alza ne le stelle, e poi quasi talor la terra rade; e ne porta con lui tutte le belle donne che trova per quelle contrade: talmente che le misere donzelle ch'abbino o aver si credano beltade (come affatto costui tutte le invole) non escon fuor sì che le veggia il sole. 7 - Egli sul Pireneo tiene un castello (narrava l'oste) fatto per incanto, tutto d'acciaio, e sì lucente e bello, ch'altro al mondo non è mirabil tanto. Già molti cavallier sono iti a quello, e nessun del ritorno si dà vanto: sì ch'io penso, signore, e temo forte, o che sian presi, o sian condotti a morte. - 8 La donna il tutto ascolta, e le ne giova, credendo far, come farà per certo, con l'annello mirabile tal prova, che ne fia il mago e il suo castel deserto; e dice a l'oste: - Or un de' tuoi mi trova, che più di me sia del vïaggio esperto; ch'io non posso durar, tanto ho il cor vago di far battaglia contra a questo mago. - 9 Non ti mancherà guida ( le rispose Brunello allora), e ne verrò teco io: meco ho la strada in scritto, et altre cose che ti faran piacere il venir mio. - Vòlse dir de l'annel; ma non l'espose né chiarí più, per non pagarne il fio. - Grato mi fia (disse ella) il venir tuo; - volendo dir ch'indi l'annel fia suo. 10 Quel ch'era utile a dir disse; e quel tacque, che nuocer le potea col Saracino. Avea l'oste un destrier ch'a costei piacque, ch'era buon da battaglia e da camino: comperollo e partissi come nacque del bel giorno seguente il matutino. Prese la via per una stretta valle, con Brunello ora inanzi, ora alle spalle. 11 Di monte in monte e d'uno in altro bosco giunseno ove l'altezza di Pirene può dimostrar, se non è l'aer fosco, e Francia e Spagna e due diverse arene, come Apennin scopre il mar schiavo e il tòsco del giogo onde a Camaldoli si viene. Quindi per aspro e faticoso calle si discendea ne la profonda valle. 12 Vi sorge in mezzo un sasso che la cima d'un bel muro d'acciar tutta si fascia; e quella tanto inverso il ciel sublima, che quanto ha intorno, inferïor si lascia. Non faccia, chi non vola, andarvi stima; che spesa indarno vi saria ogni ambascia. Brunel disse: - Ecco dove prigionieri il mago tien le donne e i cavallieri. - 13 Da quattro canti era tagliato, e tale che parea dritto a fil de la sinopia. Da nessun lato né sentier né scale v'eran, che di salir facesser copia: e ben appar che d'animal ch'abbia ale sia quella stanza nido e tana propia. Quivi la donna esser conosce l'ora di tor l'annello e far che Brunel mora. 14 Ma le par atto vile a insanguinarsi d'un uom senza arme e di sì ignobil sorte; che ben potrà posseditrice farsi del ricco annello, e lui non porre a morte. Brunel non avea mente a riguardarsi; sì ch'ella il prese, e lo legò ben forte ad uno abete ch'alta avea la cima: ma di dito l'annel gli trasse prima. 15 Né per lacrime, gemiti o lamenti che facesse Brunel, lo vòlse sciorre. Smontò de la montagna a passi lenti, tanto che fu nel pian sotto la torre. E perché alla battaglia s'appresenti il negromante, al corno suo ricorre: e dopo il suon, con minacciose grida lo chiama al campo, et alla pugna 'l sfida. 16 Non stette molto a uscir fuor de la porta l'incantator, ch'udì 'l suono e la voce. L'alato corridor per l'aria il porta contra costei, che sembra uomo feroce. La donna da principio si conforta, che vede che colui poco le nuoce: non porta lancia né spada né mazza, ch'a forar l'abbia o romper la corazza. 17 Da la sinistra sol lo scudo avea, tutto coperto di seta vermiglia; ne la man destra un libro, onde facea nascer, leggendo, l'alta maraviglia: che la lancia talor correr parea, e fatto avea a più d'un batter le ciglia; talor parea ferir con mazza o stocco, e lontano era, e non avea alcun tocco. 18 Non è finto il destrier, ma naturale, ch'una giumenta generò d'un grifo: simile al padre avea la piuma e l'ale, li piedi anterïori, il capo e il grifo; in tutte l'altre membra parea quale era la madre, e chiamasi ippogrifo; che nei monti Rifei vengon, ma rari, molto di là dagli aghiacciati mari. 19 Quivi per forza lo tirò d'incanto; e poi che l'ebbe, ad altro non attese, e con studio e fatica operò tanto, ch'a sella e briglia il cavalcò in un mese: così ch'in terra e in aria e in ogni canto lo facea volteggiar senza contese. Non finzïon d'incanto, come il resto, ma vero e natural si vedea questo. 20 Del mago ogn'altra cosa era figmento; che comparir facea pel rosso il giallo: ma con la donna non fu di momento; che per l'annel non può vedere in fallo. Più colpi tuttavia diserra al vento, e quinci e quindi spinge il suo cavallo; e si dibatte e si travaglia tutta, come era, inanzi che venisse, instrutta. 21 E poi che esercitata si fu alquanto sopra il destrier, smontar vòlse anco a piede, per poter meglio al fin venir di quanto la cauta maga instruzïon le diede. Il mago vien per far l'estremo incanto; che del fatto ripar né sa né crede: scuopre lo scudo, e certo si prosume farla cader con l'incantato lume. 22 Potea così scoprirlo al primo tratto, senza tenere i cavallieri a bada; ma gli piacea veder qualche bel tratto di correr l'asta o di girar la spada: come si vede ch'all'astuto gatto scherzar col topo alcuna volta aggrada; e poi che quel piacer gli viene a noia, dargli di morso, e al fin voler che muoia. 23 Dico che 'l mago al gatto, e gli altri al topo s'assimigliâr ne le battaglie dianzi; ma non s'assimigliâr già così, dopo che con l'annel si fe' la donna inanzi. Attenta e fissa stava a quel ch'era uopo, acciò che nulla seco il mago avanzi; e come vide che lo scudo aperse, chiuse gli occhi, e lasciò quivi caderse. 24 Non che il fulgor del lucido metallo, come soleva agli altri, a lei nocesse; ma così fece acciò che dal cavallo contra sé il vano incantator scendesse: né parte andò del suo disegno in fallo; che tosto ch'ella il capo in terra messe, accelerando il volator le penne, con larghe ruote in terra a por si venne. 25 Lascia all'arcion lo scudo, che già posto avea ne la coperta, e a piè discende verso la donna che, come reposto lupo alla macchia il caprïolo, attende. Senza più indugio ella si leva tosto che l'ha vicino, e ben stretto lo prende. Avea lasciato quel misero in terra il libro che facea tutta la guerra: 26 e con una catena ne correa, che solea portar cinta a simil uso; perché non men legar colei credea, che per adietro altri legare era uso. La donna in terra posto già l'avea: se quel non si difese, io ben l'escuso; che troppo era la cosa differente tra un debol vecchio e lei tanto possente. 27 Disegnando levargli ella la testa, alza la man vittorïosa in fretta; ma poi che 'l viso mira, il colpo arresta, quasi sdegnando sì bassa vendetta: un venerabil vecchio in faccia mesta vede esser quel ch'ella ha giunto alla stretta, che mostra al viso crespo e al pelo bianco, età di settanta anni o poco manco. 28 - Tommi la vita, giovene, per Dio, - dicea il vecchio pien d'ira e di dispetto; ma quella a torla avea sì il cor restio, come quel di lasciarla avria diletto. La donna di sapere ebbe disio chi fosse il negromante, et a che effetto edificasse in quel luogo selvaggio la ròcca, e faccia a tutto il mondo oltraggio. 29 - Né per maligna intenzïone, ahi lasso! (disse piangendo il vecchio incantatore) feci la bella ròcca in cima al sasso, né per avidità son rubatore; ma per ritrar sol dall'estremo passo un cavallier gentil, mi mosse amore, che, come il ciel mi mostra, in tempo breve morir cristiano a tradimento deve. 30 Non vede il sol tra questo e il polo austrino un giovene sì bello e sì prestante: Ruggiero ha nome, il qual da piccolino da me nutrito fu, ch'io sono Atlante. Disio d'onore e suo fiero destino l'han tratto in Francia dietro al re Agramante; et io, che l'amai sempre più che figlio, lo cerco trar di Francia e di periglio. 31 La bella ròcca solo edificai per tenervi Ruggier sicuramente, che preso fu da me, come sperai che fossi oggi tu preso similmente; e donne e cavallier, che tu vedrai, poi ci ho ridotti, et altra nobil gente, acciò che quando a voglia sua non esca, avendo compagnia, men gli rincresca. 32 Pur ch'uscir di là su non si domande, d'ogn'altro gaudio lor cura mi tocca; che quanto averne da tutte le bande si può del mondo, è tutto in quella ròcca: suoni, canti, vestir, giuochi, vivande, quanto può cor pensar, può chieder bocca. Ben seminato avea, ben cogliea il frutto; ma tu sei giunto a disturbarmi il tutto. 33 Deh, se non hai del viso il cor men bello, non impedir il mio consiglio onesto! Piglia lo scudo (ch'io tel dono) e quello destrier che va per l'aria così presto; e non t'impacciar oltra nel castello, o tranne uno o duo amici, e lascia il resto; o tranne tutti gli altri, e più non chero, se non che tu mi lasci il mio Ruggiero. 34 E se disposto sei volermel tôrre, deh, prima almen che tu 'l rimeni in Francia, piacciati questa afflitta anima sciorre de la sua scorza ormai putrida e rancia! - Rispose la donzella: - Lui vo' porre in libertà: tu, se sai, gracchia e ciancia; né mi offerir di dar lo scudo in dono, o quel destrier, che miei, non più tuoi sono: 35 né s'anco stesse a te di tôrre e darli, mi parrebbe che 'l cambio convenisse. Tu di' che Ruggier tieni per vietarli il male influsso di sue stelle fisse. O che non puoi saperlo, o non schivarli, sappiendol, ciò che 'l ciel di lui prescrisse: ma se 'l mal tuo, c'hai sì vicin, non vedi, peggio l'altrui c'ha da venir prevedi. 36 Non pregar ch'io t'uccida, ch'i tuoi preghi sariano indarno; e se pur vuoi la morte, ancor che tutto il mondo dar la nieghi, da sé la può aver sempre animo forte. Ma pria che l'alma da la carne sleghi, a tutti i tuoi prigioni apri le porte. - Così dice la donna, e tuttavia il mago preso incontra al sasso invia. 37 Legato de la sua propria catena andava Atlante, e la donzella appresso, che così ancor se ne fidava a pena, ben che in vista parea tutto rimesso. Non molti passi dietro se la mena, ch'a piè del monte han ritrovato il fesso, e li scaglioni onde si monta in giro, fin ch'alla porta del castel saliro. 38 Di su la soglia Atlante un sasso tolle, di caratteri e strani segni insculto. Sotto, vasi vi son, che chiamano olle, che fuman sempre, e dentro han foco occulto. L'incantator le spezza; e a un tratto il colle riman deserto, inospite et inculto; né muro appar né torre in alcun lato, come se mai castel non vi sia stato. 39 Sbrigossi dalla donna il mago alora, come fa spesso il tordo da la ragna; e con lui sparve il suo castello a un'ora, e lasciò in libertà quella compagna. Le donne e i cavallier si trovâr fuora de le superbe stanze alla campagna: e furon di lor molte a chi ne dolse; che tal franchezza un gran piacer lor tolse. 40 Quivi è Gradasso, quivi è Sacripante, quivi è Prasildo, il nobil cavalliero che con Rinaldo venne di Levante, e seco Iroldo, il par d'amici vero. Al fin trovò la bella Bradamante quivi il desiderato suo Ruggiero, che, poi che n'ebbe certa conoscenza, le fe' buona e gratissima accoglienza; 41 come a colei che più che gli occhi sui, più che 'l suo cor, più che la propria vita Ruggiero amò dal dì ch'essa per lui si trasse l'elmo, onde ne fu ferita. Lungo sarebbe a dir come, e da cui, e quanto ne la selva aspra e romita si cercâr poi la notte e il giorno chiaro; né, se non qui, mai più si ritrovaro. 42 Or che quivi la vede, e sa ben ch'ella è stata sola la sua redentrice, di tanto gaudio ha pieno il cor, che appella sé fortunato et unico felice. Scesero il monte, e dismontaro in quella valle, ove fu la donna vincitrice, e dove l'ippogrifo trovaro anco, ch'avea lo scudo, ma coperto, al fianco. 43 La donna va per prenderlo nel freno: e quel l'aspetta fin che se gli accosta; poi spiega l'ale per l'aer sereno, e si ripon non lungi a mezza costa. Ella lo segue: e quel né più né meno si leva in aria, e non troppo si scosta; come fa la cornacchia in secca arena, che dietro il cane or qua or là si mena. 44 Ruggier, Gradasso, Sacripante, e tutti quei cavallier che scesi erano insieme, chi di su, chi di giú, si son ridutti dove che torni il volatore han speme. Quel, poi che gli altri invano ebbe condutti più volte e sopra le cime supreme e negli umidi fondi tra quei sassi, presso a Ruggiero al fin ritenne i passi. 45 E questa opera fu del vecchio Atlante, di cui non cessa la pietosa voglia di trar Rugier del gran periglio instante: di ciò sol pensa e di ciò solo ha doglia. Però gli manda or l'ippogrifo avante, perché d'Europa con questa arte il toglia. Ruggier lo piglia, e seco pensa trarlo; ma quel s'arretra, e non vuol seguitarlo. 46 Or di Frontin quel animoso smonta (Frontino era nomato il suo destriero), e sopra quel che va per l'aria monta, e con li spron gli adizza il core altiero. Quel corre alquanto, et indi i piedi ponta, e sale inverso il ciel, via più leggiero che 'l girifalco, a cui lieva il capello il mastro a tempo, e fa veder l'augello. 47 La bella donna, che sì in alto vede e con tanto periglio il suo Ruggiero, resta attonita in modo, che non riede per lungo spazio al sentimento vero. Ciò che già inteso avea di Ganimede ch'al ciel fu assunto dal paterno impero, dubita assai che non accada a quello, non men gentil di Ganimede e bello. 48 Con gli occhi fissi al ciel lo segue quanto basta il veder; ma poi che si dilegua sì, che la vista non può correr tanto, lascia che sempre l'animo lo segua. Tuttavia con sospir, gemito e pianto non ha, né vuol aver pace né triegua. Poi che Ruggier di vista se le tolse, al buon destrier Frontin gli occhi rivolse: 49 e si deliberò di non lasciarlo, che fosse in preda a chi venisse prima; ma di condurlo seco, e di poi darlo al suo signor, ch'anco veder pur stima. Poggia l'augel, né può Ruggier frenarlo: di sotto rimaner vede ogni cima et abbassarsi in guisa, che non scorge dove è piano il terren né dove sorge. 50 Poi che sì ad alto vien, ch'un picciol punto lo può stimar chi da la terra il mira, prende la via verso ove cade a punto il sol, quando col Granchio si raggira; e per l'aria ne va come legno unto a cui nel mar propizio vento spira. Lasciànlo andar, che farà buon camino, e torniamo a Rinaldo paladino. 51 Rinaldo l'altro e l'altro giorno scórse, spinto dal vento, un gran spazio di mare, quando a ponente e quando contra l'Orse, che notte e dì non cessa mai soffiare. Sopra la Scozia ultimamente sorse, dove la selva Calidonia appare, che spesso fra gli antiqui ombrosi cerri s'ode sonar di bellicosi ferri. 52 Vanno per quella i cavallieri erranti, incliti in arme, di tutta Bretagna, e de' prossimi luoghi e de' distanti, di Francia, di Norvegia e de Lamagna. Chi non ha gran valor, non vada inanti; che dove cerca onor, morte guadagna. Gran cose in essa già fece Tristano, Lancillotto, Galasso, Artù e Galvano, 53 et altri cavallieri e de la nuova e de la vecchia Tavola famosi: restano ancor di più d'una lor pruova li monumenti e li trofei pomposi. L'arme Rinaldo e il suo Baiardo truova, e tosto si fa por nei liti ombrosi, et al nochier comanda che si spicche e lo vada aspettar a Beroicche. 54 Senza scudiero e senza compagnia va il cavallier per quella selva immensa, facendo or una et or un'altra via, dove più aver strane aventure pensa. Capitò il primo giorno a una badia, che buona parte del suo aver dispensa in onorar nel suo cenobio adorno le donne e i cavallier che vanno attorno. 55 Bella accoglienza i monachi e l'abbate fêro a Rinaldo, il qual domandò loro (non prima già che con vivande grate avesse avuto il ventre amplo ristoro) come dai cavallier sien ritrovate spesso aventure per quel tenitoro, dove si possa in qualche fatto eggregio l'uom dimostrar, se merta biasmo o pregio. 56 Risposongli ch'errando in quelli boschi, trovar potria strane aventure e molte: ma come i luoghi, i fatti ancor son foschi; che non se n'ha notizia le più volte. - Cerca (diceano) andar dove conoschi che l'opre tue non restino sepolte, acciò dietro al periglio e alla fatica segua la fama, e il debito ne dica. 57 E se del tuo valor cerchi far prova, t'è preparata la più degna impresa che ne l'antiqua etade o ne la nova giamai da cavallier sia stata presa. La figlia del re nostro or se ritrova bisognosa d'aiuto e di difesa contra un baron che Lurcanio si chiama, che tor le cerca e la vita e la fama. 58 Questo Lurcanio al padre l'ha accusata (forse per odio più che per ragione) averla a mezza notte ritrovata trarr'un suo amante a sé sopra un verrone. Per le leggi del regno condannata al fuoco fia, se non truova campione che fra un mese, oggimai presso a finire, l'iniquo accusator faccia mentire. 59 L'aspra legge di Scozia, empia e severa, vuol ch'ogni donna, e di ciascuna sorte, ch'ad uom si giunga, e non gli sia mogliera, s'accusata ne viene, abbia la morte. Né riparar si può ch'ella non pèra, quando per lei non venga un guerrier forte che tolga la difesa, e che sostegna che sia innocente e di morire indegna. 60 Il re, dolente per Ginevra bella (che così nominata è la sua figlia), ha publicato per città e castella, che s'alcun la difesa di lei piglia, e che l'estingua la calunnia fella (pur che sia nato di nobil famiglia), l'avrà per moglie, et uno stato, quale fia convenevol dote a donna tale. 61 Ma se fra un mese alcun per lei non viene, o venendo non vince, sarà uccisa. Simile impresa meglio ti conviene, ch'andar pei boschi errando a questa guisa: oltre ch'onor e fama te n'aviene ch'in eterno da te non fia divisa, guadagni il fior di quante belle donne da l'Indo sono all'Atlantee colonne; 62 e una ricchezza appresso, et uno stato che sempre far ti può viver contento; e la grazia del re, se suscitato per te gli fia il suo onor, che è quasi spento. Poi per cavalleria tu se' ubligato a vendicar di tanto tradimento costei, che per commune opinïone, di vera pudicizia è un paragone. - 63 Pensò Rinaldo alquanto, e poi rispose: - Una donzella dunque dè' morire perché lasciò sfogar ne l'amorose sue braccia al suo amator tanto desire? Sia maladetto chi tal legge pose, e maladetto chi la può patire! Debitamente muore una crudele, non chi dà vita al suo amator fedele. 64 Sia vero o falso che Ginevra tolto s'abbia il suo amante, io non riguardo a questo: d'averlo fatto la loderei molto, quando non fosse stato manifesto. Ho in sua difesa ogni pensier rivolto: datemi pur un chi mi guidi presto, e dove sia l'accusator mi mene; ch'io spero in Dio Ginevra trar di pene. 65 Non vo' già dir ch'ella non l'abbia fatto; che nol sappiendo, il falso dir potrei: dirò ben che non de' per simil atto punizïon cadere alcuna in lei; e dirò che fu ingiusto o che fu matto chi fece prima li statuti rei; e come iniqui rivocar si denno, e nuova legge far con miglior senno. 66 S'un medesimo ardor, s'un disir pare inchina e sforza l'uno e l'altro sesso a quel suave fin d'amor, che pare all'ignorante vulgo un grave eccesso; perché si de' punir donna o biasmare, che con uno o più d'uno abbia commesso quel che l'uom fa con quante n'ha appetito, e lodato ne va, non che impunito? 67 Son fatti in questa legge disuguale veramente alle donne espressi torti; e spero in Dio mostrar che gli è gran male che tanto lungamente si comporti. - Rinaldo ebbe il consenso universale, che fur gli antiqui ingiusti e male accorti, che consentiro a così iniqua legge, e mal fa il re, che può, né la corregge. 68 Poi che la luce candida e vermiglia de l'altro giorno aperse l'emispero, Rinaldo l'arme e il suo Baiardo piglia, e di quella badia tolle un scudiero, che con lui viene a molte leghe e miglia, sempre nel bosco orribilmente fiero, verso la terra ove la lite nuova de la donzella de' venir in pruova. 69 Avean, cercando abbrevïar camino, lasciato pel sentier la maggior via; quando un gran pianto udîr sonar vicino, che la foresta d'ogn'intorno empía. Baiardo spinse l'un, l'altro il ronzino verso una valle, onde quel grido uscía: e fra dui mascalzoni una donzella vider, che di lontan parea assai bella; 70 ma lacrimosa e addolorata quanto donna o donzella o mai persona fosse. Le sono dui col ferro nudo a canto, per farle far l'erbe di sangue rosse. Ella con preghi differendo alquanto giva il morir, sin che pietà si mosse. Venne Rinaldo; e come se n'accorse, con alti gridi e gran minaccie accorse. 71 Voltaro i malandrin tosto le spalle, che 'l soccorso lontan vider venire, e se appiattâr ne la profonda valle. Il paladin non li curò seguire: venne a la donna, e qual gran colpa dàlle tanta punizïon, cerca d'udire; e per tempo avanzar, fa allo scudiero levarla in groppa, e torna al suo sentiero. 72 E cavalcando poi meglio la guata molto esser bella e di maniere accorte, ancor che fosse tutta spaventata per la paura ch'ebbe de la morte. Poi ch'ella fu di nuovo domandata chi l'avea tratta a sì infelice sorte, incominciò con umil voce a dire quel ch'io vo' all'altro canto differire.
1 Tutti gli altri animai che sono in terra, o che vivon quïeti e stanno in pace, o se vengono a rissa e si fan guerra, alla femina il maschio non la face: l'orsa con l'orso al bosco sicura erra, la leonessa appresso il leon giace; col lupo vive la lupa sicura, né la iuvenca ha del torel paura. 2 Ch'abominevol peste, che Megera è venuta a turbar gli umani petti? che si sente il marito e la mogliera sempre garrir d'ingiurïosi detti, stracciar la faccia e far livida e nera, bagnar di pianto i genïali letti; e non di pianto sol, ma alcuna volta di sangue gli ha bagnati l'ira stolta. 3 Parmi non sol gran mal, ma che l'uom faccia contra natura e sia di Dio ribello, che s'induce a percuotere la faccia di bella donna, o romperle un capello: ma chi le dà veneno, o chi le caccia l'alma del corpo con laccio o coltello, ch'uomo sia quel non crederò in eterno, ma in vista umana un spirto de l'inferno. 4 Cotali esser doveano i duoi ladroni che Rinaldo cacciò da la donzella, da lor condotta in quei scuri valloni perché non se n'udisse più novella. Io lasciai ch'ella render le cagioni s'apparechiava di sua sorte fella al paladin, che le fu buono amico: or, seguendo l'istoria, così dico. 5 La donna incominciò: - Tu intenderai la maggior crudeltade e la più espressa, ch'in Tebe o in Argo o ch'in Micene mai, o in loco più crudel fosse commessa. E se rotando il sole i chiari rai, qui men ch'all'altre regïon s'appressa, credo ch'a noi malvolentieri arrivi, perché veder sì crudel gente schivi. 6 Ch'agli nemici gli uomini sien crudi, in ogni età se n'è veduto esempio; ma dar la morte a chi procuri e studi il tuo ben sempre, è troppo ingiusto et empio. E acciò che meglio il vero io ti denudi, perché costor volessero far scempio degli anni verdi miei contra ragione, ti dirò da principio ogni cagione. 7 Voglio che sappi, signor mio, ch'essendo tenera ancora, alli servigi venni de la figlia del re, con cui crescendo, buon luogo in corte et onorato tenni. Crudele Amore, al mio stato invidendo, fe' che seguace, ahi lassa! gli divenni: fe' d'ogni cavallier, d'ogni donzello parermi il duca d'Albania più bello. 8 Perché egli mostrò amarmi più che molto, io ad amar lui con tutto il cor mi mossi. Ben s'ode il ragionar, si vede il volto, ma dentro il petto mal giudicar possi. Credendo, amando, non cessai che tolto l'ebbi nel letto, e non guardai ch'io fossi di tutte le real camere in quella che più secreta avea Ginevra bella; 9 dove tenea le sue cose più care, e dove le più volte ella dormia. Si può di quella in s'un verrone entrare, che fuor del muro al discoperto uscía. Io facea il mio amator quivi montare; e la scala di corde onde salia io stessa dal verron giú gli mandai qual volta meco aver lo desïai: 10 che tante volte ve lo fei venire, quanto Ginevra me ne diede l'agio, che solea mutar letto, or per fuggire il tempo ardente, or il brumal malvagio. Non fu veduto d'alcun mai salire; però che quella parte del palagio risponde verso alcune case rotte, dove nessun mai passa o giorno o notte. 11 Continuò per molti giorni e mesi tra noi secreto l'amoroso gioco: sempre crebbe l'amore; e sì m'accesi, che tutta dentro io mi sentia di foco: e cieca ne fui sì, ch'io non compresi ch'egli fingeva molto, e amava poco; ancor che li suo' inganni discoperti esser doveanmi a mille segni certi. 12 Dopo alcun dì si mostrò nuovo amante de la bella Ginevra. Io non so appunto s'allora cominciasse, o pur inante de l'amor mio, n'avesse il cor già punto. Vedi s'in me venuto era arrogante, s'imperio nel mio cor s'aveva assunto; che mi scoperse, e non ebbe rossore chiedermi aiuto in questo nuovo amore. 13 Ben mi dicea ch'uguale al mio non era, né vero amor quel ch'egli avea a costei; ma simulando esserne acceso, spera celebrarne i legitimi imenei. Dal re ottenerla fia cosa leggiera, qualor vi sia la volontà di lei; che di sangue e di stato in tutto il regno non era, dopo il re, di lu' il più degno. 14 Mi persuade, se per opra mia potesse al suo signor genero farsi (che veder posso che se n'alzeria a quanto presso al re possa uomo alzarsi), che me n'avria bon merto, e non saria mai tanto beneficio per scordarsi; e ch'alla moglie e ch'ad ogni altro inante mi porrebbe egli in sempre essermi amante. 15 Io, ch'era tutta a satisfargli intenta, né seppi o vòlsi contradirgli mai, e sol quei giorni io mi vidi contenta, ch'averlo compiaciuto mi trovai; piglio l'occasïon che s'appresenta di parlar d'esso e di lodarlo assai; et ogni industria adopro, ogni fatica, per far del mio amator Ginevra amica. 16 Feci col core e con l'effetto tutto quel che far si poteva, e sallo Idio; né con Ginevra mai potei far frutto, ch'io le ponessi in grazia il duca mio: e questo, che ad amar ella avea indutto tutto il pensiero e tutto il suo disio un gentil cavallier, bello e cortese, venuto in Scozia di lontan paese; 17 che con un suo fratel ben giovinetto venne d'Italia a stare in questa corte; si fe' ne l'arme poi tanto perfetto, che la Bretagna non avea il più forte. Il re l'amava, e ne mostrò l'effetto; che gli donò di non picciola sorte castella e ville e iuridizïoni, e lo fe' grande al par dei gran baroni. 18 Grato era al re, più grato era alla figlia quel cavallier chiamato Arïodante, per esser valoroso a maraviglia; ma più, ch'ella sapea che l'era amante. Né Vesuvio, né il monte di Siciglia, né Troia avampò mai di fiamme tante, quanto ella conoscea che per suo amore Arïodante ardea per tutto il core. 19 L'amar che dunque ella facea colui con cor sincero e con perfetta fede, fe' che pel duca male udita fui; né mai risposta da sperar mi diede: anzi quanto io pregava più per lui e gli studiava d'impetrar mercede, ella, biasmandol sempre e dispregiando, se gli venía più sempre inimicando. 20 Io confortai l'amator mio sovente, che volesse lasciar la vana impresa; né si sperasse mai volger la mente di costei, troppo ad altro amore intesa: e gli feci conoscer chiaramente, come era sì d'Arïodante accesa, che quanta acqua è nel mar, piccola dramma non spegneria de la sua immensa fiamma. 21 Questo da me più volte Polinesso (che così nome ha il duca) avendo udito, e ben compreso e visto per se stesso che molto male era il suo amor gradito; non pur di tanto amor si fu rimesso, ma di vedersi un altro preferito, come superbo, così mal sofferse, che tutto in ira e in odio si converse. 22 E tra Ginevra e l'amator suo pensa tanta discordia e tanta lite porre, e farvi inimicizia così intensa, che mai più non si possino comporre; e por Ginevra in ignominia immensa, donde non s'abbia o viva o morta a tôrre: né de l'iniquo suo disegno meco vòlse, o con altri, ragionar che seco. 23 Fatto il pensier: « Dalinda mia, mi dice (che così son nomata), saper déi, che come suol tornar da la radice arbor che tronchi e quattro volte e sei; così la pertinacia mia infelice, ben che sia tronca dai successi rei, di germogliar non resta; che venire pur vorria a fin di questo suo desire. 24 E non lo bramo tanto per diletto, quanto perché vorrei vincer la pruova; e non possendo farlo con effetto, s'io lo fo imaginando, anco mi giuova. Voglio, qual volta tu mi dài ricetto, quando allora Ginevra si ritruova nuda nel letto, che pigli ogni vesta ch'ella posta abbia, e tutta te ne vesta. 25 Come ella s'orna e come il crin dispone studia imitarla, e cerca il più che sai di parer dessa, e poi sopra il verrone a mandar già la scala ne verrai. Io verrò a te con imaginazione che quella sii, di cui tu i panni avrai: e così spero, me stesso ingannando, venir in breve il mio desir sciemando ». 26 Così disse egli. Io che divisa e sevra e lungi era da me, non posi mente che questo in che pregando egli persevra, era una fraude pur troppo evidente; e dal verron, coi panni di Ginevra, mandai la scala onde salí sovente; e non m'accorsi prima de l'inganno, che n'era già tutto accaduto il danno. 27 Fatto in quel tempo con Arïodante il duca avea queste parole o tali (che grandi amici erano stati inante che per Ginevra si fesson rivali): « Mi maraviglio (incominciò il mio amante) ch'avendoti io fra tutti li mie' uguali sempre avuto il rispetto e sempre amato, ch'io sia da te sì mal rimunerato. 28 Io son ben certo che comprendi e sai di Ginevra e di me l'antiquo amore; e per sposa legitima oggimai per impetrarla son dal mio signore. Perché mi turbi tu? perché pur vai senza frutto in costei ponendo il core? Io ben a te rispetto avrei, per Dio, s'io nel tuo grado fossi, e tu nel mio ». 29 « Et io (rispose Arïodante a lui) di te mi maraviglio maggiormente; che di lei prima inamorato fui, che tu l'avessi vista solamente: e so che sai quanto è l'amor tra nui, ch'esser non può, di quel che sia, più ardente; e sol d'essermi moglie intende e brama: e so che certo sai ch'ella non t'ama. 30 Perché non hai tu dunque a me il rispetto per l'amicizia nostra, che domande ch'a te aver debba, e ch'io t'avre' in effetto, se tu fossi con lei di me più grande? Né men di te per moglie averla aspetto, se ben tu sei più ricco in queste bande: io non son meno al re, che tu sia, grato, ma più di te da la sua figlia amato ». 31 « Oh (disse il duca a lui), grande è cotesto errore a che t'ha il folle amor condutto! Tu credi esser più amato; io credo questo medesmo: ma si può vedere al frutto. Tu fammi ciò c'hai seco, manifesto, et io il secreto mio t'aprirò tutto; e quel di noi che manco aver si veggia, ceda a chi vince, e d'altro si proveggia. 32 E sarò pronto, se tu vuoi ch'io giuri di non dir cosa mai che mi riveli: così voglio ch'ancor tu m'assicuri che quel ch'io ti dirò, sempre mi celi ». Venner dunque d'accordo alli scongiuri, e posero le man sugli Evangeli: e poi che di tacer fede si diero, Arïodante incominciò primiero. 33 E disse per lo giusto e per lo dritto come tra sé e Ginevra era la cosa; ch'ella gli avea giurato e a bocca e in scritto, che mai non saria ad altri, ch'a-llui, sposa; e se dal re le venía contraditto, gli promettea di sempre esser ritrosa da tutti gli altri maritaggi poi, e viver sola in tutti i giorni suoi: 34 e ch'esso era in speranza, pel valore ch'avea mostrato in arme a più d'un segno, et era per mostrare a laude, a onore, a beneficio del re e del suo regno, di crescer tanto in grazia al suo signore, che sarebbe da lui stimato degno che la figliuola sua per moglie avesse, poi che piacer a lei così intendesse. 35 Poi disse: « A questo termine son io, né credo già ch'alcun mi venga appresso: né cerco più di questo, né desio de l'amor d'essa aver segno più espresso; né più vorrei, se non quanto da Dio per connubio legitimo è concesso: e saria invano il domandar più inanzi; che di bontà so come ogn'altra avanzi ». 36 Poi ch'ebbe il vero Arïodante esposto de la mercé ch'aspetta a sua fatica, Polinesso, che già s'avea proposto di far Ginevra al suo amator nemica, cominciò: « Sei da me molto discosto, e vo' che di tua bocca anco tu 'l dica; e del mio ben veduta la radice, che confessi me solo esser felice. 37 Finge ella teco, né t'ama né prezza; che ti pasce di speme e di parole: oltra questo, il tuo amor sempre a sciochezza, quando meco ragiona, imputar suole. Io ben d'esserle caro altra certezza veduta n'ho, che di promesse e fole; e tel dirò sotto la fé in secreto, ben che farei più il debito a star cheto. 38 Non passa mese, che tre, quattro e sei e talor diece notti, io non mi truovi nudo abbracciato in quel piacer con lei, ch'all'amoroso ardor par che sì giovi: sì che tu puoi veder s'a' piacer miei son d'aguagliar le ciance che tu pruovi. Cedimi dunque, e d'altro ti provedi, poi che sì inferïor di me ti vedi ». 39 « Non ti vo' creder questo (gli rispose Arïodante), e certo so che menti; e composto fra te t'hai queste cose acciò che da l'impresa io mi spaventi: ma perché a lei son troppo ingiurïose, questo c'hai detto sostener convienti; che non bugiardo sol, ma voglio ancora che tu sei traditor mostrarti or ora ». 40 Soggiunse il duca: « Non sarebbe onesto che noi volessen la battaglia tôrre di quel che t'offerisco manifesto, quando ti piaccia, inanzi agli occhi porre ». Resta smarrito Arïodante a questo, e per l'ossa un tremor freddo gli scorre; e se creduto ben gli avesse a pieno, venía sua vita allora allora meno. 41 Con cor trafitto e con pallida faccia, e con voce tremante e bocca amara rispose: « Quando sia che tu mi faccia veder quest'aventura tua sì rara, prometto di costei lasciar la traccia, a te sì liberale, a me sì avara: ma ch'io tel voglia creder, non far stima, s'io non lo veggio con questi occhi prima ». 42 « Quando ne sarà il tempo, avisarotti », suggiunse Polinesso, e dipartisse. Non credo che passâr più di due notti, ch'ordine fu che 'l duca a me venisse. Per scoccar dunque i lacci che condotti avea sì cheti, andò al rivale, e disse che s'ascondesse la notte seguente tra quelle case ove non sta mai gente: 43 e dimostrògli un luogo a dirimpetto di quel verrone ove solea salire. Arïodante avea preso sospetto che lo cercasse far quivi venire, come in un luogo dove avesse eletto di por gli aguati, e farvelo morire, sotto questa finzion, che vuol mostrargli quel di Ginevra, ch'impossibil pargli. 44 Di volervi venir prese partito, ma in guisa che di lui non sia men forte; perché accadendo che fosse assalito, si truovi sì, che non tema di morte. Un suo fratello avea saggio et ardito, il più famoso in arme de la corte, detto Lurcanio; e avea più cor con esso, che se dieci altri avesse avuto appresso. 45 Seco chiamollo, e vòlse che prendesse l'arme; e la notte lo menò con lui: non che 'l secreto suo già gli dicesse; né l'avria detto ad esso, né ad altrui. Da sé lontano un trar di pietra il messe: « Se mi senti chiamar, vien (disse) a nui; ma se non senti, prima ch'io ti chiami, non ti partir di qui, frate, se m'ami ». 46 « Va pur, non dubitar », disse il fratello: e così venne Arïodante cheto, e si celò nel solitario ostello ch'era d'incontro al mio verron secreto. Vien d'altra parte il fraudolente e fello, che d'infamar Ginevra era sì lieto; e fa il segno, tra noi solito inante, a me che de l'inganno era ignorante. 47 Et io con veste candida, e fregiata per mezzo a liste d'oro e d'ogn'intorno, e con rete pur d'or, tutta adombrata di bei fiocchi vermigli al capo intorno (foggia che sol fu da Ginevra usata, non d'alcun'altra), udito il segno, torno sopra il verron, ch'in modo era locato, che mi scopria dinanzi e d'ogni lato. 48 Lurcanio in questo mezzo dubitando che 'l fratello a pericolo non vada, o come è pur commun disio, cercando di spïar sempre ciò che ad altri accada; l'era pian pian venuto seguitando, tenendo l'ombre e la più oscura strada: e a men di dieci passi a lui discosto, nel medesimo ostel s'era riposto. 49 Non sappiendo io di questo cosa alcuna, venni al verron ne l'abito c'ho detto, sì come già venuta era più d'una e più di due fïate a buono effetto. Le veste si vedean chiare alla luna; né dissimile essendo anch'io d'aspetto né di persona da Ginevra molto, fece parere un per un altro il volto: 50 e tanto più, ch'era gran spazio in mezzo fra dove io venni e quelle inculte case, ai dui fratelli, che stavano al rezzo, il duca agevolmente persuase quel ch'era falso. Or pensa in che ribrezzo Arïodante, in che dolor rimase. Vien Polinesso, e alla scala s'appoggia che giú manda'gli, e monta in su la loggia. 51 A prima giunta io gli getto le braccia al collo, ch'io non penso esser veduta; lo bacio in bocca e per tutta la faccia, come far soglio ad ogni sua venuta. Egli più de l'usato si procaccia d'accarezzarmi, e la sua fraude aiuta. Quell'altro al rio spettacolo condutto, misero sta lontano, e vede il tutto. 52 Cade in tanto dolor, che si dispone allora allora di voler morire: e il pome de la spada in terra pone; che su la punta si volea ferire. Lurcanio che con grande ammirazione avea veduto il duca a me salire, ma non già conosciuto chi si fosse, scorgendo l'atto del fratel, si mosse; 53 e gli vietò che con la propria mano non si passasse in quel furore il petto. S'era più tardo o poco più lontano, non giugnea a tempo, e non faceva effetto. « Ah misero fratel, fratello insano (gridò), perc'hai perduto l'intelletto, ch'una femina a morte trar ti debbia? Ch'ir possan tutte come al vento nebbia! 54 Cerca far morir lei, che morir merta, e serva a più tuo onor tu la tua morte. Fu d'amar lei, quando non t'era aperta la fraude sua: or è da odiar ben forte, poi che con gli occhi tuoi tu vedi certa, quanto sia meretrice, e di che sorte. Serba quest'arme che volti in te stesso, a far dinanzi al re tal fallo espresso ». 55 Quando si vede Arïodante giunto sopra il fratel, la dura impresa lascia; ma la sua intenzïon da quel ch'assunto avea già di morir, poco s'accascia. Quindi si leva, e porta non che punto, ma trapassato il cor d'estrema ambascia; pur finge col fratel, che quel furore non abbia più, che dianzi avea nel core. 56 Il seguente matin, senza far motto al suo fratello o ad altri, in via si messe da la mortal disperazion condotto; né di lui per più dì fu chi sapesse. Fuor che 'l duca e il fratello, ogn'altro indòtto era chi mosso al dipartir l'avesse. Ne la casa del re di lui diversi ragionamenti e in tutta Scozia fêrsi. 57 In capo d'otto o di più giorni in corte venne inanzi a Ginevra un vïandante, e novelle arrecò di mala sorte: che s'era in mar summerso Arïodante di volontaria sua libera morte, non per colpa di borea o di levante. D'un sasso che sul mar sporgea molt'alto avea col capo in giú preso un gran salto. 58 Colui dicea: « Pria che venisse a questo, a me che a caso riscontrò per via, disse: "Vien meco, acciò che manifesto per te a Ginevra il mio successo sia; e dille poi, che la cagion del resto che tu vedrai di me, ch'or ora fia, è stato sol perc'ho troppo veduto: felice, se senza occhi io fussi suto!" 59 Eramo a caso sopra Capobasso, che verso Irlanda alquanto sporge in mare. Così dicendo, di cima d'un sasso lo vidi a capo in giú sott'acqua andare. Io lo lasciai nel mare, et a gran passo ti son venuto la nuova a portare ». Ginevra, sbigottita e in viso smorta, rimase a quello annunzio mezza morta. 60 Oh Dio, che disse e fece, poi che sola si ritrovò nel suo fidato letto! Percosse il seno, e si stracciò la stola, e fece all'aureo crin danno e dispetto, ripetendo sovente la parola ch'Arïodante avea in estremo detto: che la cagion del suo caso empio e tristo tutta venía per aver troppo visto. 61 Il rumor scorse di costui per tutto, che per dolor s'avea dato la morte. Di questo il re non tenne il viso asciutto, né cavallier né donna de la corte. Di tutti il suo fratel mostrò più lutto; e si sommerse nel dolor sì forte, ch'ad essempio di lui, contra se stesso voltò quasi la man per irgli appresso. 62 E molte volte ripetendo seco, che fu Ginevra che 'l fratel gli estinse, e che non fu se non quell'atto bieco che di lei vide, ch'a morir lo spinse; di voler vendicarsene sì cieco venne, e sì l'ira e sì il dolor lo vinse, che di perder la grazia vilipese, et aver l'odio del re e del paese. 63 E inanzi al re, quando era più di gente la sala piena, se ne venne, e disse: « Sappi, signor, che di levar la mente al mio fratel, sì ch'a morir ne gisse, stata è la figlia tua sola nocente; ch'a lui tanto dolor l'alma trafisse d'aver veduta lei poco pudica, che più che vita ebbe la morte amica. 64 Erane amante, e perché le sue voglie disoneste non fur, nol vo' coprire: per virtù meritarla aver per moglie da te sperava e per fedel servire; ma mentre il lasso ad odorar le foglie stava lontano, altrui vide salire, salir su l'arbor riserbato, e tutto essergli tolto il disïato frutto ». 65 E seguitò, come egli avea veduto venir Ginevra sul verrone, e come mandò la scala, onde era a lei venuto un drudo suo, di chi egli non sa il nome, che s'avea, per non esser conosciuto, cambiati i panni e nascose le chiome. Soggiunse che con l'arme egli volea provar tutto esser ver ciò che dicea. 66 Tu puoi pensar se 'l padre addolorato riman, quando accusar sente la figlia; sì perché ode di lei quel che pensato mai non avrebbe, e n'ha gran maraviglia; sì perché sa che fia necessitato (se la difesa alcun guerrier non piglia, il qual Lurcanio possa far mentire) di condannarla e di farla morire. 67 Io non credo, signor, che ti sia nuova la legge nostra che condanna a morte ogni donna e donzella, che si pruova di sé far copia altrui ch'al suo consorte. Morta ne vien, s'in un mese non truova in sua difesa un cavallier sì forte, che contra il falso accusator sostegna che sia innocente e di morire indegna. 68 Ha fatto il re bandir, per liberarla (che pur gli par ch'a torto sia accusata), che vuol per moglie e con gran dote darla a chi torrà l'infamia che l'è data. Chi per lei comparisca non si parla guerriero ancora, anzi l'un l'altro guata; che quel Lurcanio in arme è così fiero, che par che di lui tema ogni guerriero. 69 Atteso ha l'empia sorte, che Zerbino, fratel di lei, nel regno non si truove; che va già molti mesi peregrino, mostrando di sé in arme inclite pruove: che quando si trovasse più vicino quel cavallier gagliardo, o in luogo dove potesse avere a tempo la novella, non mancheria d'aiuto alla sorella. 70 Il re, ch'intanto cerca di sapere per altra pruova, che per arme, ancora, se sono queste accuse o false o vere, se dritto o torto è che sua figlia mora; ha fatto prender certe cameriere che lo dovrian saper, se vero fôra: ond'io previdi, che se presa era io, troppo periglio era del duca e mio. 71 E la notte medesima mi trassi fuor de la corte, e al duca mi condussi; e gli feci veder quanto importassi al capo d'amendua, se presa io fussi. Lodommi, e disse ch'io non dubitassi: a' suoi conforti poi venir m'indussi ad una sua fortezza ch'è qui presso, in compagnia di dui che mi diede esso. 72 Hai sentito, signor, con quanti effetti de l'amor mio fei Polinesso certo; e s'era debitor per tai rispetti d'avermi cara o no, tu 'l vedi aperto. Or senti il guidardon che io ricevetti, vedi la gran mercé del mio gran merto; vedi se deve, per amare assai, donna sperar d'essere amata mai: 73 che questo ingrato, perfido e crudele, de la mia fede ha preso dubbio al fine: venuto è in sospizion ch'io non rivele a lungo andar le fraudi sue volpine. Ha finto, acciò che m'allontane e cele fin che l'ira e il furor del re decline, voler mandarmi ad un suo luogo forte; e mi volea mandar dritto alla morte: 74 che di secreto ha commesso alla guida, che come m'abbia in queste selve tratta, per degno premio di mia fé m'uccida. Così l'intenzïon gli venía fatta, se tu non eri appresso alle mia grida. Ve' come Amor ben chi lui segue, tratta! - Così narrò Dalinda al paladino seguendo tuttavolta il lor camino. 75 A cui fu sopra ogn'aventura, grata questa, d'aver trovata la donzella che gli avea tutta l'istoria narrata de l'innocenzia di Ginevra bella. E se sperato avea, quando accusata ancor fosse a ragion, d'aiutar quella, via con maggior baldanza or viene in prova, poi che evidente la calunnia truova. 76 E verso la città di Santo Andrea, dove era il re con tutta la famiglia, e la battaglia singular dovea esser de la querela de la figlia, andò Rinaldo quanto andar potea, fin che vicino giunse a poche miglia; alla città vicino giunse, dove trovò un scudier ch'avea più fresche nuove: 77 ch'un cavallier istrano era venuto, ch'a difender Ginevra s'avea tolto, con non usate insegne, e sconosciuto, però che sempre ascoso andava molto; e che dopo che v'era, ancor veduto non gli avea alcuno al discoperto il volto; e che 'l proprio scudier che gli servia dicea giurando: - Io non so dir chi sia. - 78 Non cavalcaro molto, ch'alle mura si trovâr de la terra e in su la porta. Dalinda andar più inanzi avea paura; pur va, poi che Rinaldo la conforta. La porta è chiusa, et a chi n'avea cura Rinaldo domandò: - Questo ch'importa? - E fugli detto: perché 'l popul tutto a veder la battaglia era ridutto, 79 che tra Lurcanio e un cavallier istrano si fa ne l'altro capo de la terra, ove era un prato spazïoso e piano; e che già cominciata hanno la guerra. Aperto fu al signor di Montealbano, e tosto il portinar dietro gli serra. Per la vòta città Rinaldo passa; ma la donzella al primo albergo lassa: 80 e dice che sicura ivi si stia fin che ritorni a-llei, che sarà tosto; e verso il campo poi ratto s'invia, dove li dui guerrier dato e risposto molto s'aveano e davan tuttavia. Stava Lurcanio di mal cor disposto contra Ginevra; e l'altro in sua difesa ben sostenea la favorita impresa. 81 Sei cavallier con lor ne lo steccato erano a piedi, armati di corazza, col duca d'Albania, ch'era montato s'un possente corsier di buona razza. Come a gran contestabile, a lui dato la guardia fu del campo e de la piazza: e di veder Ginevra in gran periglio avea il cor lieto, et orgoglioso il ciglio. 82 Rinaldo se ne va tra gente e gente; fassi far largo il buon destrier Baiardo: chi la tempesta del suo venir sente, a dargli via non par zoppo né tardo. Rinaldo vi compar sopra eminente, e ben rassembra il fior d'ogni gagliardo; poi si ferma all'incontro ove il re siede: ognun s'accosta per udir che chiede. 83 Rinaldo disse al re: - Magno signore, non lasciar la battaglia più seguire; perché di questi dua qualunche more, sappi ch'a torto tu 'l lasci morire. L'un crede aver ragione, et è in errore, e dice il falso, e non sa di mentire; ma quel medesmo error che 'l suo germano a morir trasse, a lui pon l'arme in mano. 84 L'altro non sa se s'abbia dritto o torto; ma sol per gentilezza e per bontade in pericol si è posto d'esser morto, per non lasciar morir tanta beltade. Io la salute all'innocenza porto; porto il contrario a chi usa falsitade. Ma, per Dio, questa pugna prima parti, poi mi dà audienza a quel ch'io vo' narrarti. - 85 Fu da l'autorità d'un uom sì degno, come Rinaldo gli parea al sembiante, sì mosso il re, che disse e fece segno che non andasse più la pugna inante; al quale insieme et ai baron del regno e ai cavallieri e all'altre turbe tante Rinaldo fe' l'inganno tutto espresso, ch'avea ordito a Ginevra Polinesso. 86 Indi s'offerse di voler provare coll'arme, ch'era ver quel ch'avea detto. Chiamasi Polinesso; et ei compare, ma tutto conturbato ne l'aspetto: pur con audacia cominciò a negare. Disse Rinaldo: - Or noi vedrem l'effetto. - L'uno e l'altro era armato, il campo fatto, sì che senza indugiar vengono al fatto. 87 Oh quanto ha il re, quanto ha il suo popul caro che Ginevra aprovar s'abbi innocente! Tutti han speranza che Dio mostri chiaro ch'impudica era detta ingiustamente. Crudel superbo e riputato avaro fu Polinesso, iniquo e fraudolente; sì che ad alcun miracolo non fia che l'inganno da lui tramato sia. 88 Sta Polinesso con la faccia mesta, col cor tremante e con pallida guancia; e al terzo suon mette la lancia in resta. Così Rinaldo inverso lui si lancia, che disïoso di finir la festa, mira a passargli il petto con la lancia: né discorde al disir seguí l'effetto; che mezza l'asta gli cacciò nel petto. 89 Fisso nel tronco lo transporta in terra, lontan dal suo destrier più di sei braccia. Rinaldo smonta subito, e gli afferra l'elmo, pria che si levi, e gli lo slaccia: ma quel, che non può far più troppa guerra, gli domanda mercé con umil faccia, e gli confessa, udendo il re e la corte, la fraude sua che l'ha condutto a morte. 90 Non finí il tutto, e in mezzo la parola e la voce e la vita l'abandona. Il re, che liberata la figliuola vede da morte e da fama non buona, più s'allegra, gioisce e raconsola, che, s'avendo perduta la corona, ripor se la vedesse allora allora; sì che Rinaldo unicamente onora. 91 E poi ch'al trar dell'elmo conosciuto l'ebbe, perch'altre volte l'avea visto, levò le mani a Dio, che d'un aiuto come era quel, gli avea sì ben provisto. Quell'altro cavallier che, sconosciuto, soccorso avea Ginevra al caso tristo, et armato per lei s'era condutto, stato da parte era a vedere il tutto. 92 Dal re pregato fu di dire il nome, o di lasciarsi almen veder scoperto, acciò da lui fosse premiato, come di sua buona intenzion chiedeva il merto. Quel, dopo lunghi preghi, da le chiome si levò l'elmo, e fe' palese e certo quel che ne l'altro canto ho da seguire, se grata vi sarà l'istoria udire.
1 Miser chi mal oprando si confida ch'ognor star debbia il maleficio occulto; che quando ogn'altro taccia, intorno grida l'aria e la terra istessa in ch'è sepulto: e Dio fa spesso che 'l peccato guida il peccator, poi ch'alcun dì gli ha indulto, che sé medesmo, senza altrui richiesta, innavedutamente manifesta. 2 Avea creduto il miser Polinesso totalmente il delitto suo coprire, Dalinda consapevole d'appresso levandosi, che sola il potea dire: e aggiungendo il secondo al primo eccesso, affrettò il mal che potea differire, e potea differire e schivar forse; ma se stesso spronando, a morir corse: 3 e perdé amici a un tempo e vita e stato, e onor, che fu molto più grave danno. Dissi di sopra, che fu assai pregato il cavallier, ch'ancor chi sia non sanno. Al fin si trasse l'elmo, e 'l viso amato scoperse, che più volte veduto hanno: e dimostrò come era Arïodante, per tutta Scozia lacrimato inante; 4 Arïodante, che Ginevra pianto avea per morto, e 'l fratel pianto avea, il re, la corte, il popul tutto quanto: di tal bontà, di tal valor splendea. Adunque il peregrin mentir di quanto dianzi di lui narrò, quivi apparea; e fu pur ver che dal sasso marino gittarsi in mar lo vide a capo chino. 5 Ma (come aviene a un disperato spesso, che da lontan brama e disia la morte, e l'odia poi che se la vede appresso, tanto gli pare il passo acerbo e forte) Arïodante, poi ch'in mar fu messo, si pentí di morire; e come forte e come destro e più d'ogn'altro ardito, si messe a nuoto e ritornossi al lito; 6 e dispregiando e nominando folle il desir ch'ebbe di lasciar la vita, si messe a caminar bagnato e molle, e capitò all'ostel d'un eremita. Quivi secretamente indugiar volle tanto, che la novella avesse udita, se del caso Ginevra s'allegrasse, o pur mesta e pietosa ne restasse. 7 Intese prima, che per gran dolore ella era stata a rischio di morire (la fama andò di questo in modo fuore, che ne fu in tutta l'isola che dire): contrario effetto a quel che per errore credea aver visto con suo gran martíre. Intese poi, come Lurcanio avea fatta Ginevra appresso il padre rea. 8 Contra il fratel d'ira minor non arse, che per Ginevra già d'amor ardesse; che troppo empio e crudele atto gli parse, ancora che per lui fatto l'avesse. Sentendo poi, che per lei non comparse cavallier che difender la volesse (che Lurcanio sì forte era e gagliardo, ch'ognun d'andargli contra avea riguardo; 9 e chi n'avea notizia, il riputava tanto discreto, e sì saggio et accorto, che se non fosse ver quel che narrava, non si porrebbe a rischio d'esser morto; per questo la più parte dubitava di non pigliar questa difesa a torto); Arïodante, dopo gran discorsi, pensò all'accusa del fratello opporsi. 10 - Ah lasso! io non potrei (seco dicea) sentir per mia cagion perir costei: troppo mia morte fôra acerba e rea, se inanzi a me morir vedessi lei. Ella è pur la mia donna e la mia dea, questa è la luce pur degli occhi miei: convien ch'a dritto e a torto, per suo scampo pigli l'impresa, e resti morto in campo. 11 So ch'io m'appiglio al torto; e al torto sia: e ne morrò; né questo mi sconforta, se non ch'io so che per la morte mia sì bella donna ha da restar poi morta. Un sol conforto nel morir mi fia, che, se 'l suo Polinesso amor le porta, chiaramente veder avrà potuto, che non s'è mosso ancor per darle aiuto; 12 e me, che tanto espressamente ha offeso, vedrà, per lei salvare, a morir giunto. Di mio fratello insieme, il quale acceso tanto fuoco ha, vendicherommi a un punto; ch'io lo farò doler, poi che compreso il fine avrà del suo crudele assunto: creduto vendicar avrà il germano, e gli avrà dato morte di sua mano. - 13 Concluso ch'ebbe questo nel pensiero, nuove arme ritrovò, nuovo cavallo; e sopraveste nere, e scudo nero portò, fregiato a color verdegiallo. Per aventura si trovò un scudiero ignoto in quel paese, e menato hallo; e sconosciuto (come ho già narrato) s'appresentò contra il fratello armato. 14 Narrato v'ho come il fatto successe, come fu conosciuto Arïodante. Non minor gaudio n'ebbe il re, ch'avesse de la figliuola liberata inante. Seco pensò che mai non si potesse trovar un più fedele e vero amante; che dopo tanta ingiuria, la difesa di lei, contra il fratel proprio, avea presa. 15 E per sua inclinazion (ch'assai l'amava) e per li preghi di tutta la corte, e di Rinaldo, che più d'altri instava, de la bella figliuola il fa consorte. La duchea d'Albania ch'al re tornava dopo che Polinesso ebbe la morte, in miglior tempo discader non puote, poi che la dona alla sua figlia in dote. 16 Rinaldo per Dalinda impetrò grazia, che se n'andò di tanto errore esente; la qual per voto, e perché molto sazia era del mondo, a Dio volse la mente: monaca s'andò a render fin in Dazia, e si levò di Scozia immantinente. Ma tempo è omai di ritrovar Ruggiero, che scorre il ciel su l'animal leggiero. 17 Ben che Ruggier sia d'animo constante, né cangiato abbia il solito colore, io non gli voglio creder che tremante non abbia dentro più che foglia il core. Lasciato avea di gran spazio distante tutta l'Europa, et era uscito fuore per molto spazio il segno che prescritto avea già a' naviganti Ercole invitto. 18 Quello ippogrifo, grande e strano augello, lo porta via con tal prestezza d'ale, che lasceria di lungo tratto quello celer ministro del fulmineo strale. Non va per l'aria altro animal sì snello, che di velocità gli fosse uguale: credo ch'a pena il tuono e la saetta venga in terra dal ciel con maggior fretta. 19 Poi che l'augel trascorso ebbe gran spazio per linea dritta e senza mai piegarsi, con larghe ruote, omai de l'aria sazio, cominciò sopra una isola a calarsi; pari a quella ove, dopo lungo strazio far del suo amante e lungo a lui celarsi, la vergine Aretusa passò invano di sotto il mar per camin cieco e strano. 20 Non vide né 'l più bel né 'l più giocondo da tutta l'aria ove le penne stese; né se tutto cercato avesse il mondo, vedria di questo il più gentil paese, ove, dopo un girarsi di gran tondo, con Ruggier seco il grande augel discese: culte pianure e delicati colli, chiare acque, ombrose ripe e prati molli. 21 Vaghi boschetti di soavi allori, di palme e d'amenissime mortelle, cedri et aranci ch'avean frutti e fiori contesti in varie forme e tutte belle, facean riparo ai fervidi calori de' giorni estivi con lor spesse ombrelle; e tra quei rami con sicuri voli cantando se ne gíano i rosignuoli. 22 Tra le purpuree rose e i bianchi gigli, che tiepida aura freschi ognora serba, sicuri si vedean lepri e conigli, e cervi con la fronte alta e superba, senza temer ch'alcun gli uccida o pigli, pascano o stiansi rominando l'erba; saltano i daini e i capri isnelli e destri, che sono in copia in quei luoghi campestri. 23 Come sì presso è l'ippogrifo a terra, ch'esser ne può men periglioso il salto, Ruggier con fretta de l'arcion si sferra, e si ritruova in su l'erboso smalto; tuttavia in man le redine si serra, che non vuol che 'l destrier più vada in alto: poi lo lega nel margine marino a un verde mirto in mezzo un lauro e un pino. 24 E quivi appresso, ove surgea una fonte cinta di cedri e di feconde palme, pose lo scudo, e l'elmo da la fronte si trasse, e disarmossi ambe le palme; et ora alla marina et ora al monte volgea la faccia all'aure fresche et alme, che l'alte cime con mormorii lieti fan tremolar dei faggi e degli abeti. 25 Bagna talor ne la chiara onda e fresca l'asciutte labra, e con le man diguazza, acciò che de le vene il calor esca che gli ha acceso il portar de la corazza. Né maraviglia è già ch'ella gl'incresca; che non è stato un far vedersi in piazza: ma senza mai posar, d'arme guernito, tremila miglia ognor correndo era ito. 26 Quivi stando, il destrier ch'avea lasciato tra le più dense frasche alla fresca ombra, per fuggir si rivolta, spaventato di non so che, che dentro al bosco adombra: e fa crollar sì il mirto ove è legato, che de le frondi intorno il piè gli ingombra: crollar fa il mirto, e fa cader la foglia; né succede però che se ne scioglia. 27 Come ceppo talor, che le medolle rare e vòte abbia, e posto al fuoco sia, poi che per gran calor quell'aria molle resta consunta ch'in mezzo l'empía, dentro risuona e con strepito bolle tanto che quel furor truovi la via; così murmura e stride e si coruccia quel mirto offeso, e al fine apre la buccia. 28 Onde con mesta e flebil voce uscío espedita e chiarissima favella, e disse: - Se tu sei cortese e pio, come dimostri alla presenza bella, lieva questo animal da l'arbor mio: basti che 'l mio mal proprio mi flagella, senza altra pena, senza altro dolore ch'a tormentarmi ancor venga di fuore. - 29 Al primo suon di quella voce torse Ruggiero il viso, e subito levosse; e poi ch'uscir da l'arbore s'accorse, stupefatto restò più che mai fosse. A levarne il destrier subito corse; e con le guancie di vergogna rosse: - Qual che tu sii, perdonami (dicea), o spirto umano, o boschereccia dea. 30 Il non aver saputo che s'asconda sotto ruvida scorza umano spirto, m'ha lasciato turbar la bella fronda e far ingiuria al tuo vivace mirto: ma non restar però, che non risponda chi tu ti sia, ch'in corpo orrido et irto, con voce e razionale anima vivi; se da grandine il ciel sempre ti schivi. 31 E s'ora o mai potrò questo dispetto con alcun beneficio compensarte, per quella bella donna ti prometto, quella che di me tien la miglior parte, ch'io farò con parole e con effetto, ch'avrai giusta cagion di me lodarte. - Come Ruggiero al suo parlar fin diede, tremò quel mirto da la cima al piede. 32 Poi si vide sudar su per la scorza, come legno dal bosco allora tratto, che del fuoco venir sente la forza, poscia ch'invano ogni ripar gli ha fatto; e cominciò: - Tua cortesia mi sforza a discoprirti in un medesmo tratto ch'io fossi prima, e chi converso m'aggia in questo mirto in su l'amena spiaggia. 33 Il nome mio fu Astolfo; e paladino era di Francia, assai temuto in guerra: d'Orlando e di Rinaldo era cugino, la cui fama alcun termine non serra; e si spettava a me tutto il domíno, dopo il mio padre Oton, de l'Inghilterra. Leggiadro e bel fui sì, che di me accesi più d'una donna: e al fin me solo offesi. 34 Ritornando io da quelle isole estreme che da Levante il mar Indico lava, dove Rinaldo et alcun'altri insieme meco fur chiusi in parte oscura e cava, et onde liberate le supreme forze n'avean del cavallier di Brava; vêr ponente io venía lungo la sabbia che del settentrïon sente la rabbia. 35 E come la via nostra e il duro e fello destin ci trasse, uscimmo una matina sopra la bella spiaggia, ove un castello siede sul mar, de la possente Alcina. Trovammo lei ch'uscita era di quello, e stava sola in ripa alla marina; e senza rete e senza amo traea tutti li pesci al lito, che volea. 36 Veloci vi correvano i delfini, vi venía a bocca aperta il grosso tonno; i capidogli coi vécchi marini vengon turbati dal loro pigro sonno; muli, salpe, salmoni e coracini nuotano a schiere in più fretta che ponno; pistrici, fisiteri, orche e balene escon del mar con monstruose schiene. 37 Veggiamo una balena, la maggiore che mai per tutto il mar veduta fosse: undeci passi e più dimostra fuore de l'onde salse le spallaccie grosse. Caschiamo tutti insieme in uno errore, perch'era ferma e che mai non si scosse: ch'ella sia una isoletta ci credemo, così distante ha l'un da l'altro estremo. 38 Alcina i pesci uscir facea de l' acque con semplici parole e puri incanti. Con la fata Morgana Alcina nacque, io non so dir s'a un parto o dopo o inanti. Guardommi Alcina; e subito le piacque l'aspetto mio, come mostrò ai sembianti: e pensò con astuzia e con ingegno tormi ai compagni; e riuscí il disegno. 39 Ci venne incontra con allegra faccia con modi grazïosi e riverenti, e disse: « Cavallier, quando vi piaccia far oggi meco i vostri alloggiamenti, io vi farò veder, ne la mia caccia, di tutti i pesci sorti differenti: chi scaglioso, chi molle e chi col pelo; e saran più che non ha stelle il cielo. 40 E volendo vedere una sirena che col suo dolce canto acheta il mare, passian di qui fin su quell'altra arena, dove a quest'ora suol sempre tornare ». E ci mostrò quella maggior balena, che, come io dissi, una isoletta pare. Io, che sempre fui troppo (e me n'incresce) volonteroso, andai sopra quel pesce. 41 Rinaldo m'accennava, e similmente Dudon, ch'io non v'andassi: e poco valse. La fata Alcina con faccia ridente, lasciando gli altri dua, dietro mi salse. La balena, all'ufficio diligente, nuotando se n'andò per l'onde salse. Di mia sciocchezza tosto fui pentito; ma troppo mi trovai lungi dal lito. 42 Rinaldo si cacciò ne l'acqua a nuoto per aiutarmi, e quasi si sommerse, perché levossi un furïoso Noto che d'ombra il cielo e 'l pelago coperse. Quel che di lui seguí poi, non m'è noto. Alcina a confortarmi si converse; e quel dì tutto e la notte che venne, sopra quel mostro in mezzo il mar mi tenne. 43 Fin che venimmo a questa isola bella, di cui gran parte Alcina ne possiede, e l'ha usurpata ad una sua sorella che 'l padre già lasciò del tutto erede, perché sola legitima avea quella; e (come alcun notizia me ne diede, che pienamente instrutto era di questo) sono quest'altre due nate d'incesto. 44 E come sono inique e scelerate e piene d'ogni vizio infame e brutto così quella, vivendo in castitate, posto ha ne le virtuti il suo cor tutto. Contra lei queste due son congiurate; e già più d'uno esercito hanno instrutto per cacciarla de l'isola, e in più volte più di cento castella l'hanno tolte: 45 né ci terrebbe ormai spanna di terra colei, che Logistilla è nominata, se non che quinci un golfo il passo serra, e quindi una montagna inabitata, sì come tien la Scozia e l'Inghilterra il monte e la riviera, separata; né però Alcina né Morgana resta che non le voglia tor ciò che le resta. 46 Perché di vizii è questa coppia rea, odia colei, perché è pudica e santa. Ma, per tornare a quel ch'io ti dicea, e seguir poi com'io divenni pianta, Alcina in gran delizie mi tenea, e del mio amore ardeva tutta quanta; né minor fiamma nel mio core accese il veder lei sì bella e sì cortese. 47 Io mi godea le delicate membra: pareami aver qui tutto il ben raccolto che fra i mortali in più parti si smembra, a chi più et a chi meno e a nessun molto; né di Francia né d'altro mi rimembra: stavomi sempre a contemplar quel volto: ogni pensiero, ogni mio bel disegno in lei finia, né passava oltre il segno. 48 Io da lei altretanto era o più amato: Alcina più non si curava d'altri; ella ogn'altro suo amante avea lasciato, ch'inanzi a me ben ce ne fur degli altri. Me consiglier, me avea dì e notte a lato, e me fe' quel che commandava agli altri: a me credeva, a me si riportava; né notte o dì con altri mai parlava. 49 Deh! perché vo le mie piaghe toccando, senza speranza poi di medicina? Perché l'avuto ben vo rimembrando, quando io patisco estrema disciplina? Quando credea d'esser felice, e quando credea ch'amar più mi dovesse Alcina, il cor che m'avea dato mi ritolse, e ad altro nuovo amor tutta si volse. 50 Conobbi tardi il suo mobil ingegno, usato amare e disamare a un punto. Non era stato oltre a duo mesi in regno, ch'un novo amante al loco mio fu assunto. Da sé cacciommi la fata con sdegno, e da la grazia sua m'ebbe disgiunto: e seppi poi, che tratti a simil porto avea mill'altri amanti, e tutti a torto. 51 E perché essi non vadano pel mondo di lei narrando la vita lasciva, chi qua chi là, per lo terren fecondo li muta, altri in abete, altri in oliva, altri in palma, altri in cetro, altri secondo che vedi me su questa verde riva; altri in liquido fonte, alcuni in fiera, come più agrada a quella fata altiera. 52 Or tu che sei per non usata via, signor, venuto all'isola fatale, acciò ch'alcuno amante per te sia converso in pietra o in onda, o fatto tale; avrai d'Alcina scettro e signoria, e sarai lieto sopra ogni mortale: ma certo sii di giunger tosto al passo d'entrar o in fiera o in fonte o in legno o in sasso. 53 Io te n'ho dato volentieri aviso; non ch'io mi creda che debbia giovarte: pur meglio fia che non vadi improviso, e de' costumi suoi tu sappia parte; che forse, come è differente il viso, è differente ancor l'ingegno e l'arte. Tu saprai forse riparare al danno, quel che saputo mill'altri non hanno. - 54 Ruggier, che conosciuto avea per fama ch'Astolfo alla sua donna cugin era, si dolse assai che in steril pianta e grama mutato avesse la sembianza vera; e per amor di quella che tanto ama (pur che saputo avesse in che maniera) gli avria fatto servizio: ma aiutarlo in altro non potea, ch'in confortarlo. 55 Lo fe' al meglio che seppe; e domandolli poi se via c'era, ch'al regno guidassi di Logistilla, o per piano o per colli, sì che per quel d'Alcina non andassi. Che ben ve n'era un'altra, ritornolli l'arbore a dir, ma piena d'aspri sassi, s'andando un poco inanzi alla man destra salisse il poggio invêr la cima alpestra. 56 Ma che non pensi già che seguir possa il suo camin per quella strada troppo: incontro avrà di gente ardita, grossa e fiera compagnia, con duro intoppo. Alcina ve li tien per muro e fossa a chi volesse uscir fuor del suo groppo. Ruggier quel mirto ringraziò del tutto, poi da lui si partí dotto et instrutto. 57 Venne al cavallo, e lo disciolse e prese per le redine, e dietro se lo trasse; né, come fece prima, più l'ascese, perché mal grado suo non lo portasse. Seco pensava come nel paese di Logistilla a salvamento andasse. Era disposto e fermo usar ogni opra, che non gli avesse imperio Alcina sopra. 58 Pensò di rimontar sul suo cavallo, e per l'aria spronarlo a nuovo corso: ma dubitò di far poi maggior fallo; che troppo mal quel gli ubidiva al morso. - Io passerò per forza, s'io non fallo, - dicea tra sé, ma vano era il discorso. Non fu duo miglia lungi alla marina, che la bella città vide d'Alcina. 59 Lontan si vide una muraglia lunga che gira intorno, e gran paese serra; e par che la sua altezza al ciel s'aggiunga, e d'oro sia da l'alta cima a terra. Alcun dal mio parer qui si dilunga, e dice ch'ell'è alchimia: e forse ch'erra; et anco forse meglio di me intende: a me par oro, poi che sì risplende. 60 Come fu presso alle sì ricche mura, che 'l mondo altre non ha de la lor sorte, lasciò la strada che per la pianura ampla e diritta andava alle gran porte; et a man destra, a quella più sicura, ch'al monte gía, piegossi il guerrier forte: ma tosto ritrovò l'iniqua frotta, dal cui furor gli fu turbata e rotta. 61 Non fu veduta mai più strana torma, più monstruosi volti e peggio fatti: alcun' dal collo in giú d'uomini han forma, col viso altri di simie, altri di gatti; stampano alcun con piè caprigni l'orma; alcuni son centauri agili et atti; son gioveni impudenti e vecchi stolti, chi nudi e chi di strane pelli involti. 62 Chi senza freno in s'un destrier galoppa, chi lento va con l'asino o col bue, altri salisce ad un centauro in groppa, struzzoli molti han sotto, aquile e grue; ponsi altri a bocca il corno, altri la coppa; chi femina è, chi maschio, e chi amendue; chi porta uncino e chi scala di corda, chi pal di ferro e chi una lima sorda. 63 Di questi il capitano si vedea aver gonfiato il ventre, e 'l viso grasso; il qual su una testuggine sedea, che con gran tardità mutava il passo. Avea di qua e di là chi lo reggea, perché egli era ebro, e tenea il ciglio basso: altri la fronte gli asciugava e il mento, altri i panni scuotea per fargli vento. 64 Un ch'avea umana forma i piedi e 'l ventre, e collo avea di cane, orecchie e testa, contra Ruggiero abaia, acciò ch'egli entre ne la bella città ch'a dietro resta. Rispose il cavallier: - Nol farò, mentre avrà forza la man di regger questa! - e gli mostra la spada, di cui volta avea l'aguzza punta alla sua volta. 65 Quel mostro lui ferir vuol d'una lancia, ma Ruggier presto se gli aventa addosso: una stoccata gli trasse alla pancia, e la fe' un palmo riuscir pel dosso. Lo scudo imbraccia, e qua e là si lancia, ma l'inimico stuolo è troppo grosso: l'un quinci il punge, e l'altro quindi afferra: egli s'arrosta, e fa lor aspra guerra. 66 L'un sin a' denti, e l'altro sin al petto partendo va di quella iniqua razza; ch'alla sua spada non s'oppone elmetto, né scudo, né panziera, né corazza: ma da tutte le parti è così astretto, che bisogno saria, per trovar piazza e tener da sé largo il popul reo, d'aver più braccia e man che Brïareo. 67 Se di scoprire avesse avuto aviso lo scudo che già fu del negromante (io dico quel ch'abbarbagliava il viso, quel ch'all'arcione avea lasciato Atlante), subito avria quel brutto stuol conquiso e fattosel cader cieco davante; e forse ben, che disprezzò quel modo, perché virtude usar vòlse, e non frodo. 68 Sia quel che può, più tosto vuol morire, che rendersi prigione a sì vil gente. Eccoti intanto da la porta uscire del muro, ch'io dicea d'oro lucente, due giovani ch'ai gesti et al vestire non eran da stimar nate umilmente, né da pastor nutrite con disagi, ma fra delizie di real palagi. 69 L'una e l'altra sedea s'un lïocorno, candido più che candido armelino; l'una e l'altra era bella, e di sì adorno abito, e modo tanto pellegrino, che a l'uom, guardando e contemplando intorno, bisognerebbe aver occhio divino per far di lor giudizio: e tal saria Beltà, s'avesse corpo, e Leggiadria. 70 L'una e l'altra n'andò dove nel prato Ruggiero è oppresso da lo stuol villano. Tutta la turba si levò da lato; e quelle al cavallier porser la mano, che tinto in viso di color rosato, le donne ringraziò de l'atto umano: e fu contento, compiacendo loro, di ritornarsi a quella porta d'oro. 71 L'adornamento che s'aggira sopra la bella porta e sporge un poco avante, parte non ha che tutta non si cuopra de le più rare gemme di Levante. Da quattro parti si riposa sopra grosse colonne d'integro diamante. O vero o falso ch'all'occhio risponda, non è cosa più bella o più gioconda. 72 Su per la soglia e fuor per le colonne corron scherzando lascive donzelle, che, se i rispetti debiti alle donne servasser più, sarian forse più belle. Tutte vestite eran di verdi gonne, e coronate di frondi novelle. Queste, con molte offerte e con buon viso, Ruggier fecero entrar nel paradiso: 73 che si può ben così nomar quel loco, ove mi credo che nascesse Amore. Non vi si sta se non in danza e in giuoco, e tutte in festa vi si spendon l'ore: pensier canuto né molto né poco si può quivi albergare in alcun core: non entra quivi disagio né inopia, ma vi sta ognor col corno pien la Copia. 74 Qui, dove con serena e lieta fronte par ch'ognor rida il grazïoso aprile, gioveni e donne son: qual presso a fonte canta con dolce e dilettoso stile; qual d'un arbore all'ombra e qual d'un monte o giuoca o danza o fa cosa non vile; e qual, lungi dagli altri, a un suo fedele discuopre l'amorose sue querele. 75 Per le cime dei pini e degli allori, degli alti faggi e degl'irsuti abeti, volan scherzando i pargoletti Amori: di lor vittorie altri godendo lieti, altri pigliando a saettare i cori, la mira quindi, altri tendendo reti; chi tempra dardi ad un ruscel più basso, e chi gli aguzza ad un volubil sasso. 76 Quivi a Ruggier un gran corsier fu dato, forte, gagliardo, e tutto di pel sauro, ch'avea il bel guernimento ricamato di prezïose gemme e di fin auro; e fu lasciato in guardia quello alato, quel che solea ubidire al vecchio Mauro, a un giovene che dietro lo menassi al buon Ruggier, con men frettosi passi. 77 Quelle due belle giovani amorose ch'avean Ruggier da l'empio stuol difeso, da l'empio stuol che dianzi se gli oppose su quel camin ch'avea a man destra preso, gli dissero: - Signor, le virtuose opere vostre che già abbiamo inteso, ne fan sì ardite, che l'aiuto vostro vi chiederemo a beneficio nostro. 78 Noi troveren tra via tosto una lama, che fa due parti di questa pianura. Una crudel, che Erifilla si chiama, difende il ponte, e sforza e inganna e fura chiunque andar ne l'altra ripa brama; et ella è gigantessa di statura, li denti ha lunghi e velenoso il morso, acute l'ugne, e graffia come un orso. 79 Oltre che sempre ci turbi il camino, che libero saria se non fosse ella, spesso, correndo per tutto il giardino, va disturbando or questa cosa or quella. Sappiate che del populo assassino che vi assalí fuor de la porta bella, molti suoi figli son, tutti seguaci, empii, come ella, inospiti e rapaci. - 80 Ruggier rispose: - Non ch'una battaglia, ma per voi sarò pronto a farne cento: di mia persona, in tutto quel che vaglia, fatene voi secondo il vostro intento; che la cagion ch'io vesto piastra e maglia, non è per guadagnar terre né argento, ma sol per farne beneficio altrui, tanto più a belle donne come vui. - 81 Le donne molte grazie riferiro degne d'un cavallier, come quell'era: e così ragionando ne veniro dove videro il ponte e la riviera; e di smeraldo ornata e di zafiro su l'arme d'or, vider la donna altiera. Ma dir ne l'altro canto differisco, come Ruggier con lei si pose a risco.
1 Chi va lontan da la sua patria, vede cose, da quel che già credea, lontane; che narrandole poi, non se gli crede, e stimato bugiardo ne rimane: che 'l sciocco vulgo non gli vuol dar fede, se non le vede e tocca chiare e piane. Per questo io so che l'inesperïenza farà al mio canto dar poca credenza. 2 Poca o molta ch'io ci abbia, non bisogna ch'io ponga mente al vulgo sciocco e ignaro. A voi so ben che non parrà menzogna, che 'l lume del discorso avete chiaro; et a voi soli ogni mio intento agogna che 'l frutto sia di mie fatiche caro. Io vi lasciai che 'l ponte e la riviera vider, che'n guardia avea Erifilla altiera. 3 Quell'era armata del più fin metallo, ch'avean di più color gemme distinto: rubin vermiglio, crisolito giallo, verde smeraldo, con flavo iacinto. Era montata, ma non a cavallo; invece avea di quello un lupo spinto: spinto avea un lupo ove si passa il fiume, con ricca sella fuor d'ogni costume. 4 Non credo ch'un sì grande Apulia n'abbia: egli era grosso et alto più d'un bue. Con fren spumar non gli facea le labbia, né so come lo regga a voglie sue. La sopravesta di color di sabbia su l'arme avea la maledetta lue: era, fuor che 'l color, di quella sorte ch'i vescovi e i prelati usano in corte. 5 Et avea ne lo scudo e sul cimiero una gonfiata e velenosa botta. Le donne la mostraro al cavalliero, di qua dal ponte per giostrar ridotta, e fargli scorno e rompergli il sentiero, come ad alcuni usata era talotta. Ella a Ruggier, che torni a dietro, grida: quel piglia un'asta, e la minaccia e sfida. 6 Non men la gigantessa ardita e presta sprona il gran lupo e ne l'arcion si serra, e pon la lancia a mezzo il corso in resta, e fa tremar nel suo venir la terra. Ma pur sul prato al fiero incontro resta; che sotto l'elmo il buon Ruggier l'afferra, e de l'arcion con tal furor la caccia, che la riporta indietro oltra sei braccia. 7 E già, tratta la spada ch'avea cinta, venía a levarne la testa superba: e ben lo potea far; che come estinta Erifilla giacea tra' fiori e l'erba. Ma le donne gridâr: - Basti sia vinta, senza pigliarne altra vendetta acerba. Ripon, cortese cavallier, la spada; passiamo il ponte e seguitian la strada. - 8 Alquanto malagevole et aspretta per mezzo un bosco presero la via, che oltra che sassosa fosse e stretta, quasi su dritta alla collina gía. Ma poi che furo ascesi in su la vetta, usciro in spazïosa prateria, dove il più bel palazzo e 'l più giocondo vider, che mai fosse veduto al mondo. 9 La bella Alcina venne un pezzo inante, verso Ruggier fuor de le prime porte, e lo raccolse in signoril sembiante, in mezzo bella et onorata corte. Da tutti gli altri tanto onore e tante riverenzie fur fatte al guerrier forte, che non ne potrian far più, se tra loro fosse Dio sceso dal superno coro. 10 Non tanto il bel palazzo era escellente, perché vincesse ogn'altro di ricchezza, quanto ch'avea la più piacevol gente che fosse al mondo e di più gentilezza. Poco era l'un da l'altro differente e di fiorita etade e di bellezza: sola di tutti Alcina era più bella, sì come è bello il sol più d'ogni stella. 11 Di persona era tanto ben formata, quanto me' finger san pittori industri; con bionda chioma lunga et annodata: oro non è che più risplenda e lustri. Spargeasi per la guancia delicata misto color di rose e di ligustri; di terso avorio era la fronte lieta, che lo spazio finia con giusta meta. 12 Sotto duo negri e sottilissimi archi son duo negri occhi, anzi duo chiari soli, pietosi a riguardare, a mover parchi; intorno cui par ch'Amor scherzi e voli, e ch'indi tutta la faretra scarchi e che visibilmente i cori involi: quindi il naso per mezzo il viso scende, che non truova l'invidia ove l'emende. 13 Sotto quel sta, quasi fra due vallette, la bocca sparsa di natio cinabro; quivi due filze son di perle elette, che chiude et apre un bello e dolce labro: quindi escon le cortesi parolette da render molle ogni cor rozzo e scabro; quivi si forma quel suave riso, ch'apre a sua posta in terra il paradiso. 14 Bianca nieve è il bel collo, e 'l petto latte; il collo è tondo, il petto colmo e largo: due pome acerbe, e pur d'avorio fatte, vengono e van come onda al primo margo, quando piacevole aura il mar combatte. Non potria l'altre parti veder Argo: ben si può giudicar che corrisponde a quel ch'appar di fuor quel che s'asconde. 15 Mostran le braccia sua misura giusta; e la candida man spesso si vede lunghetta alquanto e di larghezza angusta, dove né nodo appar, né vena escede. Si vede al fin de la persona augusta il breve, asciutto e ritondetto piede. Gli angelici sembianti nati in cielo non si ponno celar sotto alcun velo. 16 Avea in ogni sua parte un laccio teso, o parli o rida o canti o passo muova: né maraviglia è se Ruggier n'è preso, poi che tanto benigna se la truova. Quel che di lei già avea dal mirto inteso, com'è perfida e ria, poco gli giova; ch'inganno o tradimento non gli è aviso che possa star con sì soave riso. 17 Anzi pur creder vuol che da costei fosse converso Astolfo in su l'arena per li suoi portamenti ingrati e rei, e sia degno di questa e di più pena: e tutto quel ch'udito avea di lei, stima esser falso; e che vendetta mena, e mena astio et invidia quel dolente a lei biasmare, e che del tutto mente. 18 La bella donna che cotanto amava, novellamente gli è dal cor partita; che per incanto Alcina gli lo lava d'ogni antica amorosa sua ferita; e di sé sola e del suo amor lo grava, e in quello essa riman sola sculpita: sì che scusar il buon Ruggier si deve, se si mostrò quivi inconstante e lieve. 19 A quella mensa cítare, arpe e lire, e diversi altri dilettevol suoni faceano intorno l'aria tintinire d'armonia dolce e di concenti buoni. Non vi mancava chi, cantando, dire d'amor sapesse gaudii e passïoni, o con invenzïoni e poesie rappresentasse grate fantasie. 20 Qual mensa trionfante e suntuosa di qual si voglia successor di Nino, o qual mai tanto celebre e famosa di Cleopatra al vincitor latino, potria a questa esser par, che l'amorosa fata avea posta inanzi al paladino? Tal non cred'io che s'apparecchi dove ministra Ganimede al sommo Giove. 21 Tolte che fur le mense e le vivande, facean, sedendo in cerchio, un giuoco lieto: che ne l'orecchio l'un l'altro domande, come più piace lor, qualche secreto; il che agli amanti fu commodo grande di scoprir l'amor lor senza divieto: e furon lor conclusïoni estreme di ritrovarsi quella notte insieme. 22 Finîr quel giuoco tosto, e molto inanzi che non solea là dentro esser costume: con torchi allora i paggi entrati inanzi, le tenebre cacciâr con molto lume. Tra bella compagnia dietro e dinanzi andò Ruggiero a ritrovar le piume in una adorna e fresca cameretta, per la miglior di tutte l'altre eletta. 23 E poi che di confetti e di buon vini di nuovo fatti fur debiti inviti, e partîr gli altri riverenti e chini, et alle stanze lor tutti sono iti; Ruggiero entrò ne' profumati lini che pareano di man d'Aracne usciti, tenendo tuttavia l'orecchie attente, s'ancor venir la bella donna sente. 24 Ad ogni piccol moto ch'egli udiva, sperando che fosse ella, il capo alzava: sentir credeasi, e spesso non sentiva; poi del suo errore accorto sospirava. Talvolta uscia del letto e l'uscio apriva, guatava fuori, e nulla vi trovava: e maledì ben mille volte l'ora che facea al trapassar tanta dimora. 25 Tra sé dicea sovente: - Or si parte ella; - e cominciava a noverare i passi ch'esser potean da la sua stanza a quella donde aspettando sta che Alcina passi; e questi et altri, prima che la bella donna vi sia, vani disegni fassi. Teme di qualche impedimento spesso, che tra il frutto e la man non gli sia messo. 26 Alcina, poi ch'a' prezïosi odori dopo gran spazio pose alcuna meta, venuto il tempo che più non dimori, ormai ch'in casa era ogni cosa cheta, de la camera sua sola uscí fuori; e tacita n'andò per via secreta dove a Ruggiero avean timore e speme gran pezzo intorno al cor pugnato insieme. 27 Come si vide il successor d'Astolfo sopra apparir quelle ridenti stelle, come abbia ne le vene acceso zolfo, non par che capir possa ne la pelle. Or sino agli occhi ben nuota nel golfo de le delizie e de le cose belle: salta del letto, e in braccio la raccoglie, né può tanto aspettar ch'ella si spoglie; 28 ben che né gonna né faldiglia avesse; che venne avolta in un leggier zendado che sopra una camicia ella si messe, bianca e suttil nel più escellente grado. Come Ruggiero abbracciò lei, gli cesse il manto; e restò il vel suttile e rado, che non copria dinanzi né di dietro, più che le rose o i gigli un chiaro vetro. 29 Non così strettamente edera preme pianta ove intorno abbarbicata s'abbia, come si stringon li dui amanti insieme, cogliendo de lo spirto in su le labbia suave fior, qual non produce seme indo o sabeo ne l'odorata sabbia. Del gran piacer ch'avean, lor dicer tocca; che spesso avean più d'una lingua in bocca. 30 Queste cose là dentro eran secrete, o se pur non secrete, almen taciute; che raro fu tener le labra chete biasmo ad alcun, ma ben spesso virtute. Tutte proferte et accoglienze liete fanno a Ruggier quelle persone astute: ognun lo reverisce e se gli inchina; che così vuol l'innamorata Alcina. 31 Non è diletto alcun che di fuor reste; che tutti son ne l'amorosa stanza. E due e tre volte il dì mutano veste, fatte or ad una, ora ad un'altra usanza. Spesso in conviti, e sempre stanno in feste, in giostre, in lotte, in scene, in bagno, in danza. Or presso ai fonti, all'ombre de' poggietti, leggon d'antiqui gli amorosi detti; 32 or per l'ombrose valli e lieti colli vanno cacciando le paurose lepri; or con sagaci cani i fagian folli con strepito uscir fan di stoppie e vepri; or a' tordi lacciuoli, or veschi molli tendon tra gli odoriferi ginepri; or con ami inescati et or con reti turban a' pesci i grati lor secreti. 33 Stava Ruggiero in tanta gioia e festa, mentre Carlo in travaglio et Agramante, di cui l'istoria io non vorrei per questa porre in oblio, né lasciar Bradamante, che con travaglio e con pena molesta pianse più giorni il disïato amante, ch'avea per strade disusate e nuove veduto portar via, né sapea dove. 34 Di costei prima che degli altri dico, che molti giorni andò cercando invano pei boschi ombrosi e per lo campo aprico, per ville, per città, per monte e piano; né mai poté saper del caro amico, che di tanto intervallo era lontano. Ne l'oste saracin spesso venía, né mai del suo Ruggier ritrovò spia. 35 Ogni dì ne domanda a più di cento, né alcun le ne sa mai render ragioni. D'alloggiamento va in alloggiamento, cercandone e trabacche e padiglioni: e lo può far; che senza impedimento passa tra cavallieri e tra pedoni, mercé all'annel che fuor d'ogni uman uso la fa sparir quando l'è in bocca chiuso. 36 Né può né creder vuol che morto sia; perché di sì grande uom l'alta ruina da l'onde idaspe udita si saria fin dove il sole a riposar declina. Non sa né dir né imaginar che via far possa o in cielo o in terra; e pur meschina lo va cercando, e per compagni mena sospiri e pianti et ogni acerba pena. 37 Pensò al fin di tornare alla spelonca dove eran l'ossa di Merlin profeta, e gridar tanto intorno a quella conca, che 'l freddo marmo si movesse a pieta; che se vivea Ruggiero, o gli avea tronca l'alta necessità la vita lieta, si sapria quindi: e poi s'appiglierebbe a quel miglior consiglio che n'avrebbe. 38 Con questa intenzïon prese il camino verso le selve prossime a Pontiero, dove la vocal tomba di Merlino era nascosa in loco alpestro e fiero. Ma quella maga che sempre vicino tenuto a Bradamante avea il pensiero, quella, dico io, che nella bella grotta l'avea de la sua stirpe instrutta e dotta; 39 quella benigna e saggia incantatrice, la quale ha sempre cura di costei, sappiendo ch'esser de' progenitrice d'uomini invitti, anzi di semidei; ciascun dì vuol sapere che fa, che dice, e getta ciascun dì sorte per lei. Di Ruggier liberato e poi perduto, e dove in India andò, tutto ha saputo. 40 Ben veduto l'avea su quel cavallo che regger non potea, ch'era sfrenato, scostarsi di lunghissimo intervallo per sentier periglioso e non usato; e ben sapea che stava in giuoco e in ballo e in cibo e in ozio molle e delicato, né più memoria avea del suo signore, né de la donna sua, né del suo onore. 41 E così il fior de li begli anni suoi in lunga inerzia aver potria consunto sì gentil cavallier, per dover poi perdere il corpo e l'anima in un punto; e quel odor che sol riman di noi, poscia che 'l resto fragile è defunto, che tra' l'uom del sepulcro e in vita il serba, gli saria stato o tronco o svelto in erba. 42 Ma quella gentil maga, che più cura n'avea ch'egli medesmo di se stesso, pensò di trarlo per via alpestre e dura alla vera virtù, mal grado d'esso: come escellente medico, che cura con ferro e fuoco e con veneno spesso, che se ben molto da principio offende, poi giova al fine, e grazia se gli rende. 43 Ella non gli era facile, e talmente fattane cieca di superchio amore, che, come facea Atlante, solamente a darli vita avesse posto il core. Quel più tosto volea che lungamente vivesse e senza fama e senza onore, che, con tutta la laude che sia al mondo, mancasse un anno al suo viver giocondo. 44 L'avea mandato all'isola d'Alcina, perché oblïasse l'arme in quella corte; e come mago di somma dottrina, ch'usar sapea gl'incanti d'ogni sorte, avea il cor stretto di quella regina ne l'amor d'esso d'un laccio sì forte, che non se ne era mai per poter sciorre, s'invecchiasse Ruggier più di Nestorre. 45 Or tornando a colei, ch'era presaga di quanto de' avvenir, dico che tenne la dritta via dove l'errante e vaga figlia d'Amon seco a incontrar si venne. Bradamante vedendo la sua maga, muta la pena che prima sostenne, tutta in speranza; e quella l'apre il vero: ch'ad Alcina è condotto il suo Ruggiero. 46 La giovane riman presso che morta, quando ode che 'l suo amante è così lunge; e più, che nel suo amor periglio porta, se gran rimedio e subito non giunge: ma la benigna maga la conforta, e presta pon l'impiastro ove il duol punge, e le promette e giura, in pochi giorni far che Ruggiero a riveder lei torni. 47 - Da che, donna (dicea), l'annello hai teco, che val contra ogni magica fattura, io non ho dubbio alcun, che s'io l'arreco là dove Alcina ogni tuo ben ti fura, ch'io non le rompa il suo disegno, e meco non ti rimeni la tua dolce cura. Me n'andrò questa sera alla prim'ora, e sarò in India al nascer de l'aurora. - 48 E seguitando, del modo narrolle che disegnato avea d'adoperarlo, per trar del regno effeminato e molle il caro amante, e in Francia rimenarlo. Bradamante l'annel del dito tolle; né solamente avria voluto darlo, ma dato il core e dato avria la vita, pur che n'avesse il suo Ruggiero aita. 49 Le dà l'annello e se le raccomanda; e più le raccomanda il suo Ruggiero, a cui per lei mille saluti manda: poi prese vêr Provenza altro sentiero. Andò l'incantatrice a un'altra banda; e per porre in effetto il suo pensiero, un palafren fece apparir la sera, ch'avea un piè rosso, e ogn'altra parte nera. 50 Credo fusse un Alchino o un Farfarello, che da l'Inferno in quella forma trasse; e scinta e scalza montò sopra a quello, a chiome sciolte e orribilmente passe: ma ben di dito si levò l'annello, perché gl'incanti suoi non le vietasse. Poi con tal fretta andò, che la matina si ritrovò ne l'isola d'Alcina. 51 Quivi mirabilmente transmutosse: s'accrebbe più d'un palmo di statura, e fe' le membra a proporzion più grosse; e restò a punto di quella misura che si pensò che 'l negromante fosse, quel che nutrí Ruggier con sì gran cura. Vestí di lunga barba le mascelle, e fe' crespa la fronte e l'altra pelle. 52 Di faccia, di parole e di sembiante sì lo seppe imitar, che totalmente potea parer l'incantator Atlante. Poi si nascose, e tanto pose mente, che da Ruggiero allontanar l'amante Alcina vide un giorno finalmente: e fu gran sorte; che di stare o d'ire senza esso un'ora potea mal patire. 53 Soletto lo trovò, come lo volle, che si godea il matin fresco e sereno lungo un bel rio che discorrea d'un colle verso un laghetto limpido et ameno. Il suo vestir delizïoso e molle tutto era d'ozio e di lascivia pieno, che de sua man gli avea di seta e d'oro tessuto Alcina con sottil lavoro. 54 Di ricche gemme un splendido monile gli discendea dal collo in mezzo il petto; e ne l'uno e ne l'altro già virile braccio girava un lucido cerchietto. Gli avea forato un fil d'oro sottile ambe l'orecchie, in forma d'annelletto; e due gran perle pendevano quindi, qua' mai non ebbon gli Arabi né gl'Indi. 55 Umide avea l'innanellate chiome de' più suavi odor che sieno in prezzo: tutto ne' gesti era amoroso, come fosse in Valenza a servir donne avezzo: non era in lui di sano altro che 'l nome; corrotto tutto il resto, e più che mézzo. Così Ruggier fu ritrovato, tanto da l'esser suo mutato per incanto. 56 Ne la forma d'Atlante se gli affaccia colei, che la sembianza ne tenea, con quella grave e venerabil faccia che Ruggier sempre riverir solea, con quello occhio pien d'ira e di minaccia, che sì temuto già fanciullo avea; dicendo: - È questo dunque il frutto ch'io lungamente atteso ho del sudor mio? 57 Di medolle già d'orsi e di leoni ti porsi io dunque li primi alimenti; t'ho per caverne et orridi burroni fanciullo avezzo a strangolar serpenti, pantere e tigri disarmar d'ungioni et a vivi cingial trar spesso i denti, acciò che, dopo tanta disciplina, tu sii l'Adone o l'Atide d'Alcina? 58 È questo, quel che l'osservate stelle, le sacre fibre e gli accoppiati punti, responsi, augúri, sogni e tutte quelle sorti, ove ho troppo i miei studi consunti, di te promesso sin da le mammelle m'avean, come quest'anni fusser giunti: ch'in arme l'opre tue così preclare esser dovean, che sarian senza pare? 59 Questo è ben veramente alto principio onde si può sperar che tu sia presto a farti un Alessandro, un Iulio, un Scipio! Chi potea, ohimè! di te mai creder questo, che ti facessi d'Alcina mancipio? E perché ognun lo veggia manifesto, al collo et alle braccia hai la catena con che ella a voglia sua preso ti mena. 60 Se non ti muovon le tue proprie laudi, e l'opre e scelse a chi t'ha il cielo eletto, la tua successïon perché defraudi del ben che mille volte io t'ho predetto? Deh, perché il ventre eternamente claudi, dove il ciel vuol che sia per te concetto la glorïosa e soprumana prole ch'esser de' al mondo più chiara che 'l sole? 61 Deh, non vietar che le più nobil alme che sian formate ne l'eterne idee, di tempo in tempo abbian corporee salme dal ceppo che radice in te aver dee! Deh non vietar mille trionfi e palme, con che, dopo aspri danni e piaghe ree, tuoi figli, tuoi nipoti e successori Italia torneran nei primi onori! 62 Non ch'a piegarti a questo tante e tante anime belle aver dovesson pondo, che chiare, illustri, inclite, invitte e sante son per fiorir da l'arbor tuo fecondo; ma ti dovria un coppia esser bastante: Ippolito e il fratel; che pochi il mondo ha tali avuti ancor fin al dì d'oggi, per tutti i gradi onde a virtù si poggi. 63 Io solea più di questi dui narrarti, ch'io non facea di tutti gli altri insieme; sì perché essi terran le maggior parti, che gli altri tuoi, ne le virtù supreme; sì perché al dir di lor mi vedea darti più attenzïon, che d'altri del tuo seme: vedea goderti che sì chiari eroi esser dovessen dei nipoti tuoi. 64 Che ha costei che t'hai fatto regina, che non abbian mill'altre meretrici? costei che di tant'altri è concubina, ch'al fin sai ben s'ella suol far felici. Ma perché tu conosca chi sia Alcina, levatone le fraudi e gli artifici, tien questo annello in dito, e torna ad ella, ch'aveder ti potrai come sia bella. - 65 Ruggier si stava vergognoso e muto mirando in terra, e mal sapea che dire; a cui la maga nel dito minuto pose l'annello, e lo fe' risentire. Come Ruggiero in sé fu rivenuto, di tanto scorno si vide assalire, ch'esser vorria sotterra mille braccia, ch'alcun veder non lo potesse in faccia. 66 Ne la sua prima forma in uno instante, così parlando, la maga rivenne; né bisognava più quella d'Atlante, seguitone l'effetto per che venne. Per dirvi quel ch'io non vi dissi inante, costei Melissa nominata venne, ch'or diè a Ruggier di sé notizia vera, e dissegli a che effetto venuta era; 67 mandata da colei, che d'amor piena sempre il disia, né più può starne senza, per liberarlo da quella catena di che lo cinse magica violenza: e preso avea d'Atlante di Carena la forma, per trovar meglio credenza. Ma poi ch'a sanità l'ha omai ridutto, gli vuole aprire e far che veggia il tutto. 68 - Quella donna gentil che t'ama tanto, quella che del tuo amor degna sarebbe, a cui, se non ti scorda, tu sai quanto tua libertà, da lei servata, debbe; questo annel che ripara ad ogni incanto, ti manda: e così il cor mandato avrebbe, s'avesse avuto il cor così virtute, come l'annello, atta alla tua salute. - 69 E seguitò narrandogli l'amore che Bradamante gli ha portato e porta; di quella insieme comendò il valore, in quanto il vero e l'affezion comporta; et usò modo e termine migliore che si convenga a messaggiera accorta: et in quel odio Alcina a Ruggier pose, in che soglionsi aver l'orribil cose. 70 In odio gli la pose, ancor che tanto l'amasse dianzi: e non vi paia strano, quando il suo amor per forza era d'incanto, ch'essendovi l'annel, rimase vano. Fece l'annel palese ancor, che quanto di beltà Alcina avea, tutto era estrano: estrano avea, e non suo, dal piè alla treccia; il bel ne sparve, e le restò la feccia. 71 Come fanciullo che maturo frutto ripone, e poi si scorda ove è riposto, e dopo molti giorni è ricondutto là dove truova a caso il suo deposto, si maraviglia di vederlo tutto putrido e guasto, e non come fu posto; e dove amarlo e caro aver solia, l'odia, sprezza, n'ha schivo, e getta via: 72 così Ruggier, poi che Melissa fece ch'a riveder se ne tornò la fata con quell'annello inanzi a cui non lece, quando s'ha in dito, usare opra incantata, ritruova, contra ogni sua stima, invece de la bella, che dianzi avea lasciata, donna sì laida, che la terra tutta né la più vecchia avea né la più brutta. 73 Pallido, crespo e macilente avea Alcina il viso, il crin raro e canuto, sua statura a sei palmi non giungea: ogni dente di bocca era caduto; che più d'Ecuba e più de la Cumea, et avea più d'ogn'altra mai vivuto. Ma sì l'arti usa al nostro tempo ignote, che bella e giovanetta parer puote. 74 Giovane e bella ella si fa con arte, sì che molti ingannò come Ruggiero; ma l'annel venne a interpretar le carte che già molti anni avean celato il vero. Miracol non è dunque, se si parte de l'animo a Ruggiero ogni pensiero ch'avea d'amare Alcina, or che la truova in guisa, che sua fraude non le giova. 75 Ma come l'avisò Melissa, stette senza mutare il solito sembiante, fin che de l'arme sue, più dì neglette, si fu vestito dal capo alle piante; e per non farle ad Alcina suspette, finse provar s'in esse era aiutante, finse provar se gli era fatto grosso, dopo alcun dì che non l'ha avute indosso. 76 E Balisarda poi si messe al fianco (che così nome la sua spada avea); e lo scudo mirabile tolse anco, che non pur gli occhi abbarbagliar solea, ma l'anima facea sì venir manco, che dal corpo esalata esser parea. Lo tolse, e col zendado in che trovollo, che tutto lo copria, sel messe al collo. 77 Venne alla stalla, e fece briglia e sella porre a un destrier più che la pece nero: così Melissa l'avea instrutto; ch'ella sapea quanto nel corso era leggiero. Chi lo conosce, Rabican l'appella; et è quel proprio che col cavalliero del quale i venti or presso al mar fan gioco, portò già la balena in questo loco. 78 Potea aver l'ippogrifo similmente, che presso a Rabicano era legato; ma gli avea detto la maga: - Abbi mente, ch'egli è (come tu sai) troppo sfrenato. - E gli diede intenzion che 'l dì seguente gli lo trarrebbe fuor di quello stato, là dove ad agio poi sarebbe instrutto come frenarlo e farlo gir per tutto. 79 Né sospetto darà, se non lo tolle, de la tacita fuga ch'apparecchia. Fece Ruggier come Melissa volle, ch'invisibile ognor gli era all'orecchia. Così fingendo, del lascivo e molle palazzo uscí de la puttana vecchia; e si venne accostando ad una porta, donde è la via ch'a Logistilla il porta. 80 Assaltò li guardiani all'improviso, e si cacciò tra lor col ferro in mano, e qual lasciò ferito, e quale ucciso; e corse fuor del ponte a mano a mano: e prima che n'avesse Alcina aviso, di molto spazio fu Ruggier lontano. Dirò ne l'altro canto che via tenne; poi come a Logistilla se ne venne.
1 Oh quante sono incantatrici, oh quanti incantator tra noi, che non si sanno! che con lor arti uomini e donne amanti di sé, cangiando i visi lor, fatto hanno. Non con spirti constretti tali incanti, né con osservazion di stelle fanno; ma con simulazion, menzogne e frodi legano i cor d'indissolubil nodi. 2 Chi l'annello d'Angelica, o più tosto chi avesse quel de la ragion, potria veder a tutti il viso, che nascosto da finzïone e d'arte non saria. Tal ci par bello e buono, che, deposto il liscio, brutto e rio forse parria. Fu gran ventura quella di Ruggiero, ch'ebbe l'annel che gli scoperse il vero. 3 Ruggier (come io dicea) dissimulando, su Rabican venne alla porta armato: trovò le guardie sprovedute, e quando giunse tra lor, non tenne il brando a lato. Chi morto e chi a mal termine lasciando, esce del ponte, e il rastrello ha spezzato: prende al bosco la via; ma poco corre, ch'ad un de' servi de la fata occorre. 4 Il servo in pugno avea un augel grifagno che volar con piacer facea ogni giorno, ora a campagna, ora a un vicino stagno, dove era sempre da far preda intorno: avea da lato il can fido compagno: cavalcava un ronzin non troppo adorno. Ben pensò che Ruggier dovea fuggire, quando lo vide in tal fretta venire. 5 Se gli fe' incontra, e con sembiante altiero gli domandò perché in tal fretta gisse. Risponder non gli vòlse il buon Ruggiero: perciò colui, più certo che fuggisse, di volerlo arrestar fece pensiero; e distendendo il braccio manco, disse: - Che dirai tu, se subito ti fermo? se contra questo augel non avrai schermo? - 6 Spinge l'augello: e quel batte sì l'ale, che non l'avanza Rabican di corso. Del palafreno il cacciator giú sale, e tutto a un tempo gli ha levato il morso. Quel par da l'arco uno aventato strale, di calci formidabile e di morso; e 'l servo dietro sì veloce viene, che par ch'il vento, anzi che il fuoco il mene. 7 Non vuol parere il can d'esser più tardo, ma segue Rabican con quella fretta con che le lepri suol seguire il pardo. Vergogna a Ruggier par, se non aspetta. Voltasi a quel che vien sì a piè gagliardo; né gli vede arme, fuor ch'una bacchetta, quella con che ubidire al cane insegna: Ruggier di trar la spada si disdegna. 8 Quel se gli appressa, e forte lo percuote: lo morde a un tempo il can nel piede manco. Lo sfrenato destrier la groppa scuote tre volte e più, né falla il destro fianco. Gira l'augello e gli fa mille ruote, e con l'ugna sovente il ferisce anco: sì il destrier collo strido impaurisce, ch'alla mano e allo spron poco ubidisce. 9 Ruggiero, al fin costretto, il ferro caccia: e perché tal molestia se ne vada, or gli animali, or quel villan minaccia col taglio e con la punta de la spada. Quella importuna turba più l'impaccia: presa ha chi qua chi là tutta la strada. Vede Ruggiero il disonore e il danno che gli averrà, se più tardar lo fanno. 10 Sa ch'ogni poco più ch'ivi rimane, Alcina avrà col populo alle spalle: di trombe, di tamburi e di campane già s'ode alto rumore in ogni valle. Contra un servo senza arme e contra un cane gli par ch'a usar la spada troppo falle: meglio e più breve è dunque che gli scopra lo scudo che d'Atlante era stato opra. 11 Levò il drappo vermiglio in che coperto già molti giorni lo scudo si tenne. Fece l'effetto mille volte esperto il lume, ove a ferir negli occhi venne: resta dai sensi il cacciator deserto, cade il cane e il ronzin, cadon le penne, ch'in aria sostener l'augel non ponno. Lieto Ruggier li lascia in preda al sonno. 12 Alcina, ch'avea intanto avuto aviso di Ruggier, che sforzato avea la porta, e de la guardia buon numero ucciso, fu, vinta dal dolor, per restar morta. Squarciossi i panni e si percosse il viso, e sciocca nominossi e malaccorta; e fece dar all'arme immantinente, e intorno a sé raccor tutta sua gente. 13 E poi ne fa due parti, e manda l'una per quella strada ove Ruggier camina; al porto l'altra subito raguna, imbarca, et uscir fa ne la marina: sotto le vele aperte il mar s'imbruna. Con questi va la disperata Alcina, che 'l desiderio di Ruggier sì rode, che lascia sua città senza custode. 14 Non lascia alcuno a guardia del palagio: il che a Melissa che stava alla posta per liberar di quel regno malvagio la gente ch'in miseria v'era posta, diede commodità, diede grande agio di gir cercando ogni cosa a sua posta, imagini abbruciar, suggelli tôrre, e nodi e rombi e turbini disciorre. 15 Indi pei campi accelerando i passi, gli antiqui amanti, ch'erano in gran torma conversi in fonti, in fere, in legni, in sassi, fe' ritornar ne la lor prima forma. E quei, poi ch'allargati furo i passi, tutti del buon Ruggier seguiron l'orma: a Logistilla si salvaro; et indi tornaro a Sciti, a Persi, a Greci, ad Indi. 16 Li rimandò Melissa in lor paesi, con obligo di mai non esser sciolto. Fu inanzi agli altri il duca degl'Inglesi ad esser ritornato in uman volto; che 'l parentado in questo e li cortesi prieghi del bon Ruggier gli giovâr molto: oltre i prieghi, Ruggier le diè l'annello, acciò meglio potesse aiutar quello. 17 A' prieghi dunque di Ruggier, rifatto fu 'l paladin ne la sua prima faccia. Nulla pare a Melissa d'aver fatto, quando ricovrar l'arme non gli faccia, e quella lancia d'or, ch'al primo tratto quanti ne tocca de la sella caccia: de l'Argalia, poi fu d'Astolfo lancia, e molto onor fe' a l'uno e a l'altro in Francia. 18 Trovò Melissa questa lancia d'oro, ch'Alcina avea reposta nel palagio, e tutte l'arme che del duca fôro, e gli fur tolte ne l'ostel malvagio. Montò il destrier del negromante moro, e fe' montar Astolfo in groppa ad agio; e quindi a Logistilla si condusse d'un'ora prima che Ruggier vi fusse. 19 Tra duri sassi e folte spine gía Ruggiero intanto invêr la fata saggia, di balzo in balzo, e d'una in altra via aspra, solinga, inospita e selvaggia; tanto ch'a gran fatica riuscia su la fervida nona in una spiaggia tra 'l mare e 'l monte, al mezzodì scoperta, arsiccia, nuda, sterile e deserta. 20 Percuote il sole ardente il vicin colle; e del calor che si riflette a dietro, in modo l'aria e l'arena ne bolle, che saria troppo a far liquido il vetro. Stassi cheto ogni augello all'ombra molle: sol la cicala col noioso metro fra i densi rami del fronzuto stelo le valli e i monti assorda, e il mare e il cielo. 21 Quivi il caldo, la sete, e la fatica ch'era di gir per quella via arenosa, facean, lungo la spiaggia erma et aprica, a Ruggier compagnia grave e noiosa. Ma perché non convien che sempre io dica, né ch'io vi occupi sempre in una cosa, io lascerò Ruggiero in questo caldo, e girò in Scozia a ritrovar Rinaldo. 22 Era Rinaldo molto ben veduto dal re, da la figliuola e dal paese. Poi la cagion che quivi era venuto, più ad agio il paladin fece palese: ch'in nome del suo re chiedeva aiuto e dal regno di Scozia e da l'Inglese; et ai preghi suggiunse anco di Carlo, giustissime cagion di dover farlo. 23 Dal re, senza indugiar, gli fu risposto, che di quanto sua forza s'estendea, per utile et onor sempre disposto di Carlo e de l'Imperio esser volea; e che fra pochi dì gli avrebbe posto più cavallieri in punto che potea; e se non ch'esso era oggimai pur vecchio, capitano verria del suo apparecchio. 24 Né tal rispetto ancor gli parria degno di farlo rimaner, se non avesse il figlio, che di forza, e più d'ingegno, dignissimo era a chi 'l governo desse, ben che non si trovasse allor nel regno; ma che sperava che venir dovesse mentre ch'insieme aduneria lo stuolo; e ch'adunato il troveria il figliuolo. 25 Così mandò per tutta la sua terra suoi tesorieri a far cavalli e gente; navi apparecchia e munizion da guerra, vettovaglia e danar maturamente. Venne intanto Rinaldo in Inghilterra, e 'l re nel suo partir cortesemente insino a Beroicche accompagnollo; e visto pianger fu quando lasciollo. 26 Spirando il vento prospero alla poppa, monta Rinaldo, et a Dio dice a tutti: la fune indi al vïaggio il nocchier sgroppa; tanto che giunge ove nei salsi flutti il bel Tamigi amareggiando intoppa. Col gran flusso del mar quindi condutti i naviganti per camin sicuro a vela e remi insino a Londra furo. 27 Rinaldo avea da Carlo e dal re Otone, che con Carlo in Parigi era assediato, al principe di Vallia commissione per contrasegni e lettere portato, che ciò che potea far la regïone di fanti e di cavalli in ogni lato, tutto debba a Calesio traghittarlo, sì che aiutar si possa Francia e Carlo. 28 Il principe ch'io dico, ch'era, in vece d'Oton, rimaso nel seggio reale, a Rinaldo d'Amon tanto onor fece, che non l'avrebbe al suo re fatto uguale: indi alle sue domande satisfece; perché a tutta la gente marzïale e di Bretagna e de l'isole intorno di ritrovarsi al mar prefisse il giorno. 29 Signor, far mi convien come fa il buono sonator sopra il suo instrumento arguto, che spesso muta corda, e varia suono, ricercando ora il grave, ora l'acuto. Mentre a dir di Rinaldo attento sono, d'Angelica gentil m'è sovenuto, di che lasciai ch'era da lui fuggita, e ch'avea riscontrato uno eremita. 30 Alquanto la sua istoria io vo' seguire. Dissi che domandava con gran cura, come potesse alla marina gire; che di Rinaldo avea tanta paura, che, non passando il mar, credea morire, né in tutta Europa si tenea sicura: ma l'eremita a bada la tenea, perché di star con lei piacere avea. 31 Quella rara bellezza il cor gli accese, e gli scaldò le frigide medolle: ma poi che vide che poco gli attese, e ch'oltra soggiornar seco non volle, di cento punte l'asinello offese; né di sua tardità però lo tolle: e poco va di passo e men di trotto, né stender gli si vuol la bestia sotto. 32 E perché molto dilungata s'era, e poco più, n'avria perduta l'orma, ricorse il frate alla spelonca nera, e di demoni uscir fece una torma: e ne sceglie uno di tutta la schiera, e del bisogno suo prima l'informa; poi lo fa entrare adosso al corridore, che via gli porta con la donna il core. 33 E qual sagace can, nel monte usato a volpi o lepri dar spesso la caccia, che se la fera andar vede da un lato, ne va da un altro, e par sprezzi la traccia; al varco poi lo senteno arrivato, che l'ha già in bocca, e l'apre il fianco e straccia: tal l'eremita per diversa strada aggiugnerà la donna ovunque vada. 34 Che sia il disegno suo, ben io comprendo: e dirollo anco a voi, ma in altro loco. Angelica di ciò nulla temendo, cavalcava a giornate, or molto or poco. Nel cavallo il demon si gía coprendo, come si cuopre alcuna volta il fuoco, che con sì grave incendio poscia avampa, che non si estingue, e a pena se ne scampa. 35 Poi che la donna preso ebbe il sentiero dietro il gran mar che li Guasconi lava, tenendo appresso all'onde il suo destriero, dove l'umor la via più ferma dava; quel le fu tratto dal demonio fiero ne l'acqua sì, che dentro vi nuotava. Non sa che far la timida donzella, se non tenersi ferma in su la sella. 36 Per tirar briglia, non gli può dar volta: più e più sempre quel si caccia in alto. Ella tenea la vesta in su raccolta per non bagnarla, e traea i piedi in alto. Per le spalle la chioma iva disciolta, e l'aura le facea lascivo assalto. Stavano cheti tutti i maggior venti, forse a tanta beltà, col mare, attenti. 37 Ella volgea i begli occhi a terra invano, che bagnavan di pianto il viso e 'l seno, e vedea il lito andar sempre lontano e decrescer più sempre e venir meno. Il destrier, che nuotava a destra mano, dopo un gran giro la portò al terreno tra scuri sassi e spaventose grotte, già cominciando ad oscurar la notte. 38 Quando si vide sola in quel deserto, che a riguardarlo sol, mettea paura, ne l'ora che nel mar Febo coperto l'aria e la terra avea lasciata oscura, fermossi in atto ch'avria fatto incerto chiunque avesse vista sua figura, s'ella era donna sensitiva e vera, o sasso colorito in tal maniera. 39 Stupida e fissa nella incerta sabbia, coi capelli disciolti e rabuffati, con le man giunte e con l'immote labbia, i languidi occhi al ciel tenea levati, come accusando il gran Motor che l'abbia tutti inclinati nel suo danno i fati. Immota e come attonita stè alquanto; poi sciolse al duol la lingua, e gli occhi al pianto. 40 Dicea: - Fortuna, che più a far ti resta acciò di me ti sazii e ti disfami? che dar ti posso omai più, se non questa misera vita? ma tu non la brami; ch'ora a trarla del mar sei stata presta, quando potea finir suoi giorni grami: perché ti parve di voler più ancora vedermi tormentar prima ch'io muora. 41 Ma che mi possi nuocere non veggio, più di quel che sin qui nociuto m'hai. Per te cacciata son del real seggio, dove più ritornar non spero mai: ho perduto l'onor, ch'è stato peggio; che, se ben con effetto io non peccai, io do però materia ch'ognun dica, ch'essendo vagabonda io sia impudica. 42 Ch'aver può donna al mondo più di buono, a cui la castità levata sia? Mi nuoce, ahimè! ch'io son giovane, e sono tenuta bella, o sia vero o bugia. Già non ringrazio il ciel di questo dono; che di qui nasce ogni ruina mia: morto per questo fu Argalia mio frate, che poco gli giovâr l'arme incantate: 43 per questo il re di Tartaria Agricane disfece il genitor mio Galafrone, ch'in India, del Cataio era gran Cane; onde io son giunta a tal condizïone, che muto albergo da sera a dimane. Se l'aver, se l'onor, se le persone m'hai tolto, e fatto il mal che far mi puoi, a che più doglia anco serbar mi vuoi? 44 Se l'affogarmi in mar morte non era a tuo senno crudel, pur ch'io ti sazii, non recuso che mandi alcuna fera che mi divori, e non mi tenga in strazii. D'ogni martír che sia, pur ch'io ne pèra, esser non può ch'assai non ti ringrazii. - Così dicea la donna con gran pianto, quando le apparve l'eremita accanto. 45 Avea mirato da l'estrema cima d'un rilevato sasso l'eremita Angelica, che giunta alla parte ima è de lo scoglio, afflitta e sbigottita. Era sei giorni egli venuto prima; ch'un demonio il portò per via non trita: e venne a lei fingendo divozione quanta avesse mai Paulo o Ilarïone. 46 Come la donna il cominciò a vedere, prese, non conoscendolo, conforto; e cessò a poco a poco il suo temere, ben che ella avesse ancora il viso smorto. Come fu presso, disse: - Miserere, padre, di me, ch'i' son giunta a mal porto. - E con voce interrotta dal singulto gli disse quel ch'a lui non era occulto. 47 Comincia l'eremita a confortarla con alquante ragion belle e divote; e pon l'audaci man, mentre che parla, or per lo seno, or per l'umide gote: poi più sicuro va per abbracciarla; et ella sdegnosetta lo percuote con una man nel petto, e lo rispinge, e d'onesto rossor tutta si tinge. 48 Egli, ch'allato avea una tasca, aprilla, e trassene una ampolla di liquore; e negli occhi possenti, onde sfavilla la più cocente face ch'abbia Amore, spruzzò di quel leggiermente una stilla, che di farla dormire ebbe valore. Già resupina ne l'arena giace a tutte voglie del vecchio rapace. 49 Egli l'abbraccia et a piacer la tocca et ella dorme e non può fare ischermo. Or le bacia il bel petto, ora la bocca; non è chi 'l veggia in quel loco aspro et ermo. Ma ne l'incontro il suo destrier trabocca; ch'al disio non risponde il corpo infermo: era mal atto, perché avea troppi anni; e potrà peggio, quanto più l'affanni. 50 Tutte le vie, tutti li modi tenta, ma quel pigro rozzon non però salta. Indarno il fren gli scuote, e lo tormenta; e non può far che tenga la testa alta. Al fin presso alla donna s'addormenta; e nuova altra sciagura anco l'assalta: non comincia Fortuna mai per poco, quando un mortal si piglia a scherno e a gioco. 51 Bisogna, prima ch'io vi narri il caso, ch'un poco dal sentier dritto mi torca. Nel mar di tramontana invêr l'occaso, oltre l'Irlanda una isola si corca, Ebuda nominata; ove è rimaso il popul raro, poi che la brutta orca e l'altro marin gregge la distrusse, ch'in sua vendetta Proteo vi condusse. 52 Narran l'antique istorie, o vere o false, che tenne già quel luogo un re possente, ch'ebbe una figlia, in cui bellezza valse e grazia sì, che poté facilmente, poi che mostrossi in su l'arene salse, Proteo lasciare in mezzo l'acque ardente; e quello, un dì che sola ritrovolla, compresse, e di sé gravida lasciolla. 53 La cosa fu gravissima e molesta al padre, più d'ogn'altro empio e severo: né per iscusa o per pietà, la testa le perdonò: sì può lo sdegno fiero. Né per vederla gravida, si resta di subito esequire il crudo impero: e 'l nipotin che non avea peccato, prima fece morir che fosse nato. 54 Proteo marin, che pasce il fiero armento di Nettunno che l'onda tutta regge, sente de la sua donna aspro tormento, e per grand'ira, rompe ordine e legge; sì che a mandare in terra non è lento l'orche e le foche, e tutto il marin gregge, che distruggon non sol pecore e buoi, ma ville e borghi e li cultori suoi: 55 e spesso vanno alle città murate, e d'ogn'intorno lor mettono assedio. Notte e dì stanno le persone armate, con gran timore e dispiacevol tedio: tutte hanno le campagne abbandonate; e per trovarvi al fin qualche rimedio, andârsi a consigliar di queste cose all'oracol, che lor così rispose: 56 che trovar bisognava una donzella che fosse all'altra di bellezza pare, et a Proteo sdegnato offerir quella, in cambio de la morta, in lito al mare. S'a sua satisfazion gli parrà bella, se la terrà, né li verrà a sturbare: se per questo non sta, se gli appresenti una et un'altra, fin che si contenti. 57 E così cominciò la dura sorte tra quelle che più grate eran di faccia, ch'a Proteo ciascun giorno una si porte, fin che trovino donna che gli piaccia. La prima e tutte l'altre ebbeno morte; che tutte giú pel ventre se le caccia un'orca, che restò presso alla foce, poi che 'l resto partí del gregge atroce. 58 O vera o falsa che fosse la cosa di Proteo (ch'io non so che me ne dica), servosse in quella terra, con tal chiosa, contra le donne un'empia lege antica: che di lor carne l'orca monstruosa che viene ogni dì al lito, si notrica. Ben ch'esser donna sia in tutte le bande danno e sciagura, quivi era pur grande. 59 Oh misere donzelle che trasporte fortuna ingiurïosa al lito infausto! dove le genti stan sul mare accorte per far de le straniere empio olocausto; che, come più di fuor ne sono morte, il numer de le loro è meno esausto: ma perché il vento ognor preda non mena, ricercando ne van per ogni arena. 60 Van discorrendo tutta la marina con fuste e grippi et altri legni loro, e da lontana parte e da vicina portan sollevamento al lor martoro. Molte donne han per forza e per rapina, alcune per lusinghe, altre per oro; e sempre da diverse regïoni n'hanno piene le torri e le prigioni. 61 Passando una lor fusta a terra a terra inanzi a quella solitaria riva dove fra sterpi in su l'erbosa terra la sfortunata Angelica dormiva, smontaro alquanti galeotti in terra per riportarne e legna et acqua viva; e di quante mai fur belle e leggiadre trovaro il fiore in braccio al santo padre. 62 Oh troppo cara, oh troppo escelsa preda per sì barbare genti e sì villane! Oh Fortuna crudel, chi fia ch'il creda, che tanta forza hai ne le cose umane, che per cibo d'un mostro tu conceda la gran beltà, ch'in India il re Agricane fece venir da le caucasee porte con mezza Scizia a guadagnar la morte? 63 La gran beltà che fu da Sacripante posta inanzi al suo onore e al suo bel regno; la gran beltà ch'al gran signor d'Anglante macchiò la chiara fama e l'alto ingegno; la gran beltà che fe' tutto Levante sottosopra voltarsi e stare al segno, ora non ha (così è rimasa sola) chi le dia aiuto pur d'una parola. 64 La bella donna, di gran sonno oppressa, incatenata fu prima che desta. Portaro il frate incantator con essa nel legno pien di turba afflitta e mesta. La vela, in cima all'arbore rimessa, rendé la nave all'isola funesta, dove chiuser la donna in ròcca forte, fin a quel dì ch'a lei toccò la sorte. 65 Ma poté sì, per esser tanto bella, la fiera gente muovere a pietade, che molti dì le differiron quella morte, e serbârla a gran necessitade; e fin ch'ebber di fuore altra donzella, perdonaro all'angelica beltade. Al mostro fu condotta finalmente, piangendo dietro a lei tutta la gente. 66 Chi narrerà l'angoscie, i pianti, i gridi, l'alta querela che nel ciel penètra? Maraviglia ho che non s'apriro i lidi, quando fu posta in su la fredda pietra, dove in catena, priva di sussidi, morte aspettava abominosa e tetra. Io nol dirò; che sì il dolor mi muove, che mi sforza voltar le rime altrove, 67 e trovar versi non tanto lugúbri, fin che 'l mio spirto stanco si rïabbia; che non potrian li squalidi colubri, né l'orba tigre accesa in maggior rabbia, né ciò che da l'Atlante ai liti rubri venenoso erra per la calda sabbia, né veder né pensar senza cordoglio, Angelica legata al nudo scoglio. 68 Oh se l'avesse il suo Orlando saputo, ch'era per ritrovarla ito a Parigi; o li dui ch'ingannò quel vecchio astuto col messo che venía dai luoghi stigi! fra mille morti, per donarle aiuto, cercato avrian gli angelici vestigi: ma che fariano, avendone anco spia, poi che distanti son di tanta via? 69 Parigi intanto avea l'assedio intorno dal famoso figliuol del re Troiano; e venne a tanta estremitade un giorno, che n'andò quasi al suo nimico in mano: e se non che li voti il ciel placorno, che dilagò di pioggia oscura il piano, cadea quel dì per l'africana lancia il santo Imperio e 'l gran nome di Francia. 70 Il sommo Creator gli occhi rivolse al giusto lamentar del vecchio Carlo; e con subita pioggia il fuoco tolse: né forse uman saper potea smorzarlo. Savio chiunque a Dio sempre si volse; ch'altri non poté mai meglio aiutarlo. Ben dal devoto re fu conosciuto, che si salvò per lo divino aiuto. 71 La notte Orlando alle noiose piume del veloce pensier fa parte assai. Or quinci or quindi il volta, or lo rassume tutto in un loco, e non l'afferma mai: qual d'acqua chiara il tremolante lume, dal sol percossa o da' notturni rai, per gli ampli tetti va con lungo salto a destra et a sinistra, e basso et alto. 72 La donna sua, che gli ritorna a mente, anzi che mai non era indi partita, gli raccende nel core e fa più ardente la fiamma che nel dì parea sopita. Costei venuta seco era in Ponente fin dal Cataio; e qui l'avea smarrita, né ritrovato poi vestigio d'ella che Carlo rotto fu presso a Bordella. 73 Di questo Orlando avea gran doglia, e seco indarno a sua sciocchezza ripensava. - Cor mio (dicea), come vilmente teco mi son portato! ohimè, quanto mi grava che potendoti aver notte e dì meco, quando la tua bontà non mel negava, t'abbia lasciato in man di Namo porre, per non sapermi a tanta ingiuria opporre! 74 Non aveva ragione io di scusarme? e Carlo non m'avria forse disdetto: se pur disdetto, e chi potea sforzarme? chi ti mi volea tôrre al mio dispetto? non poteva io venir più tosto all'arme? lasciar più tosto trarmi il cor del petto? Ma né Carlo né tutta la sua gente di tormiti per forza era possente. 75 Almen l'avesse posta in guardia buona dentro a Parigi o in qualche ròcca forte. Che l'abbia data a Namo mi consona, sol perché a perder l'abbia a questa sorte. Chi la dovea guardar meglio persona di me? ch'io dovea farlo fino a morte; guardarla più che 'l cor, che gli occhi miei: e dovea e potea farlo, e pur nol fei. 76 Deh, dove senza me, dolce mia vita, rimasa sei sì giovane e sì bella? come, poi che la luce è dipartita, riman tra' boschi la smarrita agnella, che dal pastor sperando esser udita, si va lagnando in questa parte e in quella; tanto che 'l lupo l'ode da lontano, e 'l misero pastor ne piagne invano. 77 Dove, speranza mia, dove ora sei? vai tu soletta forse ancor errando? o pur t'hanno trovata i lupi rei senza la guardia del tuo fido Orlando? e il fior ch'in ciel potea pormi fra i dèi, il fior ch'intatto io mi venía serbando per non turbarti, ohimè! l'animo casto, ohimè! per forza avranno colto e guasto. 78 Oh infelice! oh misero! che voglio se non morir, se 'l mio bel fior colto hanno? O sommo Dio, fammi sentir cordoglio prima d'ogn'altro, che di questo danno. Se questo è ver, con le mie man mi toglio la vita, e l'alma disperata danno. - Così, piangendo forte e sospirando, seco dicea l'addolorato Orlando. 79 Già in ogni parte gli animanti lassi davan riposo ai travagliati spirti, chi su le piume, e chi sui duri sassi, e chi su l'erbe, e chi su faggi o mirti: tu le palpèbre, Orlando, a pena abbassi, punto da' tuoi pensieri acuti et irti; né quel sì breve e fuggitivo sonno godere in pace anco lasciar ti ponno. 80 Parea ad Orlando, s'una verde riva d'odoriferi fior tutta dipinta, mirare il bello avorio, e la nativa purpura ch'avea Amor di sua man tinta, e le due chiare stelle onde nutriva ne le reti d'Amor l'anima avinta: io parlo de' begli occhi e del bel volto, che gli hanno il cor di mezzo il petto tolto. 81 Sentia il maggior piacer, la maggior festa che sentir possa alcun felice amante: ma ecco intanto uscire una tempesta che struggea i fior, et abbattea le piante: non se ne suol veder simile a questa, quando giostra aquilone, austro e levante. Parea che per trovar qualche coperto, andasse errando invan per un deserto. 82 Intanto l'infelice (e non sa come) perde la donna sua per l'aer fosco; onde di qua e di là del suo bel nome fa risonare ogni campagna e bosco. E mentre dice indarno: - Misero me! chi ha cangiata mia dolcezza in tòsco? - ode la donna sua che gli domanda, piangendo, aiuto, e se gli raccomanda. 83 Onde par ch'esca il grido, va veloce, e quinci e quindi s'affatica assai. Oh quanto è il suo dolore aspro et atroce, che non può rivedere i dolci rai! Ecco ch'altronde ode da un'altra voce: - Non sperar più gioirne in terra mai. - A questo orribil grido risvegliossi, e tutto pien di lacrime trovossi. 84 Senza pensar che sian l'imagin false quando per tema o per disio si sogna, de la donzella per modo gli calse, che stimò giunta a danno od a vergogna, che fulminando fuor del letto salse. Di piastra e maglia, quanto gli bisogna, tutto guarnissi, e Brigliadoro tolse; né di scudiero alcun servigio vòlse. 85 E per poter entrare ogni sentiero, che la sua dignità macchia non pigli, non l'onorata insegna del quartiero, distinta di color bianchi e vermigli, ma portar vòlse un ornamento nero; e forse acciò ch'al suo dolor simigli: e quello avea già tolto a uno amostante, ch'uccise di sua man pochi anni inante. 86 Da mezza notte tacito si parte, e non saluta e non fa motto al zio; né al fido suo compagno Brandimarte, che tanto amar solea, pur dice a Dio. Ma poi che 'l Sol con l'auree chiome sparte del ricco albergo di Titone uscío e fe' l'ombra fugire umida e nera, s'avide il re che 'l paladin non v'era. 87 Con suo gran dispiacer s'avede Carlo che partito la notte è 'l suo nipote, quando esser dovea seco e più aiutarlo; e ritener la còlera non puote, ch'a lamentarsi d'esso, et a gravarlo non incominci di biasmevol note: e minacciar, se non ritorna, e dire che lo faria di tanto error pentire. 88 Brandimarte, ch'Orlando amava a pare di se medesmo, non fece soggiorno; o che sperasse farlo ritornare, o sdegno avesse udirne biasmo e scorno: e vòlse a pena tanto dimorare, ch'uscisse fuor ne l'oscurar del giorno. A Fiordiligi sua nulla ne disse, perché 'l disegno suo non gl'impedisse. 89 Era questa una donna che fu molto da lui diletta, e ne fu raro senza; di costumi, di grazia e di bel volto dotata e d'accortezza e di prudenza: e se licenzia or non n'aveva tolto, fu che sperò tornarle alla presenza il dì medesmo; ma gli accade poi, che lo tardò più dei disegni suoi. 90 E poi ch'ella aspettato quasi un mese indarno l'ebbe, e che tornar nol vide, di desiderio sì di lui s'accese, che si partí senza compagni o guide; e cercandone andò molto paese, come l'istoria al luogo suo dicide. Di questi dua non vi dico or più inante; che più m'importa il cavallier d'Anglante. 91 Il qual, poi che mutato ebbe d'Almonte le glorïose insegne, andò alla porta, e disse ne l'orecchio: - Io sono il conte - a un capitan che vi facea la scorta; e fattosi abassar subito il ponte, per quella strada che più breve porta agl'inimici, se n'andò diritto. Quel che seguí, ne l'altro canto è scritto.
1 Che non può far d'un cor ch'abbia suggetto questo crudele e traditore Amore, poi ch'ad Orlando può levar del petto la tanta fe' che debbe al suo Signore? Già savio e pieno fu d'ogni rispetto, e de la santa Chiesa difensore; or per un vano amor, poco del zio, e di sé poco, e men cura di Dio. 2 Ma l'escuso io pur troppo, e mi rallegro nel mio difetto aver compagno tale; ch'anch'io sono al mio ben languido et egro, sano e gagliardo a seguitare il male. Quel se ne va tutto vestito a negro, né tanti amici abandonar gli cale; e passa dove d'Africa e di Spagna la gente era attendata alla campagna: 3 anzi non attendata, perché sotto alberi e tetti l'ha sparsa la pioggia a dieci, a venti, a quattro, a sette, ad otto; chi più distante e chi più presso alloggia. Ognuno dorme travagliato e rotto: chi steso in terra, e chi alla man s'appoggia. Dormono; e il conte uccider ne può assai: né però stringe Durindana mai. 4 Di tanto core è il generoso Orlando, che non degna ferir gente che dorma. Or questo, e quando quel luogo cercando va, per trovar de la sua donna l'orma. Se truova alcun che veggi, sospirando gli ne dipinge l'abito e la forma; e poi lo priega che per cortesia gl'insegni andar in parte ove ella sia. 5 E poi che venne il dì chiaro e lucente, tutto cercò l'esercito moresco: e ben lo potea far sicuramente, avendo indosso l'abito arabesco; et aiutollo in questo parimente, che sapeva altro idioma che francesco, e l'africano tanto avea espedito, che parea nato a Tripoli e nutrito. 6 Quivi il tutto cercò, dove dimora fece tre giorni, e non per altro effetto; poi dentro alle cittadi e a' borghi fuora non spiò sol per Francia e suo distretto, ma per Uvernia e per Guascogna ancora rivide sin all'ultimo borghetto: e cercò da Provenza alla Bretagna, e dai Picardi ai termini di Spagna. 7 Tra il fin d'ottobre e il capo di novembre, ne la stagion che la frondosa vesta vede levarsi e discoprir le membre trepida pianta, fin che nuda resta, e van gli augelli a strette schiere insembre, Orlando entrò ne l'amorosa inchiesta; né tutto il verno appresso lasciò quella, né la lasciò ne la stagion novella. 8 Passando un giorno, come avea costume, d'un paese in un altro, arrivò dove parte i Normandi dai Britoni un fiume, e verso il vicin mar cheto si muove; ch'allora gonfio e bianco gía di spume per nieve sciolta e per montane piove: e l'impeto de l'acqua avea disciolto e tratto seco il ponte, e il passo tolto. 9 Con gli occhi cerca or questo lato or quello, lungo le ripe il paladin, se vede (quando né pesce egli non è, né augello) come abbia a por ne l'altra ripa il piede: et ecco a sé venir vede un battello, ne la cui poppa una donzella siede, che di volere a lui venir fa segno; né lascia poi ch'arrivi in terra il legno. 10 Prora in terra non pon; ché d'esser carca contra sua volontà forse sospetta. Orlando priega lei che ne la barca seco lo tolga, et oltre il fiume il metta. Et ella lui: - Qui cavallier non varca, il qual su la sua fé non mi prometta di fare una battaglia a mia richiesta, la più giusta del mondo e la più onesta. 11 Sì che s'avete, cavallier, desire di por per me ne l'altra ripa i passi, promettetemi, prima che finire quest'altro mese prossimo si lassi, ch'al re d'Ibernia v'anderete a unire, appresso al qual la bella armata fassi per distrugger quell'isola d'Ebuda, che, di quante il mar cinge, è la più cruda. 12 Voi dovete saper ch'oltre l'Irlanda, fra molte che vi son, l'isola giace nomata Ebuda, che per legge manda rubando intorno il suo popul rapace; e quante donne può pigliar, vivanda tutte destina a un animal vorace, che viene ogni dì al lito, e sempre nuova donna o donzella, onde si pasca, truova; 13 che mercanti e corsar che vanno attorno, ve ne fan copia, e più delle più belle. Ben potete contare, una per giorno, quante morte vi sian donne e donzelle. Ma se pietade in voi truova soggiorno, se non sète d'Amor tutto ribelle, siate contento esser tra questi eletto, che van per far sì fruttuoso effetto. - 14 Orlando vòlse a pena udire il tutto, che giurò d'esser primo a quella impresa, come quel ch'alcun atto iniquo e brutto non può sentire, e d'ascoltar gli pesa: e fu a pensare, indi a temere indutto, che quella gente Angelica abbia presa; poi che cercata l'ha per tanta via, né potutone ancor ritrovar spia. 15 Questa imaginazion sì gli confuse e sì gli tolse ogni primier disegno, che, quanto in fretta più potea, conchiuse di navigare a quello iniquo regno. Né prima l'altro sol nel mar si chiuse, che presso a San Malò ritrovò un legno, nel qual si pose; e fatto alzar le vele, passò la notte il monte San Michele. 16 Breaco e Landriglier lascia a man manca, e va radendo il gran lito britone; e poi si drizza invêr l'arena bianca, onde Ingleterra si nomò Albïone; ma il vento, ch'era da meriggie, manca, e soffia tra il ponente e l'aquilone con tanta forza, che fa al basso porre tutte le vele, e sé per poppa tôrre. 17 Quanto il navilio inanzi era venuto in quattro giorni, in un ritornò indietro, ne l'alto mar dal buon nochier tenuto, che non dia in terra e sembri un fragil vetro. Il vento, poi che furïoso suto fu quattro giorni, il quinto cangiò metro: lasciò senza contrasto il legno entrare dove il fiume d'Anversa ha foce in mare. 18 Tosto che ne la foce entrò lo stanco nochier col legno afflitto, e il lito prese, fuor d'una terra che sul destro fianco di quel fiume sedeva, un vecchio scese, di molta età, per quanto il crine bianco ne dava indicio; il qual tutto cortese, dopo i saluti, al conte rivoltosse, che capo giudicò che di lor fosse. 19 E da parte il pregò d'una donzella, ch'a lei venir non gli paresse grave, la qual ritroverebbe, oltre che bella, più ch'altra al mondo affabile e soave; over fosse contento aspettar, ch'ella verrebbe a trovar lui fin alla nave: né più restio volesse esser di quanti quivi eran giunti cavallieri erranti; 20 che nessun altro cavallier, ch'arriva o per terra o per mare a questa foce, di ragionar con la donzella schiva, per consigliarla in un suo caso atroce. Udito questo, Orlando in su la riva senza punto indugiarsi uscí veloce; e come umano e pien di cortesia, dove il vecchio il menò, prese la via. 21 Fu ne la terra il paladin condutto dentro un palazzo, ove al salir le scale, una donna trovò piena di lutto, per quanto il viso ne facea segnale, e i negri panni che coprian per tutto e le loggie e le camere e le sale; la qual, dopo accoglienza grata e onesta fattol seder, gli disse in voce mesta: 22 - Io voglio che sappiate che figliuola fui del conte d'Olanda, a lui sì grata (quantunque prole io non gli fossi sola; ch'era da dui fratelli accompagnata), ch'a quanto io gli chiedea, da lui parola contraria non mi fu mai replicata. Standomi lieta in questo stato, avenne che ne la nostra terra un duca venne. 23 Duca era di Selandia, e se ne giva verso Biscaglia a guerreggiar coi Mori. La bellezza e l'età ch'in lui fioriva, e li non più da me sentiti amori con poca guerra me gli fêr captiva; tanto più che, per quel ch'apparea fuori, io credea e credo, e creder credo il vero, ch'amassi et ami me con cor sincero. 24 Quei giorni che con noi contrario vento, contrario agli altri, a me propizio, il tenne (ch'agli altri fur quaranta, a me un momento; così al fuggire ebbon veloci penne), fummo più volte insieme a parlamento, dove, che 'l matrimonio con solenne rito al ritorno suo saria tra nui, mi promise egli, et io 'l promisi a lui. 25 Bireno a pena era da noi partito (che così ha nome il mio fedele amante), che 'l re di Frisa (la qual, quanto il lito del mar divide il fiume, è a noi distante), disegnando il figliuol farmi marito, ch'unico al mondo avea, nomato Arbante, per li più degni del suo stato manda a domandarmi al mio padre in Olanda. 26 Io ch'all'amante mio di quella fede mancar non posso, che gli aveva data, e anco ch'io possa, Amor non mi conciede che poter voglia, e ch'io sia tanto ingrata; per ruinar la pratica ch'in piede era gagliarda, e presso al fin guidata, dico a mio padre, che prima ch'in Frisa mi dia marito, io voglio essere uccisa. 27 Il mio buon padre, al qual sol piacea quanto a me piacea, né mai turbar mi vòlse, per consolarmi e far cessare il pianto ch'io ne facea, la pratica disciolse: di che il superbo re di Frisa tanto isdegno prese e a tanto odio si volse, ch'entrò in Olanda, e cominciò la guerra che tutto il sangue mio cacciò sotterra. 28 Oltre che sia robusto, e sì possente, che pochi pari a nostra età ritruova, e sì astuto in mal far, ch'altrui nïente la possanza, l'ardir, l'ingegno giova; porta alcun'arme che l'antica gente non vide mai, né, fuor ch'a lui, la nuova: un ferro bugio, lungo da dua braccia, dentro a cui polve et una palla caccia. 29 Col fuoco dietro ove la canna è chiusa, tocca un spiraglio che si vede a pena; a guisa che toccare il medico usa dove è bisogno d'allacciar la vena: onde vien con tal suon la palla esclusa, che si può dir che tuona e che balena; né men che soglia il fulmine ove passa, ciò che tocca arde, abatte, apre e fracassa. 30 Pose due volte il nostro campo in rotta con questo inganno, e i miei fratelli uccise: nel primo assalto il primo; che la botta, rotto l'usbergo, in mezzo il cor gli mise; ne l'altra zuffa a l'altro, il quale in frotta fuggía, dal corpo l'anima divise; e lo ferí lontan dietro la spalla, e fuor del petto uscir fece la palla. 31 Difendendosi poi mio padre un giorno dentro un castel che sol gli era rimaso, che tutto il resto avea perduto intorno, lo fe' con simil colpo ire all'occaso; che mentre andava e che facea ritorno, provedendo or a questo or a quel caso, dal traditor fu in mezzo gli occhi còlto, che l'avea di lontan di mira tolto. 32 Morto i fratelli e il padre, e rimasa io de l'isola d'Olanda unica erede, il re di Frisa, perché avea disio di ben fermare in quello stato il piede, mi fa sapere, e così al popul mio, che pace e che riposo mi conciede, quando io vogli or, quel che non vòlsi inante, tor per marito il suo figliuolo Arbante. 33 Io per l'odio non sì, che grave porto a lui e a tutta la sua iniqua schiatta, in qual m'ha dui fratelli e 'l padre morto, saccheggiata la patria, arsa e disfatta; come perché a colui non vo' far torto, a cui già la promessa aveva fatta, ch'altr'uomo non saria che mi sposasse, fin che di Spagna a me non ritornasse: 34 « Per un mal ch'io patisco, ne vo' cento patir (rispondo), e far di tutto il resto; esser morta, arsa viva, e che sia al vento la cener sparsa, inanzi che far questo ». Studia la gente mia di questo intento tormi: chi priega, e chi mi fa protesto di dargli in mano me e la terra, prima che la mia ostinazion tutti ci opprima. 35 Così, poi che i protesti e i prieghi invano vider gittarsi, e che pur stava dura, presero accordo col Frisone, e in mano, come avean detto, gli dier me e le mura. Quel, senza farmi alcuno atto villano, de la vita e del regno m'assicura, pur ch'io indolcisca l'indurate voglie, e che d'Arbante suo mi faccia moglie. 36 Io che sforzar così mi veggio, voglio, per uscirgli di man, perder la vita; ma se pria non mi vendico, mi doglio più che di quanta ingiuria abbia patita. Fo pensier molti; e veggio al mio cordoglio che solo il simular può dare aita: fingo ch'io brami, non che non mi piaccia, che mi perdoni e sua nuora mi faccia. 37 Fra molti ch'al servizio erano stati già di mio padre, io scelgo dui fratelli, di grande ingegno e di gran cor dotati, ma più di vera fede, come quelli che cresciutici in corte et allevati si son con noi da teneri citelli; e tanto miei, che poco lor parria la vita por per la salute mia. 38 Communico con loro il mio disegno: essi prometton d'essermi in aiuto. L'un viene in Fiandra, e v'apparecchia un legno; l'altro meco in Olanda ho ritenuto. Or mentre i forestieri e quei del regno s'invitano alle nozze, fu saputo che Bireno in Biscaglia avea una armata, per venire in Olanda, apparecchiata. 39 Però che, fatta la prima battaglia dove fu rotto un mio fratello e ucciso, spacciar tosto un corrier feci in Biscaglia, che portassi a Bireno il tristo aviso; il qual mentre che s'arma e si travaglia, dal re di Frisa il resto fu conquiso. Bireno, che di ciò nulla sapea, per darci aiuto i legni sciolti avea. 40 Di questo avuto aviso il re frisone, de le nozze al figliuol la cura lassa; e con l'armata sua nel mar si pone: truova il duca, lo rompe, arde e fracassa, e, come vuol Fortuna, il fa prigione; ma di ciò ancor la nuova a noi non passa. Mi sposa intanto il giovene, e si vuole meco corcar come si corchi il sole. 41 Io dietro alle cortine avea nascoso quel mio fedele; il qual nulla si mosse prima che a me venir vide lo sposo; e non l'attese che corcato fosse, ch'alzò un'accetta, e con sì valoroso braccio dietro nel capo lo percosse, che gli levò la vita e la parola: io saltai presta, e gli segai la gola. 42 Come cadere il bue suole al macello, cade il mal nato giovene, in dispetto del re Cimosco, il più d'ogn'altro fello; che l'empio re di Frisa è così detto, che morto l'uno e l'altro mio fratello m'avea col padre, e per meglio suggetto farsi il mio stato, mi volea per nuora; e forse un giorno uccisa avria me ancora. 43 Prima ch'altro disturbo vi si metta, tolto quel che più vale e meno pesa, il mio compagno al mar mi cala in fretta da la finestra a un canape sospesa, là dove attento il suo fratello aspetta sopra la barca ch'avea in Fiandra presa. Demmo le vele ai venti e i remi all'acque, e tutti ci salvian, come a Dio piacque. 44 Non so se 'l re di Frisa più dolente del figliuol morto, o se più d'ira acceso fosse contra di me, che 'l dì seguente giunse là dove si trovò sì offeso. Superbo ritornava egli e sua gente de la vittoria e di Bireno preso; e credendo venire a nozze e a festa, ogni cosa trovò scura e funesta. 45 La pietà del figliuol, l'odio ch'aveva a me, né dì né notte il lascia mai. Ma perché il pianger morti non rileva, e la vendetta sfoga l'odio assai, la parte del pensier, ch'esser doveva de la pietade in sospirare e in guai, vuol che con l'odio a investigar s'unisca, come egli m'abbia in mano e mi punisca. 46 Quei tutti che sapeva e gli era detto che mi fossino amici, o di quei miei che m'aveano aiutata a far l'effetto, uccise, o lor beni arse, o li fe' rei. Vòlse uccider Bireno in mio dispetto; che d'altro sì doler non mi potrei: gli parve poi, se vivo lo tenesse, che, per pigliarmi, in man la rete avesse. 47 Ma gli propone una crudele e dura condizïon: gli fa termine un anno, al fin del qual gli darà morte oscura, se prima egli per forza o per inganno, con amici e parenti non procura, con tutto ciò che ponno e ciò che sanno, di darmigli in prigion: sì che la via di lui salvare è sol la morte mia. 48 Ciò che si possa far per sua salute, fuor che perder me stessa, il tutto ho fatto. Sei castella ebbi in Fiandra, e l'ho vendute: e 'l poco o 'l molto prezzo ch'io n'ho tratto, parte, tentando per persone astute i guardiani corrumpere, ho distratto; e parte, per far muovere alli danni di quell'empio or gl'Inglesi, or gli Alamanni. 49 I mezzi, o che non abbiano potuto, o che non abbian fatto il dover loro, m'hanno dato parole e non aiuto; e sprezzano or che n'han cavato l'oro: e presso al fine il termine è venuto, dopo il qual né la forza né 'l tesoro potrà giunger più a tempo, sì che morte e strazio schivi al mio caro consorte. 50 Mio padre e' miei fratelli mi son stati morti per lui; per lui toltomi il regno; per lui quei pochi beni che restati m'eran, del viver mio soli sostegno, per trarlo di prigione ho disipati: né mi resta ora in che più far disegno, se non d'andarmi io stessa in mano a porre di sì crudel nimico, e lui disciorre. 51 Se dunque da far altro non mi resta, né si truova al suo scampo altro riparo che per lui por questa mia vita, questa mia vita per lui por mi sarà caro. Ma sola una paura mi molesta, che non saprò far patto così chiaro, che m'assicuri che non sia il tiranno, poi ch'avuta m'avrà, per fare inganno. 52 Io dubito che poi che m'avrà in gabbia e fatto avrà di me tutti li strazii, né Bireno per questo a lasciare abbia, sì ch'esser per me sciolto mi ringrazii; come periuro, e pien di tanta rabbia, che di me sola uccider non si sazii: e quel ch'avrà di me, né più né meno faccia di poi del misero Bireno. 53 Or la cagion che conferir con voi mi fa i miei casi, e ch'io li dico a quanti signori e cavallier vengono a noi, è solo acciò, parlandone con tanti, m'insegni alcun d'assicurar che, poi ch'a quel crudel mi sia condotta avanti, non abbia a ritener Bireno ancora, né voglia, morta me, ch'esso poi mora. 54 Pregato ho alcun guerrier, che meco sia quando io mi darò in mano al re di Frisa; ma mi prometta e la sua fe' mi dia, che questo cambio sarà fatto in guisa, ch'a un tempo io data, e liberato fia Bireno: sì che quando io sarò uccisa, morrò contenta, poi che la mia morte avrà dato la vita al mio consorte. 55 Né fino a questo dì truovo chi toglia sopra la fede sua d'assicurarmi, che quando io sia condotta, e che mi voglia aver quel re, senza Bireno darmi, egli non lascierà contra mia voglia che presa io sia: sì teme ognun quell'armi; teme quell'armi, a cui par che non possa star piastra incontra, e sia quanto vuol grossa. 56 Or, s'in voi la virtù non è diforme dal fier sembiante e da l'erculeo aspetto, e credete poter darmegli, e tôrme anco da lui, quando non vada retto; siate contento d'esser meco a porme ne le man sue: ch'io non avrò sospetto, quando voi siate meco, se ben io poi ne morrò, che muora il signor mio. - 57 Qui la donzella il suo parlar conchiuse, che con pianto e sospir spesso interroppe. Orlando, poi ch'ella la bocca chiuse, le cui voglie al ben far mai non fur zoppe, in parole con lei non si diffuse; che di natura non usava troppe: ma le promise, e la sua fé le diede, che faria più di quel ch'ella gli chiede. 58 Non è sua intenzïon ch'ella in man vada del suo nimico per salvar Bireno: ben salverà amendui, se la sua spada e l'usato valor non gli vien meno. Il medesimo dì piglian la strada, poi c'hanno il vento prospero e sereno. Il paladin s'affretta; che di gire all'isola del mostro avea desire. 59 Or volta all'una, or volta all'altra banda per gli alti stagni il buon nochier la vela: scuopre un'isola e un'altra di Zilanda; scuopre una inanzi, e un'altra a dietro cela. Orlando smonta il terzo dì in Olanda; ma non smonta colei che si querela del re di Frisa: Orlando vuol che intenda la morte di quel rio, prima che scenda. 60 Nel lito armato il paladino varca sopra un corsier di pel tra bigio e nero, nutrito in Fiandra e nato in Danismarca, grande e possente assai più che leggiero; però ch'avea, quando si messe in barca, in Bretagna lasciato il suo destriero, quel Brigliador sì bello e sì gagliardo, che non ha paragon, fuor che Baiardo. 61 Giunge Orlando a Dordreche, e quivi truova di molta gente armata in su la porta; sì perché sempre, ma più quando è nuova, seco ogni signoria sospetto porta; sì perché dianzi giunta era una nuova, che di Selandia con armata scorta di navilii e di gente un cugin viene di quel signor che qui prigion si tiene. 62 Orlando prega uno di lor, che vada e dica al re, ch'un cavalliero errante disia con lui provarsi a lancia e a spada; ma che vuol che tra lor sia patto inante: che se 'l re fa che, chi lo sfida, cada, la donna abbia d'aver, ch'uccise Arbante; che 'l cavallier l'ha in loco non lontano da poter sempremai darglila in mano; 63 et all'incontro vuol che 'l re prometta, ch'ove egli vinto ne la pugna sia, Bireno in libertà subito metta, e che lo lasci andare alla sua via. Il fante al re fa l'imbasciata in fretta: ma quel, che né virtù né cortesia conobbe mai, drizzò tutto il suo intento alla fraude, all'inganno, al tradimento. 64 Gli par ch'avendo in mano il cavalliero, avrà la donna ancor, che sì l'ha offeso, s'in possanza di lui la donna è vero che se ritruovi, e il fante ha ben inteso. Trenta uomini pigliar fece sentiero diverso da la porta ov'era atteso, che dopo occulto et assai lungo giro, dietro alle spalle al paladino usciro. 65 Il traditore intanto dar parole fatto gli avea, sin che i cavalli e i fanti vede esser giunti al loco ove gli vuole; da la porta esce poi con altretanti. Come le fere e il bosco cinger suole perito cacciator da tutti i canti; come appresso a Volana i pesci e l'onda con lunga rete il pescator circonda: 66 così per ogni via dal re di Frisa, che quel guerrier non fugga, si provede. Vivo lo vuole, e non in altra guisa: e questo far sì facilmente crede, che 'l fulmine terrestre, con che uccisa ha tanta e tanta gente, ora non chiede; che quivi non gli par che si convegna, dove pigliar, non far morir, disegna. 67 Qual cauto ucellator che serba vivi, intento a maggior preda, i primi augelli, acciò in più quantitade altri captivi faccia col giuoco e col zimbel di quelli: tal esser vòlse il re Cimosco quivi: ma già non vòlse Orlando esser di quelli che si lascin pigliare al primo tratto; e tosto roppe il cerchio ch'avean fatto. 68 Il cavallier d'Anglante, ove più spesse vide le genti e l'arme, abbassò l'asta; et uno in quella e poscia un altro messe, e un altro e un altro, che sembrâr di pasta; e fin a sei ve n'infilzò, e li resse tutti una lancia: e perch'ella non basta a più capir, lasciò il settimo fuore ferito sì, che di quel colpo muore. 69 Non altrimente ne l'estrema arena veggiàn le rane de canali e fosse dal cauto arcier nei fianchi e ne la schiena, l'una vicina all'altra, esser percosse; né da la freccia, fin che tutta piena non sia da un capo all'altro, esser rimosse. La grave lancia Orlando da sé scaglia, e con la spada entrò ne la battaglia. 70 Rotta la lancia, quella spada strinse, quella che mai non fu menata in fallo; e ad ogni colpo, o taglio o punta, estinse quando uomo a piedi, e quando uomo a cavallo: dove toccò, sempre in vermiglio tinse l'azzurro, il verde, il bianco, il nero, il giallo. Duolsi Cimosco che la canna e il fuoco seco or non ha, quando v'avrian più loco. 71 E con gran voce e con minaccie chiede che portati gli sian, ma poco è udito; che chi ha ritratto a salvamento il piede ne la città, non è d'uscir più ardito. Il re frison, che fuggir gli altri vede, d'esser salvo egli ancor piglia partito: corre alla porta, e vuole alzare il ponte, ma troppo è presto ad arrivare il conte. 72 Il re volta le spalle, e signor lassa del ponte Orlando e d'amendue le porte; e fugge, e inanzi a tutti gli altri passa, mercé che 'l suo destrier corre più forte. Non mira Orlando a quella plebe bassa: vuole il fellon, non gli altri, porre a morte; ma il suo destrier sì al corso poco vale, che restio sembra, e chi fugge, abbia l'ale. 73 D'una in un'altra via si leva ratto di vista al paladin; ma indugia poco, che torna con nuove armi; che s'ha fatto portare intanto il cavo ferro e il fuoco: e dietro un canto postosi di piatto, l'attende, come il cacciatore al loco, coi cani armati e con lo spiedo, attende il fier cingial che ruinoso scende; 74 che spezza i rami e fa cadere i sassi, e ovunque drizzi l'orgogliosa fronte, sembra a tanto rumor che si fracassi la selva intorno, e che si svella il monte. Sta Cimosco alla posta, acciò non passi senza pagargli il fio l'audace conte: tosto ch'appare, allo spiraglio tocca col fuoco il ferro, e quel subito scocca. 75 Dietro lampeggia a guisa di baleno, dinanzi scoppia, e manda in aria il tuono. Trieman le mura, e sotto i piè il terreno; il ciel rimbomba al paventoso suono. L'ardente stral, che spezza e venir meno fa ciò ch'incontra, e dà a nessun perdono, sibila e stride; ma, come è il desire di quel brutto assassin, non va a ferire. 76 O sia la fretta, o sia la troppa voglia d'uccider quel baron, ch'errar lo faccia; o sia che il cor, tremando come foglia, faccia insieme tremare e mani e braccia; o la bontà divina che non voglia che 'l suo fedel campion sì tosto giaccia: quel colpo al ventre del destrier si torse; lo cacciò in terra, onde mai più non sorse. 77 Cade a terra il cavallo e il cavalliero: la preme l'un, la tocca l'altro a pena; che si leva sì destro e sì leggiero, come cresciuto gli sia possa e lena. Quale il libico Anteo sempre più fiero surger solea da la percossa arena, tal surger parve, e che la forza, quando toccò il terren, si radoppiasse a Orlando. 78 Chi vide mai dal ciel cadere il foco che con sì orrendo suon Giove disserra, e penetrare ove un richiuso loco carbon con zolfo e con salnitro serra; ch'a pena arriva, a pena tocca un poco, che par ch'avampi il ciel, non che la terra; spezza le mura, e i gravi marmi svelle, e fa i sassi volar sin alle stelle; 79 s'imagini che tal, poi che cadendo toccò la terra, il paladino fosse: con sì fiero sembiante aspro et orrendo, da far tremar nel ciel Marte, si mosse. Di che smarrito il re frison, torcendo la briglia indietro, per fuggir voltosse; ma gli fu dietro Orlando con più fretta, che non esce da l'arco una saetta: 80 e quel che non avea potuto prima fare a cavallo, or farà essendo a piede. Lo séguita sì ratto, ch'ogni stima di chi nol vide, ogni credenza eccede. Lo giunse in poca strada; et alla cima de l'elmo alza la spada, e sì lo fiede, che gli parte la testa fin al collo, e in terra il manda a dar l'ultimo crollo. 81 Ecco levar ne la città si sente nuovo rumor, nuovo menar di spade; che 'l cugin di Bireno con la gente ch'avea condutta da le sue contrade, poi che la porta ritrovò patente, era venuto dentro alla cittade, dal paladino in tal timor ridutta, che senza intoppo la può scorrer tutta. 82 Fugge il populo in rotta, che non scorge chi questa gente sia, né che domandi; ma poi ch'uno et un altro pur s'accorge all'abito e al parlar, che son Selandi, chiede lor pace, e il foglio bianco porge; e dice al capitan che gli comandi, e dar gli vuol contra i Frisoni aiuto, che 'l suo duca in prigion gli ha ritenuto. 83 Quel popul sempre stato era nimico del re di Frisa e d'ogni suo seguace, perché morto gli avea il signore antico, ma più perch'era ingiusto, empio e rapace. Orlando s'interpose come amico d'ambe le parti, e fece lor far pace; le quali unite, non lasciâr Frisone che non morisse o non fosse prigione. 84 Le porte de le carcere gittate a terra sono, e non si cerca chiave. Bireno al conte con parole grate mostra conoscer l'obligo che gli have. Indi insieme e con molte altre brigate se ne vanno ove attende Olimpia in nave: così la donna, a cui di ragion spetta il dominio de l'isola, era detta; 85 quella che quivi Orlando avea condutto non con pensier che far dovesse tanto; che le parea bastar, che posta in lutto sol lei, lo sposo avesse a trar di pianto. Lei riverisce e onora il popul tutto. Lungo sarebbe a ricontarvi quanto lei Bireno accarezzi, et ella lui; quai grazie al conte rendano ambidui. 86 Il popul la donzella nel paterno seggio rimette, e fedeltà le giura. Ella a Bireno, a cui con nodo eterno la legò Amor d'una catena dura, de lo stato e di sé dona il governo. Et egli tratto poi da un'altra cura, de le fortezze e di tutto il domíno de l'isola guardian lascia il cugino; 87 che tornare in Selandia avea disegno, e menar seco la fedel consorte: e dicea voler fare indi nel regno di Frisa esperïenza di sua sorte; perché di ciò l'assicurava un pegno ch'egli aveva in mano, e lo stimava forte: la figliuola del re, che fra i captivi, che vi fur molti, avea trovata quivi. 88 E dice ch'egli vuol ch'un suo germano, ch'era minor d'età, l'abbia per moglie. Quindi si parte il senator romano il dì medesmo che Bireno scioglie. Non vòlse porre ad altra cosa mano, fra tante e tante guadagnate spoglie, se non a quel tormento ch'abbiàn detto ch'al fulmine assimiglia in ogni effetto. 89 L'intenzïon non già, perché lo tolle, fu per voglia d'usarlo in sua difesa; che sempre atto stimò d'animo molle gir con vantaggio in qualsivoglia impresa: ma per gittarlo in parte, onde non volle che mai potesse ad uomo più fare offesa: e la polve e le palle e tutto il resto seco portò, ch'apparteneva a questo. 90 E così, poi che fuor de la marea nel più profondo mar si vide uscito, sì che segno lontan non si vedea del destro più né del sinistro lito; lo tolse, e disse: - Acciò più non istea mai cavallier per te d'esser ardito, né quanto il buono val, mai più si vanti il rio per te valer, qui giú rimanti. 91 O maladetto, o abominoso ordigno, che fabricato nel tartareo fondo fosti per man di Belzebù maligno che ruinar per te disegnò il mondo, all'inferno, onde uscisti, ti rasigno. - Così dicendo, lo gittò in profondo. Il vento intanto le gonfiate vele spinge alla via de l'isola crudele. 92 Tanto desire il paladino preme di saper se la donna ivi si truova, ch'ama assai più che tutto il mondo insieme, né un'ora senza lei viver gli giova; che s'in Ibernia mette il piede, teme di non dar tempo a qualche cosa nuova, sì ch'abbia poi da dir invano: - Ahi lasso! ch'al venir mio non affrettai più il passo. - 93 Né scala in Inghelterra né in Irlanda mai lasciò far, né sul contrario lito. Ma lasciamolo andar dove lo manda il nudo arcier che l'ha nel cor ferito. Prima che più io ne parli, io vo' in Olanda tornare, e voi meco a tornarvi invito; che, come a me, so spiacerebbe a voi, che quelle nozze fosson senza noi. 94 Le nozze belle e sontuose fanno; ma non sì sontuose né sì belle, come in Selandia dicon che faranno. Pur non disegno che vegnate a quelle; perché nuovi accidenti a nascere hanno per disturbarle, de' quai le novelle all'altro canto vi farò sentire, s'all'altro canto mi verrete a udire.
1 Fra quanti amor, fra quante fede al mondo mai si trovâr, fra quanti cor constanti, fra quante, o per dolente o per iocondo stato, fêr prove mai famosi amanti; più tosto il primo loco ch'il secondo darò ad Olimpia: e se pur non va inanti, ben voglio dir che fra gli antiqui e nuovi maggior de l'amor suo non si ritruovi; 2 e che con tante e con sì chiare note di questo ha fatto il suo Bireno certo, che donna più far certo uomo non puote, quando anco il petto e 'l cor mostrasse aperto. E s'anime sì fide e sì devote d'un reciproco amor denno aver merto, dico ch'Olimpia è degna che non meno, anzi più che sé ancor, l'ami Bireno: 3 e che non pur l'abandoni mai per altra donna, se ben fosse quella ch'Europa et Asia messe in tanti guai, o s'altra ha maggior titolo di bella; ma più tosto che lei, lasci coi rai del sol l'udita e il gusto e la favella e la vita e la fama, e s'altra cosa dire o pensar si può più precïosa. 4 Se Bireno amò lei come ella amato Bireno avea, se fu sì a lei fedele come ella a lui, se mai non ha voltato ad altra via, che a seguir lei, le vele; o pur s'a tanta servitù fu ingrato, a tanta fede e a tanto amor crudele, io vi vo' dire, e far di maraviglia stringer le labra et inarcar le ciglia. 5 E poi che nota l'impietà vi fia, che di tanta bontà fu a lei mercede, donne, alcuna di voi mai più non sia, ch'a parole d'amante abbia a dar fede. L'amante, per aver quel che desia, senza guardar che Dio tutto ode e vede, aviluppa promesse e giuramenti, che tutti spargon poi per l'aria i venti. 6 I giuramenti e le promesse vanno dai venti in aria disipate e sparse, tosto che tratta questi amanti s'hanno l'avida sete che gli accese et arse. Siate a' prieghi et a' pianti che vi fanno, per questo esempio, a credere più scarse. Bene è felice quel, donne mie care, ch'essere accorto all'altrui spese impare. 7 Guardatevi da questi che sul fiore de' lor begli anni il viso han sì polito; che presto nasce in loro e presto muore, quasi un foco di paglia, ogni appetito. Come segue la lepre il cacciatore al freddo, al caldo, alla montagna, al lito, né più l'estima poi che presa vede; e sol dietro a chi fugge affretta il piede: 8 così fan questi gioveni, che tanto che vi mostrate lor dure e proterve, v'amano e riveriscono con quanto studio de' far chi fedelmente serve; ma non sì tosto si potran dar vanto de la vittoria, che, di donne, serve vi dorrete esser fatte; e da voi tolto vedrete il falso amore, e altrove volto. 9 Non vi vieto per questo (ch'avrei torto) che vi lasciate amar; che senza amante sareste come inculta vite in orto, che non ha palo ove s'appoggi o piante. Sol la prima lanugine vi esorto tutta a fuggir, volubile e incostante, e côrre i frutti non acerbi e duri, ma che non sien però troppo maturi. 10 Di sopra io vi dicea ch'una figliuola del re di Frisa quivi hanno trovata, che fia, per quanto n'han mosso parola, da Bireno al fratel per moglie data. Ma, a dire il vero, esso v'avea la gola; che vivanda era troppo delicata: e riputato avria cortesia sciocca, per darla altrui, levarsela di bocca. 11 La damigella non passava ancora quattordici anni, et era bella e fresca, come rosa che spunti alora alora fuor de la buccia e col sol nuovo cresca. Non pur di lei Bireno s'inamora, ma fuoco mai così non accese esca, né se lo pongan l'invide e nimiche mani talor ne le mature spiche; 12 come egli se n'accese immantinente, come egli n'arse fin ne le medolle, che sopra il padre morto lei dolente vide di pianto il bel viso far molle. E come suol, se l'acqua fredda sente, quella restar che prima al fuoco bolle; così l'ardor ch'accese Olimpia, vinto dal nuovo successore, in lui fu estinto. 13 Non pur sazio di lei, ma fastidito n'è già così, che può vederla a pena; e sì de l'altra acceso ha l'appetito, che ne morrà se troppo in lungo il mena: pur fin che giunga il dì c'ha statuito a dar fine al disio, tanto l'affrena, che par ch'adori Olimpia, non che l'ami, e quel che piace a lei, sol voglia e brami. 14 E se accarezza l'altra (che non puote far che non l'accarezzi più del dritto), non è chi questo in mala parte note; anzi a pietade, anzi a bontà gli è ascritto: che rilevare un che Fortuna ruote talora al fondo, e consolar l'afflitto, mai non fu biasmo, ma gloria sovente; tanto più una fanciulla, una innocente. 15 Oh sommo Dio, come i giudicii umani spesso offuscati son da un nembo oscuro! I modi di Bireno empii e profani, pietosi e santi riputati furo. I marinari, già messo le mani ai remi, e sciolti dal lito sicuro, portavan lieti pei salati stagni verso Selandia il duca e i suoi compagni. 16 Già dietro rimasi erano e perduti tutti di vista i termini d'Olanda (che per non toccar Frisa, più tenuti s'eran vêr Scozia alla sinistra banda), quando da un vento fur sopravenuti, ch'errando in alto mar tre dì li manda. Sursero il terzo, già presso alla sera, dove inculta e deserta un'isola era. 17 Tratti che si fur dentro un picciol seno, Olimpia venne in terra; e con diletto in compagnia de l'infedel Bireno cenò contenta e fuor d'ogni sospetto: indi con lui, là dove in loco ameno teso era un padiglione, entrò nel letto. Tutti gli altri compagni ritornaro, e sopra i legni lor si riposaro. 18 Il travaglio del mare e la paura che tenuta alcun dì l'aveano desta, il ritrovarsi al lito ora sicura, lontana da rumor ne la foresta, e che nessun pensier, nessuna cura, poi che 'l suo amante ha seco, la molesta; fur cagion ch'ebbe Olimpia sì gran sonno, che gli orsi e i ghiri aver maggior nol ponno. 19 Il falso amante che i pensati inganni veggiar facean, come dormir lei sente, pian piano esce del letto, e de' suoi panni fatto un fastel, non si veste altrimente; e lascia il padiglione; e come i vanni nati gli sian, rivola alla sua gente, e li risveglia; e senza udirsi un grido, fa entrar ne l'alto e abandonare il lido. 20 Rimase a dietro il lido e la meschina Olimpia, che dormì senza destarse, fin che l'Aurora la gelata brina da le dorate ruote in terra sparse, e s'udîr le Alcïone alla marina de l'antico infortunio lamentarse. Né desta né dormendo, ella la mano per Bireno abbracciar stese, ma invano. 21 Nessuno truova: a sé la man ritira: di nuovo tenta, e pur nessuno truova. Di qua l'un braccio, e di là l'altro gira, or l'una or l'altra gamba; e nulla giova. Caccia il sonno il timor: gli occhi apre, e mira: non vede alcuno. Or già non scalda e cova più le vedove piume, ma si getta del letto e fuor del padiglione in fretta: 22 e corre al mar, graffiandosi le gote, presaga e certa ormai di sua fortuna. Si straccia i crini, e il petto si percuote, e va guardando (che splendea la luna) se veder cosa, fuor che 'l lito, puote; né, fuor che 'l lito, vede cosa alcuna. Bireno chiama: e al nome di Bireno rispondean gli Antri che pietà n'avieno. 23 Quivi surgea nel lito estremo un sasso, ch'aveano l'onde, col picchiar frequente, cavo e ridutto a guisa d'arco al basso; e stava sopra il mar curvo e pendente. Olimpia in cima vi salí a gran passo (così la facea l'animo possente), e di lontano le gonfiate vele vide fuggir del suo signor crudele: 24 vide lontano, o le parve vedere; che l'aria chiara ancor non era molto. Tutta tremante si lasciò cadere, più bianca e più che nieve fredda in volto; ma poi che di levarsi ebbe potere, al camin de le navi il grido volto, chiamò, quanto potea chiamar più forte, più volte il nome del crudel consorte: 25 e dove non potea la debil voce, supliva il pianto e 'l batter' palma a palma. - Dove fuggi, crudel, così veloce? Non ha il tuo legno la debita salma. Fa che lievi me ancor: poco gli nuoce che porti il corpo, poi che porta l'alma. - E con le braccia e con le vesti segno fa tuttavia, perché ritorni il legno. 26 Ma i venti che portavano le vele per l'alto mar di quel giovene infido, portavano anco i prieghi e le querele de l'infelice Olimpia, e 'l pianto e 'l grido; la qual tre volte, a se stessa crudele, per affogarsi si spiccò dal lido: pur al fin si levò da mirar l'acque, e ritornò dove la notte giacque. 27 E con la faccia in giú stesa sul letto, bagnandolo di pianto, dicea lui: - Iersera desti insieme a dui ricetto; perché insieme al levar non siamo dui? O perfido Bireno, o maladetto giorno ch'al mondo generata fui! Che debbo far? che poss'io far qui sola? chi mi dà aiuto? ohimè, chi mi consola? 28 Uomo non veggio qui, non ci veggio opra donde io possa stimar ch'uomo qui sia; nave non veggio, a cui salendo sopra, speri allo scampo mio ritrovar via. Di disagio morrò; né che mi cuopra gli occhi sarà, né chi sepolcro dia, se forse in ventre lor non me lo dànno i lupi, ohimè, ch'in queste selve stanno. 29 Io sto in sospetto, e già di veder parmi di questi boschi orsi o leoni uscire, o tigri o fiere tal, che natura armi d'aguzzi denti e d'ugne da ferire. Ma quai fere crudel potriano farmi, fera crudel, peggio di te morire? darmi una morte, so, lor parrà assai; e tu di mille, ohimè, morir mi fai. 30 Ma presupongo ancor ch'or ora arrivi nochier che per pietà di qui mi porti; e così lupi, orsi, leoni schivi, strazi, disagi et altre orribil morti: mi porterà forse in Olanda, s'ivi per te si guardan le fortezze e i porti? mi porterà alla terra ove son nata, se tu con fraude già me l'hai levata? 31 Tu m'hai lo stato mio, sotto pretesto di parentado e d'amicizia, tolto. Ben fosti a porvi le tue genti presto, per avere il dominio a te rivolto. Tornerò in Fiandra? ove ho venduto il resto di che io vivea, ben che non fossi molto, per sovenirti e di prigione trarte. Mischina! dove andrò? non so in qual parte. 32 Debbo forse ire in Frisa, ove io potei, e per te non vi vòlsi esser regina? il che del padre e dei fratelli miei e d'ogn'altro mio ben fu la ruina. Quel c'ho fatto per te, non ti vorrei, ingrato, improverar, né disciplina dartene; che non men di me lo sai: or ecco il guiderdon che me ne dai. 33 Deh, pur che da color che vanno in corso io non sia presa, e poi venduta schiava! Prima che questo, il lupo, il leon, l'orso venga, e la tigre e ogn'altra fera brava, di cui l'ugna mi stracci, e franga il morso; e morta mi strascini alla sua cava. - Così dicendo, le mani si caccia ne' capei d'oro, e a chiocca a chiocca straccia. 34 Corre di nuovo in su l'estrema sabbia, e ruota il capo e sparge all'aria il crine; e sembra forsennata, e ch'adosso abbia non un demonio sol, ma le decine; o, qual Ecuba, sia conversa in rabbia, vistosi morto Polidoro al fine. Or si ferma s'un sasso, e guarda il mare; né men d'un vero sasso, un sasso pare. 35 Ma lasciànla doler fin ch'io ritorno, per voler di Ruggier dirvi pur anco, che nel più intenso ardor del mezzo giorno cavalca il lito, affaticato e stanco. Percuote il sol nel colle e fa ritorno: di sotto bolle il sabbion trito e bianco. Mancava all'arme ch'avea indosso, poco ad esser, come già, tutte di fuoco. 36 Mentre la sete, e de l'andar fatica per l'alta sabbia, e la solinga via gli facean, lungo quella spiaggia aprica, noiosa e dispiacevol compagnia; trovò ch'all'ombra d'una torre antica che fuor de l'onde appresso il lito uscia, de la corte d'Alcina eran tre donne, che le conobbe ai gesti et alle gonne. 37 Corcate su tapeti allessandrini godeansi il fresco rezzo in gran diletto, fra molti vasi di diversi vini e d'ogni buona sorte di confetto. Presso alla spiaggia, coi flutti marini scherzando, le aspettava un lor legnetto fin che la vela empiesse agevol òra; ch'un fiato pur non ne spirava allora. 38 Queste, ch'andar per la non ferma sabbia vider Ruggiero al suo vïaggio dritto, che sculta avea la sete in su le labbia, tutto pien di sudore il viso afflitto, gli cominciaro a dir che sì non abbia il cor voluntaroso al camin fitto, ch'alla fresca e dolce ombra non si pieghi, e ristorar lo stanco corpo nieghi. 39 E di lor una s'accostò al cavallo per la staffa tener, che ne scendesse; l'altra con una coppa di cristallo di vin spumante, più sete gli messe: ma Ruggiero a quel suon non entrò in ballo; perché d'ogni tardar che fatto avesse, tempo di giunger dato avria ad Alcina, che venía dietro et era ormai vicina. 40 Non così fin salnitro e zolfo puro, tocco dal fuoco, subito s'avampa; né così freme il mar quando l'oscuro turbo discende e in mezzo se gli accampa: come, vedendo che Ruggier sicuro al suo dritto camin l'arena stampa, e che le sprezza (e pur si tenean belle), d'ira arse e di furor la terza d'elle. 41 - Tu non sei né gentil né cavalliero (dice gridando quanto può più forte), et hai rubate l'arme; e quel destriero non saria tuo per veruna altra sorte: e così, come ben m'appongo al vero, ti vedessi punir di degna morte; che fossi fatto in quarti, arso o impiccato, brutto ladron, villan, superbo, ingrato. - 42 Oltr'a queste e molt'altre ingiurïose parole che gli usò la donna altiera, ancor che mai Ruggier non le rispose, che de sì vil tenzon poco onor spera; con le sorelle tosto ella si pose sul legno in mar, che al lor servigio v'era: et affrettando i remi, lo seguiva, vedendol tuttavia dietro alla riva. 43 Minaccia sempre, maledice e incarca; che l'onte sa trovar per ogni punto. Intanto a quello stretto, onde si varca alla fata più bella, è Ruggier giunto; dove un vecchio nochiero una sua barca scioglier da l'altra ripa vede, a punto come, avisato e già provisto, quivi si stia aspettando che Ruggiero arrivi. 44 Scioglie il nochier, come venir lo vede, di trasportarlo a miglior ripa lieto; che, se la faccia può del cor dar fede, tutto benigno e tutto era discreto. Pose Ruggier sopra il navilio il piede, Dio ringraziando; e per lo mar quïeto ragionando venía col galeotto, saggio e di lunga esperïenza dotto. 45 Quel lodava Ruggier, che sì se avesse saputo a tempo tor da Alcina, e inanti che 'l calice incantato ella gli desse, ch'avea al fin dato a tutti gli altri amanti; e poi, che a Logistilla si traesse, dove veder potria costumi santi, bellezza eterna et infinita grazia che 'l cor notrisce e pasce, e mai non sazia. 46 - Costei (dicea) stupore e riverenza induce all'alma, ove si scuopre prima. Contempla meglio poi l'alta presenza: ogn'altro ben ti par di poca stima. Il suo amore ha dagli altri differenza: speme o timor negli altri il cor ti lima; in questo il desiderio più non chiede, e contento riman come la vede. 47 Ella t'insegnerà studii più grati, che suoni, danze, odori, bagni e cibi: ma come i pensier tuoi meglio formati poggin più ad alto, che per l'aria i nibi, e come de la gloria de' beati nel mortal corpo parte si delibi. - Così parlando il marinar veniva, lontano ancora alla sicura riva; 48 quando vide scoprire alla marina molti navili, e tutti alla sua volta. Con quei ne vien l'ingiurïata Alcina; e molta di sua gente have raccolta per por lo stato e se stessa in ruina, o racquistar la cara cosa tolta. E bene è amor di ciò cagion non lieve, ma l'ingiuria non men che ne riceve. 49 Ella non ebbe sdegno, da che nacque, di questo il maggior mai, ch'ora la rode; onde fa i remi sì affrettar per l'acque, che la spuma ne sparge ambe le prode. Al gran rumor né mar né ripa tacque, et Ecco risonar per tutto s'ode. - Scuopre, Ruggier, lo scudo, che bisogna; se non, sei morto, o preso con vergogna. - 50 Così disse il nocchier di Logistilla: et oltre il detto, egli medesmo prese la tasca e da lo scudo dipartilla, e fe' il lume di quel chiaro e palese. L'incantato splendor che ne sfavilla, gli occhi degli aversari così offese, che li fe' restar ciechi allora allora, e cader chi da poppa e chi da prora. 51 Un ch'era alla veletta in su la ròcca, de l'armata d'Alcina si fu accorto; e la campana martellando tocca, onde il soccorso vien subito al porto. L'artegliaria, come tempesta, fiocca contra chi vuole al buon Ruggier far torto: sì che gli venne d'ogni parte aita, tal che salvò la libertà e la vita. 52 Giunte son quattro donne in su la spiaggia, che subito ha mandate Logistilla: la valorosa Andronica e la saggia Fronesia e l'onestissima Dicilla e Sofrosina casta, che, come aggia quivi a far più che l'altre, arde e sfavilla. L'esercito ch'al mondo è senza pare, del castello esce, e si distende al mare. 53 Sotto il castel ne la tranquilla foce di molti e grossi legni era una armata, ad un botto di squilla, ad una voce giorno e notte a battaglia apparecchiata. E così fu la pugna aspra et atroce, e per acqua e per terra, incominciata; per cui fu il regno sottosopra volto, ch'avea già Alcina alla sorella tolto. 54 Oh di quante battaglie il fin successe diverso a quel che si credette inante! Non sol ch'Alcina alor non rïavesse, come stimossi, il fugitivo amante; ma de le navi che pur dianzi spesse fur sì, ch'a pena il mar ne capia tante, fuor de la fiamma che tutt'altre avampa, con un legnetto sol misera scampa. 55 Fuggesi Alcina, e sua misera gente arsa e presa riman, rotta e sommersa. D'aver Ruggier perduto, ella si sente via più doler che d'altra cosa aversa: notte e dì per lui geme amaramente, e lacrime per lui dagli occhi versa; e per dar fine a tanto aspro martíre, spesso si duol di non poter morire. 56 Morir non puote alcuna fata mai, fin che 'l sol gira, o il ciel non muta stilo. Se ciò non fosse, era il dolore assai per muover Cloto ad inasparle il filo; o, qual Didon, finia col ferro i guai; o la regina splendida del Nilo avria imitata con mortifer sonno: ma le fate morir sempre non ponno. 57 Torniamo a quel di eterna gloria degno Ruggiero; e Alcina stia ne la sua pena. Dico di lui, che poi che fuor del legno si fu condutto in più sicura arena, Dio ringraziando che tutto il disegno gli era successo, al mar voltò la schiena; et affrettando per l'asciutto il piede, alla ròcca ne va che quivi siede. 58 Né la più forte ancor né la più bella mai vide occhio mortal prima né dopo. Son di più prezzo le mura di quella, che se diamante fossino o piropo. Di tai gemme qua giú non si favella: et a chi vuol notizia averne, è d'uopo che vada quivi; che non credo altrove, se non forse su in ciel, se ne ritruove. 59 Quel che più fa che lor si inchina e cede ogn'altra gemma, è che, mirando in esse, l'uom sin in mezzo all'anima si vede; vede suoi vizii e sue virtudi espresse, sì che a lusinghe poi di sé non crede, né a chi dar biasmo a torto gli volesse: fassi, mirando allo specchio lucente se stesso, conoscendosi, prudente. 60 Il chiaro lume lor, ch'imita il sole, manda splendore in tanta copia intorno, che chi l'ha, ovunque sia, sempre che vuole, Febo, mal grado tuo, si può far giorno. Né mirabil vi son le pietre sole; ma la materia e l'artificio adorno contendon sì, che mal giudicar puossi qual de le due eccellenze maggior fossi. 61 Sopra gli altissimi archi, che puntelli parean che del ciel fossino a vederli, eran giardin sì spazïosi e belli, che saria al piano anco fatica averli. Verdeggiar gli odoriferi arbuscelli si puon veder fra i luminosi merli, ch'adorni son l'estate e il verno tutti di vaghi fiori e di maturi frutti. 62 Di così nobili arbori non suole prodursi fuor di questi bei giardini, né di tai rose o di simil vïole, di gigli, di amaranti o di gesmini. Altrove appar come a un medesmo sole e nasca e viva, e morto il capo inchini, e come lasci vedovo il suo stelo il fior suggetto al varïar del cielo: 63 ma quivi era perpetua la verdura, perpetua la beltà de' fiori eterni: non che benignità de la Natura sì temperatamente li governi; ma LogistilIa con suo studio e cura, senza bisogno de' moti superni (quel che agli altri impossibile parea), sua primavera ognor ferma tenea. 64 Logistilla mostrò molto aver grato ch'a lei venisse un sì gentil signore; e comandò che fosse accarezzato, e che studiasse ognun di fargli onore. Gran pezzo inanzi Astolfo era arrivato, che visto da Ruggier fu di buon core. Fra pochi giorni venner gli altri tutti, ch'a l'esser lor Melissa avea ridutti. 65 Poi che si fur posati un giorno e dui, venne Ruggiero alla fata prudente col duca Astolfo, che non men di lui avea desir di riveder Ponente. Melissa le parlò per amendui; e supplica la fata umilemente, che li consigli, favorisca e aiuti, sì che ritornin donde eran venuti. 66 Disse la fata: - Io ci porrò il pensiero, e fra dui dì te li darò espediti. - Discorre poi tra sé, come Ruggiero, e dopo lui, come quel duca aiti: conchiude infin che 'l volator destriero ritorni il primo agli aquitani liti; ma prima vuol che se gli faccia un morso, con che lo volga, e gli raffreni il corso. 67 Gli mostra come egli abbia a far, se vuole che poggi in alto, e come a far che cali; e come, se vorrà che in giro vole, o vada ratto, o che si stia su l'ali: e quali effetti il cavallier far suole di buon destriero in piana terra, tali facea Ruggier che mastro ne divenne, per l'aria, del destrier ch'avea le penne. 68 Poi che Ruggier fu d'ogni cosa in punto, da la fata gentil comiato prese, alla qual restò poi sempre congiunto di grande amore; e uscì di quel paese. Prima di lui che se n'andò in buon punto, e poi dirò come il guerriero inglese tornasse con più tempo e più fatica al magno Carlo et alla corte amica. 69 Quindi partí Ruggier, ma non rivenne per quella via che fe' già suo mal grado, allor che sempre l'ippogrifo il tenne sopra il mare, e terren vide di rado: ma potendogli or far batter le penne di qua di là, dove più gli era a grado, vòlse al ritorno far nuovo sentiero, come, schivando Erode, i Magi fêro. 70 Al venir quivi, era, lasciando Spagna, venuto India a trovar per dritta riga, là dove il mare orïental la bagna; dove una fata avea con l'altra briga. Or veder si dispose altra campagna, che quella dove i venti Eolo instiga, e finir tutto il cominciato tondo, per aver, come il sol, girato il mondo. 71 Quinci il Cataio, e quindi Mangïana sopra il gran Quinsaí vide passando: volò sopra l'Imavo, e Sericana lasciò a man destra; e sempre declinando da l'iperborei Sciti a l'onda ircana, giunse alle parti di Sarmazia: e quando fu dove Asia da Europa si divide, Russi e Pruteni e la Pomeria vide. 72 Ben che di Ruggier fosse ogni desire di ritornare a Bradamante presto; pur, gustato il piacer ch'avea di gire cercando il mondo, non restò per questo, ch'alli Pollacchi, agli Ungari venire non volesse anco, alli Germani, e al resto di quella boreale orrida terra: e venne al fin ne l'ultima Inghilterra. 73 Non crediate, Signor, che però stia per sì lungo camin sempre su l'ale: ogni sera all'albergo se ne gía, schivando a suo poter d'alloggiar male. E spese giorni e mesi in questa via, sì di veder la terra e il mar gli cale. Or presso a Londra giunto una matina, sopra Tamigi il volator declina. 74 Dove ne' prati alla città vicini vide adunati uomini d'arme e fanti, ch'a suon di trombe e a suon di tamburini venian, partiti a belle schiere, avanti il buon Rinaldo, onor de' paladini; del qual, se vi ricorda, io dissi inanti, che mandato da Carlo, era venuto in queste parti a ricercar aiuto. 75 Giunse a punto Ruggier, che si facea la bella mostra fuor di quella terra; e per sapere il tutto, ne chiedea un cavallier, ma scese prima in terra: e quel, ch'affabil era, gli dicea che di Scozia e d'Irlanda e d'Inghilterra e de l'isole intorno eran le schiere che quivi alzate avean tante bandiere: 76 e finita la mostra che faceano, alla marina se distenderanno, dove aspettati per solcar l'Oceano son dai navili che nel porto stanno. I Franceschi assediati si ricreano, sperando in questi che a salvar li vanno. - Ma acciò tu te n'informi pienamente, io ti distinguerò tutta la gente. 77 Tu vedi ben quella bandiera grande, ch'insieme pon la fiordaligi e i pardi: quella il gran capitano all'aria spande, e quella han da seguir gli altri stendardi. Il suo nome, famoso in queste bande, è Leonetto, il fior de li gagliardi, di consiglio e d'ardire in guerra mastro, del re nipote, e duca di Lincastro. 78 La prima, appresso il gonfalon reale, che 'l vento tremolar fa verso il monte, e tien nel campo verde tre bianche ale, porta Ricardo, di Varvecia conte. Del duca di Glocestra è quel segnale, c'ha duo corna di cervio e mezza fronte. Del duca di Chiarenza è quella face; quel arbore è del duca d'Eborace. 79 Vedi in tre pezzi una spezzata lancia: gli è 'l gonfalon del duca di Nortfozia. La fulgure è del buon conte di Cancia; il grifone è del conte di Pembrozia. Il duca di Sufolcia ha la bilancia. Vedi quel giogo che due serpi assozia: è del conte d'Esenia, e la ghirlanda in campo azzurro ha quel di Norbelanda. 80 Il conte d'Arindelia è quel c'ha messo in mar quella barchetta che s'affonda. Vedi il marchese di Barclei; e appresso di Marchia il conte e il conte di Ritmonda: il primo porta in bianco un monte fesso, l'altro la palma, il terzo un pin ne l'onda. Quel di Dorsezia è conte, e quel d'Antona, che l'uno ha il carro, e l'altro la corona. 81 Il falcon che sul nido i vanni inchina, porta Raimondo, il conte di Devonia. Il giallo e negro ha quel di Vigorina; il can quel d'Erbia; un orso quel d'Osonia. La croce che là vedi cristallina, è del ricco prelato di Battonia. Vedi nel bigio una spezzata sedia: è del duca Ariman di Sormosedia. 82 Gli uomini d'arme e gli arcieri a cavallo di quarantaduo mila numer fanno. Sono duo tanti, o di cento non fallo, quelli ch'a piè ne la battaglia vanno. Mira quei segni, un bigio, un verde, un giallo, e di nero e d'azzur listato un panno: Gofredo, Enrigo, Ermante et Odoardo guidan pedoni, ognun col suo stendardo. 83 Duca di Bocchingamia è quel dinante; Enrigo ha la contea di Sarisberia; signoreggia Burgenia il vecchio Ermante; quello Odoardo è conte di Croisberia. Questi alloggiati più verso levante sono gl'Inglesi. Or volgeti all'Esperia, dove si veggion trentamila Scotti, da Zerbin, figlio del lor re, condotti. 84 Vedi tra duo unicorni il gran leone, che la spada d'argento ha ne la zampa: quell'è del re di Scozia il gonfalone; il suo figliol Zerbino ivi s'accampa. Non è un sì bello in tante altre persone: Natura il fece, e poi roppe la stampa. Non è in cui tal virtù, tal grazia luca, o tal possanza: et è di Roscia duca. 85 Porta in azzurro una dorata sbarra il conte d'Ottonlei ne lo stendardo. L'altra bandiera è del duca di Marra, che nel travaglio porta il leopardo. Di più colori e di più augei bizzarra mira l'insegna d'Alcabrun gagliardo, che non è duca, conte, né marchese, ma primo nel salvatico paese. 86 Del duca di Trasfordia è quella insegna, dove è l'augel ch'al sol tien gli occhi franchi. Lurcanio conte, ch'in Angoscia regna, porta quel tauro, c'ha duo veltri ai fianchi. Vedi là il duca d'Albania, che segna il campo di colori azzurri e bianchi. Quel avoltor, ch'un drago verde lania, è l'insegna del conte di Boccania. 87 Signoreggia Forbesse il forte Armano, che di bianco e di nero ha la bandiera; et ha il conte d'Erelia a destra mano, che porta in campo verde una lumiera. Or guarda gl'Ibernesi appresso il piano: sono duo squadre; e il conte di Childera mena la prima, e il conte di Desmonda da fieri monti ha tratta la seconda. 88 Ne lo stendardo il primo ha un pino ardente; l'altro nel bianco una vermiglia banda. Non dà soccorso a Carlo solamente la terra inglese e la Scozia e l'Irlanda; ma vien di Svezia e di Norvegia gente, da Tile, e fin da la remota Islanda: da ogni terra, insomma, che là giace, nimica naturalmente di pace. 89 Sedicimila sono, o poco manco, de le spelonche usciti e de le selve; hanno piloso il viso, il petto, il fianco, e dossi e braccia e gambe, come belve. Intorno allo stendardo tutto bianco par che quel pian di lor lance s'inselve: così Moratto il porta, il capo loro, per dipingerlo poi di sangue Moro. - 90 Mentre Ruggier di quella gente bella, che per soccorrer Francia si prepara, mira le varie insegne, e ne favella, e dei signor britanni i nomi impara; uno et un altro a lui, per mirar quella bestia sopra cui siede, unica o rara, maraviglioso corre e stupefatto; e tosto il cerchio intorno gli fu fatto. 91 Sì che per dare ancor più maraviglia, e per pigliarne il buon Ruggier più gioco, al volante corsier scuote la briglia, e con gli sproni ai fianchi il tocca un poco: quel verso il ciel per l'aria il camin piglia, e lascia ognuno attonito in quel loco. Quindi Ruggier, poi che di banda in banda vide gl'Inglesi, andò verso l'Irlanda. 92 E vide Ibernia fabulosa, dove il santo vecchiarel fece la cava, in che tanta mercé par che si truove, che l'uom vi purga ogni sua colpa prava. Quindi poi sopra il mare il destrier muove là dove la minor Bretagna lava: e nel passar vide, mirando a basso, Angelica legata al nudo sasso. 93 Al nudo sasso, all'Isola del pianto; che l'Isola del pianto era nomata quella che da crudele e fiera tanto et inumana gente era abitata, che (come io vi dicea sopra nel canto) per varii liti sparsa iva in armata tutte le belle donne depredando, per farne a un mostro poi cibo nefando. 94 Vi fu legata pur quella matina, dove venía per trangugiarla viva quel smisurato mostro, orca marina, che di aborrevole esca si nutriva. Dissi di sopra, come fu rapina di quei che la trovaro in su la riva dormire al vecchio incantatore a canto, ch'ivi l'avea tirata per incanto. 95 La fiera gente inospitale e cruda alla bestia crudel nel lito espose la bellissima donna, così ignuda come Natura prima la compose. Un velo non ha pure, in che richiuda i bianchi gigli e le vermiglie rose, da non cader per luglio o per dicembre, di che son sparse le polite membre. 96 Creduto avria che fosse statua finta o d'alabastro o d'altri marmi illustri Ruggiero, e su lo scoglio così avinta per artificio di scultori industri; se non vedea la lacrima distinta tra fresche rose e candidi ligustri far rugiadose le crudette pome, e l'aura sventolar l'aurate chiome. 97 E come ne' begli occhi gli occhi affisse, de la sua Bradamante gli sovvenne. Pietade e amore a un tempo lo trafisse, e di piangere a pena si ritenne; e dolcemente alla donzella disse, poi che del suo destrier frenò le penne: - O donna, degna sol de la catena con chi i suoi servi Amor legati mena, 98 e ben di questo e d'ogni male indegna, chi è quel crudel che con voler perverso d'importuno livor stringendo segna di queste belle man l'avorio terso? - Forza è ch'a quel parlare ella divegna quale è di grana un bianco avorio asperso, di sé vedendo quelle parte ignude, ch'ancor che belle sian, vergogna chiude. 99 E coperto con man s'avrebbe il volto, se non eran legate al duro sasso; ma del pianto, ch'almen non l'era tolto, lo sparse, e si sforzò di tener basso. E dopo alcun' signozzi il parlar sciolto, incominciò con fioco suono e lasso: ma non seguí; che dentro il fe' restare il gran rumor che si sentí nel mare. 100 Ecco apparir lo smisurato mostro mezzo ascoso ne l'onda e mezzo sorto. Come sospinto suol da borea o d'ostro venir lungo navilio a pigliar porto, così ne viene al cibo che l'è mostro la bestia orrenda; e l'intervallo è corto. La donna è mezza morta di paura; né per conforto altrui si rassicura. 101 Tenea Ruggier la lancia non in resta, ma sopra mano, e percoteva l'orca. Altro non so che s'assimigli a questa, ch'una gran massa che s'aggiri e torca; né forma ha d'animal, se non la testa, c'ha gli occhi e i denti fuor, come di porca. Ruggier in fronte la fería tra gli occhi; ma par che un ferro o un duro sasso tocchi. 102 Poi che la prima botta poco vale, ritorna per far meglio la seconda. L'orca, che vede sotto le grandi ale l'ombra di qua e di là correr su l'onda, lascia la preda certa litorale, e quella vana segue furibonda: dietro quella si volve e si raggira. Ruggier giú cala, e spessi colpi tira. 103 Come d'alto venendo aquila suole, ch'errar fra l'erbe visto abbia la biscia, o che stia sopra un nudo sasso al sole, dove le spoglie d'oro abbella e liscia; non assalir da quel lato la vuole onde la velenosa e soffia e striscia, ma da tergo la adugna, e batte i vanni, acciò non se le volga e non la azzanni: 104 così Ruggier con l'asta e con la spada, non dove era de' denti armato il muso, ma vuol che 'l colpo tra l'orecchie cada, or su le schene, or ne la coda giuso. Se la fera si volta, ei muta strada, et a tempo giú cala, e poggia in suso: ma come sempre giunga in un dïaspro, non può tagliar lo scoglio duro et aspro. 105 Simil battaglia fa la mosca audace contra il mastin nel polveroso agosto, o nel mese dinanzi o nel seguace, l'uno di spiche e l'altro pien di mosto: negli occhi il punge e nel grifo mordace, volagli intorno e gli sta sempre accosto; e quel suonar fa spesso il dente asciutto: ma un tratto che gli arrivi, appaga il tutto. 106 Sì forte ella nel mar batte la coda, che fa vicino al ciel l'acqua inalzare; tal che non sa se l'ale in aria snoda, o pur se 'l suo destrier nuota nel mare. Gli è spesso che disia trovarsi a proda; che se lo sprazzo in tal modo ha a durare, teme sì l'ale inaffi all'ippogrifo, che brami invano avere o zucca o schifo. 107 Prese nuovo consiglio, e fu il migliore, di vincer con altre arme il mostro crudo: abbarbagliar lo vuol con lo splendore ch'era incantato nel coperto scudo. Vola nel lito; e per non fare errore, alla donna legata al sasso nudo lascia nel minor dito de la mano l'annel, che potea far l'incanto vano: 108 dico l'annel che Bradamante avea, per liberar Ruggier, tolto a Brunello, poi per trarlo di man d'Alcina rea, mandato in India per Melissa a quello. Melissa (come dianzi io vi dicea) in ben di molti adoperò l'annello; indi l'avea a Ruggier restituito, dal qual poi sempre fu portato in dito. 109 Lo dà ad Angelica ora, perché teme che del suo scudo il fulgurar non viete, e perché a lei ne sien difesi insieme gli occhi che già l'avean preso alla rete. Or viene al lito e sotto il ventre preme ben mezzo il mar la smisurata cete. Sta Ruggiero alla posta, e lieva il velo; e par ch'aggiunga un altro sole al cielo. 110 Ferí negli occhi l'incantato lume di quella fera, e fece al modo usato. Quale o trota o scaglion va giú pel fiume c'ha con calcina il montanar turbato, tal si vedea ne le marine schiume il mostro orribilmente riversciato. Di qua di là Ruggier percuote assai, ma di ferirlo via non truova mai. 111 La bella donna tuttavolta priega ch'invan la dura squama oltre non pesti. - Torna, per Dio, signor: prima mi slega (dicea piangendo), che l'orca si desti: portami teco e in mezzo il mar mi anniega: non far ch'in ventre al brutto pesce io resti. - Ruggier, commosso dunque al giusto grido, slegò la donna, e la levò dal lido. 112 Il destrier punto, ponta i piè all'arena e sbalza in aria, e per lo ciel galoppa; e porta il cavalliero in su la schena, e la donzella dietro in su la groppa. Così privò la fera de la cena per lei soave e delicata troppa. Ruggier si va volgendo, e mille baci figge nel petto e negli occhi vivaci. 113 Non più tenne la via, come propose prima, di circundar tutta la Spagna; ma nel propinquo lito il destrier pose, dove entra in mar più la minor Bretagna. Sul lito un bosco era di querce ombrose, dove ognor par che Filomena piagna; ch'in mezzo avea un pratel con una fonte, e quinci e quindi un solitario monte. 114 Quivi il bramoso cavallier ritenne l'audace corso, e nel pratel discese; e fe' raccorre al suo destrier le penne, ma non a tal che più le avea distese. Del destrier sceso, a pena si ritenne di salir altri; ma tennel l'arnese: l'arnese il tenne, che bisognò trarre, e contra il suo disir messe le sbarre. 115 Frettoloso, or da questo or da quel canto confusamente l'arme si levava. Non gli parve altra volta mai star tanto; che s'un laccio sciogliea, dui n'annodava. Ma troppo è lungo ormai, Signor, il canto, e forse ch'anco l'ascoltar vi grava: sì ch'io differirò l'istoria mia in altro tempo che più grata sia.
1 Quantunque debil freno a mezzo il corso animoso destrier spesso raccolga, raro è però che di ragione il morso libidinosa furia a dietro volga, quando il piacere ha in pronto; a guisa d'orso che dal mel non sì tosto si distolga, poi che gli n'è venuto odore al naso, o qualche stilla ne gustò sul vaso. 2 Qual ragion fia che 'l buon Ruggier raffrene, sì che non voglia ora pigliar diletto d'Angelica gentil che nuda tiene nel solitario e commodo boschetto? Di Bradamante più non gli soviene, che tanto aver solea fissa nel petto: e se gli ne sovien pur come prima, pazzo è se questa ancor non prezza e stima; 3 con la qual non saria stato quel crudo Zenocrate di lui più continente. Gittato avea Ruggier l'asta e lo scudo, e si traea l'altre arme impazïente; quando abbassando pel bel corpo ignudo la donna gli occhi vergognosamente, si vide in dito il prezïoso annello che già le tolse ad Albracca Brunello. 4 Questo è l'annel ch'ella portò già in Francia la prima volta che fe' quel camino col fratel suo, che v'arrecò la lancia, la qual fu poi d'Astolfo paladino. Con questo fe' gl'incanti uscire in ciancia di Malagigi al petron di Merlino; con questo Orlando et altri una matina tolse di servitù di Dragontina; 5 con questo uscí invisibil de la torre dove l'avea richiusa un vecchio rio. A che voglio io tutte sue prove accôrre, se le sapete voi così come io? Brunel sin nel giron lel venne a tôrre; ch'Agramante d'averlo ebbe disio. Da indi in qua sempre Fortuna a sdegno ebbe costei, fin che le tolse il regno. 6 Or che sel vede, come ho detto, in mano, sì di stupore e d'allegrezza è piena, che quasi dubbia di sognarsi invano, agli occhi, alla man sua dà fede a pena. Del dito se lo leva, e a mano a mano sel chiude in bocca: e in men che non balena, così dagli occhi di Ruggier si cela, come fa il sol quando la nube il vela. 7 Ruggier pur d'ogn'intorno riguardava, e s'aggirava a cerco come un matto; ma poi che de l'annel si ricordava, scornato vi rimase e stupefatto: e la sua inavvertenza bestemiava, e la donna accusava di quello atto ingrato e discortese, che renduto in ricompensa gli era del suo aiuto. 8 - Ingrata damigella, è questo quello guiderdone (dicea), che tu mi rendi? che più tosto involar vogli l'annello, ch'averlo in don? Perché da me nol prendi? Non pur quel, ma lo scudo e il destrier snello e me ti dono, e come vuoi mi spendi; sol che 'l bel viso tuo non mi nascondi. Io so, crudel, che m'odi, e non rispondi. - 9 Così dicendo, intorno alla fontana brancolando n'andava come cieco. Oh quante volte abbracciò l'aria vana, sperando la donzella abbracciar seco! Quella, che s'era già fatta lontana, mai non cessò d'andar, che giunse a un speco che sotto un monte era capace e grande, dove al bisogno suo trovò vivande. 10 Quivi un vecchio pastor, che di cavalle un grande armento avea, facea soggiorno. Le iumente pascean giú per la valle le tenere erbe ai freschi rivi intorno. Di qua di là da l'antro erano stalle, dove fuggíano il sol del mezzo giorno. Angelica quel dì lunga dimora là dentro fece, e non fu vista ancora. 11 E circa il vespro, poi che rifrescossi, e le fu aviso esser posata assai, in certi drappi rozzi aviluppossi, dissimil troppo ai portamenti gai, che verdi, gialli, persi, azzurri e rossi ebbe, e di quante foggie furon mai. Non le può tor però tanto umil gonna, che bella non rassembri e nobil donna. 12 Taccia chi loda Fillide, o Neera, o Amarilli, o Galatea fugace; che d'esse alcuna sì bella non era, Titiro e Melibeo, con vostra pace. La bella donna tra' fuor de la schiera de le iumente una che più le piace. Allora allora se le fece inante un pensier di tornarsene in Levante. 13 Ruggiero intanto, poi ch'ebbe gran pezzo indarno atteso s'ella si scopriva, e che s'avide del suo error da sezzo; che non era vicina e non l'udiva; dove lasciato avea il cavallo, avezzo in cielo e in terra, a rimontar veniva: e ritrovò che s'avea tratto il morso, e salia in aria a più libero corso. 14 Fu grave e mala aggiunta all'altro danno vedersi anco restar senza l'augello. Questo, non men che 'l feminile inganno, gli preme al cor; ma più che questo e quello, gli preme e fa sentir noioso affanno l'aver perduto il prezïoso annello; per le virtù non tanto ch'in lui sono, quanto che fu de la sua donna dono. 15 Oltremodo dolente si ripose indosso l'arme, e lo scudo alle spalle; dal mar slungossi, e per le piaggie erbose prese il camin verso una larga valle, dove per mezzo all'alte selve ombrose vide il più largo e 'l più segnato calle. Non molto va, ch'a destra, ove più folta è quella selva, un gran strepito ascolta. 16 Strepito ascolta e spaventevol suono d'arme percosse insieme; onde s'affretta tra pianta e pianta, e truova dui, che sono a gran battaglia in poca piazza e stretta. Non s'hanno alcun riguardo né perdono, per far, non so di che, dura vendetta. L'uno è gigante, alla sembianza fiero; ardito l'altro e franco cavalliero. 17 E questo con lo scudo e con la spada, di qua di là saltando, si difende, perché la mazza sopra non gli cada, con che il gigante a due man sempre offende. Giace morto il cavallo in su la strada. Ruggier si ferma, e alla battaglia attende; e tosto inchina l'animo, e disia che vincitore il cavallier ne sia. 18 Non che per questo gli dia alcun aiuto; ma si tira da parte, e sta a vedere. Ecco col baston grave il più membruto sopra l'elmo a due man del minor fere. De la percossa è il cavallier caduto: l'altro, che 'l vide attonito giacere, per dargli morte l'elmo gli dislaccia; e fa sì che Ruggier lo vede in faccia. 19 Vede Ruggier de la sua dolce e bella e carissima donna Bradamante scoperto il viso; e lei vede esser quella a cui dar morte vuol l'empio gigante: sì che a battaglia subito l'appella, e con la spada nuda si fa inante: ma quel, che nuova pugna non attende, la donna tramortita in braccio prende; 20 e se l'arreca in spalla, e via la porta, come lupo talor piccolo agnello, o l'aquila portar ne l'ugna torta suole o colombo o simile altro augello. Vede Ruggier quanto il suo aiuto importa, e vien correndo a più poter; ma quello con tanta fretta i lunghi passi mena, che con gli occhi Ruggier lo segue a pena. 21 Così correndo l'uno, e seguitando l'altro, per un sentiero ombroso e fosco, che sempre si venía più dilatando, in un gran prato uscîr fuor di quel bosco. Non più di questo; ch'io ritorno a Orlando, che 'l fulgur che portò già il re Cimosco, avea gittato in mar nel maggior fondo, acciò mai più non si trovasse al mondo. 22 Ma poco ci giovò: che 'l nimico empio de l'umana natura, il qual del telo fu l'inventor, ch'ebbe da quel l'esempio, ch'apre le nubi e in terra vien dal cielo; con quasi non minor di quello scempio che ci diè quando Eva ingannò col melo, lo fece ritrovar da un negromante, al tempo de' nostri avi, o poco inante. 23 La machina infernal, di più di cento passi d'acqua ove stè ascosa molt'anni, al sommo tratta per incantamento, prima portata fu tra gli Alamanni; li quali uno et un altro esperimento facendone, e il demonio a' nostri danni assuttigliando lor via più la mente, ne ritrovaro l'uso finalmente. 24 Italia e Francia e tutte l'altre bande del mondo han poi la crudele arte appresa. Alcuno il bronzo in cave forme spande, che liquefatto ha la fornace accesa; búgia altri il ferro; e chi picciol, chi grande il vaso forma, che più e meno pesa: e qual bombarda e qual nomina scoppio, qual semplice cannon, qual cannon doppio; 25 qual sagra, qual falcon, qual colubrina sento nomar, come al suo autor più agrada; che 'l ferro spezza, e i marmi apre e ruina, e ovunque passa si fa dar la strada. Rendi, miser soldato, alla fucina per tutte l'arme c'hai, fin alla spada; e in spalla un scoppio o un arcobugio prendi; che senza, io so, non toccherai stipendi. 26 Come trovasti, o scelerata e brutta invenzïon, mai loco in uman core? Per te la militar gloria è distrutta, per te il mestier de l'arme è senza onore; per te è il valore e la virtù ridutta, che spesso par del buono il rio migliore: non più la gagliardia, non più l'ardire per te può in campo al paragon venire. 27 Per te son giti et anderan sotterra tanti signori e cavallieri tanti, prima che sia finita questa guerra, che 'l mondo, ma più Italia ha messo in pianti; che s'io v'ho detto, il detto mio non erra, che ben fu il più crudele e il più di quanti mai furo al mondo ingegni empii e maligni, ch'imaginò sì abominosi ordigni. 28 E crederò che Dio, perché vendetta ne sia in eterno, nel profondo chiuda del cieco abisso quella maladetta anima, appresso al maladetto Giuda. Ma seguitiamo il cavallier ch'in fretta brama trovarsi all'isola d'Ebuda, dove le belle donne e delicate son per vivanda a un marin mostro date. 29 Ma quanto avea più fretta il paladino, tanto parea che men l'avesse il vento. Spiri o dal lato destro o dal mancino, o ne le poppe, sempre è così lento, che si può far con lui poco camino; e rimanea talvolta in tutto spento: soffia talor sì averso, che gli è forza o di tornare, o d'ir girando all'orza. 30 Fu volontà di Dio che non venisse prima che 'l re d'Ibernia in quella parte, acciò con più facilità seguisse quel ch'udir vi farò fra poche carte. Sopra l'isola sorti, Orlando disse al suo nochiero: - Or qui potrai fermarte, e 'l battel darmi; che portar mi voglio senz'altra compagnia sopra lo scoglio. 31 E voglio la maggior gomona meco, e l'àncora maggior ch'abbi sul legno: io ti farò veder perché l'arreco, se con quel mostro ad affrontar mi vegno. - Gittar fe' in mare il palischermo seco, con tutto quel ch'era atto al suo disegno. Tutte l'arme lasciò, fuor che la spada; e vêr lo scoglio, sol, prese la strada. 32 Si tira i remi al petto, e tien le spalle volte alla parte ove discender vuole; a guisa che del mare o de la valle uscendo al lito, il salso granchio suole. Era ne l'ora che le chiome gialle la bella Aurora avea spiegate al Sole, mezzo scoperto ancora e mezzo ascoso, non senza sdegno di Titon geloso. 33 Fattosi appresso al nudo scoglio, quanto potria gagliarda man gittare un sasso, gli pare udire e non udire un pianto; sì all'orecchie gli vien debole e lasso. Tutto si volta sul sinistro canto; e posto gli occhi appresso all'onde al basso, vede una donna, nuda come nacque, legata a un tronco; e i piè le bagnan l'acque. 34 Perché gli è ancor lontana, e perché china la faccia tien, non ben chi sia discerne. Tira in fretta ambi i remi, e s'avicina con gran disio di più notizia averne. Ma muggiar sente in questo la marina, e rimbombar le selve e le caverne: gonfiarsi l'onde; et ecco il mostro appare, che sotto il petto ha quasi ascoso il mare. 35 Come d'oscura valle umida ascende nube di pioggia e di tempesta pregna, che più che cieca notte si distende per tutto 'l mondo, e par che 'l giorno spegna; così nuota la fera, e del mar prende tanto, che si può dir che tutto il tegna: fremono l'onde. Orlando in sé raccolto, la mira altier, né cangia cor né volto. 36 E come quel ch'avea il pensier ben fermo di quanto volea far, si mosse ratto; e perché alla donzella essere schermo, e la fera assalir potesse a un tratto, entrò fra l'orca e lei col palischermo, nel fodero lasciando il brando piatto: l'àncora con la gomona in man prese; poi con gran cor l'orribil mostro attese. 37 Tosto che l'orca s'accostò, e scoperse nel schifo Orlando con poco intervallo, per ingiottirlo tanta bocca aperse, ch'entrato un uomo vi saria a cavallo. Si spinse Orlando inanzi, e se gl'immerse con quella àncora in gola, e s'io non fallo, col battello anco; e l'àncora attaccolle e nel palato e ne la lingua molle: 38 sì che né più si puon calar di sopra, né alzar di sotto le mascelle orrende. Così chi ne le mine il ferro adopra, la terra, ovunque si fa via, suspende, che subita ruina non lo cuopra, mentre mal cauto al suo lavoro intende. Da un amo all'altro l'àncora è tanto alta, che non v'arriva Orlando, se non salta. 39 Messo il puntello, e fattosi sicuro che 'l mostro più serrar non può la bocca, stringe la spada, e per quel antro oscuro di qua e di là con tagli e punte tocca. Come si può, poi che son dentro al muro giunti i nimici, ben difender ròcca; così difender l'orca si potea dal paladin che ne la gola avea. 40 Dal dolor vinta, or sopra il mar si lancia, e mostra i fianchi e le scagliose schene; or dentro vi s'attuffa, e con la pancia muove dal fondo e fa salir l'arene. Sentendo l'acqua il cavallier di Francia, che troppo abonda, a nuoto fuor ne viene: lascia l'àncora fitta, e in mano prende la fune che da l'àncora depende. 41 E con quella ne vien nuotando in fretta verso lo scoglio; ove fermato il piede, tira l'àncora a sé, ch'in bocca stretta con le due punte il brutto mostro fiede. L'orca a seguire il canape è constretta da quella forza ch'ogni forza eccede, da quella forza che più in una scossa tira, ch'in dieci un argano far possa. 42 Come toro salvatico ch'al corno gittar si senta un improviso laccio, salta di qua di là, s'aggira intorno, si colca e lieva, e non può uscir d'impaccio; così fuor del suo antico almo soggiorno l'orca tratta per forza di quel braccio, con mille guizzi e mille strane ruote segue la fune, e scior non se ne puote. 43 Di bocca il sangue in tanta copia fonde, che questo oggi il mar Rosso si può dire, dove in tal guisa ella percuote l'onde, ch'insino al fondo le vedreste aprire; et or ne bagna il cielo, e il lume asconde del chiaro sol: tanto le fa salire. Rimbombano al rumor ch'intorno s'ode, le selve, i monti e le lontane prode. 44 Fuor de la grotta il vecchio Proteo, quando ode tanto rumor, sopra il mare esce; e visto entrare e uscir de l'orca Orlando, e al lito trar sì smisurato pesce, fugge per l'alto oceano, oblïando lo sparso gregge: e sì il tumulto cresce, che fatto al carro i suoi delfini porre, quel dì Nettunno in Etïopia corre. 45 Con Melicerta in collo Ino piangendo, e le Nereide coi capelli sparsi, Glauci e Tritoni, e gli altri, non sappiendo dove, chi qua chi là van per salvarsi. Orlando al lito trasse il pesce orrendo, col qual non bisognò più affaticarsi; che pel travaglio e per l'avuta pena, prima morì, che fosse in su l'arena. 46 De l'isola non pochi erano corsi a riguardar quella battaglia strana; i quai da vana religion rimorsi, così sant'opra riputâr profana: e dicean che sarebbe un nuovo tôrsi Proteo nimico, e attizzar l'ira insana, da farli porre il marin gregge in terra, e tutta rinovar l'antica guerra; 47 e che meglio sarà di chieder pace prima all'offeso dio, che peggio accada; e questo si farà, quando l'audace gittato in mare a placar Proteo vada. Come dà fuoco l'una a l'altra face, e tosto alluma tutta una contrada, così d'un cor ne l'altro si difonde l'ira ch'Orlando vuol gittar ne l'onde. 48 Chi d'una fromba e chi d'un arco armato, chi d'asta, chi di spada, al lito scende; e dinanzi e di dietro e d'ogni lato, lontano e appresso, a più poter l'offende. Di sì bestiale insulto e troppo ingrato gran meraviglia il paladin si prende: pel mostro ucciso ingiuria far si vede, dove aver ne sperò gloria e mercede. 49 Ma come l'orso suol, che per le fiere menato sia da Rusci o da Lituani, passando per la via, poco temere l'importuno abbaiar di picciol cani, che pur non se li degna di vedere; così poco temea di quei villani il paladin, che con un soffio solo ne potrà fracassar tutto lo stuolo. 50 E ben si fece far subito piazza che lor si volse, e Durindana prese. S'avea creduto quella gente pazza che le dovesse far poche contese, quando né indosso gli vedea corazza, né scudo in braccio, né alcun altro arnese; ma non sapea che dal capo alle piante dura la pelle avea più che diamante. 51 Quel che d'Orlando agli altri far non lece, di far degli altri a lui già non è tolto. Trenta n'uccise, e furo in tutto diece botte, o se più, non le passò di molto. Tosto intorno sgombrar l'arena fece; e per slegar la donna era già volto, quando nuovo tumulto e nuovo grido fe' risuonar da un'altra parte il lido. 52 Mentre avea il paladin da questa banda così tenuto i barbari impediti, eran senza contrasto quei d'Irlanda da più parte ne l'isola saliti; e spenta ogni pietà, strage nefanda di quel popul facean per tutti i liti: fosse iustizia, o fosse crudeltade, né sesso riguardavano né etade. 53 Nessun ripar fan gl'isolani, o poco; parte, ch'accolti son troppo improviso, parte, che poca gente ha il picciol loco, e quella poca è di nessun aviso. L'aver fu messo a sacco; messo fuoco fu ne le case: il populo fu ucciso: le mura fur tutte adeguate al suolo: non fu lasciato vivo un capo solo. 54 Orlando, come gli appertenga nulla l'alto rumor, le strida e la ruina, viene a colei che su la pietra brulla avea da divorar l'orca marina. Guarda, e gli par conoscer la fanciulla; e più gli pare, e più che s'avicina: gli pare Olimpia: et era Olimpia certo, che di sua fede ebbe sì iniquo merto. 55 Misera Olimpia! a cui dopo lo scorno che gli fe' Amore, anco Fortuna cruda mandò i corsari (e fu il medesmo giorno), che la portaro all'isola d'Ebuda. Riconosce ella Orlando nel ritorno che fa allo scoglio: ma perch'ella è nuda, tien basso il capo; e non che non gli parli, ma gli occhi non ardisce al viso alzarli. 56 Orlando domandò ch'iniqua sorte l'avesse fatta all'isola venire di là dove lasciata col consorte lieta l'avea quanto si può più dire. - Non so (disse ella) s'io v'ho, che la morte voi mi schivaste, grazie a riferire, o da dolermi che per voi non sia oggi finita la miseria mia. 57 Io v'ho da ringraziar ch'una maniera di morir mi schivaste troppo enorme; che troppo saria enorme, se la fera nel brutto ventre avesse avuto a porme. Ma già non vi ringrazio ch'io non pèra; che morte sol può di miseria tôrme: ben vi ringrazierò, se da voi darmi quella vedrò, che d'ogni duol può trarmi. - 58 Poi con gran pianto seguitò, dicendo come lo sposo suo l'avea tradita; che la lasciò su l'isola dormendo, donde ella poi fu dai corsar rapita. E mentre ella parlava, rivolgendo s'andava in quella guisa che scolpita o dipinta è Dïana ne la fonte, che getta l'acqua ad Ateone in fronte; 59 che, quanto può, nasconde il petto e 'l ventre, più liberal dei fianchi e de le rene. Brama Orlando ch'in porto il suo legno entre; che lei, che sciolta avea da le catene, vorria coprir d'alcuna veste. Or mentre ch'a questo è intento, Oberto sopraviene, Oberto il re d'Ibernia, ch'avea inteso che 'l marin mostro era sul lito steso; 60 E che nuotando un cavallier era ito a porgli in gola un'àncora assai grave; e che l'avea così tirato al lito, come si suol tirar contr'acqua nave. Oberto, per veder se riferito colui da chi l'ha inteso, il vero gli have, se ne vien quivi; e la sua gente intanto arde e distrugge Ebuda in ogni canto. 61 Il re d'Ibernia, ancor che fosse Orlando di sangue tinto, e d'acqua molle e brutto, brutto del sangue che si trasse quando uscì de l'orca in ch'era entrato tutto, pel conte l'andò pur raffigurando; tanto più che ne l'animo avea indutto, tosto che del valor sentí la nuova, ch'altri ch'Orlando non faria tal pruova. 62 Lo conoscea, perch'era stato infante d'onore in Francia, e se n'era partito per pigliar la corona, l'anno inante, del padre suo ch'era di vita uscito. Tante volte veduto, e tante e tante gli avea parlato, ch'era in infinito. Lo corse ad abbracciare e a fargli festa, trattasi la celata ch'avea in testa. 63 Non meno Orlando di veder contento si mostrò il re, che 'l re di veder lui. Poi che furo a iterar l'abbracciamento una o due volte tornati amendui, narrò ad Oberto Orlando il tradimento che fu fatto alla giovane, e da cui fatto le fu; dal perfido Bireno, che via d'ogn'altro lo dovea far meno. 64 Le pruove gli narrò, che tante volte ella d'amarlo dimostrato avea: come i parenti e le sustanzie tolte le furo, e al fin per lui morir volea; e ch'esso testimonio era di molte, e renderne buon conto ne potea. Mentre parlava, i begli occhi sereni de la donna di lagrime eran pieni. 65 Era il bel viso suo, quale esser suole da primavera alcuna volta il cielo, quando la pioggia cade, e a un tempo il sole si sgombra intorno il nubiloso velo. E come il rosignuol dolci carole mena nei rami alor del verde stelo, così alle belle lagrime le piume si bagna Amore, e gode al chiaro lume. 66 E ne la face de' begli occhi accende l'aurato strale, e nel ruscello amorza, che tra vermigli e bianchi fiori scende: e temprato che l'ha, tira di forza contra il garzon, che né scudo difende, né maglia doppia, né ferigna scorza; che mentre sta a mirar gli occhi e le chiome, si sente il cor ferito, e non sa come. 67 Le bellezze d'Olimpia eran di quelle che son più rare: e non la fronte sola, gli occhi e le guance e le chiome avea belle, la bocca, il naso, gli omeri e la gola; ma discendendo giú da le mammelle, le parti che solea coprir la stola, fur di tanta escellenzia, ch'anteporse a quante n'avea il mondo potean forse. 68 Vinceano di candor le nievi intatte, et eran più ch'avorio a toccar molli: le poppe ritondette parean latte che fuor dei giunchi allora allora tolli. Spazio fra lor tal discendea, qual fatte esser veggiàn fra piccolini colli l'ombrose valli, in sua stagione amene, che 'l verno abbia di nieve allora piene. 69 I rilevati fianchi e le belle anche, e netto più che specchio il ventre piano, pareano fatti, e quelle coscie bianche, da Fidia a torno, o da più dotta mano. Di quelle parti debbovi dir anche, che pur celare ella bramava invano? Dirò insomma, ch'in lei dal capo al piede, quant'esser può beltà, tutta si vede. 70 Se fosse stata ne le valli Idee vista dal Pastor frigio, io non so quanto Vener, sebben vincea quell'altre dee, portato avesse di bellezza il vanto: né forse ito saria ne le Amiclee contrade esso a violar l'ospizio santo; ma detto avria: - Con Menelao ti resta, Elena, pur; ch'altra io non vo' che questa. - 71 E se fosse costei stata a Crotone, quando Zeusi l'imagine far vòlse, che por dovea nel tempio di Iunone, e tante belle nude insieme accolse; e che, per una farne in perfezione, da chi una parte e da chi un'altra tolse: non avea da tôrre altra che costei; che tutte le bellezze erano in lei. 72 Io non credo che mai Bireno, nudo vedesse quel bel corpo; ch'io son certo che stato non saria mai così crudo, che l'avesse lasciata in quel deserto. Ch'Oberto se n'accende, io vi concludo, tanto che 'l fuoco non può star coperto. Si studia consolarla, e darle speme ch'uscirà in bene il mal ch'ora la preme: 73 e le promette andar seco in Olanda; né fin che ne lo stato la rimetta, e ch'abbia fatto iusta e memoranda di quel periuro e traditor vendetta, non cesserà con ciò che possa Irlanda, e lo farà quanto potrà più in fretta. Cercare intanto in quelle case e in queste facea di gonne e di feminee veste. 74 Bisogno non sarà, per trovar gonne, ch'a cercar fuor de l'isola si mande; ch'ogni dì se n'avea da quelle donne che de l'avido mostro eran vivande. Non fe' molto cercar, che ritrovonne di varie foggie Oberto copia grande; e fe' vestir Olimpia, e ben gl'increbbe non la poter vestir come vorrebbe. 75 Ma né sì bella seta o sì fin'oro mai Fiorentini industri tesser fenno; né chi ricama fece mai lavoro, postovi tempo, diligenzia e senno, che potesse a costui parer decoro, se lo fêsse Minerva o il dio di Lenno, e degno di coprir sì belle membre, che forza è ad or ad or se ne rimembre. 76 Per più rispetti il paladino molto si dimostrò di questo amor contento: ch'oltre che 'l re non lasciarebbe asciolto Bireno andar di tanto tradimento, sarebbe anch'esso per tal mezzo tolto di grave e di noioso impedimento, quivi non per Olimpia, ma venuto per dar, se v'era, alla sua donna aiuto. 77 Ch'ella non v'era si chiarí di corto, ma già non si chiarí se v'era stata; perché ogn'uomo ne l'isola era morto, né un sol rimaso di sì gran brigata. Il dì seguente si partîr del porto, e tutti insieme andaro in una armata. Con loro andò in Irlanda il paladino; che fu per gire in Francia il suo camino. 78 A pena un giorno si fermò in Irlanda; non valser preghi a far che più vi stesse: Amor, che dietro alla sua donna il manda, di fermarvisi più non gli concesse. Quindi si parte; e prima raccomanda Olimpia al re, che servi le promesse: ben che non bisognassi; che gli attenne molto più, che di far non si convenne. 79 Così fra pochi dì gente raccolse; e fatto lega col re d'Inghilterra e con l'altro di Scozia, gli ritolse Olanda, e in Frisa non gli lasciò terra; et a ribellïone anco gli volse la sua Selandia: e non finí la guerra, che gli diè morte; né però fu tale la pena, ch'al delitto andasse eguale. 80 Olimpia Oberto si pigliò per moglie, e di contessa la fe' gran regina. Ma ritorniamo al paladin che scioglie nel mar le vele, e notte e dì camina; poi nel medesmo porto le raccoglie, donde pria le spiegò ne la marina: e sul suo Brigliadoro armato salse, e lasciò dietro i venti e l'onde salse. 81 Credo che 'l resto di quel verno cose facesse degne di tenerne conto; ma fur sin a quel tempo sì nascose, che non è colpa mia s'or non le conto; perché Orlando a far l'opre virtuose, più che a narrarle poi, sempre era pronto: né mai fu alcun de li suoi fatti espresso, se non quando ebbe i testimonii appresso. 82 Passò il resto del verno così cheto, che di lui non si seppe cosa vera: ma poi che 'l sol ne l'animal discreto che portò Friso, illuminò la sfera, e Zefiro tornò soave e lieto a rimenar la dolce primavera; d'Orlando usciron le mirabil pruove coi vaghi fiori e con l'erbette nuove. 83 Di piano in monte, e di campagna in lido, pien di travaglio e di dolor ne gía; quando all'entrar d'un bosco, un lungo grido, un alto duol l'orecchie gli fería. Spinge il cavallo, e piglia il brando fido, e donde viene il suon, ratto s'invia: ma diferisco un'altra volta a dire quel che seguí, se mi vorrete udire.
1 Cerere, poi che da la madre Idea tornando in fretta alla solinga valle, là dove calca la montagna Etnea al fulminato Encelado le spalle, la figlia non trovò dove l'avea lasciata fuor d'ogni segnato calle; fatto ch'ebbe alle guancie, al petto, ai crini e agli occhi danno, al fin svelse duo pini; 2 e nel fuoco gli accese di Vulcano, e diè lor non potere esser mai spenti: e portandosi questi uno per mano sul carro che tiravan dui serpenti, cercò le selve, i campi, il monte, il piano, le valli, i fiumi, li stagni, i torrenti, la terra e 'l mare; e poi che tutto il mondo cercò di sopra, andò al tartareo fondo. 3 S'in poter fosse stato Orlando pare all'Eleusina dea, come in disio, non avria, per Angelica cercare, lasciato o selva o campo o stagno o rio o valle o monte o piano o terra o mare, il cielo, e 'l fondo de l'eterno oblio; ma poi che 'l carro e i draghi non avea, la gía cercando al meglio che potea. 4 L'ha cercata per Francia: or s'apparecchia per Italia cercarla e per Lamagna, per la nuova Castiglia e per la vecchia, e poi passare in Libia il mar di Spagna. Mentre pensa così, sente all'orecchia una voce venir, che par che piagna: si spinge inanzi; e sopra un gran destriero trottar si vede inanzi un cavalliero, 5 che porta in braccio e su l'arcion davante per forza una mestissima donzella. Piange ella, e si dibatte, e fa sembiante di gran dolore; et in soccorso appella il valoroso principe d'Anglante; che come mira alla giovane bella, gli par colei, per cui la notte e il giorno cercato Francia avea dentro e d'intorno. 6 Non dico ch'ella fosse, ma parea Angelica gentil ch'egli tant'ama. Egli, che la sua donna e la sua dea vede portar sì addolorata e grama, spinto da l'ira e da la furia rea, con voce orrenda il cavallier richiama; richiama il cavalliero e gli minaccia, e Brigliadoro a tutta briglia caccia. 7 Non resta quel fellon, né gli risponde, all'alta preda, al gran guadagno intento, e sì ratto ne va per quelle fronde, che saria tardo a seguitarlo il vento. L'un fugge, e l'altro caccia; e le profonde selve s'odon sonar d'alto lamento. Correndo, usciro in un gran prato; e quello avea nel mezzo un grande e ricco ostello. 8 Di vari marmi con suttil lavoro edificato era il palazzo altiero. Corse dentro alla porta messa d'oro con la donzella in braccio il cavalliero. Dopo non molto giunse Brigliadoro, che porta Orlando disdegnoso e fiero. Orlando, come è dentro, gli occhi gira; né più il guerrier, né la donzella mira. 9 Subito smonta, e fulminando passa dove più dentro il bel tetto s'alloggia: corre di qua, corre di là, né lassa che non vegga ogni camera, ogni loggia. Poi che i segreti d'ogni stanza bassa ha cerco invan, su per le scale poggia; e non men perde anco a cercar di sopra, che perdessi di sotto, il tempo e l'opra. 10 D'oro e di seta i letti ornati vede: nulla de muri appar né de pareti; che quelle, e il suolo ove si mette il piede, son da cortine ascose e da tapeti. Di su di giú va il conte Orlando e riede; né per questo può far gli occhi mai lieti che riveggiano Angelica, o quel ladro che n'ha portato il bel viso leggiadro. 11 E mentre or quinci or quindi invano il passo movea, pien di travaglio e di pensieri, Ferraù, Brandimarte e il re Gradasso, re Sacripante et altri cavallieri vi ritrovò, ch'andavano alto e basso, né men facean di lui vani sentieri; e si ramaricavan del malvagio invisibil signor di quel palagio. 12 Tutti cercando il van, tutti gli dànno colpa di furto alcun che lor fatt'abbia: del destrier che gli ha tolto, altri è in affanno; ch'abbia perduta altri la donna, arrabbia; altri d'altro l'accusa: e così stanno, che non si san partir di quella gabbia; e vi son molti, a questo inganno presi, stati le settimane intiere e i mesi. 13 Orlando, poi che quattro volte e sei tutto cercato ebbe il palazzo strano, disse fra sé: - Qui dimorar potrei, gittare il tempo e la fatica invano: e potria il ladro aver tratta costei da un'altra uscita, e molto esser lontano. - Con tal pensiero uscí nel verde prato, dal qual tutto il palazzo era aggirato. 14 Mentre circonda la casa silvestra, tenendo pur a terra il viso chino, per veder s'orma appare, o da man destra o da sinistra, di nuovo camino; si sente richiamar da una finestra: e leva gli occhi; e quel parlar divino gli pare udire, e par che miri il viso, che l'ha, da quel che fu, tanto diviso. 15 Pargli Angelica udir, che supplicando e piangendo gli dica: - Aita, aita! la mia virginità ti raccomando più che l'anima mia, più che la vita. Dunque in presenzia del mio caro Orlando da questo ladro mi sarà rapita? Più tosto di tua man dammi la morte, che venir lasci a sì infelice sorte. - 16 Queste parole una et un'altra volta fanno Orlando tornar per ogni stanza, con passïone e con fatica molta, ma temperata pur d'alta speranza. Talor si ferma, et una voce ascolta, che di quella d'Angelica ha sembianza (e s'egli è da una parte, suona altronde), che chieggia aiuto; e non sa trovar donde. 17 Ma tornando a Ruggier, ch'io lasciai quando dissi che per sentiero ombroso e fosco il gigante e la donna seguitando, in un gran prato uscito era del bosco; io dico ch'arrivò qui dove Orlando dianzi arrivò, se 'l loco riconosco. Dentro la porta il gran gigante passa: Ruggier gli è appresso, e di seguir non lassa. 18 Tosto che pon dentro alla soglia il piede, per la gran corte e per le loggie mira; né più il gigante né la donna vede, e gli occhi indarno or quinci or quindi aggira. Di su di giú va molte volte e riede; né gli succede mai quel che desira: né si sa imaginar dove sì tosto con la donna il fellon si sia nascosto. 19 Poi che revisto ha quattro volte e cinque di su di giú camere e logge e sale, pur di nuovo ritorna, e non relinque che non ne cerchi fin sotto le scale. Con speme al fin che sian ne le propinque selve, si parte: ma una voce, quale richiamò Orlando, lui chiamò non manco; e nel palazzo il fe' ritornar anco. 20 Una voce medesma, una persona che paruta era Angelica ad Orlando, parve a Ruggier la donna di Dordona, che lo tenea di sé medesmo in bando. Se con Gradasso o con alcun ragiona di quei ch'andavan nel palazzo errando, a tutti par che quella cosa sia, che più ciascun per sé brama e desia. 21 Questo era un nuovo e disusato incanto ch'avea composto Atlante di Carena, perché Ruggier fosse occupato tanto in quel travaglio, in quella dolce pena, che 'l mal'influsso n'andasse da canto, l'influsso ch'a morir giovene il mena. Dopo il castel d'acciar, che nulla giova, e dopo Alcina, Atlante ancor fa pruova. 22 Non pur costui, ma tutti gli altri ancora, che di valore in Francia han maggior fama, acciò che di lor man Ruggier non mora, condurre Atlante in questo incanto trama. E mentre fa lor far quivi dimora, perché di cibo non patischin brama, sì ben fornito avea tutto il palagio, che donne e cavallier vi stanno ad agio. 23 Ma torniamo ad Angelica, che seco avendo quell'annel mirabil tanto, ch'in bocca a veder lei fa l'occhio cieco, nel dito, l'assicura da l'incanto; e ritrovato nel montano speco cibo avendo e cavalla e veste e quanto le fu bisogno, avea fatto disegno di ritornare in India al suo bel regno. 24 Orlando volentieri o Sacripante voluto avrebbe in compania: non ch'ella più caro avesse l'un che l'altro amante; anzi di par fu a' lor disii ribella: ma dovendo, per girsene in Levante, passar tante città, tante castella, di compagnia bisogno avea e di guida, né potea aver con altri la più fida. 25 Or l'uno or l'altro andò molto cercando, prima ch'indizio ne trovasse o spia, quando in cittade, e quando in ville, e quando in alti boschi, e quando in altra via. Fortuna al fin là dove il conte Orlando, Ferraù e Sacripante era, la invia, con Ruggier, con Gradasso et altri molti che v'avea Atlante in strano intrico avolti. 26 Quivi entra, che veder non la può il mago, e cerca il tutto, ascosa dal suo annello; e truova Orlando e Sacripante vago di lei cercare invan per quello ostello. Vede come, fingendo la sua imago, Atlante usa gran fraude a questo e a quello. Chi tor debba di lor, molto rivolve nel suo pensier, né ben se ne risolve. 27 Non sa stimar chi sia per lei migliore, il conte Orlando o il re dei fier Circassi. Orlando la potrà con più valore meglio salvar nei perigliosi passi: ma se sua guida il fa, sel fa signore; ch'ella non vede come poi l'abbassi, qualunque volta, di lui sazia, farlo voglia minore, o in Francia rimandarlo. 28 Ma il Circasso depor, quando le piaccia, potrà, se ben l'avesse posto in cielo. Questa sola cagion vuol ch'ella il faccia sua scorta, e mostri avergli fede e zelo. L'annel trasse di bocca, e di sua faccia levò dagli occhi a Sacripante il velo. Credette a lui sol dimostrarsi, e avenne ch'Orlando e Ferraù le sopravenne. 29 Le sopravenne Ferraù et Orlando; che l'uno e l'altro parimente giva di su di giú, dentro e di fuor cercando del gran palazzo lei, ch'era lor diva. Corser di par tutti alla donna, quando nessuno incantamento gli impediva: perché l'annel ch'ella si pose in mano, fece d'Atlante ogni disegno vano. 30 L'usbergo indosso aveano e l'elmo in testa dui di questi guerrier, dei quali io canto; né notte o dì, dopo ch'entraro in questa stanza, l'aveano mai messo da canto; che facile a portar, come la vesta, era lor, perché in uso l'avean tanto. Ferraù il terzo era anco armato, eccetto che non avea né volea avere elmetto, 31 fin che quel non avea, che 'l paladino tolse Orlando al fratel del re Troiano; ch'allora lo giurò, che l'elmo fino cercò de l'Argalia nel fiume invano: e se ben quivi Orlando ebbe vicino, né però Ferraù pose in lui mano; avenne, che conoscersi tra loro non si potêr, mentre là dentro fôro. 32 Era così incantato quello albergo, ch'insieme riconoscer non poteansi. Né notte mai né dì, spada né usbergo né scudo pur dal braccio rimoveansi. I lor cavalli con la sella al tergo, pendendo i morsi da l'arcion, pasceansi in una stanza, che presso all'uscita, d'orzo e di paglia sempre era fornita. 33 Atlante riparar non sa né puote, ch'in sella non rimontino i guerrieri per correr dietro alle vermiglie gote, all'auree chiome et a' begli occhi neri de la donzella, ch'in fuga percuote la sua iumenta, perché volentieri non vede li tre amanti in compagnia, che forse tolti un dopo l'altro avria. 34 E poi che dilungati dal palagio gli ebbe sì, che temer più non dovea che contra lor l'incantator malvagio potesse oprar la sua fallacia rea; l'annel, che le schivò più d'un disagio, tra le rosate labra si chiudea: donde lor sparve subito dagli occhi, e gli lasciò come insensati e sciocchi. 35 Come che fosse il suo primier disegno di voler seco Orlando o Sacripante, ch'a ritornar l'avessero nel regno di Galafron ne l'ultimo Levante; le vennero amendua subito a sdegno, e si mutò di voglia in uno istante: e senza più obligarsi o a questo o a quello, pensò bastar per amendua il suo annello. 36 Volgon pel bosco or quinci or quindi in fretta quelli scherniti la stupida faccia; come il cane talor, se gli è intercetta o lepre o volpe a cui dava la caccia, che d'improviso in qualche tana stretta o in folta macchia o in un fosso si caccia. Di lor si ride Angelica proterva, che non è vista, e i lor progressi osserva. 37 Per mezzo il bosco appar sol una strada: credono i cavallier che la donzella inanzi a lor per quella se ne vada; che non se ne può andar, se non per quella. Orlando corre, e Ferraù non bada, né Sacripante men sprona e puntella. Angelica la briglia più ritiene, e dietro lor con minor fretta viene. 38 Giunti che fur, correndo, ove i sentieri a perder si venian ne la foresta, e cominciâr per l'erba i cavallieri a riguardar se vi trovavan pesta; Ferraù, che potea fra quanti altieri mai fosser, gir con la corona in testa, si volse con mal viso agli altri dui, e gridò lor: - Dove venite vui? 39 Tornate a dietro, o pigliate altra via, se non volete rimaner qui morti: né in amar né in seguir la donna mia si creda alcun, che compagnia comporti. - Disse Orlando al Circasso: - Che potria più dir costui, s'ambi ci avesse scorti per le più vili e timide puttane che da conocchie mai traesser lane?- 40 Poi volto a Ferraù, disse: - Uom bestiale, s'io non guardassi che senza elmo sei, di quel c'hai detto, s'hai ben detto o male, senz'altra indugia accorger ti farei. - Disse il Spagnuol: - Di quel ch'a me non cale, perché pigliarne tu cura ti déi? Io sol contra ambidui per far son buono quel che detto ho, senza elmo come sono. - 41 - Deh (disse Orlando al re di Circassia), in mio servigio a costui l'elmo presta, tanto ch'io gli abbia tratta la pazzia; ch'altra non vidi mai simile a questa. - Rispose il re: - Chi più pazzo saria? Ma se ti par pur la domanda onesta, prestagli il tuo; ch'io non sarò men atto, che tu sia forse, a castigare un matto. - 42 Suggiunse Ferraù: - Sciocchi voi, quasi che, se mi fosse il portar elmo a grado, voi senza non ne fosse già rimasi; che tolti i vostri avrei, vostro mal grado. Ma per narrarvi in parte li miei casi, per voto così senza me ne vado, et anderò, fin ch'io non ho quel fino che porta in capo Orlando paladino. - 43 - Dunque (rispose sorridente il conte) ti pensi a capo nudo esser bastante far ad Orlando quel che in Aspramonte egli già fece al figlio d'Agolante? Anzi credo io, se tel vedessi a fronte, ne tremeresti dal capo alle piante; non che volessi l'elmo, ma daresti l'altre arme a lui di patto, che tu vesti. - 44 Il vantator Spagnuol disse: - Già molte fïate e molte ho così Orlando astretto, che facilmente l'arme gli avrei tolte, quante indosso n'avea, non che l'elmetto; e s'io nol feci, occorrono alle volte pensier che prima non s'aveano in petto: non n'ebbi, già fu, voglia; or l'aggio, e spero che mi potrà succeder di leggiero. - 45 Non potè aver più pazïenza Orlando, e gridò: - Mentitor, brutto marrano, in che paese ti trovasti, e quando, a poter più di me con l'arme in mano? Quel paladin, di che ti vai vantando, son io, che ti pensavi esser lontano. Or vedi se tu puoi l'elmo levarme, o s'io son buon per tôrre a te l'altre arme. 46 Né da te voglio un minimo vantaggio. - Così dicendo, l'elmo si disciolse, e lo suspese a un ramuscel di faggio; e quasi a un tempo Durindana tolse. Ferraù non perdé di ciò il coraggio: trasse la spada, e in atto si raccolse, onde con essa e col levato scudo potesse ricoprirsi il capo nudo. 47 Così li duo guerrieri incominciaro, lor cavalli aggirando, a volteggiarsi; e dove l'arme si giungeano, e raro era più il ferro, col ferro a tentarsi. Non era in tutto 'l mondo un altro paro che più di questo avessi ad accoppiarsi: pari eran di vigor, pari d'ardire; né l'un né l'altro si potea ferire. 48 Ch'abbiate, Signor mio, già inteso estimo, che Ferraù per tutto era fatato, fuor che là dove l'alimento primo piglia il bambin nel ventre ancor serrato: e fin che del sepolcro il tetro limo la faccia gli coperse, il luogo armato usò portar, dove era il dubbio, sempre di sette piastre fatte a buone tempre. 49 Era ugualmente il principe d'Anglante tutto fatato, fuor che in una parte: ferito esser potea sotto le piante; ma le guardò con ogni studio et arte. Duro era il resto lor più che diamante (se la fama dal ver non si diparte); e l'uno e l'altro andò, più per ornato che per bisogno, alle sue imprese armato. 50 S'incrudelisce e inaspra la battaglia, d'orrore in vista e di spavento piena. Ferraù, quando punge e quando taglia, né mena botta che non vada piena: ogni colpo d'Orlando o piastra o maglia e schioda e rompe et apre e a straccio mena. Angelica invisibil lor pon mente, sola a tanto spettacolo presente. 51 Intanto il re di Circassia, stimando che poco inanzi Angelica corresse, poi ch'attaccati Ferraù et Orlando vide restar, per quella via si messe, che si credea che la donzella, quando da lor disparve, seguitata avesse: sì che a quella battaglia la figliuola di Galafron fu testimonia sola. 52 Poi che, orribil come era e spaventosa, l'ebbe da parte ella mirata alquanto, e che le parve assai pericolosa così da l'un come da l'altro canto; di veder novità voluntarosa, disegnò l'elmo tor, per mirar quanto fariano i duo guerrier, vistosel tolto; ben con pensier di non tenerlo molto. 53 Ha ben di darlo al conte intenzïone; na se ne vuole in prima pigliar gioco. L'elmo dispicca, e in grembio se lo pone, e sta a mirare i cavallieri un poco. Di poi si parte, e non fa lor sermone; e lontana era un pezzo da quel loco, prima ch'alcun di lor v'avesse mente: sì l'uno e l'altro era ne l'ira ardente. 54 Ma Ferraù, che prima v'ebbe gli occhi, si dispiccò da Orlando, e disse a lui: - Deh come n'ha da male accorti e sciocchi trattati il cavallier ch'era con nui! Che premio fia ch'al vincitor più tocchi, se 'l bel elmo involato n'ha costui? - Ritrassi Orlando, e gli occhi al ramo gira: non vede l'elmo, e tutto avampa d'ira. 55 E nel parer di Ferraù concorse, che 'l cavallier che dianzi era con loro se lo portasse; onde la briglia torse, e fe' sentir gli sproni a Brigliadoro. Ferraù che del campo il vide tôrse, gli venne dietro; e poi che giunti fôro dove ne l'erba appar l'orma novella ch'avea fatto il Circasso e la donzella, 56 prese la strada alla sinistra il conte verso una valle, ove il Circasso era ito: si tenne Ferraù più presso al monte, dove il sentiero Angelica avea trito. Angelica in quel mezzo ad una fonte giunta era, ombrosa e di giocondo sito, ch'ognun che passa, alle fresche ombre invita, né, senza ber, mai lascia far partita. 57 Angelica si ferma alle chiare onde, non pensando ch'alcun le sopravegna; e per lo sacro annel che la nasconde, non può temer che caso rio le avegna. A prima giunta in su l'erbose sponde del rivo l'elmo a un ramuscel consegna; poi cerca, ove nel bosco è miglior frasca, la iumenta legar, perché si pasca. 58 Il cavallier di Spagna, che venuto era per l'orme, alla fontana giunge. Non l'ha sì tosto Angelica veduto, che gli dispare, e la cavalla punge. L'elmo, che sopra l'erba era caduto, ritor non può, che troppo resta lunge. Come il pagan d'Angelica s'accorse, tosto vêr lei pien di letizia corse. 59 Gli sparve, come io dico, ella davante, come fantasma al dipartir del sonno. Cercando egli la va per quelle piante né i miseri occhi più veder la ponno. Bestemiando Macone e Trivigante, e di sua legge ogni maestro e donno, ritornò Ferraù verso la fonte, u' ne l'erba giacea l'elmo del conte. 60 Lo riconobbe, tosto che mirollo, per lettere ch'avea scritte ne l'orlo; che dicean dove Orlando guadagnollo, e come e quando, et a chi fe' deporlo. Armossene il pagano il capo e il collo, che non lasciò, pel duol ch'avea, di tôrlo; pel duol ch'avea di quella che gli sparve, come sparir soglion notturne larve. 61 Poi ch'allacciato s'ha il buon elmo in testa, aviso gli è, che a contentarsi a pieno, sol ritrovare Angelica gli resta, che gli appar e dispar come baleno. Per lei tutta cercò l'alta foresta: e poi ch'ogni speranza venne meno di più poterne ritrovar vestigi, tornò al campo spagnuol verso Parigi; 62 temperando il dolor che gli ardea il petto, di non aver sì gran disir sfogato, col refrigerio di portar l'elmetto che fu d'Orlando, come avea giurato. Dal conte, poi che 'l certo gli fu detto, fu lungamente Ferraù cercato; né fin quel dì dal capo gli lo sciolse, che fra duo ponti la vita gli tolse. 63 Angelica invisibile e soletta via se ne va, ma con turbata fronte; che de l'elmo le duol, che troppa fretta le avea fatto lasciar presso alla fonte. - Per voler far quel ch'a me far non spetta (tra sé dicea), levato ho l'elmo al conte: questo, pel primo merito, è assai buono di quanto a lui pur ubligata sono. 64 Con buona intenzïone (e sallo Idio), ben che diverso e tristo effetto segua, io levai l'elmo: e solo il pensier mio fu di ridur quella battaglia a triegua; e non che per mio mezzo il suo disio questo brutto Spagnuol oggi consegua. - Così di sé s'andava lamentando d'aver de l'elmo suo privato Orlando. 65 Sdegnata e malcontenta la via prese, che le parea miglior, verso Orïente. Più volte ascosa andò, talor palese, secondo era oportuno, infra la gente. Dopo molto veder molto paese, giunse in un bosco, dove iniquamente fra duo compagni morti un giovinetto trovò, ch'era ferito in mezzo il petto. 66 Ma non dirò d'Angelica or più inante; che molte cose ho da narrarvi prima: né sono a Ferraù né a Sacripante, sin a gran pezzo per donar più rima. Da lor mi leva il principe d'Anglante, che di sé vuol che inanzi agli altri esprima le fatiche e gli affanni che sostenne nel gran disio, di che a fin mai non venne. 67 Alla prima città ch'egli ritruova (perché d'andare occulto avea gran cura) si pone in capo una barbuta nuova, senza mirar s'ha debil tempra o dura: sia qual si vuol, poco gli nuoce o giova; sì ne la fatagion si rassicura. Così coperto, séguita l'inchiesta; né notte, o giorno, o pioggia, o sol l'arresta. 68 Era ne l'ora, che traea i cavalli Febo del mar con rugiadoso pelo, e l'Aurora di fior vermigli e gialli venía spargendo d'ogn'intorno il cielo; e lasciato le stelle aveano i balli, e per partirsi postosi già il velo: quando appresso a Parigi un dì passando, mostrò di sua virtù gran segno Orlando. 69 In dua squadre incontrossi: e Manilardo ne reggea l'una, il Saracin canuto, re di Norizia, già fiero e gagliardo, or miglior di consiglio che d'aiuto; guidava l'altra sotto il suo stendardo il re di Tremisen, ch'era tenuto tra gli Africani cavallier perfetto: Alzirdo fu, da chi 'l conobbe, detto. 70 Questi con l'altro esercito pagano quella invernata avean fatto soggiorno, chi presso alla città, chi più lontano, tutti alle ville o alle castella intorno: ch'avendo speso il re Agramante invano, per espugnar Parigi, più d'un giorno, vòlse tentar l'assedio finalmente, poi che pigliar non lo potea altrimente. 71 E per far questo avea gente infinita; che oltre a quella che con lui giunt'era, e quella che di Spagna avea seguita del re Marsilio la real bandiera molta di Francia n'avea al soldo unita; che da Parigi insino alla riviera d'Arli, con parte di Guascogna (eccetto alcune ròcche) avea tutto suggetto. 72 Or cominciando i trepidi ruscelli a sciorre il freddo giaccio in tiepide onde, e i prati di nuove erbe, e gli arbuscelli a rivestirsi di tenera fronde; ragunò il re Agramante tutti quelli che seguian le fortune sue seconde, per farsi rassegnar l'armata torma; indi alle cose sue dar miglior forma. 73 A questo effetto il re di Tremisenne con quel de la Norizia ne venía, per là giungere a tempo, ove si tenne poi conto d'ogni squadra o buona o ria. Orlando a caso ad incontrar si venne (come io v'ho detto) in questa compagnia, cercando pur colei, come egli era uso, che nel carcer d'Amor lo tenea chiuso. 74 Come Alzirdo appressar vide quel conte che di valor non avea pari al mondo, in tal sembiante, in sì superba fronte, che 'l dio de l'arme a lui parea secondo; restò stupito alle fattezze conte, al fiero sguardo, al viso furibondo: e lo stimò guerrier d'alta prodezza; ma ebbe del provar troppa vaghezza. 75 Era giovane Alzirdo, et arrogante per molta forza, e per gran cor pregiato. Per giostrar spinse il suo cavallo inante: meglio per lui, se fosse in schiera stato; che ne lo scontro il principe d'Anglante lo fe' cader per mezzo il cor passato. Giva in fuga il destrier di timor pieno, che su non v'era chi reggesse il freno. 76 Levasi un grido subito et orrendo, che d'ogn'intorno n'ha l'aria ripiena, come si vede il giovene, cadendo, spicciar il sangue di sì larga vena. La turba verso il conte vien fremendo disordinata, e tagli e punte mena; ma quella è più, che con pennuti dardi tempesta il fior dei cavallier gagliardi. 77 Con qual rumor la setolosa frotta correr da monti suole o da campagne, se 'l lupo uscito di nascosa grotta, o l'orso sceso alle minor montagne, un tener porco preso abbia talotta, che con grugnito e gran stridor si lagne; con tal lo stuol barbarico era mosso verso il conte, gridando: - Adosso, adosso! - 78 Lance, saette e spade ebbe l'usbergo a un tempo mille, e lo scudo altretante: chi gli percuote con la mazza il tergo, chi minaccia da lato, e chi davante. Ma quel, ch'al timor mai non diede albergo, estima la vil turba e l'arme tante, quel che dentro alla mandra, all'aer cupo, il numer de l'agnelle estimi il lupo. 79 Nuda avea in man quella fulminea spada che posti ha tanti Saracini a morte: dunque chi vuol di quanta turba cada tenere il conto, ha impresa dura e forte. Rossa di sangue già correa la strada, capace a pena a tante genti morte; perché né targa né capel difende la fatal Durindana, ove discende, 80 né vesta piena di cotone, o tele che circondino il capo in mille vòlti. Non pur per l'aria gemiti e querele, ma volan braccia e spalle e capi sciolti. Pel campo errando va Morte crudele in molti, varii, e tutti orribil volti; e tra sé dice: - In man d'Orlando valci Durindana per cento de mie falci. - 81 Una percossa a pena l'altra aspetta. Ben tosto cominciâr tutti a fuggire; e quando prima ne veniano in fretta (perch'era sol, credeanselo inghiottire), non è chi per levarsi de la stretta l'amico aspetti, e cerchi insieme gire: chi fugge a piedi in qua, chi colà sprona; nessun domanda se la strada è buona. 82 Virtude andava intorno con lo speglio che fa veder ne l'anima ogni ruga: nessun vi si mirò, se non un veglio a cui il sangue l'età, non l'ardir, sciuga. Vide costui quanto il morir sia meglio, che con suo disonor mettersi in fuga: dico il re di Norizia; onde la lancia arrestò contra il paladin di Francia. 83 E la roppe alla penna de lo scudo del fiero conte, che nulla si mosse. Egli ch'avea alla posta il brando nudo, re Manilardo al trapassar percosse. Fortuna l'aiutò; che 'l ferro crudo in man d'Orlando al venir giú voltosse: tirare i colpi a filo ognor non lece; ma pur di sella stramazzar lo fece. 84 Stordito de l'arcion quel re stramazza: non si rivolge Orlando a rivederlo; che gli altri taglia, tronca, fende, amazza; a tutti pare in su le spalle averlo. Come per l'aria, ove han sì larga piazza, fuggon li storni da l'audace smerlo, così di quella squadra ormai disfatta altri cade, altri fugge, altri s'appiatta. 85 Non cessò pria la sanguinosa spada, che fu di viva gente il campo vòto. Orlando è in dubbio a ripigliar la strada, ben che gli sia tutto il paese noto. O da man destra o da sinistra vada, il pensier da l'andar sempre è remoto: d'Angelica cercar, fuor ch'ove sia, teme, e di far sempre contraria via. 86 Il suo camin (di lei chiedendo spesso) or per li campi or per le selve tenne: e sì come era uscito di se stesso, uscì di strada; e a piè d'un monte venne, dove la notte fuor d'un sasso fesso lontan vide un splendor batter le penne. Orlando al sasso per veder s'accosta, se quivi fosse Angelica reposta. 87 Come nel bosco de l'umil ginepre, o ne la stoppia alla campagna aperta, quando si cerca la paurosa lepre per traversati solchi e per via incerta, si va ad ogni cespuglio, ad ogni vepre, se per ventura vi fosse coperta; così cercava Orlando con gran pena la donna sua, dove speranza il mena. 88 Verso quel raggio andando in fretta il conte, giunse ove ne la selva si diffonde da l'angusto spiraglio di quel monte, ch'una capace grotta in sé nasconde; e trova inanzi ne la prima fronte spine e virgulti, come mura e sponde, per celar quei che ne la grotta stanno, da chi far lor cercasse oltraggio e danno. 89 Di giorno ritrovata non sarebbe, ma la facea di notte il lume aperta. Orlando pensa ben quel ch'esser debbe; pur vuol saper la cosa anco più certa. Poi che legato fuor Brigliadoro ebbe, tacito viene alla grotta coperta: e fra li spessi rami ne la buca entra, senza chiamar chi l'introduca. 90 Scende la tomba molti gradi al basso, dove la viva gente sta sepolta. Era non poco spazïoso il sasso tagliato a punte di scarpelli in volta; né di luce dïurna in tutto casso, ben che l'entrata non ne dava molta; ma ve ne venìa assai da una finestra che sporgea in un pertugio da man destra. 91 In mezzo la spelonca, appresso a un fuoco, era una donna di giocondo viso; quindici anni passar dovea di poco, quanto fu al conte, al primo sguardo, aviso: et era bella sì, che facea il loco salvatico parere un paradiso; ben ch'avea gli occhi di lacrime pregni, del cor dolente manifesti segni. 92 V'era una vecchia; e facean gran contese (come uso feminil spesso esser suole), ma come il conte ne la grotta scese, finiron le dispùte e le parole. Orlando a salutarle fu cortese (come con donne sempre esser si vuole), et elle si levaro immantinente, e lui risalutâr benignamente. 93 Gli è ver che si smarriro in faccia alquanto, come improviso udiron quella voce, e insieme entrare armato tutto quanto vider là dentro un uom tanto feroce. Orlando domandò qual fosse tanto scortese, ingiusto, barbaro et atroce, che ne la grotta tenesse sepolto un sì gentile et amoroso volto. 94 La vergine a fatica gli rispose, interrotta da fervidi signiozzi, che dai coralli e da le prezïose perle uscir fanno i dolci accenti mozzi. Le lacrime scendean tra gigli e rose, là dove avien ch'alcuna se n'inghiozzi. Piacciavi udir ne l'altro canto il resto, Signor, che tempo è omai di finir questo.
1 Ben furo aventurosi i cavallieri ch'erano a quella età, che nei valloni, ne le scure spelonche e boschi fieri, tane di serpi, d'orsi e di leoni, trovavan quel che nei palazzi altieri a pena or trovar puon giudici buoni: donne, che ne la lor più fresca etade sien degne d'aver titol di beltade. 2 Di sopra vi narrai che ne la grotta avea trovato Orlando una donzella, e che le dimandò ch'ivi condotta l'avesse: or seguitando, dico ch'ella, poi che più d'un signiozzo l'ha interrotta, con dolce e suavissima favella al conte fa le sue sciagure note, con quella brevità che meglio puote. 3 - Ben che io sia certa (dice), ocavalliero, ch'io porterò del mio parlar supplizio, perché a colui che qui m'ha chiusa, spero che costei ne darà subito indizio; pur son disposta non celarti il vero, e vada la mia vita in precipizio. E ch'aspettar poss'io da lui più gioia, che 'l si disponga un dì voler ch'io muoia? 4 Isabella sono io, che figlia fui del re mal fortunato di Gallizia. Ben dissi fui; ch'or non son più di lui, ma di dolor, d'affanno e di mestizia. Colpa d'Amor; ch'io non saprei di cui dolermi più che de la sua nequizia, che dolcemente nei principii applaude, e tesse di nascosto inganno e fraude. 5 Già mi vivea di mia sorte felice, gentil, giovane, ricca, onesta e bella: vile e povera or sono, or infelice; e s'altra è peggior sorte, io sono in quella. Ma voglio sappi la prima radice che produsse quel mal che mi flagella; e ben ch'aiuto poi da te non esca, poco non mi parrà, che te n'incresca. 6 Mio patre fe' in Baiona alcune giostre, esser denno oggimai dodici mesi. Trasse la fama ne le terre nostre cavallieri a giostrar di più paesi. Fra gli altri (o sia ch'Amor così mi mostre, o che virtù pur se stessa palesi) mi parve da lodar Zerbino solo, che del gran re di Scozia era figliuolo. 7 Il qual poi che far pruove in campo vidi miracolose di cavalleria, fui presa del suo amore; e non m'avidi, ch'io mi conobbi più non esser mia. E pur, ben che 'l suo amor così mi guidi, mi giova sempre avere in fantasia ch'io non misi il mio core in luogo immondo, ma nel più degno e bel ch'oggi sia al mondo. 8 Zerbino di bellezza e di valore sopra tutti i signori era eminente. Mostrommi, e credo mi portasse amore, e che di me non fosse meno ardente. Non ci mancò chi del commune ardore interprete fra noi fosse sovente, poi che di vista ancor fummo disgiunti; che gli animi restâr sempre congiunti. 9 Però che dato fine alla gran festa, il mio Zerbino in Scozia fe' ritorno. Se sai che cosa è amor, ben sai che mesta restai, di lui pensando notte e giorno; et era certa che non men molesta fiamma intorno il suo cor facea soggiorno. Egli non fece al suo disio più schermi, se non che cercò via di seco avermi. 10 E perché vieta la diversa fede (essendo egli cristiano, io saracina) ch'al mio padre per moglie non mi chiede, per furto indi levarmi si destina. Fuor de la ricca mia patria, che siede tra verdi campi allato alla marina, aveva un bel giardin sopra una riva, che colli intorno e tutto il mar scopriva. 11 Gli parve il luogo a fornir ciò disposto, che la diversa religion ci vieta; e mi fa saper l'ordine che posto avea di far la nostra vita lieta. Appresso a Santa Marta avea nascosto con gente armata una galea secreta, in guardia d'Odorico di Biscaglia, in mare e in terra mastro di battaglia. 12 Né potendo in persona far l'effetto, perch'egli allora era dal padre antico a dar soccorso al re di Francia astretto, manderia in vece sua questo Odorico, che fra tutti i fedeli amici eletto s'avea pel più fedele e pel più amico: e bene esser dovea, se i benefici sempre hanno forza d'acquistar gli amici. 13 Verria costui sopra un navilio armato, al terminato tempo indi a levarmi. E così venne il giorno disïato, che dentro il mio giardin lasciai trovarmi. Odorico la notte, accompagnato di gente valorosa all'acqua e all'armi, smontò ad un fiume alla città vicino, e venne chetamente al mio giardino. 14 Quindi fui tratta alla galea spalmata, prima che la città n'avesse avisi. De la famiglia ignuda e disarmata altri fuggiro, altri restaro uccisi, parte captiva meco fu menata. Così da la mia terra io mi divisi, con quanto gaudio non ti potrei dire, sperando in breve il mio Zerbin fruire. 15 Voltati sopra Mongia eramo a pena, quando ci assalse alla sinistra sponda un vento che turbò l'aria serena, e turbò il mare, e al ciel gli levò l'onda. Salta un maestro ch'a traverso mena, e cresce ad ora ad ora, e soprabonda; e cresce e soprabonda con tal forza, che val poco alternar poggia con orza. 16 Non giova calar vele, e l'arbor sopra corsia legar, né ruinar castella; che ci veggiàn mal grado portar sopra acuti scogli, appresso alla Rocella. Se non ci aiuta quel che sta di sopra, ci spinge in terra la crudel procella. Il vento rio ne caccia in maggior fretta, che d'arco mai non si aventò saetta. 17 Vide il periglio il Biscaglino, e a quello usò un rimedio che fallir suol spesso: ebbe ricorso subito al battello; calossi, e me calar fece con esso. Sceser dui altri, e ne scendea un drapello, se i primi scesi l'avesser concesso; ma con le spade li tenner discosto, tagliâr la fune, e ci allargamo tosto. 18 Fummo gittati a salvamento al lito noi che nel palischermo eramo scesi; periron gli altri col legno sdrucito; in preda al mare andâr tutti gli arnesi. All'eterna Bontade, all'infinito Amor, rendendo grazie, le man stesi, che non m'avessi dal furor marino lasciato tor di riveder Zerbino. 19 Come ch'io avessi sopra il legno e vesti lasciato e gioie e l'altre cose care, pur che la speme di Zerbin mi resti, contenta son che s'abbi il resto il mare. Non sono, ove scendemo, i liti pesti d'alcun sentier, né intorno albergo appare; ma solo il monte, al qual mai sempre fiede l'ombroso capo il vento, e 'l mare il piede. 20 Quivi il crudo tiranno Amor, che sempre d'ogni promessa sua fu disleale, e sempre guarda come involva e stempre ogni nostro disegno razionale, mutò con triste e disoneste tempre mio conforto in dolor, mio bene in male; che quell'amico, in chi Zerbin si crede, di desire arse, et agghiacciò di fede. 21 O che m'avesse in mar bramata ancora, né fosse stato a dimostrarlo ardito, o cominciassi il desiderio allora che l'agio v'ebbe dal solingo lito; disegnò quivi senza più dimora condurre a fin l'ingordo suo appetito; ma prima da sé tôrre un de li dui che nel battel campati eran con nui. 22 Quell'era omo di Scozia, Almonio detto, che mostrava a Zerbin portar gran fede; e commendato per guerrier perfetto da lui fu, quando ad Odorico il diede. Disse a costui, che biasmo era e difetto, se mi traeano alla Rocella a piede; e lo pregò ch'inanti volesse ire a farmi incontra alcun ronzin venire. 23 Almonio, che di ciò nulla temea, immantinente inanzi il camin piglia alla città che 'l bosco ci ascondea, e non era lontana oltra sei miglia. Odorico scoprir sua voglia rea all'altro finalmente si consiglia; sì perché tor non se lo sa d'appresso, sì perché avea gran confidenzia in esso. 24 Era Corebo di Bilbao nomato quel di ch'io parlo, che con noi rimase; che da fanciullo picciolo allevato s'era con lui ne le medesme case. Poter con lui communicar l'ingrato pensiero il traditor si persuase, sperando ch'ad amar saria più presto il piacer de l'amico, che l'onesto. 25 Corebo, che gentile era e cortese, non lo poté ascoltar senza gran sdegno: lo chiamò traditore, e gli contese con parole e con fatti il rio disegno. Grande ira all'uno e all'altro il core accese, e con le spade nude ne fêr segno. Al trar de' ferri, io fui da la paura volta a fuggir per l'alta selva oscura. 26 Odorico, che maestro era di guerra, in pochi colpi a tal vantaggio venne, che per morto lasciò Corebo in terra, e per le mie vestigie il camin tenne. Prestògli Amor (se 'l mio creder non erra), acciò potesse giungermi, le penne; e gl'insegnò molte lusinghe e prieghi, con che ad amarlo e compiacer mi pieghi. 27 Ma tutto è indarno; che fermata e certa più tosto era a morir, ch'a satisfarli. Poi ch'ogni priego, ogni lusinga esperta ebbe e minacce, e non potean giovarli, si ridusse alla forza a faccia aperta. Nulla mi val che supplicando parli de la fé ch'avea in lui Zerbino avuta, e ch'io ne le sue man m'era creduta. 28 Poi che gittar mi vidi i prieghi invano, né mi sperare altronde altro soccorso, e che più sempre cupido e villano a me venìa, come famelico orso; io mi difesi con piedi e con mano, et adopra'vi sin a l'ugne e il morso: pela'gli il mento, e gli graffiai la pelle, con stridi che n'andavano alle stelle. 29 Non so se fosse caso, o li miei gridi che si doveano udir lungi una lega, o pur ch'usati sian correre ai lidi quando navilio alcun si rompe o anniega; sopra il monte una turba apparir vidi, e questa al mare e verso noi si piega. Come la vede il Biscaglin venire, lascia l'impresa, e voltasi a fuggire. 30 Contra quel disleal mi fu adiutrice questa turba, signor; ma a quella image che sovente in proverbio il vulgo dice: cader de la padella ne le brage. Gli è ver ch'io non son stata sì infelice, né le lor menti ancor tanto malvage, ch'abbino vïolata mia persona: non che sia in lor virtù, né cosa buona; 31 ma perché se mi serban, come io sono, vergine, speran vendermi più molto. Finito è il mese ottavo e viene il nono, che fu il mio vivo corpo qui sepolto. Del mio Zerbino ogni speme abbandono; che già, per quanto ho da lor detti accolto, m'han promessa e venduta a un mercadante, che portare al soldan mi de' in Levante. - 32 Così parlava la gentil donzella; e spesso con signozzi e con sospiri interrompea l'angelica favella, da muovere a pietade aspidi e tiri. Mentre sua doglia così rinovella, o forse disacerba i suoi martìri, da venti uomini entrâr ne la spelonca, armati chi di spiedo e chi di ronca. 33 Il primo d'essi, uom di spietato viso, ha solo un occhio, e sguardo scuro e bieco; l'altro, d'un colpo che gli avea reciso il naso e la mascella, è fatto cieco. Costui vedendo il cavalliero assiso con la vergine bella entro allo speco, volto a' compagni, disse: - Ecco augel nuovo, a cui non tesi, e ne la rete il truovo. - 34 Poi disse al conte: - Uomo non vidi mai più commodo di te, né più oportuno. Non so se ti se' apposto, o se lo sai perché te l'abbia forse detto alcuno, che sì bell'arme io desïava assai, e questo tuo leggiadro abito bruno. Venuto a tempo veramente sei, per riparare agli bisogni miei. - 35 Sorrise amaramente, in piè salito, Orlando, e fe' risposta al mascalzone: - Io ti venderò l'arme ad un partito che non ha mercadante in sua ragione. - Del fuoco, ch'avea appresso, indi rapito pien di fuoco e di fumo uno stizzone, trasse, e percosse il malandrino a caso, dove confina con le ciglia il naso. 36 Lo stizzone ambe le palpèbre colse, ma maggior danno fe' ne la sinistra; che quella parte misera gli tolse, che de la luce sola, era ministra. Né d'acciecarlo contentar si vòlse il colpo fier, s'ancor non lo registra tra quelli spirti che con suoi compagni fa star Chiron dentro ai bollenti stagni. 37 Ne la spelonca una gran mensa siede grossa duo palmi, e spazïosa in quadro, che sopra un mal pulito e grosso piede, cape con tutta la famiglia il ladro. Con quell'agevolezza che si vede gittar la canna lo Spagnuol leggiadro, Orlando il grave desco da sé scaglia dove ristretta insieme è la canaglia. 38 A chi'l petto, a chi'l ventre, a chi la testa, a chi rompe le gambe, a chi le braccia; di ch'altri muore, altri storpiato resta: chi meno è offeso, di fuggir procaccia. Così talvolta un grave sasso pesta e fianchi e lombi, e spezza capi e schiaccia, gittato sopra un gran drapel di biscie, che dopo il verno al sol si goda e liscie. 39 Nascono casi, e non saprei dir quanti: una muore, una parte senza coda, un'altra non si può muover davanti, e 'l deretano indarno aggira e snoda; un'altra, ch'ebbe più propizii i santi, striscia fra l'erbe, e va serpendo a proda. Il colpo orribil fu, ma non mirando, poi che lo fece il valoroso Orlando. 40 Quei che la mensa o nulla o poco offese (e Turpin scrive a punto che fur sette), ai piedi raccomandan sue difese: ma ne l'uscita il paladin si mette; e poi che presi gli ha senza contese, le man lor lega con la fune istrette, con una fune al suo bisogno destra, che ritrovò ne la casa silvestra. 41 Poi li strascina fuor de la spelonca, dove facea grande ombra un vecchio sorbo. Orlando con la spada i rami tronca, e quelli attacca per vivanda al corbo. Non bisognò catena in capo adonca; che per purgare il mondo di quel morbo, l'arbor medesmo gli uncini prestolli, con che pel mento Orlando ivi attaccolli. 42 La donna vecchia, amica a' malandrini, poi che restar tutti li vide estinti, fuggì piangendo e con le mani ai crini, per selve e boscherecci labirinti. Dopo aspri e malagevoli camini, a gravi passi e dal timor sospinti, in ripa un fiume in un guerrier scontrosse; ma diferisco a ricontar chi fosse: 43 e torno all'altra, che si raccomanda al paladin che non la lasci sola; e dice di seguirlo in ogni banda. Cortesemente Orlando la consola; e quindi, poi ch'uscì con la ghirlanda di rose adorna e di purpurea stola la bianca Aurora al solito camino, partì con Isabella il paladino. 44 Senza trovar cosa che degna sia d'istoria, molti giorni insieme andaro; e finalmente un cavallier per via, che prigione era tratto, riscontraro. Chi fosse, dirò poi; ch'or me ne svia tal, di chi udir non vi sarà men caro: la figliuola d'Amon, la qual lasciai languida dianzi in amorosi guai. 45 La bella donna, disïando invano ch'a lei facesse il suo Ruggier ritorno, stava a Marsilia, ove allo stuol pagano dava da travagliar quasi ogni giorno; il qual scorrea, rubando in monte e in piano, per Linguadoca e per Provenza intorno: et ella ben facea l'ufficio vero di savio duca e d'ottimo guerriero. 46 Standosi quivi, e di gran spazio essendo passato il tempo che tornare a lei il suo Ruggier dovea, né lo vedendo, vivea in timor di mille casi rei. Un dì fra gli altri, che di ciò piangendo stava solinga, le arrivò colei che portò ne l'annel la medicina che sanò il cor ch'avea ferito Alcina. 47 Come a sé ritornar senza il suo amante, dopo sì lungo termine, la vede, resta pallida e smorta, e sì tremante, che non ha forza di tenersi in piede: ma la maga gentil le va davante ridendo, poi che del timor s'avede; e con viso giocondo la conforta, qual aver suol chi buone nuove apporta. 48 - Non temer (disse) di Ruggier, donzella, ch'è vivo e sano, e come suol, t'adora; ma non è già in sua libertà; che quella pur gli ha levata il tuo nemico ancora: et è bisogno che tu monti in sella, se brami averlo, e che mi segui or ora; che se mi segui, io t'aprirò la via donde per te Ruggier libero fia. - 49 E seguitò, narrandole di quello magico error che gli avea ordito Atlante: che simulando d'essa il viso bello, che captiva parea del rio gigante, tratto l'avea ne l'incantato ostello, dove sparito poi gli era davante; e come tarda con simile inganno le donne e i cavallier che di là vanno. 50 A tutti par, l'incantator mirando, mirar quel che per sé brama ciascuno: donna, scudier, compagno, amico; quando il desiderio uman non è tutto uno. Quindi il palagio van tutti cercando con lungo affanno, e senza frutto alcuno; e tanta è la speranza e il gran disire del ritrovar, che non ne san partire. 51 - Come tu giungi (disse) in quella parte che giace presso all'incantata stanza, verrà l'incantatore a ritrovarte, che terrà di Ruggiero ogni sembianza; e ti farà parer con sua mal'arte, ch'ivi lo vinca alcun di più possanza, acciò che tu per aiutarlo vada dove con gli altri poi ti tenga a bada. 52 Acciò l'inganni, in che son tanti e tanti caduti, non ti colgan, sie avertita, che se ben di Ruggier viso e sembianti ti parrà di veder, che chieggia aita, non gli dar fede tu; ma, come avanti ti vien, fagli lasciar l'indegna vita: né dubitar perciò che Ruggier muoia, ma ben colui che ti dà tanta noia. 53 Ti parrà duro assai, ben lo conosco, uccidere un che sembri il tuo Ruggiero. pur non dar fede all'occhio tuo, che losco farà l'incanto, e celeragli il vero. Férmati, pria ch'io ti conduca al bosco, sì che poi non si cangi il tuo pensiero; che sempre di Ruggier rimarrai priva, se lasci per viltà che 'l mago viva. - 54 La valorosa giovane, con questa intenzïon che 'l fraudolente uccida, a pigliar l'arme et a seguire è presta Melissa; che sa ben quanto l'è fida. Quella, or per terren culto, or per foresta, a gran giornate e in gran fretta la guida, cercando allevïarle tuttavia con parlar grato la noiosa via. 55 E più di tutti i bei ragionamenti, spesso le repetea ch'uscir di lei e di Ruggier doveano gli eccellenti principi e glorïosi semidei. Come a Melissa fossino presenti tutti i secreti degli eterni dèi, tutte le cose ella sapea predire, ch'avean per molti seculi a venire. 56 - Deh, come, o prudentissima mia scorta (dicea a la maga l'inclita donzella), molti anni prima tu m'hai fatta accorta di tanta mia viril progenie bella; così d'alcuna donna mi conforta, che di mia stirpe sia, s'alcuna in quella metter si può tra belle e virtuose. - E la cortese maga le rispose: 57 - Da te uscir veggio le pudiche donne, madri d'imperatori e di gran regi, reparatrici e solide colonne di case illustri e di domìni egregi; che men degne non son ne le lor gonne, ch'in arme i cavallier, di sommi pregi, di pietà, di gran cor, di gran prudenza, di somma e incomparabil continenza. 58 E s'io avrò da narrarti di ciascuna che ne la stirpe tua sia d'onor degna, troppo sarà; ch'io non ne veggio alcuna che passar con silenzio mi convegna. Ma ti farò, tra mille, scelta d'una o di due coppie, acciò ch'a fin ne vegna. Ne la spelonca perché nol dicesti? che l'imagini ancor vedute avresti. 59 De la tua chiara stirpe uscirà quella d'opere illustri e di bei studii amica, ch'io non so ben se più leggiadra e bella mi debba dire, o più saggia e pudica, liberale e magnanima Isabella, che del bel lume suo dì e notte aprica farà la terra che sul Menzo siede, a cui la madre d'Ocno il nome diede: 60 dove onorato e splendido certame avrà col suo dignissimo consorte, chi di lor più le virtù prezzi et ame, e chi meglio apra a cortesia le porte. S'un narrerà ch'al Taro e nel Reame fu a liberar da' Galli Italia forte; l'altra dirà: « Sol perché casta visse Penelope, non fu minor d'Ulisse ». 61 Gran cose e molte in brevi detti accolgo di questa donna e più dietro ne lasso, che in quelli dì ch'io mi levai dal volgo, mi fe' chiare Merlin dal cavo sasso. E s'in questo gran mar la vela sciolgo, di lunga Tifi in navigar trapasso. Conchiudo in somma, ch'ella avrà, per dono, de la virtù e del ciel, ciò ch'è di buono. 62 Seco avrà la sorella Beatrice, a cui si converrà tal nome a punto: ch'essa non sol del ben che qua giù lice, per quel che viverà, toccherà il punto; ma avrà forza di far seco felice, fra tutti i ricchi duci, il suo congiunto, il qual, come ella poi lascerà il mondo, così de l'infelici andrà nel fondo. 63 E Moro e Sforza e Viscontei colubri, lei viva, formidabili saranno da l'iperboree nievi ai lidi rubri, da l'Indo ai monti ch'al tuo mar via dànno: lei morta, andran col regno degl'Insubri, e con grave di tutta Italia danno, in servitute; e fia stimata, senza costei, ventura la somma prudenza. 64 Vi saranno altre ancor, ch'avranno il nome medesmo, e nasceran molt'anni prima: di ch'una s'ornerà le sacre chiome de la corona di Pannonia opima; un'altra, poi che le terrene some lasciate avrà, fia ne l'ausonio clima collocata nel numer de le dive, et avrà incensi e imagini votive. 65 De l'altre tacerò; che, come ho detto, lungo sarebbe a ragionar di tante; ben che per sé ciascuna abbia suggetto degno, ch'eroica e chiara tuba cante. Le Bianche, le Lucrezie io terrò in petto, e le Costanze e l'altre, che di quante splendide case Italia reggeranno, reparatrici e madri ad esser hanno. 66 Più ch'altre fosser mai, le tue famiglie saran ne le lor donne aventurose; non dico in quella più de le lor figlie, che ne l'alta onestà de le lor spose. E acciò da te notizia anco si piglie di questa parte che Merlin mi espose, forse perch'io 'l dovessi a te ridire, ho di parlarne non poco desire. 67 E dirò prima di Ricciarda, degno esempio di fortezza e d'onestade: vedova rimarrà, giovane, a sdegno di Fortuna; il che spesso ai buoni accade. I figli, privi del paterno regno, esuli andar vedrà in strane contrade, fanciulli in man degli aversari loro; ma infine avrà il suo male amplo ristoro. 68 De l'alta stirpe d'Aragone antica non tacerò la splendida regina, di cui né saggia sì, né sì pudica veggio istoria lodar greca o latina, né a cui Fortuna più si mostri amica: poi che sarà da la Bontà divina elletta madre a parturir la bella progenie, Alfonso, Ippolito e Isabella. 69 Costei sarà la saggia Leonora, che nel tuo felice arbore s'inesta. Che ti dirò de la seconda nuora, succeditrice prossima di questa? Lucrezia Borgia, di cui d'ora in ora le beltà, la virtù, la fama onesta e la fortuna crescerà, non meno che giovin pianta in morbido terreno. 70 Qual lo stagno all'argento, il rame all'oro, il campestre papavero alla rosa, pallido salce al sempre verde alloro, dipinto vetro a gemma prezïosa; tal a costei, ch'ancor non nata onoro, sarà ciascuna insino a qui famosa di singular beltà, di gran prudenzia, e d'ogni altra lodevole eccellenzia. 71 E sopra tutti gli altri incliti pregi che le saranno e a viva e a morta dati, si loderà che di costumi regi Ercole e gli altri figli avrà dotati, e dato gran principio ai ricchi fregi di che poi s'orneranno in toga e armati; perché l'odor non se ne va sì in fretta, ch'in nuovo vaso, o buono o rio, si metta. 72 Non voglio ch'in silenzio anco Renata di Francia, nuora di costei, rimagna, di Luigi il duodecimo Re nata, e de l'eterna gloria di Bretagna. Ogni virtù ch'in donna mai sia stata, di poi che 'l fuoco scalda e l'acqua bagna, e gira intorno il cielo, insieme tutta per Renata adornar veggio ridutta. 73 Lungo sarà che d'Alda di Sansogna narri, o de la contessa di Celano, o di Bianca Maria di Catalogna, o de la figlia del re sicigliano, o de la bella Lippa da Bologna, e d'altre; che s'io vo' di mano in mano venirtene dicendo le gran lode, entro in un alto mar che non ha prode. - 74 Poi che le racontò la maggior parte de la futura stirpe a suo grand'agio, più volte e più le replicò de l'arte ch'avea tratto Ruggier dentro al palagio. Melissa si fermò, poi che fu in parte vicina al luogo del vecchio malvagio; e non le parve di venir più inante, acciò veduta non fosse da Atlante. 75 E la donzella di nuovo consiglia di quel che mille volte ormai l'ha detto. La lascia sola; e quella oltre a dua miglia non cavalcò per un sentiero istretto, che vide quel ch'al suo Ruggier simiglia; e dui giganti di crudele aspetto intorno avea, che lo stringean sì forte, ch'era vicino esser condotto a morte. 76 Come la donna in tal periglio vede colui che di Ruggiero ha tutti i segni, subito cangia in sospizion la fede, subito oblia tutti i suoi bei disegni. Che sia in odio a Melissa Ruggier crede, per nuova ingiuria e non intesi sdegni, e cerchi far con disusata trama che sia morto da lei che così l'ama. 77 Seco dicea: - Non è Ruggier costui, che col cor sempre, et or con gli occhi veggio? E s'or non veggio e non conosco lui, che mai veder o mai conoscer deggio? Perché voglio io de la credenza altrui che la veduta mia giudichi peggio? che senza gli occhi ancor, sol per se stesso può il cor sentir se gli è lontano o appresso. - 78 Mentre che così pensa, ode la voce che le par di Ruggier, chieder soccorso; e vede quello a un tempo, che veloce sprona il cavallo e gli ralenta il morso, e l'un nemico e l'altro suo feroce, che lo segue e lo caccia a tutto corso. Di lor seguir la donna non rimase, che si condusse all'incantate case. 79 De le quai non più tosto entrò le porte, che fu sommersa nel commune errore. Lo cercò tutto per vie dritte e torte invan di su e di giú, dentro e di fuore; né cessa notte o dì, tanto era forte l'incanto: e fatto avea l'incantatore, che Ruggier vede sempre, e gli favella, né Ruggier lei, né lui riconosce ella. 80 Ma lasciàn Bradamante, e non v'incresca udir che così resti in quello incanto; che quando sarà il tempo ch'ella n'esca, la farò uscire, e Ruggiero altretanto. Come raccende il gusto il mutar esca, così mi par che la mia istoria, quanto or qua or là più varïata sia, meno a chi l'udirà noiosa fia. 81 Di molte fila esser bisogno parme a condur la gran tela ch'io lavoro. E però non vi spiaccia d'ascoltarme, come fuor de le stanze il popul Moro davanti al re Agramante ha preso l'arme, che, molto minacciando ai Gigli d'oro, lo fa assembrare ad una mostra nuova, per saper quanta gente si ritruova. 82 Perch'oltre i cavallieri, oltre i pedoni ch'al numero sottratti erano in copia, mancavan capitani, e pur de' buoni, e di Spagna e di Libia e d'Etïopia, e le diverse squadre e le nazioni givano errando senza guida propia; per dare e capo et ordine a ciascuna, tutto il campo alla mostra si raguna. 83 In supplimento de le turbe uccise ne le battaglie e ne' fieri conflitti, l'un signore in Ispagna, e l'altro mise in Africa, ove molti n'eran scritti; e tutti alli lor ordini divise, e sotto i duci lor gli ebbe diritti. Differirò, Signor, con grazia vostra, ne l'altro canto l'ordine e la mostra.
1 Nei molti assalti e nei crudel conflitti, ch'avuti avea con Francia, Africa e Spagna, morti erano infiniti, e derelitti al lupo, al corvo, all'aquila griffagna; e ben che i Franchi fossero più afflitti, che tutta avean perduta la campagna; più si doleano i Saracin, per molti principi e gran baron ch'eran lor tolti. 2 Ebbon vittorie così sanguinose, che lor poco avanzò di che allegrarsi. E se alle antique le moderne cose, invitto Alfonso, denno assimigliarsi; la gran vittoria, onde alle virtuose opere vostre può la gloria darsi, di ch'aver sempre lacrimose ciglia Ravenna debbe, a queste s'assimiglia: 3 quando, cedendo Morini e Picardi, l'esercito normando e l'aquitano, voi nel mezzo assaliste li stendardi del quasi vincitor nimico ispano, seguendo voi quei gioveni gagliardi, che meritâr con valorosa mano quel dì da voi, per onorati doni, l'else indorate e gl'indorati sproni. 4 Con sì animosi petti che vi fôro vicini o poco lungi al gran periglio, crollaste sì le ricche Giande d'oro, sì rompeste il baston giallo e vermiglio, ch'a voi si deve il trionfale alloro, che non fu guasto né sfiorato il Giglio. D'un'altra fronde v'orna anco la chioma l'aver servato il suo Fabrizio a Roma. 5 La gran Colonna del nome romano, che voi prendeste, e che servaste intera, vi dà più onor che se di vostra mano fosse caduta la milizia fiera, quanta n'ingrassa il campo ravegnano, e quanta se n'andò senza bandiera d'Aragon, di Castiglia e di Navarra, veduto non giovar spiedi né carra. 6 Quella vittoria fu più di conforto, che d'allegrezza; perché troppo pesa contra la gioia nostra il veder morto il capitan di Francia e de l'impresa; e seco avere una procella absorto tanti principi illustri, ch'a difesa dei regni lor, dei lor confederati, di qua da le fredd'Alpi eran passati. 7 Nostra salute, nostra vita in questa vittoria suscitata si conosce, che difende che 'l verno e la tempesta di Giove irato sopra noi non crosce: ma né goder potiam, né farne festa, sentendo i gran ramarichi e l'angosce, ch'in veste bruna e lacrimosa guancia le vedovelle fan per tutta Francia. 8 Bisogna che proveggia il re Luigi di nuovi capitani alle sue squadre, che per onor de l'aurea Fiordaligi castighino le man rapaci e ladre, che suore, e frati e bianchi e neri e bigi vïolato hanno, e sposa e figlia e madre; gittato in terra Cristo in sacramento, per torgli un tabernaculo d'argento. 9 O misera Ravenna, t'era meglio ch'al vincitor non fêssi resistenza; far ch'a te fosse inanzi Brescia speglio, che tu lo fossi a Arimino e a Faenza. Manda, Luigi, il buon Traulcio veglio, ch'insegni a questi tuoi più continenza, e conti lor quanti per simil torti stati ne sian per tutta Italia morti. 10 Come di capitani bisogna ora che 'l re di Francia al campo suo proveggia, così Marsilio et Agramante allora, per dar buon reggimento alla sua greggia, dai lochi dove il verno fe' dimora, vuol ch'in campagna all'ordine si veggia; perché vedendo ove bisogno sia, guida e governo ad ogni schiera dia. 11 Marsilio prima, e poi fece Agramante passar la gente sua schiera per schiera. I Catalani a tutti gli altri inante di Dorifebo van con la bandiera. Dopo vien, senza il suo re Folvirante, che per man di Rinaldo già morto era, la gente di Navarra; e lo re ispano halle dato Isolier per capitano. 12 Balugante del popul di Leone, Grandonio cura degli Algarbi piglia; il fratel di Marsilio, Falsirone, ha seco armata la minor Castiglia. Seguon di Madarasso il gonfalone quei che lasciato han Malaga e Siviglia, dal mar di Gade a Cordova feconda le verdi ripe ovunque il Beti inonda. 13 Stordilano e Tesira e Baricondo, l'un dopo l'altro, mostra la sua gente: Granata al primo, Ulisbona al secondo, e Maiorica al terzo è ubidïente. Fu d'Ulisbona re (tolto dal mondo Larbin) Tesira, di Larbin parente. Poi vien Galizia, che sua guida, in vece di Maricoldo, Serpentino fece. 14 Quei di Tolledo e quei di Calatrava, di ch'ebbe Sinagon già la bandiera, con tutta quella gente che si lava in Guadïana e bee della riviera, l'audace Matalista governava; Bianzardin quei d'Asturga in una schiera con quei di Salamanca e di Piagenza, d'Avila, di Zamora e di Palenza. 15 Di quei di Saragosa e de la corte del re Marsilio ha Ferraù il governo: tutta la gente è ben armata e forte. In questi è Malgarino, Balinverno, Malzarise e Morgante, ch'una sorte avea fatto abitar paese esterno; che, poi che i regni lor lor furon tolti, gli avea Marsilio in corte sua raccolti. 16 In questa è di Marsilio il gran bastardo, Follicon d'Almeria, con Doriconte, Bavarte e Largalifa et Analardo, et Archidante il sagontino conte, e Lamirante e Langhiran gagliardo, e Malagur ch'avea l'astuzie pronte, et altri et altri, di quai penso, dove tempo sarà, di far veder le pruove. 17 Poi che passò l'esercito di Spagna con bella mostra inanzi al re Agramante, con la sua squadra apparve alla campagna il re d'Oran, che quasi era gigante. L'altra che vien, per Martasin si lagna, il qual morto le fu da Bradamante; e si duol ch'una femina si vanti d'aver ucciso il re de' Garamanti. 18 Segue la terza schiera di Marmonda, ch'Argosto morto abbandonò in Guascogna: a questa un capo, come alla seconda e come anco alla quarta, dar bisogna. Quantunque il re Agramante non abonda di capitani, pur ne finge e sogna: dunque Buraldo, Ormida, Arganio elesse, e dove uopo ne fu, guida li messe. 19 Diede ad Arganio quei di Libicana, che piangean morto il negro Dudrinasso. Guida Brunello i suoi di Tingitana, con viso nubiloso e ciglio basso; che, poi che ne la selva non lontana dal castel ch'ebbe Atlante in cima al sasso, gli fu tolto l'annel da Bradamante, caduto era in disgrazia al re Agramante: 20 e se 'l fratel di Ferraù, Isoliero, ch'a l'arbore legato ritrovollo, non facea fede inanzi al re del vero, avrebbe dato in su le forche un crollo. Mutò, a' prieghi di molti, il re pensiero, già avendo fatto porgli il laccio al collo: gli lo fece levar, ma riserbarlo pel primo error; che poi giurò impiccarlo: 21 sì ch'avea causa di venir Brunello col viso mesto e con la testa china. Seguia poi Farurante, e dietro a quello eran cavalli e fanti di Maurina. Venìa Libanio appresso, il re novello: la gente era con lui di Constantina; però che la corona e il baston d'oro gli ha dato il re, che fu di Pinadoro. 22 Con la gente d'Esperia Soridano, e Dorilon ne vien con quei di Setta; ne vien coi Nasamoni Pulïano. Quelli d'Amonia il re Agricalte affretta; Malabuferso quelli di Fizano. Da Finadurro è l'altra squadra retta, che di Canaria viene e di Marocco; Balastro ha quei che fur del re Tardocco. 23 Due squadre, una di Mulga, una d'Arzilla, seguono: e questa ha 'l suo signore antico; quella n'è priva; e però il re sortilla, e diella a Corineo suo fido amico. E così de la gente d'Almansilla, ch'ebbe Tanfirïon, fe' re Caico; diè quella di Getulia a Rimedonte. Poi vien con quei di Cosca Balinfronte. 24 Quell'altra schiera è la gente di Bolga: suo re è Clarindo, e già fu Mirabaldo. Vien Baliverzo, il qual vuò che tu tolga di tutto il gregge pel maggior ribaldo. Non credo in tutto il campo si disciolga bandiera ch'abbia esercito più saldo de l'altra, con che segue il re Sobrino, né più di lui prudente Saracino. 25 Quei di Bellamarina, che Gualciotto solea guidare, or guida il re d'Algieri Rodomonte, e di Sarza, che condotto di nuovo avea pedoni e cavallieri; che mentre il sol fu nubiloso sotto il gran centauro e i corni orridi e fieri, fu in Africa mandato da Agramante, onde venuto era tre giorni inante. 26 Non avea il campo d'Africa più forte, né Saracin più audace di costui: e più temean le parigine porte, et avean più cagion di temer lui, che Marsilio, Agramante e la gran corte ch'avea seguito in Francia questi dui: e più d'ogni altro che facesse mostra, era nimico de la fede nostra. 27 Vien Prusïone, il re de l'Alvaracchie; poi quel de la Zumara, Dardinello. Non so s'abbiano o nottole o cornacchie, o altro manco et importuno augello, il qual dai tetti e da le fronde gracchie futuro mal, predetto a questo e a quello, che fissa in ciel nel dì seguente è l'ora che l'uno e l'altro in quella pugna muora. 28 In campo non aveano altri a venire, che quei di Tremisenne e di Norizia; né si vedea alla mostra comparire il segno lor, né dar di sé notizia. Non sapendo Agramante che si dire, né che pensar di questa lor pigrizia, uno scudiero al fin gli fu condutto del re di Tremisen, che narrò il tutto. 29 E gli narrò ch'Alzirdo e Manilardo con molti altri de' suoi giaceano al campo. - Signor (diss'egli), il cavallier gagliardo ch'ucciso ha i nostri, ucciso avria il tuo campo, se fosse stato a tôrsi via più tardo di me, ch'a pena ancor così ne scampo. Fa quel de' cavallieri e de' pedoni, che 'l lupo fa di capre e di montoni. - 30 Era venuto pochi giorni avante nel campo del re d'Africa un signore; né in Ponente era, né in tutto Levante, di più forza di lui, né di più core. Gli facea grande onore il re Agramante, per esser costui figlio e successore in Tartaria del re Agrican gagliardo: suo nome era il feroce Mandricardo. 31 Per molti chiari gesti era famoso, e di sua fama tutto il mondo empìa; ma lo facea più d'altro glorïoso, ch'al castel de la fata di Soria l'usbergo avea acquistato luminoso ch'Ettor troian portò mille anni pria, per strana e formidabile aventura, che 'l ragionarne pur mette paura. 32 Trovandosi costui dunque presente a quel parlar, alzò l'ardita faccia; e si dispose andare immantinente, per trovar quel guerrier, dietro alla traccia. Ritenne occulto il suo pensiero in mente, o sia perché d'alcun stima non faccia, o perché tema, se 'l pensier palesa, ch'un altro inanzi a lui pigli l'impresa. 33 Allo scudier fe' dimandar come era la sopravesta di quel cavalliero. Colui rispose: - Quella è tutta nera, lo scudo nero, e non ha alcun cimiero. - E fu, Signor, la sua risposta vera, perché lasciato Orlando avea il quartiero; che come dentro l'animo era in doglia, così imbrunir di fuor vòlse la spoglia. 34 Marsilio a Mandricardo avea donato un destrier baio a scorza di castagna, con gambe e chiome nere; et era nato di frisa madre e d'un villan di Spagna. Sopra vi salta Mandricardo armato, e galoppando va per la campagna; e giura non tornare a quelle schiere se non truova il campion da l'arme nere. 35 Molta incontrò de la paurosa gente che da le man d'Orlando era fuggita, chi del figliuol, chi del fratel dolente, ch'inanzi agli occhi suoi perdé la vita. Ancora la codarda e trista mente ne la pallida faccia era sculpita; ancor, per la paura che avuta hanno, pallidi, muti et insensati vanno. 36 Non fe' lungo camin, che venne dove crudel spettaculo ebbe et inumano, ma testimonio alle mirabil pruove che fur raconte inanzi al re africano. Or mira questi, or quelli morti, e muove, e vuol le piaghe misurar con mano, mosso da strana invidia ch'egli porta al cavallier ch'avea la gente morta. 37 Come lupo o mastin ch'ultimo giugne al bue lasciato morto da' villani, che truova sol le corna, l'ossa e l'ugne, del resto son sfamati augelli e cani; riguarda invano il teschio che non ugne: così fa il crudel barbaro in que' piani. Per duol bestemmia, e mostra invidia immensa che venne tardi a così ricca mensa. 38 Quel giorno e mezzo l'altro segue incerto il cavallier dal negro, e ne domanda. Ecco vede un pratel d'ombre coperto, che sì d'un alto fiume si ghirlanda, che lascia a pena un breve spazio aperto, dove l'acqua si torce ad altra banda. Un simil luogo con girevol onda sotto Ocricoli il Tevere circonda. 39 Dove entrar si potea, con l'arme indosso stavano molti cavallieri armati. Chiede il pagan, chi gli avea in stuol sì grosso, et a che effetto insieme ivi adunati. Gli fe' risposta il capitano, mosso dal signoril sembiante e da' fregiati d'oro e di gemme arnesi di gran pregio, che lo mostravan cavalliero egregio. 40 - Dal nostro re siàn (disse) di Granata chiamati in compagnia de la figliuola, la quale al re di Sarza ha maritata, ben che di ciò la fama ancor non vola. Come appresso la sera racchetata la cicaletta sia, ch'or s'ode sola, avanti al padre fra l'ispane torme la condurremo: intanto ella si dorme. - 41 Colui, che tutto il mondo vilipende, disegna di veder tosto la pruova, se quella gente o bene o mal difende la donna, alla cui guardia si ritruova. Disse: - Costei, per quanto se n'intende, è bella; e di saperlo ora mi giova. Allei mi mena, o falla qui venire; ch'altrove mi convien subito gire. - 42 - Esser per certo déi pazzo solenne, - rispose il Granatin, né più gli disse. Ma il Tartaro a ferir tosto lo venne con l'asta bassa, e il petto gli trafisse; che la corazza il colpo non sostenne, e forza fu che morto in terra gisse. L'asta ricovra il figlio d'Agricane, perché altro da ferir non gli rimane. 43 Non porta spada né baston; che quando l'arme acquistò, che fu d'Ettor troiano, perché trovò che lor mancava il brando, gli convenne giurar (né giurò invano) che fin che non togliea quella d'Orlando, mai non porrebbe ad altra spada mano: Durindana ch'Almonte ebbe in gran stima, e Orlando or porta, Ettor portava prima. 44 Grande è l'ardir del Tartaro, che vada con disvantaggio tal contra coloro, gridando: - Chi mi vuol vietar la strada? - E con la lancia si cacciò tra loro. Chi l'asta abbassa, e chi tra' fuor la spada; e d'ogn'intorno subito gli fôro. Egli ne fece morir una frotta, prima che quella lancia fosse rotta. 45 Rotta che se la vede, il gran troncone, che resta intero, ad ambe mani afferra; e fa morir con quel tante persone, che non fu vista mai più crudel guerra. Come tra' Filistei l'ebreo Sansone con la mascella che levò di terra, scudi spezza, elmi schiaccia, e un colpo spesso spenge i cavalli ai cavallieri appresso. 46 Correno a morte que' miseri a gara, né perché cada l'un, l'altro andar cessa; che la maniera del morire, amara lor par più assai che non è morte istessa. Patir non ponno che la vita cara tolta lor sia da un pezzo d'asta fessa, e sieno sotto alle picchiate strane a morir giunti, come biscie o rane. 47 Ma poi ch'a spese lor si furo accorti che male in ogni guisa era morire, sendo già presso alli duo terzi morti, tutto l'avanzo cominciò a fuggire. Come del proprio aver via se gli porti, il Saracin crudel non può patire ch'alcun di quella turba sbigottita da lui partir si debba con la vita. 48 Come in palude asciutta dura poco stridula canna, o in campo àrrida stoppia contra il soffio di borea e contra il fuoco che 'l cauto agricultore insieme accoppia, quando la vaga fiamma occupa il loco, e scorre per li solchi, e stride e scoppia; così costor contra la furia accesa di Mandricardo fan poca difesa. 49 Poscia ch'egli restar vede l'entrata, che mal guardata fu, senza custode; per la via che di nuovo era segnata ne l'erba, e al suono dei ramarchi ch'ode, viene a veder la donna di Granata, se di bellezze è pari alle sue lode: passa tra i corpi de la gente morta, dove gli dà, torcendo, il fiume porta. 50 E Doralice in mezzo il prato vede (che così nome la donzella avea), la qual, suffolta da l'antico piede d'un frassino silvestre, si dolea. Il pianto, come un rivo che succede di viva vena, nel bel sen cadea; e nel bel viso si vedea che insieme de l'altrui mal si duole, e del suo teme. 51 Crebbe il timor, come venir lo vide di sangue brutto e con faccia empia e oscura, e'l grido sin al ciel l'aria divide, di sé e de la sua gente per paura; che, oltre i cavallier, v'erano guide, che de la bella infante aveano cura, maturi vecchi, e assai donne e donzelle del regno di Granata, e le più belle. 52 Come il Tartaro vede quel bel viso che non ha paragone in tutta Spagna, e c'ha nel pianto (or ch'esser de' nel riso?) tesa d'Amor l'inestricabil ragna; non sa se vive in terra o in paradiso: né de la sua vittoria altro guadagna, se non che in man de la sua prigioniera si dà prigione, e non sa in qual maniera. 53 Allei però non si concede tanto, che del travaglio suo le doni il frutto; ben che piangendo ella dimostri, quanto possa donna mostrar, dolore e lutto. Egli, sperando volgerle quel pianto in sommo gaudio, era disposto al tutto menarla seco; e sopra un bianco ubino montar la fece, e tornò al suo camino. 54 Donne e donzelle e vecchi et altra gente, ch'eran con lei venuti di Granata, tutti licenzïò benignamente, dicendo: - Assai da me fia accompagnata; io mastro, io balia, io le sarò sergente in tutti i suoi bisogni: a Dio, brigata. - Così, non gli possendo far riparo, piangendo e sospirando se n'andaro; 55 tra lor dicendo: - Quanto doloroso ne sarà il padre, come il caso intenda! quanta ira, quanto duol ne avrà il suo sposo! oh come ne farà vendetta orrenda! Deh, perché a tempo tanto bisognoso non è qui presso a far che costui renda il sangue illustre del re Stordilano, prima che se lo porti più lontano? - 56 De la gran preda il Tartaro contento, che fortuna e valor gli ha posta inanzi, di trovar quel dal negro vestimento non par ch'abbia la fretta ch'avea dianzi. Correva dianzi: or viene adagio e lento; e pensa tuttavia dove si stanzi, dove ritruovi alcun commodo loco, per esalar tanto amoroso foco. 57 Tuttavolta conforta Doralice, ch'avea di pianto e gli occhi e 'l viso molle: compone e finge molte cose, e dice che per fama gran tempo ben le volle; e che la patria, e il suo regno felice che 'l nome di grandezza agli altri tolle, lasciò, non per vedere o Spagna o Francia, ma sol per contemplar sua bella guancia. 58 - Se per amar, l'uom debbe essere amato, merito il vostro amor; che v'ho amat'io: se per stirpe, di me chi è meglio nato? che'l possente Agrican fu il padre mio: se per ricchezza, chi ha di me più stato? che di dominio io cedo solo a Dio: se per valor, credo oggi aver esperto ch'essere amato per valore io merto. - 59 Queste parole et altre assai, ch'Amore a Mandricardo di sua bocca ditta, van dolcemente a consolare il core de la donzella di paura afflitta. Il timor cessa, e poi cessa il dolore che le avea quasi l'anima trafitta. Ella comincia con più pazïenza a dar più grata al nuovo amante udienza 60 poi con risposte più benigne molto a mostrarsegli affabile e cortese, e non negargli di fermar nel volto talor le luci di pietade accese: onde il pagan, che da lo stral fu colto altre volte d'Amor, certezza prese, non che speranza, che la donna bella non saria a' suo' desir sempre ribella. 61 Con questa compagnia lieto e gioioso, che sì gli satisfà, sì gli diletta, essendo presso all'ora ch'a riposo la fredda notte ogni animale alletta, vedendo il sol già basso e mezzo ascoso, comminciò a cavalcar con maggior fretta; tanto ch'udì sonar zuffoli e canne, e vide poi fumar ville e capanne. 62 Erano pastorali alloggiamenti, miglior stanza e più commoda, che bella. Quivi il guardian cortese degli armenti onorò il cavalliero e la donzella, tanto che si chiamâr da lui contenti; che non pur per cittadi e per castella, ma per tugurii ancora e per fenili spesso si trovan gli uomini gentili. 63 Quel che fosse dipoi fatto all'oscuro tra Doralice e il figlio d'Agricane, a punto racontar non m'assicuro; sì ch'al giudicio di ciascun rimane. Creder si può che ben d'accordo furo; che si levâr più allegri la dimane, e Doralice ringraziò il pastore, che nel suo albergo l' avea fatto onore. 64 Indi d'uno in un altro luogo errando, si ritrovaro al fin sopra un bel fiume che con silenzio al mar va declinando, e se vada o se stia, mal si prosume; limpido e chiaro sì, ch'in lui mirando, senza contesa al fondo porta il lume. In ripa a quello, a una fresca ombra e bella, trovâr dui cavallieri e una donzella. 65 Or l'alta fantasia, ch'un sentier solo non vuol ch'i' segua ognor, quindi mi guida, e mi ritorna ove il moresco stuolo assorda di rumor Francia e di grida, d'intorno il padiglione ove il figliuolo del re Troiano il santo Imperio sfida, e Rodomonte audace se gli vanta arder Parigi e spianar Roma santa. 66 Venuto ad Agramante era all'orecchio, che già l'Inglesi avean passato il mare: però Marsilio e il re del Garbo vecchio e gli altri capitan fece chiamare. Consiglian tutti a far grande apparecchio, sì che Parigi possino espugnare. Ponno esser certi che più non s'espugna, se nol fan prima che l'aiuto giugna. 67 Già scale innumerabili per questo da' luoghi intorno avea fatto raccorre, et asse e travi, e vimine contesto, che lo poteano a diversi usi porre; e navi e ponti: e più facea che 'l resto, il primo e il secondo ordine disporre a dar l'assalto; et egli vuol venire tra quei che la città denno assalire. 68 L'imperatore il dì che 'l dì precesse de la battaglia, fe' dentro a Parigi per tutto celebrare uffici e messe a preti, a frati bianchi, neri e bigi; e le gente che dianzi eran confesse, e di man tolte agl'inimici stigi, tutti communicâr, non altramente ch'avessino a morir il dì seguente. 69 Et egli tra baroni e paladini, principi et oratori, al maggior tempio con molta religione a quei divini atti intervenne, e ne diè agli altri esempio. Con le man giunte e gli occhi al ciel supini, disse: - Signor, ben ch'io sia iniquo et empio, non voglia tua bontà, pel mio fallire, che 'l tuo popul fedele abbia a patire. 70 E se gli è tuo voler ch'egli patisca, e ch'abbia il nostro error degni supplìci, almen la punizion si differisca sì, che per man non sia de' tuoi nemici; che quando lor d'uccider noi sortisca, che nome avemo pur d'esser tuo' amici, i pagani diran che nulla puoi, che perir lasci i partigiani tuoi. 71 E per un che ti sia fatto ribelle, cento ti si faran per tutto il mondo; tal che la legge falsa di Babelle caccierà la tua fede e porrà al fondo. Difendi queste genti, che son quelle che 'l tuo sepulcro hanno purgato e mondo da' brutti cani, e la tua santa Chiesa con li vicarii suoi spesso difesa. 72 So che i meriti nostri atti non sono a satisfare al debito d'un'oncia; né devemo sperar da te perdono, se riguardiamo a nostra vita sconcia: ma se vi aggiugni di tua grazia il dono, nostra ragion fia ragguagliata e concia; né del tuo aiuto disperar possiamo, qualor di tua pietà ci ricordiamo. - 73 Così dicea l'imperator devoto, con umiltade e contrizion di core. Giunse altri prieghi e convenevol voto al gran bisogno e all'alto suo splendore. Non fu il caldo pregar d'effetto vòto; però che 'l genio suo, l'angel migliore, i prieghi tolse, e spiegò al ciel le penne, et a narrare al Salvator li venne. 74 E furo altri infiniti in quello instante da tali messaggier portati a Dio; che come gli ascoltâr l'anime sante, dipinte di pietade il viso pio, tutte miraro il sempiterno Amante, e gli mostraro il commun lor disio, che la giusta orazion fosse esaudita del populo cristian che chiedea aita. 75 E la Bontà ineffabile, ch'invano non fu pregata mai da cor fedele, leva gli occhi pietosi, e fa con mano cenno che venga a sé l'angel Michele. - Va (gli disse) all'esercito cristiano che dianzi in Picardia calò le vele, e al muro di Parigi l'appresenta sì, che 'l campo nimico non lo senta. 76 Truova prima il Silenzio, e da mia parte gli di' che teco a questa impresa venga; ch'egli ben proveder con ottima arte saprà di quanto proveder convenga. Fornito questo, subito va in parte dove il suo seggio la Discordia tenga: dille che l'esca e il fucil seco prenda, e nel campo de' Mori il fuoco accenda; 77 e tra quei che vi son detti più forti sparga tante zizzanie e tante liti, che combattano insieme; et altri morti, altri ne sieno presi, altri feriti, e fuor del campo altri lo sdegno porti sì che il lor re poco di lor s'aiti. - Non replica a tal detto altra parola il benedetto augel, ma dal ciel vola. 78 Dovunque drizza Michel angel l'ale, fuggon le nubi, e torna il ciel sereno. Gli gira intorno un aureo cerchio, quale veggiàn di notte lampeggiar baleno. Seco pensa tra via, dove si cale il celeste corrier per fallir meno a trovar quel nimico di parole, a cui la prima commission far vuole. 79 Vien scorrendo ov'egli abiti, ov'egli usi; e se accordaro infin tutti i pensieri, che de frati e de monachi rinchiusi lo può trovare in chiese e in monasteri, dove sono i parlari in modo esclusi, che 'l Silenzio, ove cantano i salteri, ove dormeno, ove hanno la piatanza, e finalmente è scritto in ogni stanza. 80 Credendo quivi ritrovarlo, mosse con maggior fretta le dorate penne; e di veder ch'ancor Pace vi fosse, Quïete e Carità, sicuro tenne. Ma da la opinïon sua ritrovosse tosto ingannato, che nel chiostro venne: non è Silenzio quivi; e gli fu ditto che non v'abita più, fuor che in iscritto. 81 Né Pietà, né Quïete, né Umiltade, né quivi Amor, né quivi Pace mira. Ben vi fur già, ma ne l'antiqua etade; che le cacciâr Gola, Avarizia et Ira, Superbia, Invidia, Inerzia e Crudeltade. Di tanta novità l'angel si ammira: andò guardando quella brutta schiera, e vide ch'anco la Discordia v'era. 82 Quella che gli avea detto il Padre eterno, dopo il Silenzio, che trovar dovesse. Pensato avea di far la via d'Averno, che si credea che tra' dannati stesse; e ritrovolla in questo nuovo inferno (ch' l crederia?) tra santi ufficii e messe. Par di strano a Michel ch'ella vi sia, che per trovar credea di far gran via. 83 La conobbe al vestir di color cento, fatto a liste inequali et infinite, ch'or la cuoprono or no; che i passi e 'l vento le gíano aprendo, ch'erano sdrucite. I crini avea qual d'oro e qual d'argento, e neri e bigi, e aver pareano lite; altri in treccia, altri in nastro eran raccolti, molti alle spalle, alcuni al petto sciolti. 84 Di citatorie piene e di libelli, d'essamine e di carte di procure avea le mani e il seno, e gran fastelli di chiose, di consigli e di letture; per cui le facultà de' poverelli non sono mai ne le città sicure. Avea dietro e dinanzi e d'ambi i lati, notai, procuratori et avocati. 85 La chiama a sé Michele, e le commanda che tra i più forti Saracini scenda, e cagion truovi, che con memoranda ruina insieme a guerreggiar gli accenda. Poi del Silenzio nuova le domanda: facilmente esser può ch'essa n'intenda, sì come quella ch'accendendo fochi di qua e di là, va per diversi lochi. 86 Rispose la Discordia: - Io non ho a mente in alcun loco averlo mai veduto: udito l'ho ben nominar sovente, e molto commendarlo per astuto. Ma la Fraude, una qui di nostra gente, che compagnia talvolta gli ha tenuto, penso che dir te ne saprà novella; - e verso una alzò il dito, e disse: - È quella. - 87 Avea piacevol viso, abito onesto, un umil volger d'occhi, un andar grave, un parlar sì benigno e sì modesto, che parea Gabriel che dicesse: Ave. Era brutta e deforme in tutto il resto: ma nascondea queste fattezze prave con lungo abito e largo; e sotto quello, attosicato avea sempre il coltello. 88 Domanda a costei l'angelo, che via debba tener, sì che 'l Silenzio truove. Disse la Fraude: - Già costui solia fra virtudi abitare, e non altrove, con Benedetto e con quelli d'Elia ne le badie, quando erano ancor nuove: fe' ne le scuole assai de la sua vita al tempo di Pitagora e d'Archita. 89 Mancati quei filosofi e quei santi che lo solean tener pel camin ritto, dagli onesti costumi ch'avea inanti, fece alle sceleraggini tragitto. Comminciò andar la notte con gli amanti, indi coi ladri, e fare ogni delitto. Molto col Tradimento egli dimora: veduto l'ho con l'Omicidio ancora. 90 Con quei che falsan le monete ha usanza di ripararsi in qualche buca scura. Così spesso compagni muta e stanza, che 'l ritrovarlo ti saria ventura; ma pur ho d'insegnartelo speranza: se d'arrivare a mezza notte hai cura alla casa del Sonno, senza fallo potrai (che quivi dorme) ritrovallo. - 91 Ben che soglia la Fraude esser bugiarda, pur è tanto il suo dir simile al vero, che l'angelo le crede; indi non tarda a volarsene fuor del monastero. Tempra il batter de l'ale, e studia e guarda giungere in tempo al fin del suo sentiero, ch'alla casa del Sonno (che ben dove era sapea) questo Silenzio truove. 92 Giace in Arabia una valletta amena, lontana da cittadi e da villaggi, ch'all'ombra di duo monti è tutta piena d'antiqui abeti e di robusti faggi. Il sole indarno il chiaro dì vi mena; che non vi può mai penetrar coi raggi, sì gli è la via da folti rami tronca: e quivi entra sotterra una spelonca. 93 Sotto la negra selva una capace e spazïosa grotta entra nel sasso, di cui la fronte l'edera seguace tutta aggirando va con storto passo. In questo albergo il grave Sonno giace; l'Ozio da un canto corpulento e grasso, da l'altro la Pigrizia in terra siede, che non può andare, e mal reggersi in piede. 94 Lo smemorato Oblio sta su la porta: non lascia entrar, né riconosce alcuno; non ascolta imbasciata, né riporta; e parimente tien cacciato ognuno. Il Silenzio va intorno, e fa la scorta: ha le scarpe di feltro, e 'l mantel bruno; et a quanti n'incontra, di lontano, che non debban venir, cenna con mano. 95 Se gli accosta all'orecchio e pianamente l'angel gli dice: - Dio vuol che tu guidi a Parigi Rinaldo con la gente che per dar, mena, al suo signor sussidi: ma che lo facci tanto chetamente, ch'alcun de' Saracin non oda i gridi; sì che più tosto che ritruovi il calle la Fama d'avisar, gli abbia alle spalle. - 96 Altrimente il Silenzio non rispose, che col capo accennando che faria; e dietro ubidïente se gli pose; e furo al primo volo in Picardia. Michel mosse le squadre coraggiose, e fe' lor breve un gran tratto di via; sì che in un dì a Parigi le condusse, né alcun s'avide che miracol fusse. 97 Discorreva il Silenzio, e tuttavolta, e dinanzi alle squadre e d'ogn'intorno facea girare un'alta nebbia in volta, et avea chiaro ogn'altra parte il giorno; e non lasciava questa nebbia folta, che s'udisse di fuor tromba né corno: poi n'andò tra' pagani, e menò seco un non so che, ch'ognun fe' sordo e cieco. 98 Mentre Rinaldo in tal fretta venìa, che ben parea da l'angelo condotto, e con silenzio tal, che non s'udia nel campo saracin farsene motto; il re Agramante avea la fanteria messo ne' borghi di Parigi, e sotto le minacciate mura in su la fossa, per far quel dì l'estremo di sua possa. 99 Chi può contar l'esercito che mosso questo dì contra Carlo ha 'l re Agramante, conterà ancora in su l'ombroso dosso del silvoso Apennin tutte le piante; dirà quante onde, quando è il mar più grosso, bagnano i piedi al mauritano Atlante; e per quanti occhi il ciel le furtive opre degli amatori a mezza notte scuopre. 100 Le campane si sentono a martello di spessi colpi e spaventosi tocche; si vede molto, in questo tempio e in quello, alzar di mano e dimenar di bocche. Se 'l tesoro paresse a Dio sì bello, come alle nostre openïoni sciocche, questo era il dì che 'l santo consistoro fatto avria in terra ogni sua statua d'oro. 101 S'odon ramaricare i vecchi giusti, che s'erano serbati in quelli affanni, e nominar felici i sacri busti composti in terra già molti e molt'anni. Ma gli animosi gioveni robusti che miran poco i lor propinqui danni, sprezzando le ragion de' più maturi, di qua di là vanno correndo a' muri. 102 Quivi erano baroni e paladini, re, duci, cavallier, marchesi e conti, soldati forestieri e cittadini, per Cristo e pel suo onore a morir pronti; che per uscire adosso ai Saracini, pregan l'imperator ch'abbassi i ponti. Gode egli di veder l'animo audace, ma di lasciarli uscir non li compiace. 103 E li dispone in oportuni lochi, per impedire ai barbari la via: là si contenta che ne vadan pochi, qua non basta una grossa compagnia; alcuni han cura maneggiare i fuochi, le machine altri, ove bisogno sia. Carlo di qua di là non sta mai fermo: va soccorrendo, e fa per tutto schermo. 104 Siede Parigi in una gran pianura, ne l'ombilico a Francia, anzi nel core; gli passa la riviera entro le mura, e corre, et esce in altra parte fuore. Ma fa un'isola prima, e v'assicura de la città una parte, e la migliore; l'altre due (ch'in tre parti è la gran terra) di fuor la fossa, e dentro il fiume serra. 105 Alla città, che molte miglia gira, da molte parti si può dar battaglia: ma perché sol da un canto assalir mira, né volentier l'esercito sbarraglia, oltre il fiume Agramante si ritira verso ponente, acciò che quindi assaglia; però che né cittade né campagna ha dietro, se non sua, fin alla Spagna. 106 Dovunque intorno il gran muro circonda, gran munizioni avea già Carlo fatte, fortificando d'argine ogni sponda con scannafossi dentro e case matte; onde entra ne la terra, onde esce l'onda, grossissime catene aveva tratte; ma fece, più ch'altrove, provedere là dove avea più causa di temere. 107 Con occhi d'Argo il figlio di Pipino previde ove assalir dovea Agramante; e non fece disegno il Saracino, a cui non fosse riparato inante. Con Ferraù, Isoliero, Serpentino, Grandonio, Falsirone e Balugante, e con ciò che di Spagna avea menato, restò Marsilio alla campagna armato. 108 Sobrin gli era a man manca in ripa a Senna, con Pulïan, con Dardinel d'Almonte, col re d'Oran, ch'esser gigante accenna, lungo sei braccia dai piedi alla fronte. Deh perché a muover men son io la penna, che quelle genti a muover l'arme pronte? che 'l re di Sarza, pien d'ira e di sdegno, grida e bestemmia e non può star più a segno. 109 Come assalire o vasi pastorali, o le dolci reliquie de' convivi soglion con rauco suon di stridule ali le impronte mosche a' caldi giorni estivi; come li storni a rosseggianti pali vanno de mature uve: così quivi, empiendo il ciel di grida e di rumori, veniano a dare il fiero assalto i Mori. 110 L'esercito cristian sopra le mura con lance, spade e scure e pietre e fuoco difende la città senza paura, e il barbarico orgoglio estima poco; e dove Morte uno et un altro fura, non è chi per viltà ricusi il loco. Tornano i Saracin giú ne le fosse a furia di ferite e di percosse. 111 Non ferro solamente vi s'adopra, ma grossi massi, e merli integri e saldi, e muri dispiccati con molt'opra, tetti di torri, e gran pezzi di spaldi. L'acque bollenti che vengon di sopra, portano a' Mori insupportabil caldi; e male a questa pioggia si resiste, ch'entra per gli elmi, e fa acciecar le viste. 112 E questa più nocea che 'l ferro quasi: or che de' far la nebbia di calcine? or che doveano far li ardenti vasi con olio e zolfo e peci e trementine? I cerchii in munizion non son rimasi, che d'ogn'intorno hanno di fiamma il crine: questi, scagliati per diverse bande, mettono a' Saracini aspre ghirlande. 113 Intanto il re di Sarza avea cacciato sotto le mura la schiera seconda, da Buraldo, da Ormida accompagnato, quel Garamante, e questo di Marmonda. Clarindo e Soridan gli sono allato, né par che 'l re di Setta si nasconda; segue il re di Marocco e quel di Cosca, ciascun perché il valor suo si conosca. 114 Ne la bandiera, ch'è tutta vermiglia, Rodomonte di Sarza il leon spiega, che la feroce bocca ad una briglia che gli pon la sua donna, aprir non niega. Al leon se medesimo assimiglia; e per la donna che lo frena e lega, la bella Doralice ha figurata, figlia di Stordilan re di Granata: 115 quella che tolto avea, come io narrava, re Mandricardo, e dissi dove e a cui. Era costei che Rodomonte amava più che'l suo regno e più che gli occhi sui; e cortesia e valor per lei mostrava, non già sapendo ch'era in forza altrui: se saputo l'avesse, allora allora fatto avria quel che fe' quel giorno ancora. 116 Sono appoggiate a un tempo mille scale, che non han men di dua per ogni grado. Spinge il secondo quel ch'inanzi sale; che 'l terzo lui montar fa suo mal grado. Chi per virtù, chi per paura vale: convien ch'ognun per forza entri nel guado; che qualunche s'adagia, il re d'Algiere, Rodomonte crudele, uccide o fere. 117 Ognun dunque si sforza di salire tra il fuoco e le ruine in su le mura. Ma tutti gli altri guardano, se aprire veggiano passo ove sia poca cura: sol Rodomonte sprezza di venire, se non dove la via meno è sicura. Dove nel caso disperato e rio gli altri fan voti, egli bestemmia Dio. 118 Armato era d'un forte duro usbergo, che fu di drago una scagliosa pelle. Di questo già si cinse il petto e 'l tergo quello avol suo ch'edificò Babelle, e si pensò cacciar de l'aureo albergo, e tôrre a Dio il governo de le stelle: l'elmo e lo scudo fece far perfetto, e il brando insieme; e solo a questo effetto. 119 Rodomonte non già men di Nembrotte indomito, superbo e furibondo, che d'ire al ciel non tarderebbe a notte, quando la strada si trovasse al mondo, quivi non sta a mirar s'intere o rotte sieno le mura, o s'abbia l'acqua fondo: passa la fossa, anzi la corre e vola, ne l'acqua e nel pantan fin alla gola. 120 Di fango brutto, e molle d'acqua vanne tra il foco e i sassi e gli archi e le balestre, come andar suol tra le palustri canne de la nostra Mallea porco silvestre, che col petto, col grifo e con le zanne fa, dovunque si volge, ample finestre. Con lo scudo alto il Saracin sicuro ne vien sprezzando il ciel, non che quel muro. 121 Non sì tosto all'asciutto è Rodomonte, che giunto si sentì su le bertresche, che dentro alla muraglia facean ponte capace e largo alle squadre francesche. Or si vede spezzar più d'una fronte, far chieriche maggior de le fratesche, braccia e capi volare; e ne la fossa cader da' muri una fiumana rossa. 122 Getta il pagan lo scudo, e a duo man prende la crudel spada, e giunge il duca Arnolfo. Costui venìa di là dove discende l'acqua del Reno nel salato golfo. Quel miser contra lui non si difende meglio che faccia contra il fuoco il zolfo; e cade in terra, e dà l'ultimo crollo, dal capo fesso un palmo sotto il collo. 123 Uccise di rovescio in una volta Anselmo, Oldrado, Spineloccio e Prando: il luogo stretto e la gran turba folta fece girar sì pienamente il brando. Fu la prima metade a Fiandra tolta, l'altra scemata al populo normando. Divise appresso da la fronte al petto, et indi al ventre, il maganzese Orghetto. 124 Getta da' merli Andropono e Moschino giú ne la fossa: il primo è sacerdote; non adora il secondo altro che 'l vino, e le bigonce a un sorso n'ha già vuote. Come veneno e sangue viperino l'acque fuggia quanto fuggir si puote: or quivi muore; e quel che più l'annoia, è 'l sentir che ne l'acqua se ne muoia. 125 Tagliò in due parti il provenzal Luigi, e passò il petto al tolosano Arnaldo. Di Torse Oberto, Claudio, Ugo e Dionigi mandâr lo spirto fuor col sangue caldo; e presso a questi, quattro da Parigi, Gualtiero, Satallone, Odo et Ambaldo, et altri molti: et io non saprei come di tutti nominar la patria e il nome. 126 La turba dietro a Rodomonte presta le scale appoggia, e monta in più d'un loco. Quivi non fanno i Parigin più testa; che la prima difesa lor val poco. San ben ch'agli nemici assai più resta dentro da fare, e non l'avran da gioco; perché tra il muro e l'argine secondo discende il fosso orribile e profondo. 127 Oltra che i nostri facciano difesa dal basso all'alto, e mostrino valore; nuova gente succede alla contesa sopra l'erta pendice interïore, che fa con lancie e con saette offesa alla gran moltitudine di fuore, che credo ben, che saria stata meno, se non v'era il figliuol del re Ulïeno. 128 Egli questi conforta, e quei riprende, e lor mal grado inanzi se gli caccia: ad altri il petto, ad altri il capo fende, che per fuggir veggia voltar la faccia. Molti ne spinge et urta; alcuni prende pei capelli, pel collo e per le braccia: e sozzopra là giù tanti ne getta, che quella fossa a capir tutti è stretta. 129 Mentre lo stuol de' barbari si cala, anzi trabocca al periglioso fondo, et indi cerca per diversa scala di salir sopra l'argine secondo; il re di Sarza (come avesse un'ala per ciascun de' suoi membri) levò il pondo di sì gran corpo e con tant'arme indosso, e netto si lanciò di là dal fosso. 130 Poco era men di trenta piedi, o tanto, et egli il passò destro come un veltro, e fece nel cader strepito, quanto avesse avuto sotto i piedi il feltro: et a questo et a quello affrappa il manto, come sien l'arme di tenero peltro, e non di ferro, anzi pur sien di scorza: tal la sua spada, e tanta è la sua forza! 131 In questo tempo i nostri, da chi tese l'insidie son ne la cava profonda, che v'han scope e fascine in copia stese, intorno a quai di molta pece abonda (né però alcuna si vede palese, ben che n'è piena l'una e l'altra sponda dal fondo cupo insino all'orlo quasi), e senza fin v'hanno appiattati vasi, 132 qual con salnitro, qual con oglio, quale con zolfo, qual con altra simil esca; i nostri in questo tempo, perché male ai Saracini il folle ardir riesca, ch'eran nel fosso, e per diverse scale credean montar su l'ultima bertresca; udito il segno da oportuni lochi, di qua e di là fenno avampare i fochi. 133 Tornò la fiamma sparsa tutta in una, che tra una ripa e l'altra ha 'l tutto pieno; e tanto ascende in alto, ch'alla luna può d'appresso asciugar l'umido seno. Sopra si volve oscura nebbia e bruna, che 'l sole adombra, e spegne ogni sereno. Sentesi un scoppio in un perpetuo suono, simile a un grande e spaventoso tuono. 134 Aspro concento, orribile armonia d'alte querele, d'ululi e di strida de la misera gente che peria nel fondo per cagion de la sua guida, istranamente concordar s'udia col fiero suon de la fiamma omicida. Non più, Signor, non più di questo canto; ch'io son già rauco, e vo' posarmi alquanto.
1 Fu il vincer sempremai laudabil cosa, vincasi o per fortuna o per ingegno: gli è ver che la vittoria sanguinosa spesso far suole il capitan men degno; e quella eternamente è glorïosa, e dei divini onori arriva al segno, quando, servando i suoi senza alcun danno, si fa che gl'inimici in rotta vanno. 2 La vostra, Signor mio, fu degna loda, quando al Leone, in mar tanto feroce, ch'avea occupata l'una e l'altra proda del Po, da Francolin sin alla foce, faceste sì, ch'ancor che ruggir l'oda, s'io vedrò voi, non tremerò alla voce. Come vincer si de', ne dimostraste; ch'uccideste i nemici, e noi salvaste. 3 Questo il pagan, troppo in suo danno audace, non seppe far; che i suoi nel fosso spinse, dove la fiamma subita e vorace non perdonò ad alcun, ma tutti estinse. A tanti non saria stato capace tutto il gran fosso, ma il fuoco restrinse, restrinse i corpi e in polve li ridusse, acciò ch'abile a tutti il luogo fusse. 4 Undici mila et otto sopra venti si ritrovâr ne l'affocata buca, che v'erano discesi malcontenti; ma così volle il poco saggio duca. Quivi fra tanto lume or sono spenti, e la vorace fiamma li manuca: e Rodomonte, causa del mal loro, se ne va esente da tanto martoro: 5 che tra' nemici alla ripa più interna era passato d'un mirabil salto. Se con gli altri scendea ne la caverna, questo era ben il fin d'ogni suo assalto. Rivolge gli occhi a quella valle inferna; e quando vede il fuoco andar tant'alto, e di sua gente il pianto ode e lo strido, bestemmia il ciel con spaventoso grido. 6 Intanto il re Agramante mosso avea impetuoso assalto ad una porta; che, mentre la crudel battaglia ardea quivi ove è tanta gente afflitta e morta, quella sprovista forse esser credea di guardia, che bastasse alla sua scorta. Seco era il re d'Arzilla Bambirago, e Baliverzo, d'ogni vizio vago; 7 e Corineo di Mulga, e Prusïone, il ricco re de l'Isole beate; Malabuferso che la regïone tien di Fizan, sotto continua estate; altri signori, et altre assai persone esperte ne la guerra e bene armate; e molti ancor senza valore e nudi, che 'l cor non s'armerian con mille scudi. 8 Trovò tutto il contrario al suo pensiero in questa parte il re de' Saracini: perché in persona il capo de l'Impero v'era, re Carlo, e de' suoi paladini, re Salamone et il danese Ugiero, et ambo i Guidi et ambo gli Angelini, e 'l duca di Bavera e Ganelone, e Berlengier e Avolio e Avino e Otone; 9 gente infinita poi di minor conto, de' Franchi, de' Tedeschi e de' Lombardi, presente il suo signor, ciascuno pronto a farsi riputar fra i più gagliardi. Di questo altrove io vo' rendervi conto; ch'ad un gran duca è forza ch'io riguardi, il qual mi grida, e di lontano accenna, e priega ch'io nol lasci ne la penna. 10 Gli è tempo ch'io ritorni ove lasciai l'aventuroso Astolfo d'Inghilterra, che 'l lungo esilio avendo in odio ormai, di desiderio ardea de la sua terra; come gli n'avea data pur assai speme colei ch'Alcina vinse in guerra. Ella di rimandarvilo avea cura per la via più espedita e più sicura. 11 E così una galea fu apparechiata, di che miglior mai non solcò marina; e perché ha dubbio pur tutta fïata, che non gli turbi il suo vïaggio Alcina, vuol Logistilla che con forte armata Andronica ne vada e Sofrosina, tanto che nel mar d'Arabi, o nel golfo de' Persi, giunga a salvamento Astolfo. 12 Più tosto vuol che volteggiando rada gli Sciti e gl'Indi e i regni nabatei, e torni poi per così lunga strada a ritrovare i Persi e gli Eritrei; che per quel boreal pelago vada, che turban sempre iniqui venti e rei, e sì, qualche stagion, pover di sole, che starne senza alcuni mesi suole. 13 La fata, poi che vide acconcio il tutto, diede licenzia al duca di partire, avendol prima ammaestrato e instrutto di cose assai, che fôra lungo a dire; e per schivar che non sia più ridutto per arte maga, onde non possa uscire, un bello et util libro gli avea dato, che per suo amore avesse ognora allato. 14 Come l'uom riparar debba agl'incanti mostra il libretto che costei gli diede: dove ne tratta o più dietro o più inanti, per rubrica e per indice si vede. Un altro don gli fece ancor, che quanti doni fur mai, di gran vantaggio eccede: e questo fu d'orribil suono un corno, che fa fugire ognun che l'ode intorno. 15 Dico che 'l corno è di sì orribil suono, ch'ovunque s'oda, fa fuggir la gente: non può trovarsi al mondo un cor sì buono, che possa non fuggir come lo sente: rumor di vento e di termuoto, e 'l tuono, a par del suon di questo, era nïente. Con molto riferir di grazie, prese da la fata licenzia il buono Inglese. 16 Lasciando il porto e l'onde più tranquille, con felice aura ch'alla poppa spira, sopra le ricche e populose ville de l'odorifera India il duca gira, scoprendo a destra et a sinistra mille isole sparse; e tanto va, che mira la terra di Tomaso, onde il nocchiero più a tramontana poi volge il sentiero. 17 Quasi radendo l'aurea Chersonesso, la bella armata il gran pelago frange: e costeggiando i ricchi liti, spesso vede come nel mar biancheggi il Gange; e Traprobane vede e Cori appresso; e vede il mar che fra i duo liti s'ange. Dopo gran via furo a Cochino, e quindi usciro fuor dei termini degl'Indi. 18 Scorrendo il duca il mar con sì fedele e sì sicura scorta, intender vuole, e ne domanda Andronica, se de le parti c'han nome dal cader del sole, mai legno alcun che vada a remi e a vele, nel mare orïentale apparir suole; e s'andar può senza toccar mai terra, chi d'India scioglia, in Francia o in Inghilterra. 19 - Tu déi sapere (Andronica risponde) che d'ogn'intorno il mar la terra abbraccia; e van l'una ne l'altra tutte l'onde, sia dove bolle o dove il mar s'aggiaccia; ma perché qui davante si difonde, e sotto il mezzodì molto si caccia la terra d'Etïopia, alcuno ha detto ch'a Nettuno ir più inanzi ivi è interdetto. 20 Per questo del nostro indico levante nave non è che per Europa scioglia; né si muove d'Europa navigante ch'in queste nostre parti arrivar voglia. Il ritrovarsi questa terra avante, e questi e quelli al ritornare invoglia; che credeno, veggendola sì lunga, che con l'altro emisperio si congiunga. 21 Ma volgendosi gli anni, io veggio uscire da l'estreme contrade di ponente nuovi Argonauti e nuovi Tifi, e aprire la strada ignota infin al dì presente: altri volteggiar l'Africa, e seguire tanto la costa de la negra gente, che passino quel segno onde ritorno fa il sole a noi, lasciando il Capricorno; 22 e ritrovar del lungo tratto il fine, che questo fa parer dui mar diversi; e scorrer tutti i liti e le vicine isole d'Indi, d'Arabi e di Persi: altri lasciar le destre e le mancine rive che due per opra Erculea fêrsi; e del sole imitando il camin tondo, ritrovar nuove terre e nuovo mondo. 23 Veggio la santa croce, e veggio i segni imperïal nel verde lito eretti: veggio altri a guardia dei battuti legni, altri all'acquisto del paese eletti: veggio da dieci cacciar mille, e i regni di là da l'India ad Aragon suggetti; e veggio i capitan di Carlo quinto, dovunque vanno, aver per tutto vinto. 24 Dio vuol ch'ascosa antiquamente questa strada sia stata, e ancor gran tempo stia; né che prima si sappia, che la sesta e la settima età passata sia: e serba a farla al tempo manifesta, che vorrà porre il mondo a monarchia, sotto il più saggio imperatore e giusto, che sia stato o sarà mai dopo Augusto. 25 Del sangue d'Austria e d'Aragon io veggio nascer sul Reno alla sinistra riva un principe, al valor del qual pareggio nessun valor, di cui si parli o scriva. Astrea veggio per lui riposta in seggio, anzi di morta ritornata viva; e le virtù che cacciò il mondo, quando lei cacciò ancora, uscir per lui di bando. 26 Per questi merti la Bontà suprema non solamente di quel grande impero ha disegnato ch'abbia dïadema ch'ebbe Augusto, Traian, Marco e Severo; ma d'ogni terra e quinci e quindi estrema, che mai né al sol né all'anno apre il sentiero: e vuol che sotto a questo imperatore solo un ovile sia, solo un pastore. 27 E perch'abbian più facile successo gli ordini in cielo eternamente scritti, gli pon la somma Providenzia appresso in mare e in terra capitani invitti. Veggio Hernando Cortese, il quale ha messo nuove città sotto i cesarei editti, e regni in Orïente sì remoti, ch'a noi, che siamo in India, non son noti. 28 Veggio Prosper Colonna, e di Pescara veggio un marchese, e veggio dopo loro un giovene del Vasto, che fan cara parer la bella Italia ai Gigli d'oro: veggio ch'entrare inanzi si prepara quel terzo agli altri a guadagnar l'alloro: come buon corridor ch'ultimo lassa le mosse, e giunge, e inanzi a tutti passa. 29 Veggio tanto il valor, veggio la fede tanta d'Alfonso (che 'l suo nome è questo), ch'in così acerba età, che non eccede dopo il vigesimo anno ancora il sesto, l'imperator l'esercito gli crede, il qual salvando, salvar non che 'l resto, ma farsi tutto il mondo ubidïente con questo capitan sarà possente. 30 Come con questi, ovunque andar per terra si possa, accrescerà l'imperio antico; così per tutto il mar, ch'in mezzo serra di là l'Europa, e di qua l'Afro aprico, sarà vittorïoso in ogni guerra, poi ch'Andrea Doria s'avrà fatto amico. Questo è quel Doria che fa dai pirati sicuro il vostro mar per tutti i lati. 31 Non fu Pompeio a par di costui degno, se ben vinse e cacciò tutti i corsari; però che quelli al più possente regno che fosse mai, non poteano esser pari: ma questo Doria, sol col proprio ingegno e proprie forze purgherà quei mari; sì che da Calpe al Nilo, ovunque s'oda il nome suo, tremar veggio ogni proda. 32 Sotto la fede entrar, sotto la scorta di questo capitan di ch'io ti parlo, veggio in Italia, ove da lui la porta gli sarà aperta, alla corona Carlo. Veggio che 'l premio che di ciò riporta, non tien per sé, ma fa alla patria darlo: con prieghi ottien ch'in libertà la metta, dove altri a sé l'avria forse suggetta. 33 Questa pietà, ch'egli alla patria mostra, è degna di più onor d'ogni battaglia ch'in Francia o in Spagna o ne la terra vostra vincesse Iulio, o in Africa o in Tessaglia. Né il grande Ottavio, né chi seco giostra di par, Antonio, in più onoranza saglia pei gesti suoi; ch'ogni lor laude amorza l'avere usato alla lor patria forza. 34 Questi et ogn'altro che la patria tenta di libera far serva, si arrosisca; né dove il nome d'Andrea Doria senta, di levar gli occhi in viso d'uomo ardisca. Veggio Carlo che 'l premio gli augumenta; ch'oltre quel ch'in commun vuol che fruisca, gli dà la ricca terra ch'ai Normandi sarà principio a farli in Puglia grandi. 35 A questo capitan non pur cortese il magnanimo Carlo ha da mostrarsi, ma a quanti avrà ne le cesaree imprese del sangue lor non ritrovati scarsi. D'aver città, d'aver tutto un paese donato a un suo fedel, più ralegrarsi lo veggio, e a tutti quei che ne son degni, che d'acquistar nuov'altri imperii e regni. - 36 Così de le vittorie le qual, poi ch'un gran numero d'anni sarà corso, daranno a Carlo i capitani suoi, facea col duca Andronica discorso: e la compagna intanto ai venti eoi viene allentando e raccogliendo il morso; e fa ch'or questo or quel propizio l'esce, e come vuol li minuisce e cresce. 37 Veduto aveano intanto il mar de' Persi come in sì largo spazio si dilaghi; onde vicini in pochi giorni fêrsi al golfo che nomâr gli antiqui Maghi. Quivi pigliaro il porto, e fur conversi con la poppa alla ripa i legni vaghi; quindi, sicur d'Alcina e di sua guerra, Astolfo il suo camin prese per terra. 38 Passò per più d'un campo e più d'un bosco, per più d'un monte e per più d'una valle; ove ebbe spesso, all'aer chiaro e al fosco, i ladroni or inanzi or alle spalle. Vide leoni, e draghi pien di tòsco, et altre fere attraversarsi il calle; ma non sì tosto avea la bocca al corno, che spaventati gli fuggian d'intorno. 39 Vien per l'Arabia ch'è detta Felice, ricca di mirra e d'odorato incenso, che per suo albergo l'unica fenice eletto s'ha di tutto il mondo immenso; fin che l'onda trovò vendicatrice già d'Israel, che per divin consenso Faraone sommerse e tutti i suoi: e poi venne alla terra degli Eroi. 40 Lungo il fiume Traiano egli cavalca su quel destrier ch'al mondo è senza pare, che tanto leggiermente e corre e valca, che ne l'arena l'orma non n'appare: l'erba non pur, non pur la nieve calca; coi piedi asciutti andar potria sul mare; e sì si stende al corso, e sì s'affretta, che passa e vento e folgore e saetta. 41 Questo è il destrier che fu de l'Argalia, che di fiamma e di vento era concetto; e senza fieno e biada, si nutria de l'aria pura, e Rabican fu detto. Venne, seguendo il duca la sua via, dove dà il Nilo a quel fiume ricetto; e prima che giugnesse in su la foce, vide un legno venire a sé veloce. 42 Naviga in su la poppa uno eremita con bianca barba, a mezzo il petto lunga, che sopra il legno il paladino invita, e: - Figliuol mio (gli grida da la lunga), se non t'è in odio la tua propria vita, se non brami che morte oggi ti giunga, venir ti piaccia su quest'altra arena; ch'a morir quella via dritto ti mena. 43 Tu non andrai più che sei miglia inante, che troverai la saguinosa stanza dove s'alberga un orribil gigante che d'otto piedi ogni statura avanza. Non abbia cavallier né vïandante di partirsi da lui, vivo, speranza: ch'altri il crudel ne scanna, altri ne scuoia, molti ne squarta, e vivo alcun ne 'ngoia. 44 Piacer, fra tanta crudeltà, si prende d'una rete ch'egli ha, molto ben fatta: poco lontana al tetto suo la tende, e ne la trita polve in modo appiatta, che chi prima nol sa, non la comprende, tanto è sottil, tanto egli ben l'adatta: e con tai gridi i peregrin minaccia, che spaventati dentro ve li caccia. 45 E con gran risa, aviluppati in quella se li strascina sotto il suo coperto; né cavallier riguarda né donzella, o sia di grande o sia di picciol merto: e mangiata la carne, e le cervella succhiate e 'l sangue, dà l'ossa al deserto; e de l'umane pelli intorno intorno fa il suo palazzo orribilmente adorno. 46 Prendi quest'altra via, prendila, figlio, che fin al mar ti fia tutta sicura. - - Io ti ringrazio, padre, del consiglio (rispose il cavallier senza paura), ma non istimo per l'onor periglio, di ch'assai più che de la vita ho cura. Per far ch'io passi, invan tu parli meco; anzi vo al dritto a ritrovar lo speco. 47 Fuggendo, posso con disnor salvarmi; ma tal salute ho più che morte a schivo. S'io vi vo, al peggio che potrà incontrarmi, fra molti resterò di vita privo; ma quando Dio così mi drizzi l'armi, che colui morto, et io rimanga vivo, sicura a mille renderò la via: sì che l'util maggior che 'l danno fia. 48 Metto all'incontro la morte d'un solo alla salute di gente infinita. - - Vattene in pace (rispose), figliuolo; Dio mandi in difension de la tua vita l'arcangelo Michel dal sommo polo: - e benedillo il semplice eremita. Astolfo lungo il Nil tenne la strada, sperando più nel suon che ne la spada. 49 Giace tra l'alto fiume e la palude picciol sentier ne l'arenosa riva: la solitaria casa lo richiude, d'umanitade e di commercio priva. Son fisse intorno teste e membra nude de l'infelice gente che v'arriva. Non v'è finestra, non v'è merlo alcuno, onde penderne almen non si veggia uno. 50 Qual ne le alpine ville o ne' castelli suol cacciator che gran perigli ha scorsi, su le porte attaccar l'irsute pelli, l'orride zampe e i grossi capi d'orsi; tal dimostrava il fier gigante quelli che di maggior virtù gli erano occorsi. D'altri infiniti sparse appaion l'ossa; et è di sangue uman piena ogni fossa. 51 Stassi Caligorante in su la porta; che così ha nome il dispietato mostro ch'orna la sua magion di gente morta, come alcun suol di panni d'oro o d'ostro. Costui per gaudio a pena si comporta, come il duca lontan se gli è dimostro; ch'eran duo mesi, e il terzo ne venìa, che non fu cavallier per quella via. 52 Vêr la palude, ch'era scura e folta di verdi canne, in gran fretta ne viene; che disegnato avea correre in volta, e uscir al paladin dietro alle schene; che ne la rete, che tenea sepolta sotto la polve, di cacciarlo ha spene, come avea fatto gli altri peregrini che quivi tratto avean lor rei destini. 53 Come venire il paladin lo vede, ferma il destrier, non senza gran sospetto che vada in quelli lacci a dar del piede, di che il buon vecchiarel gli avea predetto. Quivi il soccorso del suo corno chiede, e quel sonando fa l'usato effetto: nel cor fere il gigante che l'ascolta, di tal timor, ch'a dietro i passi volta. 54 Astolfo suona, e tuttavolta bada; che gli par sempre che la rete scocchi. Fugge il fellon, né vede ove si vada; che, come il core, avea perduti gli occhi. Tanta è la tema, che non sa far strada, che ne li proprii aguati non trabocchi: va ne la rete; e quella si disserra, tutto l'annoda, e lo distende in terra. 55 Astolfo, ch'andar giù vede il gran peso, già sicuro per sé, v'accorre in fretta; e con la spada in man, d'arcion disceso, va per far di mill'anime vendetta. Poi gli par che s'uccide un che sia preso, viltà, più che virtù, ne sarà detta; che legate le braccia, i piedi e il collo gli vede sì, che non può dare un crollo. 56 Avea la rete già fatta Vulcano di sottil fil d'acciar, ma con tal arte, che saria stata ogni fatica invano per ismagliarne la più debol parte; et era quella che già piedi e mano avea legate a Venere et a Marte. La fe' il geloso, e non ad altro effetto, che per pigliarli insieme ambi nel letto. 57 Mercurio al fabbro poi la rete invola; che Cloride pigliar con essa vuole, Cloride bella che per l'aria vola dietro all'Aurora, all'apparir del sole, e dal raccolto lembo de la stola gigli spargendo va, rose e vïole. Mercurio tanto questa ninfa attese, che con la rete in aria un dì la prese. 58 Dove entra in mare il gran fiume etïopo, par che la dea presa volando fosse. Poi nel tempio d'Anubide a Canopo la rete molti seculi serbosse. Caligorante tre mila anni dopo, di là, dove era sacra, la rimosse: se ne portò la rete il ladrone empio, et arse la cittade, e rubò il tempio. 59 Quivi adattolla in modo in su l'arena, che tutti quei ch'avean da lui la caccia vi davan dentro; et era tocca a pena, che lor legava e collo e piedi e braccia. Di questa levò Astolfo una catena, e le man dietro a quel fellon n'allaccia; le braccia e 'l petto in guisa gli ne fascia, che non può sciorsi: indi levar lo lascia, 60 dagli altri nodi avendol sciolto prima, ch'era tornato uman più che donzella. Di trarlo seco e di mostrarlo stima per ville, per cittadi e per castella. Vuol la rete anco aver, di che né lima né martel fece mai cosa più bella: ne fa somier colui ch'alla catena con pompa trionfal dietro si mena. 61 L'elmo e lo scudo anche a portar gli diede, come a valletto, e seguitò il camino, di gaudio empiendo, ovunque metta il piede, ch'ir possa ormai sicuro il peregrino. Astolfo se ne va tanto, che vede ch'ai sepolcri di Memfi è già vicino, Memfi per le piramidi famoso: vede all'incontro il Cairo populoso. 62 Tutto il popul correndo si traea per vedere il gigante smisurato. - Come è possibil (l'un l'altro dicea) che quel piccolo il grande abbia legato? - Astolfo a pena inanzi andar potea, tanto la calca il preme da ogni lato: e come cavallier d'alto valore ognun l'ammira, e gli fa grande onore. 63 Non era grande il Cairo così allora, come se ne ragiona a nostra etade: che 'l populo capir, che vi dimora, non puon diciotto mila gran contrade; e che le case hanno tre palchi, e ancora ne dormono infiniti in su le strade; e che 'l soldano v'abita un castello mirabil di grandezza, e ricco e bello; 64 e che quindici mila suoi vasalli, che son cristiani rinegati tutti, con mogli, con famiglie e con cavalli ha sotto un tetto sol quivi ridutti. Astolfo veder vuole ove s'avalli, e quanto il Nilo entri nei salsi flutti a Damïata; ch'avea quivi inteso, qualunque passa restar morto o preso. 65 Però ch'in ripa al Nilo in su la foce si ripara un ladron dentro una torre, ch'a paesani e a peregrini nuoce, e fin al Cairo, ognun rubando, scorre. Non gli può alcun resistere; et ha voce che l'uom gli cerca invan la vita tôrre: cento mila ferite egli ha già avuto, né ucciderlo però mai s'è potuto. 66 Per veder se può far rompere il filo alla Parca di lui, sì che non viva, Astolfo viene a ritrovare Orrilo (così avea nome), e a Damïata arriva; et indi passa ove entra in mare il Nilo, e vede la gran torre in su la riva, dove s'alberga l'anima incantata che d'un folletto nacque e d'una fata. 67 Quivi ritruova che crudel battaglia era tra Orrilo e dui guerrieri accesa. Orrilo è solo; e sì que' dui travaglia, ch'a gran fatica gli puon far difesa: e quanto in arme l'uno e l'altro vaglia, a tutto il mondo la fama palesa. Questi erano i dui figli d'Oliviero, Grifone il bianco et Aquilante il nero. 68 Gli è ver che 'l negromante venuto era alla battaglia con vantaggio grande; che seco tratto in campo avea una fera, la qual si truova solo in quelle bande: vive sul lito e dentro alla rivera; e i corpi umani son le sue vivande, de le persone misere et incaute de vïandanti e d'infelici naute. 69 La bestia ne l'arena appresso al porto per man dei duo fratei morta giacea; e per questo ad Orril non si fa torto, s'a un tempo l'uno e l'altro gli nocea. Più volte l'han smembrato, e non mai morto, né, per smembrarlo, uccider si potea; che se tagliato o mano o gamba gli era, la rapiccava, che parea di cera. 70 Or fin a' denti il capo gli divide Grifone, or Aquilante fin al petto. Egli dei colpi lor sempre si ride: s'adiran essi, che non hanno effetto. Chi mai d'alto cader l'argento vide, che gli alchimisti hanno mercurio detto, e sparger e raccor tutti i suo' membri, sentendo di costui, se ne rimembri. 71 Se gli spiccano il capo, Orrilo scende, né cessa brancolar fin che lo truovi; et or pel crine et or pel naso il prende, lo salda al collo, e non so con che chiovi. Piglial talor Grifone, e 'l braccio stende, nel fiume il getta, e non par ch'anco giovi; che nuota Orrilo al fondo come un pesce, e col suo capo salvo alla ripa esce. 72 Due belle donne onestamente ornate, l'una vestita a bianco e l'altra a nero, che de la pugna causa erano state, stavano a riguardar l'assalto fiero. Queste eran quelle due benigne fate ch'avean notriti i figli d'Oliviero, poi che li trasson teneri citelli dai curvi artigli di duo grandi augelli, 73 che rapiti gli avevano a Gismonda, e portati lontan dal suo paese. Ma non bisogna in ciò ch'io mi diffonda, ch'a tutto il mondo è l'istoria palese; ben che l'autor nel padre si confonda, ch'un per un altro (io non so come) prese. Or la battaglia i duo gioveni fanno, che le due donne ambi pregati n'hanno. 74 Era in quel clima già sparito il giorno, all'isole ancor alto di Fortuna; l'ombre avean tolto ogni vedere a torno sotto l'incerta e mal compresa luna; quando alla ròcca Orril fece ritorno, poi ch'alla bianca e alla sorella bruna piacque di differir l'aspra battaglia fin che 'l sol nuovo all'orizzonte saglia. 75 Astolfo, che Grifone et Aquilante, et all'insegne e più al ferir gagliardo, riconosciuto avea gran pezzo inante, lor non fu altiero a salutar né tardo. Essi vedendo che quel che 'l gigante traea legato, era il baron dal pardo (che così in corte era quel duca detto), raccolser lui con non minore affetto. 76 Le donne a riposare i cavallieri menaro a un lor palagio indi vicino. Donzelle incontra vennero e scudieri con torchi accesi, a mezzo del camino. Diero a chi n'ebbe cura, i lor destrieri, trassonsi l'arme; e dentro un bel giardino trovâr ch'apparechiata era la cena ad una fonte limpida et amena. 77 Fan legare il gigante alla verdura Con un'altra catena molto grossa ad una quercia di molt'anni dura, che non si romperà per una scossa; e da dieci sergenti averne cura, che la notte discior non se ne possa, et assalirli, e forse far lor danno, mentre sicuri e senza guardia stanno. 78 All'abondante e sontuosa mensa, dove il manco piacer fur le vivande, del ragionar gran parte si dispensa sopra d'Orrilo e del miracol grande, che quasi par un sogno a chi vi pensa, ch'or capo or braccio a terra se gli mande, et egli lo raccolga e lo raggiugna, e più feroce ognor torni alla pugna. 79 Astolfo nel suo libro avea già letto (quel ch'agl'incanti riparare insegna) ch'ad Orril non trarrà l'alma del petto fin ch'un crine fatal nel capo tegna; ma, se lo svelle o tronca, fia constretto che suo mal grado fuor l'alma ne vegna. Questo ne dice il libro; ma non come conosca il crine in così folte chiome. 80 Non men de la vittoria si godea, che se n'avesse Astolfo già la palma; come chi speme in pochi colpi avea svellere il crine al negromante e l'alma. Però di quella impresa promettea tor sugli omeri suoi tutta la salma: Orril farà morir, quando non spiaccia ai duo fratei, ch'egli la pugna faccia. 81 Ma quei gli dànno volentier l'impresa, certi che debbia affaticarsi invano. Era già l'altra aurora in cielo ascesa, quando calò dai muri Orrilo al piano. Tra il duca e lui fu la battaglia accesa: la mazza l'un, l'altro ha la spada in mano. Di mille attende Astolfo un colpo trarne, che lo spirto gli sciolga da la carne. 82 Or cader gli fa il pugno con la mazza, or l'uno or l'altro braccio con la mano; quando taglia a traverso la corazza, e quando il va troncando a brano a brano: ma ricogliendo sempre de la piazza va le sue membra Orrilo, e si fa sano. S'in cento pezzi ben l'avesse fatto, redintegrarsi il vedea Astolfo a un tratto. 83 Al fin di mille colpi un gli ne colse sopra le spalle ai termini del mento: la testa e l'elmo dal capo gli tolse, né fu d'Orrilo a dismontar più lento. La sanguinosa chioma in man s'avolse, e risalse a cavallo in un momento; e la portò correndo incontra 'l Nilo, che rïaver non la potesse Orrilo. 84 Quel sciocco, che del fatto non s'accorse, per la polve cercando iva la testa: ma come intese il corridor via tôrse, portare il capo suo per la foresta; immantinente al suo destrier ricorse, sopra vi sale, e di seguir non resta. Volea gridare: - Aspetta, volta, volta! - ma gli avea il duca già la bocca tolta. 85 Pur, che non gli ha tolto anco le calcagna si riconforta, e segue a tutta briglia. Dietro il lascia gran spazio di campagna quel Rabican che corre a maraviglia. Astolfo intanto per la cuticagna va da la nuca fin sopra le ciglia cercando in fretta, se 'l crine fatale conoscer può, ch'Orril tiene immortale. 86 Fra tanti e innumerabili capelli, un più de l'altro non si stende o torce: qual dunque Astolfo sceglierà di quelli, che per dar morte al rio ladron raccorce? - Meglio è (disse) che tutti io tagli o svelli: - né si trovando aver rasoi né force, ricorse immantinente alla sua spada, che taglia sì, che si può dir che rada. 87 E tenendo quel capo per lo naso, dietro e dinanzi lo dischioma tutto. Trovò fra gli altri quel fatale a caso: si fece il viso allor pallido e brutto, travolse gli occhi, e dimostrò all'occaso, per manifesti segni, esser condutto; e 'l busto che seguia troncato al collo, di sella cadde, e diè l'ultimo crollo. 88 Astolfo, ove le donne e i cavallieri lasciato avea, tornò col capo in mano, che tutti avea di morte i segni veri, e mostrò il tronco ove giacea lontano. Non so ben se lo vider volentieri, ancor che gli mostrasser viso umano; che la intercetta lor vittoria forse d'invidia ai duo germani il petto morse. 89 Né che tal fin quella battaglia avesse, credo più fosse alle due donne grato. Queste, perché più in lungo si traesse de' duo fratelli il doloroso fato ch'in Francia par ch'in breve esser dovesse, con loro Orrilo avean quivi azzuffato, con speme di tenerli tanto a bada, che la trista influenzia se ne vada. 90 Tosto che 'l castellan di Damïata certificossi ch'era morto Orrilo, la columba lasciò, ch'avea legata sotto l'ala la lettera col filo. Quella andò al Cairo; et indi fu lasciata un'altra altrove, come quivi è stilo: sì che in pochissime ore andò l'aviso per tutto Egitto, ch'era Orrilo ucciso. 91 Il duca, come al fin trasse l'impresa, confortò molto i nobili garzoni, ben che da sé v'avean la voglia intesa, né bisognavan stimuli né sproni, che per difender de la santa Chiesa e del romano Imperio le ragioni, lasciasser le battaglie d'Orïente, e cercassino onor ne la lor gente. 92 Così Grifone et Aquilante tolse ciascuno da la sua donna licenzia; le quali, ancor che lor ne 'ncrebbe e dolse, non vi seppon però far resistenzia. Con essi Astolfo a man destra si volse; che si deliberâr far riverenzia ai santi luoghi ove Dio in carne visse, prima che verso Francia si venisse. 93 Potuto avrian pigliar la via mancina, ch'era più dilettevole e più piana, e mai non si scostar da la marina; ma per la destra andaro orrida e strana, perché l'alta città di Palestina per questa sei giornate è men lontana. Acqua si truova et erba in questa via: di tutti gli altri ben v'è carestia. 94 Sì che prima ch'entrassero in vïaggio, ciò che lor bisognò, fecion raccorre, e carcar sul gigante il carrïaggio, ch'avria portato in collo anco una torre. Al finir del camino aspro e selvaggio, da l'alto monte alla lor vista occorre la santa terra, ove il superno Amore lavò col proprio sangue il nostro errore. 95 Trovano in su l'entrar de la cittade un giovene gentil, lor conoscente, Sansonetto da Meca, oltre l'etade, ch'era nel primo fior, molto prudente; d'alta cavalleria, d'alta bontade famoso, e riverito fra la gente. Orlando lo converse a nostra fede, e di sua man battesmo anco gli diede. 96 Quivi lo trovan che disegna a fronte del calife d'Egitto una fortezza; e circondar vuole il Calvario monte di muro di duo miglia di lunghezza. Da lui raccolti fur con quella fronte che può d'interno amor dar più chiarezza, e dentro accompagnati, e con grande agio fatti alloggiar nel suo real palagio. 97 Avea in governo egli la terra, e in vece di Carlo vi reggea l'imperio giusto. Il duca Astolfo a costui dono fece di quel sì grande e smisurato busto, ch'a portar pesi gli varrà per diece bestie da soma, tanto era robusto. Diegli Astolfo il gigante, e diegli appresso la rete ch'in sua forza l'avea messo. 98 Sansonetto all'incontro al duca diede per la spada una cinta ricca e bella; e diede spron per l'uno e l'altro piede, che d'oro avean la fibbia e la girella; ch'esser del cavallier stati si crede, che liberò dal drago la donzella: al Zaffo avuti con molt'altro arnese Sansonetto gli avea, quando lo prese. 99 Purgati de lor colpe a un monasterio che dava di sé odor di buoni esempii, de la passion di Cristo ogni misterio contemplando n'andâr per tutti i tempii ch'or con eterno obbrobrio e vituperio agli cristiani usurpano i Mori empii. L'Europa è in arme, e di far guerra agogna in ogni parte, fuor ch'ove bisogna. 100 Mentre avean quivi l'animo divoto, a perdonanze e a cerimonie intenti, un peregrin di Grecia, a Grifon noto, novelle gli arrecò gravi e pungenti, dal suo primo disegno e lungo voto troppo diverse e troppo differenti; e quelle il petto gl'infiammaron tanto, che gli scacciâr l'orazïon da canto. 101 Amava il cavallier, per sua sciagura, una donna ch'avea nome Orrigille: di più bel volto e di miglior statura non se ne sceglierebbe una fra mille; ma disleale e di sì rea natura, che potresti cercar cittadi e ville, la terra ferma e l'isole del mare, né credo ch'una le trovassi pare. 102 Ne la città di Costantin lasciata grave l'avea di febbre acuta e fiera. Or quando rivederla alla tornata più che mai bella, e di goderla spera, ode il meschin, ch'in Antïochia andata dietro un suo nuovo amante ella se n'era, non le parendo ormai di più patire ch'abbia in sì fresca età sola a dormire. 103 Da indi in qua ch'ebbe la trista nuova, sospirava Grifon notte e dì sempre. Ogni piacer ch'agli altri aggrada e giova, par ch'a costui più l'animo distempre: pensilo ognun, ne li cui danni pruova Amor, se li suoi strali han buone tempre. Et era grave sopra ogni martìre, che 'l mal ch'avea si vergognava a dire. 104 Questo, perché mille fïate inante già ripreso l'avea di quello amore, di lui più saggio, il fratello Aquilante, e cercato colei trargli del core, colei ch'al suo giudicio era di quante femine rie si trovin la peggiore. Grifon l'escusa, se 'l fratel la danna; e le più volte il parer proprio inganna. 105 Però fece pensier, senza parlarne con Aquilante, girsene soletto sin dentro d'Antïochia, e quindi trarne colei che tratto il cor gli avea del petto; trovar colui che gli l'ha tolta, e farne vendetta tal, che ne sia sempre detto. Dirò, come ad effetto il pensier messe, nell'altro canto, e ciò che ne successe.
1 Gravi pene in amor si provan molte, di che patito io n'ho la maggior parte, e quelle in danno mio sì ben raccolte, ch'io ne posso parlar come per arte. Però s'io dico e s'ho detto altre volte, e quando in voce e quando in vive carte, ch'un mal sia lieve, un altro acerbo e fiero, date credenza al mio giudicio vero. 2 Io dico e dissi, e dirò fin ch'io viva, che chi si truova in degno laccio preso, se ben di sé vede sua donna schiva, se in tutto aversa al suo desire acceso; se bene Amor d'ogni mercede il priva, poscia che 'l tempo e la fatica ha speso; pur ch'altamente abbia locato il core, pianger non de', se ben languisce e muore. 3 Pianger de' quel che già sia fatto servo di duo vaghi occhi e d'una bella treccia, sotto cui si nasconda un cor protervo, che poco puro abbia con molta feccia. Vorria il miser fuggire; e come cervo ferito, ovunque va, porta la freccia: ha di se stesso e del suo amor vergogna, né l'osa dire, e invan sanarsi agogna. 4 In questo caso è il giovene Grifone, che non si può emendare, e il suo error vede, vede quanto vilmente il suo cor pone in Orrigille iniqua e senza fede; pur dal mal uso è vinta la ragione, e pur l'arbitrio all'appetito cede: perfida sia quantunque, ingrata e ria, sforzato è di cercar dove ella sia. 5 Dico, la bella istoria ripigliando, ch'uscì de la città secretamente, né parlarne s'ardì col fratel, quando ripreso invan da lui ne fu sovente. Verso Rama, a sinistra declinando, prese la via più piana e più corrente. Fu in sei giorni a Damasco di Soria; indi verso Antïochia se ne gìa. 6 Scontrò presso a Damasco il cavalliero a cui donato aveva Orrigille il core: e convenian di rei costumi in vero, come ben si convien l'erba col fiore; che l'uno e l'altro era di cor leggiero, perfido l'uno e l'altro e traditore; e copria l'uno e l'altro il suo difetto, con danno altrui, sotto cortese aspetto. 7 Come io vi dico, il cavallier venìa s'un gran destrier con molta pompa armato: la perfida Orrigille in compagnia, in un vestire azzur d'oro fregiato, e duo valletti, donde si servia a portar elmo e scudo, aveva allato; come quel che volea con bella mostra comparire in Damasco ad una giostra. 8 Una splendida festa che bandire fece il re di Damasco in quelli giorni, era cagion di far quivi venire i cavallier quanto potean più adorni. Tosto che la puttana comparire vede Grifon, ne teme oltraggi e scorni: sa che l'amante suo non è sì forte, che contra lui l'abbia a campar da morte. 9 Ma sì come audacissima e scaltrita, ancor che tutta di paura trema, s'acconcia il viso, e sì la voce aita, che non appar in lei segno di tema. Col drudo avendo già l'astuzia ordita, corre, e fingendo una letizia estrema, verso Grifon l'aperte braccia tende, lo stringe al collo, e gran pezzo ne pende. 10 Dopo, accordando affettuosi gesti alla suavità de le parole, dicea piangendo: - Signor mio, son questi debiti premii a chi t'adora e cole? che sola senza te già un anno resti, e va per l'altro, e ancor non te ne duole? E s'io stava aspettare il suo ritorno, non so se mai veduto avrei quel giorno! 11 Quando aspettava che di Nicosia, dove tu te n'andasti alla gran corte, tornassi a me che con la febbre ria lasciata avevi in dubbio de la morte, intesi che passato eri in Soria: il che a patir mi fu sì duro e forte, che non sapendo come io ti seguissi, quasi il cor di man propria mi traffissi. 12 Ma Fortuna di me con doppio dono mostra d'aver, quel che non hai tu, cura: mandommi il fratel mio, col quale io sono sin qui venuta del mio onor sicura; et or mi manda questo incontro buono di te, ch'io stimo sopra ogni aventura: e bene a tempo il fa; che più tardando, morta sarei, te, signor mio, bramando. - 13 E seguitò la donna fraudolente, di cui l'opere fur più che di volpe, la sua querela così astutamente, che riversò in Grifon tutte le colpe. Gli fa stimar colui, non che parente, ma che d'un padre seco abbia ossa e polpe: e con tal modo sa tesser gl'inganni, che men verace par Luca e Giovanni. 14 Non pur di sua perfidia non riprende Grifon la donna iniqua più che bella; non pur vendetta di colui non prende, che fatto s'era adultero di quella: ma gli par far assai, se si difende che tutto il biasmo in lui non riversi ella; e come fosse suo cognato vero, d'accarezzar non cessa il cavalliero. 15 E con lui se ne vien verso le porte di Damasco, e da lui sente tra via, che là dentro dovea splendida corte tenere il ricco re de la Soria; e ch'ognun quivi, di qualunque sorte, o sia cristiano, o d'altra legge sia, dentro e di fuori ha la città sicura per tutto il tempo che la festa dura. 16 Non però son di seguitar sì intento l'istoria de la perfida Orrigille, ch'a' giorni suoi non pur un tradimento fatto agli amanti avea, ma mille e mille; ch'io non ritorni a riveder dugento mila persone, o più de le scintille del fuoco stuzzicato, ove alle mura di Parigi facean danno e paura. 17 Io vi lasciai, come assaltato avea Agramante una porta de la terra, che trovar senza guardia si credea: né più riparo altrove il passo serra; perché in persona Carlo la tenea, et avea seco i mastri de la guerra, duo Guidi, duo Angelini; uno Angeliero, Avino, Avolio, Otone e Berlingiero. 18 Inanzi a Carlo, inanzi al re Agramante l'un stuolo e l'altro si vuol far vedere, ove gran loda, ove mercé abondante si può acquistar, facendo il suo dovere. I Mori non però fêr pruove tante, che par ristoro al danno abbiano avere; perché ve ne restâr morti parecchi, ch'agli altri fur di folle audacia specchi. 19 Grandine sembran le spesse saette dal muro sopra gli nimici sparte. Il grido insin al ciel paura mette, che fa la nostra e la contraria parte. Ma Carlo un poco et Agramante aspette; ch'io vo' cantar de l'africano Marte, Rodomonte terribile et orrendo, che va per mezzo la città correndo. 20 Non so, Signor, se più vi ricordiate, di questo Saracin tanto sicuro, che morte le sue genti avea lasciate tra il secondo riparo e 'l primo muro, da la rapace fiamma devorate, che non fu mai spettacolo più oscuro. Dissi ch'entrò d'un salto ne la terra sopra la fossa che la cinge e serra. 21 Quando fu noto il Saracino atroce all'arme istrane, alla scagliosa pelle, là dove i vecchi e 'l popul men feroce tendean l'orecchie a tutte le novelle, levossi un pianto, un grido, un'alta voce, con un batter di man ch'andò alle stelle; e chi poté fuggir non vi rimase, per serrarsi ne' templi e ne le case. 22 Ma questo a pochi il brando rio conciede, ch'intorno ruota il Saracin robusto. Qui fa restar con mezza gamba un piede, là fa un capo sbalzar lungi dal busto; l'un tagliare a traverso se gli vede, dal capo all'anche un altro fender giusto: e di tanti ch'uccide, fere e caccia, non se gli vede alcun segnare in faccia. 23 Quel che la tigre de l'armento imbelle ne' campi ircani o là vicino al Gange, o 'l lupo de le capre e de l'agnelle nel monte che Tifeo sotto si frange; quivi il crudel pagan facea di quelle non dirò squadre, non dirò falange, ma vulgo e populazzo voglio dire, degno, prima che nasca, di morire. 24 Non ne trova un che veder possa in fronte, fra tanti che ne taglia, fora e svena. Per quella strada che vien dritto al ponte di san Michel, sì popolata e piena, corre il fiero e terribil Rodomonte, e la sanguigna spada a cerco mena: non riguarda né al servo né al signore, né al giusto ha più pietà ch'al peccatore. 25 Religïon non giova al sacerdote, né la innocenzia al pargoletto giova: per sereni occhi o per vermiglie gote mercé né donna né donzella truova: la vecchiezza si caccia e si percuote; né quivi il Saracin fa maggior pruova di gran valor, che di gran crudeltade; che non discerne sesso, ordine, etade. 26 Non pur nel sangue uman l'ira si stende de l'empio re, capo e signor degli empi, ma contra i tetti ancor, sì che n'incende le belle case e i profanati tempî. Le case eran, per quel che se n'intende, quasi tutte di legno in quelli tempi: e ben creder si può; ch'in Parigi ora de le diece le sei son così ancora. 27 Non par, quantunque il fuoco ogni cosa arda, che sì grande odio ancor saziar si possa. Dove s'aggrappi con le mani, guarda, sì che ruini un tetto ad ogni scossa. Signor, avete a creder che bombarda mai non vedeste a Padova sì grossa, che tanto muro possa far cadere, quanto fa in una scossa il re d'Algiere. 28 Mentre quivi col ferro il maledetto e con le fiamme facea tanta guerra, se di fuor Agramante avesse astretto, perduta era quel dì tutta la terra: ma non v'ebbe agio; che gli fu interdetto dal paladin che venìa d'Inghilterra col populo alle spalle inglese e scotto, dal Silenzio e da l'angelo condotto. 29 Dio vòlse che all'entrar che Rodomonte fe' ne la terra, e tanto fuoco accese, che presso ai muri il fior di Chiaramonte, Rinaldo, giunse, e seco il campo inglese. Tre leghe sopra avea gittato il ponte, e torte vie da man sinistra prese; che disegnando i barbari assalire, il fiume non l'avesse ad impedire. 30 Mandato avea sei mila fanti arcieri sotto l'altiera insegna d'Odoardo, e duo mila cavalli, e più, leggieri dietro alla guida d'Ariman gagliardo; e mandati gli avea per li sentieri che vanno e vengon dritto al mar picardo, ch'a porta San Martino e San Dionigi entrassero a soccorso di Parigi. 31 I carïaggi e gli altri impedimenti con lor fece drizzar per questa strada. Egli con tutto il resto de le genti più sopra andò girando la contrada. Seco avean navi e ponti et argumenti da passar Senna che non ben si guada. Passato ognuno, e dietro i ponti rotti, ne le lor schiere ordinò Inglesi e Scotti. 32 Ma prima quei baroni e capitani Rinaldo intorno avendosi ridutti, sopra la riva ch'alta era dai piani sì, che poteano udirlo e veder tutti, disse: - Signor, ben a levar le mani avete a Dio, che qui v'abbia condutti, acciò, dopo un brevissimo sudore, sopra ogni nazïon vi doni onore. 33 Per voi saran dui principi salvati, se levate l'assedio a quelle porte: il vostro re, che voi sète ubligati da servitù difendere e da morte; et uno imperator de' più lodati che mai tenuto al mondo abbiano corte; e con loro altri re, duci e marchesi, signori e cavallier di più paesi. 34 Sì che, salvando una città, non soli Parigini ubligati vi saranno, che molto più che per li proprii duoli, timidi, afflitti e sbigottiti stanno per le lor mogli e per li lor figliuoli ch'a un medesmo pericolo seco hanno, e per le sante vergini richiuse, ch'oggi non sien dei voti lor deluse: 35 dico, salvando voi questa cittade, v'ubligate non solo i Parigini, ma d'ogn'intorno tutte le contrade. Non parlo sol dei populi vicini; ma non è terra per Cristianitade, che non abbia qua dentro cittadini: sì che, vincendo, avete da tenere che più che Francia v'abbia obligo avere. 36 Se donavan gli antiqui una corona a chi salvasse a un cittadin la vita, or che degna mercede a voi si dona, salvando multitudine infinita? Ma se da invidia o da viltà sì buona e sì santa opra rimarrà impedita, credetemi che prese quelle mura, né Italia né Lamagna anco è sicura; 37 né qualunque altra parte ove s'adori quel che vòlse per noi pender sul legno. Né voi crediate aver lontani i Mori, né che pel mar sia forte il vostro regno: che s'altre volte quelli, uscendo fuori di Zibeltaro e de l'Erculeo segno, riportâr prede da l'isole vostre, che faranno or, s'avran le terre nostre? 38 Ma quando ancor nessuno onor, nessuno util v'inanimasse a questa impresa, commun debito è ben soccorrer l'uno l'altro, che militiàn sotto una Chiesa. Ch'io non vi dia rotti i nemici, alcuno non sia chi tema, e con poca contesa; che gente male esperta tutta parmi, senza possanza, senza cor, senz'armi. - 39 Poté con queste e con miglior ragioni, con parlare espedito e chiara voce eccitar quei magnanimi baroni Rinaldo, e quello esercito feroce: e fu, com'è in proverbio, aggiunger sproni al buon corsier che già ne va veloce. Finito il ragionar, fece le schiere muover pian pian sotto le lor bandiere. 40 Senza strepito alcun, senza rumore fa il tripartito esercito venire: lungo il fiume a Zerbin dona l'onore di dover prima i barbari assalire; e fa quelli d'Irlanda con maggiore volger di via più tra campagna gire; e i cavallieri e i fanti d'Inghilterra col duca di Lincastro in mezzo serra. 41 Drizzati che gli ha tutti al lor camino, cavalca il paladin lungo la riva, e passa inanzi al buon duca Zerbino e a tutto il campo che con lui veniva; tanto ch'al re d'Orano e al re Sobrino e agli altri lor compagni soprarriva, che mezzo miglio appresso a quei di Spagna guardavan da quel canto la campagna. 42 L'esercito cristian che con sì fida e sì sicura scorta era venuto, ch'ebbe il Silenzio e l'angelo per guida, non poté ormai patir più di star muto. Sentiti gli nimici, alzò le grida, e de le trombe udir fe' il suono arguto: e con l'alto rumor ch'arrivò al cielo, mandò ne l'ossa a' Saracini il gelo. 43 Rinaldo inanzi agli altri il destrier punge; e con la lancia per cacciarla in resta lascia gli Scotti un tratto d'arco lunge, ch'ogni indugio a ferir sì lo molesta. Come groppo di vento talor giunge, che si tra' dietro un'orrida tempesta, tal fuor di squadra il cavallier gagliardo venìa spronando il corridor Baiardo. 44 Al comparir del paladin di Francia, dan segno i Mori alle future angosce: tremare a tutti in man vedi la lancia, i piedi in staffa, e ne l'arcion le cosce. Re Pulïano sol non muta guancia, che questo esser Rinaldo non conosce; né pensando trovar sì duro intoppo, gli muove il destrier contra di galoppo: 45 e su la lancia nel partir si stringe, e tutta in sé raccoglie la persona; poi con ambo gli sproni il destrier spinge, e le redine inanzi gli abandona. Da l'altra parte il suo valor non finge, e mostra in fatti quel ch'in nome suona, quanto abbia nel giostrare e grazia et arte, il figliuolo d'Amone, anzi di Marte. 46 Furo al segnar degli aspri colpi, pari, che si posero i ferri ambi alla testa: ma furo in arme et in virtù dispàri, che l'un via passa, e l'altro morto resta. Bisognan di valor segni più chiari, che por con leggiadria la lancia in resta: ma fortuna anco più bisogna assai; che senza, val virtù raro o non mai. 47 La buona lancia il paladin racquista, e verso il re d'Oran ratto si spicca, che la persona avea povera e trista di cor, ma d'ossa e di gran polpe ricca. Questo por tra bei colpi si può in lista, ben ch'in fondo allo scudo gli l'appicca: e chi non vuol lodarlo, abbialo escuso, perché non si potea giunger più in suso. 48 Non lo ritien lo scudo, che non entre, ben che fuor sia d'acciar, dentro di palma; e che da quel gran corpo uscir pel ventre non faccia l'inequale e piccola alma. Il destrier che portar si credea, mentre durasse il lungo dì, sì grave salma, riferì in mente sua grazie a Rinaldo, ch'a quello incontro gli schivò un gran caldo. 49 Rotta l'asta, Rinaldo il destrier volta tanto leggier, che fa sembrar ch'abbia ale; e dove la più stretta e maggior folta stiparsi vede, impetuoso assale. Mena Fusberta sanguinosa in volta che fa l'arme parer di vetro frale: tempra di ferro il suo tagliar non schiva, che non vada a trovar la carne viva. 50 Ritrovar poche tempre e pochi ferri può la tagliente spada, ove s'incappi, ma targhe, altre di cuoio, altre di cerri, giupe trapunte e attorcigliati drappi. Giusto è ben dunque che Rinaldo atterri qualunque assale, e fori e squarci e affrappi; che non più si difende da sua spada, ch'erba da falce, o da tempesta biada. 51 La prima schiera era già messa in rotta, quando Zerbin con l'antiguardia arriva. Il cavallier inanzi alla gran frotta con la lancia arrestata ne veniva. La gente sotto il suo pennon condotta, con non minor fierezza lo seguiva: tanti lupi parean, tanti leoni ch'andassero assalir capre o montoni. 52 Spinse a un tempo ciascuno il suo cavallo, poi che fur presso; e sparì immantinente quel breve spazio, quel poco intervallo che si vedea fra l'una e l'altra gente. Non fu sentito mai più strano ballo; che ferian gli Scozzesi solamente: solamente i pagani eran distrutti, come sol per morir fosser condutti. 53 Parve più freddo ogni pagan che ghiaccio; parve ogni Scotto più che fiamma caldo. I Mori si credean ch'avere il braccio dovesse ogni cristian, ch'ebbe Rinaldo. Mosse Sobrino i suoi schierati avaccio, senza aspettar che lo 'nvitasse araldo: de l'altra squadra questa era migliore di capitano, d'arme e di valore. 54 D'Africa v'era la men trista gente; ben che né questa ancor gran prezzo vaglia. Dardinel la sua mosse incontinente, e male armata, e peggio usa in battaglia; ben ch'egli in capo avea l'elmo lucente, e tutto era coperto a piastra e a maglia. Io creto che la quarta miglior sia, con la qual Isolier dietro venìa. 55 Trasone intanto, il buon duca di Marra, che ritrovarsi all'alta impresa gode, ai cavallieri suoi leva la sbarra, e seco invita alle famose lode, poi ch'Isolier con quelli di Navarra entrar ne la battaglia vede et ode. Poi mosse Arïodante la sua schiera, che nuovo duca d'Albania fatt'era. 56 L'alto rumor de le sonore trombe, de' timpani e de' barbari stromenti, giunti al continuo suon d'archi, di frombe, di machine, di ruote e di tormenti; e quel di che più par che 'l ciel ribombe, gridi, tumulti, gemiti e lamenti; rendeno un alto suon ch'a quel s'accorda, con che i vicin, cadendo, il Nilo assorda. 57 Grande ombra d'ogn'intorno il cielo involve, nata dal saettar de li duo campi; l'alito, il fumo del sudor, la polve par che ne l'aria oscura nebbia stampi. Or qua l'un campo, or l'altro là si volve: vedresti or come un segua, or come scampi; et ivi alcuno, o non troppo diviso, rimaner morto ove ha il nimico ucciso. 58 Dove una squadra per stanchezza è mossa, un'altra si fa tosto andare inanti. Di qua di là la gente d'arme ingrossa: là cavallieri, e qua si metton fanti. La terra che sostien l'assalto, è rossa: mutato ha il verde ne' sanguigni manti; e dov'erano i fiori azzurri e gialli, giaceno uccisi or gli uomini e i cavalli. 59 Zerbin facea le più mirabil pruove che mai facesse di sua età garzone: l'esercito pagan che 'ntorno piove, taglia et uccide e mena a destruzione. Arïodante alle sue genti nuove mostra di sua virtù gran paragone; e dà di sé timore e meraviglia a quelli di Navarra e di Castiglia. 60 Chelindo e Mosco, i duo figli bastardi del morto Calabrun re d'Aragona, et un che reputato fra' gagliardi era, Calamidor da Barcelona, s'avean lasciato a dietro gli stendardi; e credendo acquistar gloria e corona per uccider Zerbin, gli furo adosso; e ne' fianchi il destrier gli hanno percosso. 61 Passato da tre lance il destrier morto cade; ma il buon Zerbin subito è in piede; ch'a quei ch'al suo cavallo han fatto torto, per vendicarlo va dove gli vede: e prima a Mosco, al giovene inaccorto, che gli sta sopra, e di pigliar sel crede, mena di punta, e lo passa nel fianco, e fuor di sella il caccia freddo e bianco. 62 Poi che si vide tor, come di furto, Chelindo il fratel suo, di furor pieno venne a Zerbino, e pensò dargli d'urto; ma gli prese egli il corridor pel freno: trasselo in terra, onde non è mai surto, e non mangiò mai più biada né fieno; che Zerbin sì gran forza a un colpo mise, che lui col suo signor d'un taglio uccise. 63 Come Calamidor quel colpo mira, volta la briglia per levarsi in fretta; ma Zerbin dietro un gran fendente tira, dicendo: - Traditore, aspetta, aspetta! - Non va la botta ove n'andò la mira, non che però lontana vi si metta; lui non poté arrivar, ma il destrier prese sopra la groppa, e in terra lo distese. 64 Colui lascia il cavallo, e via carpone va per campar, ma poco gli successe; che venne caso che 'l duca Trasone gli passò sopra, e col peso l'oppresse. Arïodante e Lurcanio si pone dove Zerbino è fra le genti spesse; e seco hanno altri e cavallieri e conti, che fanno ogn'opra che Zerbin rimonti. 65 Menava Arïodante il brando in giro, e ben lo seppe Artalico e Margano; ma molto più Etearco e Casimiro la possanza sentîr di quella mano: i primi duo feriti se ne giro, rimaser gli altri duo morti sul piano. Lurcanio fa veder quanto sia forte; che fere, urta, riversa e mette a morte. 66 Non crediate, Signor, che fra campagna pugna minor che presso al fiume sia, né ch'a dietro l'esercito rimagna, che di Lincastro il buon duca seguia. Le bandiere assalì questo di Spagna, e molto ben di par la cosa gìa; che fanti, cavallieri e capitani di qua e di là sapean menar le mani. 67 Dinanzi vien Oldrado e Fieramonte, un duca di Glocestra, un d'Eborace; con lor Ricardo, di Varvecia conte, e di Chiarenza il duca, Enrigo audace. Han Matalista e Follicone a fronte, e Baricondo et ogni lor seguace. Tiene il primo Almeria, tiene il secondo Granata, tien Maiorca Baricondo. 68 La fiera pugna un pezzo andò di pare, che vi si discernea poco vantaggio. Vedeasi or l'uno or l'altro ire e tornare, come le biade al ventolin di maggio, o come sopra 'l lito un mobil mare or viene or va, né mai tiene un vïaggio. Poi che fortuna ebbe scherzato un pezzo, dannosa ai Mori ritornò da sezzo. 69 Tutto in un tempo il duca di Glocestra a Matalista fa votar l'arcione; ferito a un tempo ne la spalla destra Fieramonte riversa Follicone: e l'un pagano e l'altro si sequestra, e tra gl'Inglesi se ne va prigione. E Baricondo a un tempo riman senza vita per man del duca di Chiarenza. 70 Indi i pagani tanto a spaventarsi, indi i fedeli a pigliar tanto ardire, che quei non facean altro che ritrarsi e partirsi da l'ordine e fuggire, e questi andar inanzi et avanzarsi sempre terreno, e spingere e seguire: e se non vi giungea chi lor diè aiuto, il campo da quel lato era perduto. 71 Ma Ferraù, che sin qui mai non s'era dal re Marsilio suo troppo disgiunto, quando vide fuggir quella bandiera, e l'esercito suo mezzo consunto, spronò il cavallo, e dove ardea più fiera la battaglia, lo spinse; e arrivò a punto che vide dal destrier cadere in terra col capo fesso Olimpio da la Serra; 72 un giovinetto che col dolce canto, concorde al suon de la cornuta cetra, d'intenerire un cor si dava vanto, ancor che fosse più duro che pietra. Felice lui, se contentar di tanto onor sapeasi, e scudo, arco e faretra aver in odio, e scimitarra e lancia, che lo fecer morir giovine in Francia! 73 Quando lo vide Ferraù cadere, che solea amarlo e avere in molta estima, si sente di lui sol via più dolere, che di mill'altri che periron prima: e sopra chi l'uccise in modo fere, che gli divide l'elmo da la cima per la fronte, per gli occhi e per la faccia, per mezzo il petto, e morto a terra il caccia. 74 Ne qui s'indugia; e il brando intorno ruota, ch'ogni elmo rompe, ogni lorica smaglia; a chi segna la fronte, a chi la gota, ad altri il capo, ad altri il braccio taglia; or questo or quel di sangue e d'alma vòta: e ferma da quel canto la battaglia, onde la spaventata ignobil frotta senza ordine fuggia spezzata e rotta. 75 Entrò ne la battaglia il re Agramante, d'uccider gente e di far pruove vago; e seco ha Baliverzo, Farurante, Prusïon, Soridano e Bambirago. Poi son le genti senza nome tante, che del lor sangue oggi faranno un lago, che meglio conterei ciascuna foglia, quando l'autunno gli arbori ne spoglia. 76 Agramante dal muro una gran banda di fanti avendo e di cavalli tolta, col re di Feza subito li manda, che dietro ai padiglion piglin la volta, e vadano ad opporsi a quei d'Irlanda, le cui squadre vedea con fretta molta, dopo gran giri e larghi avolgimenti, venir per occupar gli alloggiamenti. 77 Fu 'l re di Feza ad esequir ben presto; ch'ogni tardar troppo nociuto avria. Raguna intanto il re Agramante il resto; parte le squadre, e alla battaglia invia. Egli va al fiume; che gli par ch'in questo luogo del suo venir bisogno sia: e da quel canto un messo era venuto del re Sobrino a domandare aiuto. 78 Menava in una squadra più di mezzo il campo dietro; e sol del gran rumore tremâr gli Scotti, e tanto fu il ribrezzo, ch'abbandonavan l'ordine e l'onore. Zerbin, Lurcanio e Arïodante in mezzo vi restâr soli incontra a quel furore; e Zerbin, ch'era a piè, vi peria forse, ma 'l buon Rinaldo a tempo se n'accorse. 79 Altrove intanto il paladin s'avea fatto inanzi fuggir cento bandiere. Or che l'orecchie la novella rea del gran periglio di Zerbin gli fere, ch'a piedi fra la gente cirenea lasciato solo aveano le sue schiere, volta il cavallo, e dove il campo scotto vede fuggir, prende la via di botto. 80 Dove gli Scotti ritornar fuggendo vede, s'appara, e grida: - Or dove andate? perché tanta viltade in voi comprendo, che a sì vil gente il campo abbandonate? Ecco le spoglie, de le quali intendo ch'esser dovean le vostre chiese ornate. Oh che laude, oh che gloria, che 'l figliuolo del vostro re si lasci a piedi e solo! - 81 D'un suo scudier una grossa asta afferra, e vede Prusïon poco lontano, re d'Alvaracchie, e adosso se gli serra, e de l'arcion lo porta morto al piano. Morto Agricalte e Bambirago atterra: dopo fere aspramente Soridano; e come gli altri l'avria messo a morte, se nel ferir la lancia era più forte. 82 Stringe Fusberta, poi che l'asta è rotta, e tocca Serpentin, quel da la Stella. Fatate l'arme avea, ma quella botta pur tramortito il manda fuor di sella. E così al duca de la gente scotta fa piazza intorno spazïosa e bella; sì che senza contesa un destrier puote salir di quei che vanno a selle vòte. 83 E ben si ritrovò salito a tempo, che forse nol facea, se più tardava: perché Agramante e Dardinello a un tempo, Sobrin col re Balastro v'arrivava. Ma egli, che montato era per tempo, di qua e di là col brando s'aggirava, mandando or questo or quel giú ne l'inferno a dar notizia del viver moderno. 84 Il buon Rinaldo, il quale a porre in terra i più dannosi avea sempre riguardo, la spada contra il re Agramante afferra, che troppo gli parea fiero e gagliardo (facea egli sol più che mille altri guerra); e se gli spinse adosso con Baiardo: lo fere a un tempo et urta di traverso, sì che lui col destrier manda riverso. 85 Mentre di fuor con sì crudel battaglia, odio, rabbia, furor l'un l'altro offende, Rodomonte in Parigi il popul taglia, le belle case e i sacri templi accende. Carlo, ch'in altra parte si travaglia, questo non vede, e nulla ancor ne 'ntende: Odoardo raccoglie et Arimanno ne la città, col lor popul britanno. 86 Allui venne un scudier pallido in volto, che potea a pena trar del petto il fiato. - Ahimè! signor, ahimè - replica molto, prima ch'abbia a dir altro incominciato: - Oggi il romano Imperio, oggi è sepolto; oggi ha il suo popul Cristo abandonato: il demonio dal cielo è piovuto oggi, perché in questa città più non s'alloggi. 87 Satanasso (perch'altri esser non puote) strugge e ruina la città infelice. Volgiti e mira le fumose ruote de la rovente fiamma predatrice; ascolta il pianto che nel ciel percuote; e faccian fede a quel che 'l servo dice. Un solo è quel ch'a ferro e a fuoco strugge la bella terra, e inanzi ognun gli fugge. - 88 Quale è colui che prima oda il tumulto, e de le sacre squille il batter spesso, che vegga il fuoco a nessun altro occulto, ch'a sé, che più gli tocca, e gli è più presso; tal è il re Carlo, udendo il nuovo insulto, e conoscendol poi con l'occhio istesso: onde lo sforzo di sua miglior gente al grido drizza e al gran rumor che sente. 89 Dei paladini e dei guerrier più degni Carlo si chiama dietro una gran parte, e vêr la piazza fa drizzare i segni; che 'l pagan s'era tratto in quella parte. Ode il rumor, vede gli orribil segni di crudeltà, l'umane membra sparte. Ora non più: ritorni un'altra volta chi voluntier la bella istoria ascolta.
1 Il giusto Dio, quando i peccati nostri hanno di remission passato il segno, acciò che la giustizia sua dimostri uguale alla pietà, spesso dà regno a tiranni atrocissimi et a mostri, e dà lor forza e di mal fare ingegno. Per questo Mario e Silla pose al mondo, e duo Neroni e Caio furibondo, 2 Domizïano e l'ultimo Antonino; e tolse da la immonda e bassa plebe, et esaltò all'imperio Massimino; e nascer prima fe' Creonte a Tebe; e diè Mezenzio al populo Agilino, che fe' di sangue uman grasse le glebe; e diede Italia a tempi men remoti in preda agli Unni, ai Longobardi, ai Goti. 3 Che d'Atila dirò? che de l'iniquo Ezzellin da Roman? che d'altri cento? che dopo un lungo andar sempre in obliquo, ne manda Dio per pena e per tormento. Di questo abbiàn non pur al tempo antiquo, ma ancora al nostro, chiaro esperimento, quando a noi, greggi inutili e malnati, ha dato per guardian lupi arrabbiati: 4 a cui non par ch'abbi a bastar lor fame, ch'abbi il lor ventre a capir tanta carne; e chiaman lupi di più ingorde brame da boschi oltramontani a divorarne. Di Trasimeno l'insepulto ossame e di Canne e di Trebia poco parne verso quel che le ripe e i campi ingrassa, dov'Ada e Mella e Ronco e Tarro passa. 5 Or Dio consente che noi siàn puniti da populi di noi forse peggiori, per li multiplicati et infiniti nostri nefandi, obbrobrïosi errori. Tempo verrà ch'a depredar lor liti andremo noi, se mai saren migliori, e che i peccati lor giungano al segno, che l'eterna Bontà muovano a sdegno. 6 Doveano allora aver gli eccessi loro di Dio turbata la serena fronte, che scórse ogni lor luogo il Turco e 'l Moro con stupri, uccisïon, rapine et onte: ma più di tutti gli altri danni, fôro gravati dal furor di Rodomonte. Dissi ch'ebbe di lui la nuova Carlo, e che 'n piazza venìa per ritrovarlo. 7 Vede tra via la gente sua troncata, arsi i palazzi, e ruinati i templi, gran parte de la terra desolata; mai non si vider sì crudeli esempli. - Dove fuggite, turba spaventata? Non è tra voi chi 'l danno suo contempli? Che città, che refugio più vi resta, quando si perda sì vilmente questa? 8 Dunque un uom solo in vostra terra preso, cinto di mura onde non può fuggire, si partirà che non l'avrete offeso, quando tutti v'avrà fatto morire? - Così Carlo dicea, che d'ira acceso tanta vergogna non potea patire. E giunse dove inanti alla gran corte vide il pagan por la sua gente a morte. 9 Quivi gran parte era del populazzo, sperandovi trovare aiuto, ascesa; perché forte di mura era il palazzo, con munizion da far lunga difesa. Rodomonte, d'orgoglio e d'ira pazzo, solo s'avea tutta la piazza presa: e l'una man, che prezza il mondo poco, ruota la spada, e l'altra getta il fuoco. 10 E de la regal casa, alta e sublime, percuote e risuonar fa le gran porte. Gettan le turbe da le eccelse cime e merli e torri, e si metton per morte. Guastare i tetti non è alcun che stime; e legne e pietre vanno ad una sorte, lastre e colonne, e le dorate travi che furo in prezzo agli lor padri e agli avi. 11 Sta su la porta il re d'Algier, lucente di chiaro acciar che 'l capo gli arma e 'l busto, come uscito di tenebre serpente, poi c'ha lasciato ogni squalor vetusto, del nuovo scoglio altiero, e che si sente ringiovenito e più che mai robusto: tre lingue vibra, et ha negli occhi foco; dovunque passa, ogn'animal dà loco. 12 Non sasso, merlo, trave, arco o balestra, né ciò che sopra il Saracin percuote, ponno allentar la sanguinosa destra che la gran porta taglia, spezza e scuote: e dentro fatto v'ha tanta finestra, che ben vedere e veduto esser puote dai visi impressi di color di morte, che tutta piena quivi hanno la corte. 13 Suonar per gli alti e spazïosi tetti s'odono gridi e feminil lamenti: l'afflitte donne, percotendo i petti, corron per casa pallide e dolenti; e abbraccian gli usci e i genïali letti che tosto hanno a lasciare a strane genti. Tratta la cosa era in periglio tanto, quando 'l re giunse, e suoi baroni accanto. 14 Carlo si volse a quelle man robuste ch'ebbe altre volte a gran bisogni pronte. - Non sète quelli voi, che meco fuste contra Agolante (disse) in Aspramonte? Sono le forze vostre ora sì fruste, che, s'uccideste lui, Troiano e Almonte con centomila, or ne temete un solo pur di quel sangue e pur di quello stuolo? 15 Perché debbo vedere in voi fortezza ora minor ch'io la vedessi allora? Mostrate a questo can vostra prodezza, a questo can che gli uomini devora. Un magnanimo cor morte non prezza, presta o tarda che sia, pur che ben muora. Ma dubitar non posso ove voi sète, che fatto sempre vincitor m'avete. - 16 Al fin de le parole urta il destriero, con l'asta bassa, al Saracino adosso. Mossesi a un tratto il paladino Ugiero, a un tempo Namo et Ulivier si è mosso, Avino, Avolio, Otone e Berlingiero, ch'un senza l'altro mai veder non posso: e ferîr tutti sopra a Rodomonte e nel petto e nei fianchi e ne la fronte. 17 Ma lasciamo, per Dio, Signore, ormai di parlar d'ira e di cantar di morte; e sia per questa volta detto assai del Saracin non men crudel che forte: che tempo è ritornar dov'io lasciai Grifon, giunto a Damasco in su le porte con Orrigille perfida, e con quello ch'adulter era, e non di lei fratello. 18 De le più ricche terre di Levante, de le più populose e meglio ornate si dice esser Damasco, che distante siede a Ierusalem sette giornate, in un piano fruttifero e abondante, non men giocondo il verno, che l'estate. A questa terra il primo raggio tolle de la nascente aurora un vicin colle. 19 Per la città duo fiumi cristallini vanno inaffiando per diversi rivi un numero infinito di giardini, non mai di fior, non mai di fronde privi. Dicesi ancor, che macinar molini potrian far l'acque lanfe che son quivi; e chi va per le vie vi sente, fuore di tutte quelle case, uscire odore. 20 Tutta coperta è la strada maestra di panni di diversi color lieti; e d'odorifera erba, e di silvestra fronda la terra e tutte le pareti. Adorna era ogni porta, ogni finestra di finissimi drappi e di tapeti, ma più di belle e ben ornate donne di ricche gemme e di superbe gonne. 21 Vedeasi celebrar dentr'alle porte, in molti lochi, solazzevol balli; il popul, per le vie, di miglior sorte maneggiar ben guarniti e bei cavalli: facea più bel veder la ricca corte de' signor, de' baroni e de' vasalli, con ciò che d'India e d'eritree maremme di perle aver si può, d'oro e di gemme. 22 Venìa Grifone e la sua compagnia mirando e quinci e quindi il tutto ad agio, quando fermolli un cavalliero in via, e gli fece smontare a un suo palagio; e per l'usanza e per sua cortesia di nulla lasciò lor patir disagio. Li fe' nel bagno entrar, poi con serena fronte gli accolse a sontuosa cena. 23 E narrò lor come il re Norandino, re di Damasco e di tutta Soria, fatto avea il paesano e 'l peregrino ch'ordine avesse di cavalleria, alla giostra invitar, ch'al matutino del dì sequente in piazza si faria; e che s'avean valor pari al sembiante, potrian mostrarlo senza andar più inante. 24 Ancor che quivi non venne Grifone a questo effetto, pur lo 'nvito tenne; che qual volta se n'abbia occasïone, mostrar virtude mai non disconvenne. Interrogollo poi de la cagione di quella festa, e s'ella era solenne usata ogn'anno, o pure impresa nuova del re ch'i suoi veder volesse in pruova. 25 Rispose il cavallier: - La bella festa s'ha da far sempre ad ogni quarta luna: de l'altre che verran, la prima è questa: ancora non se n'è fatta più alcuna. Sarà in memoria che salvò la testa il re in tal giorno da una gran fortuna, dopo che quattro mesi in doglie e 'n pianti sempre era stato, e con la morte inanti. 26 Ma per dirvi la cosa pienamente, il nostro re, che Norandin s'appella, molti e molt'anni ha avuto il core ardente de la leggiadra e sopra ogn'altra bella figlia del re di Cipro: e finalmente avutala per moglie, iva con quella, con cavallieri e donne in compagnia; e dritto avea il camin verso Soria. 27 Ma poi che fummo tratti a piene vele lungi dal porto nel Carpazio iniquo, la tempesta saltò tanto crudele, che sbigottì sin al padrone antiquo. Tre dì e tre notti andammo errando ne le minacciose onde per camino obliquo. Uscimo al fin nel lito stanchi e molli, tra freschi rivi, ombrosi e verdi colli. 28 Piantare i padiglioni, e le cortine fra gli arbori tirar facemo lieti. S'apparechiano i fuochi e le cucine; le mense d'altra parte in su tapeti. Intanto il re cercando alle vicine valli era andato e a' boschi più secreti, se ritrovasse capre o daini o cervi; e l'arco gli portâr dietro duo servi. 29 Mentre aspettamo, in gran piacer sedendo, che da cacciar ritorni il signor nostro, vedemo l'Orco a noi venir correndo lungo il lito del mar, terribil mostro. Dio vi guardi, signor, che 'l viso orrendo de l'Orco agli occhi mai vi sia dimostro: meglio è per fama aver notizia d'esso, ch'andargli, sì che lo veggiate, appresso. 30 Non gli può comparir quanto sia lungo, sì smisuratamente è tutto grosso. In luogo d'occhi, di color di fungo sotto la fronte ha duo coccole d'osso. Verso noi vien (come vi dico) lungo il lito, e par ch'un monticel sia mosso. Mostra le zanne fuor, come fa il porco; ha lungo il naso, il sen bavoso e sporco. 31 Correndo viene, e 'l muso a guisa porta che 'l bracco suol, quando entra in su la traccia. Tutti che lo veggiam, con faccia smorta in fuga andamo ove il timor ne caccia. Poco il veder lui cieco ne conforta, quando, fiutando sol, par che più faccia, ch'altri non fa, ch'abbia odorato e lume: e bisogno al fuggire eran le piume. 32 Corron chi qua chi là; ma poco lece da lui fuggir, veloce più che 'l Noto. Di quaranta persone, a pena diece sopra il navilio si salvaro a nuoto. Sotto il braccio un fastel d'alcuni fece, né il grembio si lasciò né il seno vòto; un suo capace zaino empissene anco, che gli pendea, come a pastor, dal fianco. 33 Portòci alla sua tana il mostro cieco, cavata in lito al mar dentr'uno scoglio. Di marmo così bianco è quello speco, come esser soglia ancor non scritto foglio. Quivi abitava una matrona seco, di dolor piena in vista e di cordoglio; et avea in compagnia donne e donzelle d'ogni età, d'ogni sorte, e brutte e belle. 34 Era presso alla grotta in ch'egli stava, quasi alla cima del giogo superno, un'altra non minor di quella cava, dove del gregge suo facea governo. Tanto n'avea, che non si numerava; e n'era egli il pastor l'estate e 'l verno. Ai tempi suoi gli apriva e tenea chiuso, per spasso che n'avea, più che per uso. 35 L'umana carne meglio gli sapeva: e prima il fa veder ch'all'antro arrivi; che tre de' nostri giovini ch'aveva, tutti li mangia, anzi trangugia vivi. Viene alla stalla, e un gran sasso ne leva: ne caccia il gregge, e noi riserra quivi. Con quel sen va dove il suol far satollo, sonando una zampogna ch'avea in collo. 36 Il signor nostro intanto ritornato alla marina, il suo danno comprende; che truova gran silenzio in ogni lato, vòti frascati, padiglioni e tende. Né sa pensar chi sì l'abbia rubato; e pien di gran timore al lito scende, onde i nocchieri suoi vede in disparte sarpar lor ferri e in opra por le sarte. 37 Tosto ch'essi lui veggiono sul lito, il palischermo mandano a levarlo: ma non sì tosto ha Norandino udito de l' Orco che venuto era a rubarlo, che, senza più pensar, piglia partito, dovunque andato sia, di seguitarlo. Vedersi tor Lucina sì gli duole, ch'o racquistarla, o non più viver vuole. 38 Dove vede apparir lungo la sabbia la fresca orma, ne va con quella fretta con che lo spinge l'amorosa rabbia, fin che giunge alla tana ch'io v'ho detta; ove con tema la maggior che s'abbia a patir mai, l'Orco da noi s'aspetta: ad ogni suono di sentirlo parci, ch'affamato ritorni a divorarci. 39 Quivi Fortuna il re da tempo guida, che senza l'Orco in casa era la moglie. Come ella 'l vede: « Fuggine! (gli grida) misero te, se l'Orco ti ci coglie! » « Coglia (disse) o non coglia, o salvi o uccida, che miserrimo i' sia non mi si toglie. Disir mi mena, e non error di via, c'ho di morir presso alla moglie mia ». 40 Poi seguì, dimandandole novella di quei che prese l'Orco in su la riva; prima degli altri, di Lucina bella, se l'avea morta, o la tenea captiva. La donna umanamente gli favella, e lo conforta, che Lucina è viva, e che non è alcun dubbio ch'ella muora; che mai femina l'Orco non divora. 41 « Esser di ciò argumento ti poss'io, e tutte queste donne che son meco: né a me né a lor mai l'Orco è stato rio, pur che non ci scostian da questo speco. A chi cerca fuggir, pon grave fio; né pace mai puon ritrovar più seco: o le sotterra vive, o l'incatena, o fa star nude al sol sopra l'arena. 42 Quando oggi egli portò qui la tua gente, le femine dai maschi non divise; ma, sì come gli avea, confusamente dentro a quella spelonca tutti mise. Sentirà a naso il sesso differente. Le donne non temer che sieno uccise: gli uomini, siene certo; et empieranne di quattro, il giorno, o sei, l'avide canne. 43 Di levar lei di qui non ho consiglio che dar ti possa; e contentar ti puoi che ne la vita sua non è periglio: starà qui al ben e al mal ch'avremo noi. Ma vattene, per Dio, vattene, figlio, che l'Orco non ti senta e non t'ingoi. Tosto che giunge, d'ogn'intorno annasa, e sente sin a un topo che sia in casa ». 44 Rispose il re, non si voler partire, se non vedea la sua Lucina prima; e che più tosto appresso a lei morire, che viverne lontan, faceva stima. Quando vede ella non potergli dire cosa che 'l muova da la voglia prima, per aiutarlo fa nuovo disegno, e ponvi ogni sua industria, ogni suo ingegno. 45 Morte avea in casa, e d'ogni tempo appese, con lor mariti, assai capre et agnelle, onde a sé et alle sue facea le spese; e dal tetto pendea più d'una pelle. La donna fe' che 'l re del grasso prese, ch'avea un gran becco intorno alle budelle, e che se n'unse dal capo alle piante, fin che l'odor cacciò ch'egli ebbe inante. 46 E poi che 'l tristo puzzo aver le parve, di che il fetido becco ognora sape, piglia l'irsuta pelle, e tutto entrarve lo fe'; ch'ella è sì grande che lo cape. Coperto sotto a così strane larve, facendol gir carpon, seco lo rape là dove chiuso era d'un sasso grave de la sua donna il bel viso soave. 47 Norandino ubidisce; et alla buca de la spelonca ad aspettar si mette, acciò col gregge dentro si conduca; e fin a sera disïando stette. Ode la sera il suon de la sambuca, con che 'nvita a lassar l'umide erbette, e ritornar le pecore all'albergo il fier pastor che lor venìa da tergo. 48 Pensate voi se gli tremava il core, quando l'Orco sentì che ritornava, e che 'l viso crudel pieno d'orrore vide appressare all'uscio de la cava; ma poté la pietà più che 'l timore: s'ardea, vedete, o se fingendo amava. Vien l'Orco inanzi, e leva il sasso, et apre: Norandino entra fra pecore e capre. 49 Entrato il gregge, l'Orco a noi descende; ma prima sopra sé l'uscio si chiude. Tutti ne va fiutando: al fin duo prende; che vuol cenar de le lor carni crude. Al rimembrar di quelle zanne orrende, non posso far ch'ancor non trieme e sude. Partito l'Orco, il re getta la gonna ch'avea di becco, e abbraccia la sua donna. 50 Dove averne piacer deve e conforto, vedendol quivi, ella n'ha affanno e noia: lo vede giunto ov'ha da restar morto; e non può far però ch'essa non muoia. « Con tutto 'l mal (diceagli) ch'io supporto, signor, sentia non medïocre gioia, che ritrovato non t'eri con nui quando da l'Orco oggi qui tratta fui. 51 Che se ben il trovarmi ora in procinto d'uscir di vita m'era acerbo e forte; pur mi sarei, come è commune instinto, dogliuta sol de la mia trista sorte: ma ora, o prima o poi che tu sia estinto, più mi dorrà la tua che la mia morte ». E seguitò, mostrando assai più affanno di quel di Norandin, che del suo danno. 52 « La speme (disse il re) mi fa venire, c'ho di salvarti, e tutti questi teco: e s'io nol posso far, meglio è morire, che senza te, mio sol, viver poi cieco. Come io ci venni, mi potrò partire; e voi tutt'altri ne verrete meco, se non avrete, come io non ho avuto, schivo a pigliare odor d'animal bruto ». 53 La fraude insegnò a noi, che contra il naso de l'Orco insegnò allui la moglie d'esso; di vestirci le pelli, in ogni caso ch'egli ne palpi ne l'uscir del fesso. Poi che di questo ognun fu persuaso; quanti de l'un, quanti de l'altro sesso ci ritroviamo, uccidian tanti becchi, quelli che più fetean, ch'eran più vecchi. 54 Ci ungemo i corpi di quel grasso opimo che ritroviamo all'intestina intorno, e de l'orride pelli ci vestimo. Intanto uscì da l'aureo albergo il giorno. Alla spelonca, come apparve il primo raggio del sol, fece il pastor ritorno; e dando spirto alle sonore canne, chiamò il suo gregge fuor de le capanne. 55 Tenea la mano al buco de la tana, acciò col gregge non uscissin noi: ci prendea al varco; e quando pelo o lana sentia sul dosso, ne lasciava poi. Uomini e donne uscimmo per sì strana strada, coperti dagl'irsuti cuoi: e l'Orco alcun di noi mai non ritenne, fin che con gran timor Lucina venne. 56 Lucina, o fosse perch'ella non volle ungersi come noi, che schivo n'ebbe; o ch'avesse l'andar più lento e molle, che l'imitata bestia non avrebbe; o quando l'Orco la groppa toccolle, gridasse per la tema che le accrebbe; o che se le sciogliessero le chiome; sentita fu, né ben so dirvi come. 57 Tutti eravam sì intenti al caso nostro, che non avemmo gli occhi agli altrui fatti. Io mi rivolsi al grido; e vidi il mostro che già gl'irsuti spogli le avea tratti, e fattola tornar nel cavo chiostro. Noi altri dentro a nostre gonne piatti col gregge andamo ove 'l pastor ci mena, tra verdi colli in una piaggia amena. 58 Quivi attendiamo infin che steso all'ombra d'un bosco opaco il nasuto Orco dorma. Chi lungo il mar, chi verso 'l monte sgombra: sol Norandin non vuol seguir nostr'orma. L'amor de la sua donna sì lo 'ngombra, ch'alla grotta tornar vuol fra la torma, né partirsene mai sin alla morte, se non racquista la fedel consorte: 59 che quando dianzi avea all'uscir del chiuso vedutala restar captiva sola, fu per gittarsi, dal dolor confuso, spontaneamente al vorace Orco in gola; e si mosse, e gli corse infino al muso, né fu lontano a gir sotto la mola: ma pur lo tenne in mandra la speranza ch'avea di trarla ancor di quella stanza. 60 La sera, quando alla spelonca mena il gregge l'Orco, e noi fuggiti sente, e c'ha da rimaner privo di cena, chiama Lucina d'ogni mal nocente, e la condanna a star sempre in catena allo scoperto in sul sasso eminente. Vedela il re per sua cagion patire, e si distrugge, e sol non può morire. 61 Matina e sera l'infelice amante la può veder come s'affliga e piagna; che le va misto fra le capre avante, torni alla stalla o torni alla campagna. Ella con viso mesto e supplicante gli accenna che per Dio non vi rimagna, perché vi sta a gran rischio de la vita, né però allei può dare alcuna aita. 62 Così la moglie ancor de l'Orco priega il re che se ne vada, ma non giova; che d'andar mai senza Lucina niega, e sempre più constante si ritruova. In questa servitude, in che lo lega Pietate e Amor, stette con lunga pruova tanto, ch'a capitar venne a quel sasso il figlio d'Agricane e 'l re Gradasso. 63 Dove con loro audacia tanto fenno, che liberaron la bella Lucina; ben che vi fu aventura più che senno: e la portâr correndo alla marina; e al padre suo, che quivi era, la denno: e questo fu ne l'ora matutina, che Norandin con l'altro gregge stava a ruminar ne la montana cava. 64 Ma poi che 'l giorno aperta fu la sbarra, e seppe il re la donna esser partita (che la moglie de l'Orco gli lo narra), e come a punto era la cosa gita; grazie a Dio rende, e con voto n'inarra, ch'essendo fuor di tal miseria uscita, faccia che giunga onde per arme possa, per prieghi o per tesoro, esser riscossa. 65 Pien di letizia va con l'altra schiera del simo gregge, e viene ai verdi paschi; e quivi aspetta fin ch'all'ombra nera il mostro per dormir ne l'erba caschi. Poi ne vien tutto il giorno e tutta sera; e al fin sicur che l'Orco non lo 'ntaschi, sopra un navilio monta in Satalia; e son tre mesi ch'arrivò in Soria. 66 In Rodi, in Cipro, e per città e castella e d'Africa e d'Egitto e di Turchia, il re cercar fe' di Lucina bella; né fin l'altr'ieri aver ne poté spia. L'altr'ier n'ebbe dal suocero novella, che seco l'avea salva in Nicosia, dopo che molti dì vento crudele era stato contrario alle sue vele. 67 Per allegrezza de la buona nuova prepara il nostro re la ricca festa; e vuol ch'ad ogni quarta luna nuova, una se n'abbia a far simile a questa: che la memoria rifrescar gli giova dei quattro mesi che 'n irsuta vesta fu tra il gregge de l'Orco; e un giorno, quale sarà dimane, uscì di tanto male. 68 Questo ch'io v'ho narrato, in parte vidi, in parte udi' da chi trovossi al tutto; dal re, vi dico, che calende et idi vi stette, fin che volse in riso il lutto: e se n'udite mai far altri gridi, direte a chi gli fa, che mal n'è instrutto. - Il gentiluomo in tal modo a Grifone de la festa narrò l'alta cagione. 69 Un gran pezzo di notte si dispensa dai cavallieri in tal ragionamento; e conchiudon ch'amore e pietà immensa mostrò quel re con grande esperimento. Andaron, poi che si levâr da mensa, ove ebbon grato e buono alloggiamento. Nel seguente matin sereno e chiaro, al suon de l'allegrezze si destaro. 70 Vanno scorrendo timpani e trombette, e ragunando in piazza la cittade. Or, poi che de cavalli e de carrette e ribombar de gridi odon le strade, Grifon le lucide arme si rimette, che son di quelle che si trovan rade; che l'avea impenetrabili e incantate la Fata bianca di sua man temprate. 71 Quel d'Antïochia, più d'ogn'altro vile, armossi seco, e compagnia gli tenne. Preparate avea lor l'oste gentile nerbose lance, e salde e grosse antenne, e del suo parentado non umìle compagnia tolta; e seco in piazza venne; e scudieri a cavallo, e alcuni a piede, a tal servigi attissimi, lor diede. 72 Giunsero in piazza, e trassonsi in disparte, né pel campo curâr far di sé mostra, per veder meglio il bel popul di Marte, ch'ad uno, o a dua, o a tre, veniano in giostra. Chi con colori accompagnati ad arte letizia o doglia alla sua donna mostra; chi nel cimier, chi nel dipinto scudo disegna Amor, se l'ha benigno o crudo. 73 Sorïani in quel tempo aveano usanza d'armarsi a questa guisa di Ponente. Forse ve gli inducea la vicinanza che de' Franceschi avean continuamente, che quivi allor reggean la sacra stanza dove in carne abitò Dio onnipotente; ch'ora i superbi e miseri cristiani, con biasmi lor, lasciano in man de' cani. 74 Dove abbassar dovrebbono la lancia in augumento de la santa fede, tra lor si dan nel petto e ne la pancia a destruzion del poco che si crede. Voi, gente ispana, e voi, gente di Francia, volgete altrove, e voi, Svizzeri, il piede, e voi, Tedeschi, a far più degno acquisto; che quanto qui cercate è già di Cristo. 75 Se Cristianissimi esser voi volete, e voi altri Catolici nomati, perché di Cristo gli uomini uccidete? perché de' beni lor son dispogliati? Perché Ierusalem non rïavete, che tolto è stato a voi da' rinegati? Perché Constantinopoli e del mondo la miglior parte occupa il Turco immondo? 76 Non hai tu, Spagna, l'Africa vicina, che t'ha via più di questa Italia offesa? E pur, per dar travaglio alla meschina, lasci la prima tua sì bella impresa. O d'ogni vizio fetida sentina, dormi, Italia imbrïaca, e non ti pesa ch'ora di questa gente, ora di quella che già serva ti fu, sei fatta ancella? 77 Se 'l dubbio di morir ne le tue tane, Svizzer, di fame, in Lombardia ti guida, e tra noi cerchi o chi ti dia del pane, o, per uscir d'inopia, chi t'uccida; le richezze del Turco hai non lontane: caccial d'Europa, o almen di Grecia snida; così potrai o del digiuno trarti, o cader con più merto in quelle parti. 78 Quel ch'a te dico, io dico al tuo vicino tedesco ancor: là le richezze sono, che vi portò da Roma Constantino: portonne il meglio, e fe' del resto dono. Pattolo et Ermo, onde si tra' l'or fino, Migdonia e Lidia, e quel paese buono per tante laudi in tante istorie noto, non è, s'andar vi vuoi, troppo remoto. 79 Tu, gran Leone, a cui premon le terga de le chiavi del ciel le gravi some, non lasciar che nel sonno si sommerga Italia, se la man l'hai ne le chiome. Tu sei Pastore; e Dio t'ha quella verga data a portare, e scelto il fiero nome, perché tu ruggi, e che le braccia stenda, sì che dai lupi il grege tuo difenda. 80 Ma d'un parlar ne l'altro, ove sono ito sì lungi, dal camin ch'io faceva ora? Non lo credo però sì aver smarrito, ch'io non lo sappia ritrovare ancora. Io dicea ch'in Soria si tenea il rito d'armarsi, che i Franceschi aveano allora: sì che bella in Damasco era la piazza di gente armata d'elmo e di corazza. 81 Le vaghe donne gettano dai palchi sopra i giostranti fior vermigli e gialli, mentre essi fanno a suon degli oricalchi levare a salti et aggirar cavalli. Ciascuno, o bene o mal ch'egli cavalchi, vuol far quivi vedersi, e sprona e dàlli: di ch'altri ne riporta pregio e lode; muove altri a riso, e gridar dietro s'ode. 82 De la giostra era il prezzo un'armatura che fu donata al re pochi dì inante, che su la strada ritrovò a ventura, ritornando d'Armenia, un mercatante. Il re di nobilissima testura le sopraveste all'arme aggiunse, e tante perle vi pose intorno e gemme et oro, che la fece valer molto tesoro. 83 Se conosciute il re quell'arme avesse, care avute l'avria sopra ogni arnese; né in premio de la giostra l'avria messe, come che liberal fosse e cortese. Lungo saria chi raccontar volesse chi l'avea sì sprezzate e vilipese, che 'n mezzo de la strada le lasciasse, preda a chiunque o inanzi o indietro andasse. 84 Di questo ho da contarvi più di sotto: or dirò di Grifon, ch'alla sua giunta un paio e più di lancie trovò rotto, menato più d'un taglio e d'una punta. Dei più cari e più fidi al re fur otto che quivi insieme avean lega congiunta; gioveni, in arme pratichi et industri, tutti o signori o di famiglie illustri. 85 Quei rispondean ne la sbarrata piazza per un dì, ad uno ad uno, a tutto 'l mondo, prima con lancia, e poi con spada o mazza, fin ch'al re di guardarli era giocondo; e si foravan spesso la corazza: per giuoco in somma qui facean, secondo fan gli nimici capitali, eccetto che potea il re partirli a suo diletto. 86 Quel d'Antïochia, un uom senza ragione, che Martano il codardo nominosse, come se de la forza di Grifone, poi ch'era seco, participe fosse, audace entrò nel marzïale agone; e poi da canto ad aspettar fermosse, sin che finisce una battaglia fiera che tra duo cavallier cominciata era. 87 Il signor di Seleucia, di quell'uno, ch'a sostener l'impresa aveano tolto, combattendo in quel tempo con Ombruno, lo ferì d'una punta in mezzo 'l volto, sì che l'uccise: e pietà n'ebbe ognuno, perché buon cavallier lo tenean molto; et oltra la bontade, il più cortese non era stato in tutto quel paese. 88 Veduto ciò, Martano ebbe paura che parimente a sé non avvenisse; e ritornando ne la sua natura, a pensar cominciò come fugisse. Grifon, che gli era appresso e n'avea cura, lo spinse pur, poi ch'assai fece e disse, contra un gentil guerrier che s'era mosso, come si spinge il cane al lupo adosso; 89 che dieci passi gli va dietro o venti, e poi si ferma, et abbaiando guarda come digrigni i minacciosi denti, come negli occhi orribil fuoco gli arda. Quivi ov'erano e principi presenti e tanta gente nobile e gagliarda, fuggì lo 'ncontro il timido Martano, e torse 'l freno e 'l capo a destra mano. 90 Pur la colpa potea dar al cavallo, chi di scusarlo avesse tolto il peso; ma con la spada poi fe' sì gran fallo, che non l'avria Demostene difeso. Di carta armato par, non di metallo; sì teme da ogni colpo essere offeso. Fuggesi al fine, e gli ordini disturba, ridendo intorno allui tutta la turba. 91 Il batter de le mani, il grido intorno se gli levò del populazzo tutto. Come lupo cacciato, fe' ritorno Martano in molta fretta al suo ridutto. Resta Grifone; e gli par de lo scorno del suo compagno esser macchiato e brutto: esser vorrebbe stato in mezzo il foco, più tosto che trovarsi in questo loco. 92 Arde nel core, e fuor nel viso avampa, come sia tutta sua quella vergogna; perché l'opere sue di quella stampa vedere aspetta il populo et agogna: sì che rifulga chiara più che lampa sua virtù, questa volta gli bisogna; ch'un'oncia, un dito sol d'error che faccia, per la mala impression parrà sei braccia. 93 Già la lancia avea tolta su la coscia Grifon, ch'errare in arme era poco uso: spinse il cavallo a tutta briglia, e poscia ch'alquanto andato fu, la messe suso, e portò nel ferire estrema angoscia al baron di Sidonia, ch'andò giuso. Ognun maravigliando in piè si leva; che 'l contrario di ciò tutto attendeva. 94 Tornò Grifon con la medesma antenna, che 'ntiera e ferma ricovrata avea, et in tre pezzi la roppe alla penna de lo scudo al signor di Lodicea. Quel per cader tre volte e quattro accenna, che tutto steso alla groppa giacea: pur rilevato al fin la spada strinse, voltò il cavallo, e vêr Grifon si spinse. 95 Grifon, che 'l vede in sella, e che non basta sì fiero incontro perché a terra vada, dice fra sé: - Quel che non poté l'asta, in cinque colpi o 'n sei farà la spada. - E su la tempia subito l'attasta d'un dritto tal, che par che dal ciel cada; e un altro gli accompagna e un altro appresso, tanto che l'ha stordito e in terra messo. 96 Quivi erano d'Apamia duo germani, soliti in giostra rimaner di sopra, Tirse e Corimbo; et ambo per le mani del figlio d'Uliver cadêr sozzopra. L'uno gli arcion lascia allo scontro vani; con l'altro messa fu la spada in opra. Già per commun giudicio si tien certo che di costui fia de la giostra il merto. 97 Ne la lizza era entrato Salinterno, gran dïodarro e maliscalco regio, e che di tutto 'l regno avea il governo, e di sua mano era guerriero egregio. Costui, sdegnoso ch'un guerriero esterno debba portar di quella giostra il pregio, piglia una lancia, e verso Grifon grida, e molto minacciandolo lo sfida. 98 Ma quel con un lancion gli fa risposta, ch'avea per lo miglior fra dieci eletto, e per non far error, lo scudo apposta, e via lo passa e la corazza e 'l petto: passa il ferro crudel tra costa e costa, e fuor pel tergo un palmo esce di netto. Il colpo, eccetto al re, fu a tutti caro; ch'ognuno odiava Salinterno avaro. 99 Grifone, appresso a questi, in terra getta duo di Damasco, Ermofilo e Carmondo. La milizia del re dal primo è retta; del mar grande almiraglio è quel secondo. Lascia allo scontro l'un la sella in fretta: adosso all'altro si riversa il pondo del rio destrier, che sostener non puote l'alto valor con che Grifon percuote. 100 Il signor di Seleucia ancor restava, miglior guerrier di tutti gli altri sette; e ben la sua possanza accompagnava con destrier buono e con arme perfette. Dove de l'elmo la vista si chiava, l'asta allo scontro l'uno e l'altro mette; pur Grifon maggior colpo al pagan diede, che lo fe' staffeggiar dal manco piede. 101 Gittaro i tronchi, e si tornaro adosso pieni di molto ardir coi brandi nudi. Fu il pagan prima da Grifon percosso d'un colpo che spezzato avria gl'incudi. Con quel fender si vide e ferro et osso d'un ch'eletto s'avea tra mille scudi; e se non era doppio e fin l'arnese, ferìa la coscia ove cadendo scese. 102 Ferì quel di Seleucia alla visera Grifone a un tempo; e fu quel colpo tanto, che l'avria aperta e rotta, se non era fatta, come l'altr'arme, per incanto. Gli è un perder tempo che 'l pagan più fera: così son l'arme dure in ogni canto: e 'n più parti Grifon già fessa e rotta ha l'armatura a lui, né perde botta. 103 Ognun potea veder quanto di sotto il signor di Seleucia era a Grifone; e se partir non li fa il re di botto, quel che sta peggio, la vita vi pone. Fe' Norandino alla sua guardia motto ch'entrasse a distaccar l'aspra tenzone. Quindi fu l'uno, e quindi l'altro tratto; e fu lodato il re di sì buon atto. 104 Gli otto che dianzi avean col mondo impresa, e non potuto durar poi contra uno, avendo mal la parte lor difesa, usciti eran dal campo ad uno ad uno. Gli altri ch'eran venuti allor contesa, quivi restâr senza contrasto alcuno, avendo lor Grifon, solo, interrotto quel che tutti essi avean da far contra otto. 105 E durò quella festa così poco, ch'in men d'un'ora il tutto fatto s'era: ma Norandin, per far più lungo il giuoco e per continuarlo infino a sera, dal palco scese, e fe' sgombrare il loco; e poi divise in due la grossa schiera, indi, secondo il sangue e la lor prova, gli andò accoppiando, e fe' una giostra nova. 106 Grifone intanto avea fatto ritorno alla sua stanza, pien d'ira e di rabbia: e più gli preme di Martan lo scorno che non giova l'onor ch'esso vinto abbia. Quivi, per tor l'obbrobrio ch'avea intorno, Martano adopra le mendaci labbia; e l'astuta e bugiarda meretrice, come meglio sapea, gli era adiutrice. 107 O sì o no che 'l giovin gli credesse, pur la scusa accettò, come discreto; e pel suo meglio allora allora elesse quindi levarsi tacito e secreto, per tema che, se 'l populo vedesse Martano comparir, non stesse cheto. Così per una via nascosa e corta usciro al camin lor fuor de la porta. 108 Grifone, o ch'egli o che 'l cavallo fosse stanco, o gravasse il sonno pur le ciglia, al primo albergo che trovâr, fermosse, che non erano andati oltre a dua miglia. Si trasse l'elmo, e tutto disarmosse, e trar fece a' cavalli e sella e briglia; e poi serrossi in camera soletto, e nudo per dormire entrò nel letto. 109 Non ebbe così tosto il capo basso, che chiuse gli occhi, e fu dal sonno oppresso così profundamente, che mai tasso né ghiro mai s'addormentò quanto esso. Martano in tanto et Orrigille a spasso entraro in un giardin ch'era lì appresso; et un inganno ordîr, che fu il più strano che mai cadesse in sentimento umano. 110 Martano disegnò tôrre il destriero, i panni e l'arme che Grifon s'ha tratte; e andare inanzi al re pel cavalliero che tante pruove avea giostrando fatte. L'effetto ne seguì, fatto il pensiero: tolle il destrier più candido che latte, scudo e cimiero et arme e sopraveste, e tutte di Grifon l'insegne veste. 111 Con gli scudieri e con la donna, dove era il popolo ancora, in piazza venne; e giunse a tempo che finian le pruove di girar spade e d'arrestare antenne. Commanda il re che 'l cavallier si truove, che per cimier avea le bianche penne, bianche le vesti e bianco il corridore; che 'l nome non sapea del vincitore. 112 Colui ch'indosso il non suo cuoio aveva, come l'asino già quel del leone, chiamato, se n'andò, come attendeva, a Norandino, in loco di Grifone. Quel re cortese incontro se gli leva, l'abbraccia e bacia, e allato se lo pone: né gli basta onorarlo e dargli loda, che vuol che 'l suo valor per tutto s'oda. 113 E fa gridarlo al suon degli oricalchi vincitor de la giostra di quel giorno. L'alta voce ne va per tutti i palchi, che 'l nome indegno udir fa d'ogn'intorno. Seco il re vuol ch'a par a par cavalchi, quando al palazzo suo poi fa ritorno; e di sua grazia tanto gli comparte, che basteria, se fosse Ercole o Marte. 114 Bello et ornato alloggiamento dielli in corte, et onorar fece con lui Orrigille anco; e nobili donzelli mandò con essa, e cavallieri sui. Ma tempo è ch'anco di Grifon favelli, il qual né dal compagno né d'altrui temendo inganno, addormentato s'era, né mai si risvegliò fin alla sera. 115 Poi che fu desto, e che de l'ora tarda s'accorse, uscì di camera con fretta, dove il falso cognato e la bugiarda Orrigille lasciò con l'altra setta; e quando non gli truova, e che riguarda non v'esser l'arme né i panni, sospetta; ma il veder poi più sospettoso il fece l'insegne del compagno in quella vece. 116 Sopravien l'oste, e di colui l'informa che già gran pezzo, di bianch'arme adorno, con la donna e col resto de la torma avea ne la città fatto ritorno. Truova Grifone a poco a poco l'orma ch'ascosa gli avea Amor fin a quel giorno; e con suo gran dolor vede esser quello adulter d'Orrigille, e non fratello. 117 Di sua sciochezza indarno ora si duole, ch'avendo il ver dal peregrino udito, lasciato mutar s'abbia alle parole di chi l'avea più volte già tradito. Vendicar si potea, né seppe: or vuole l'inimico punir, che gli è fuggito; et è constretto con troppo gran fallo a tor di quel vil uom l'arme e 'l cavallo. 118 Eragli meglio andar senz'arme e nudo, che porsi indosso la corazza indegna, o ch'imbracciar l'abominato scudo, o por su l'elmo la beffata insegna; ma per seguir la meretrice e 'l drudo, ragione in lui pari al disio non regna. A tempo venne alla città, ch'ancora il giorno avea quasi di vivo un'ora. 119 Presso alla porta ove Grifon venìa, siede a sinistra un splendido castello, che, più che forte e ch'a guerre atto sia, di ricche stanze è accommodato e bello. I re, i signori, i primi di Soria con alte donne in un gentil drappello celebravano quivi in loggia amena la real sontuosa e lieta cena. 120 La bella loggia sopra 'l muro usciva con l'alta ròcca fuor de la cittade; e lungo tratto di lontan scopriva i larghi campi e le diverse strade. Or che Grifon verso la porta arriva con quell'arme d'obbrobrio e di viltade, fu con non troppa aventurosa sorte dal re veduto e da tutta la corte: 121 e riputato quel di ch'avea insegna, mosse le donne e i cavallieri a riso. Il vil Martano, come quel che regna in gran favor, dopo 'l re è 'l primo assiso, e presso allui la donna di sé degna; dai quali Norandin con lieto viso vòlse saper chi fosse quel codardo che così avea al suo onor poco riguardo; 122 che dopo una sì trista e brutta pruova, con tanta fronte or gli tornava inante. Dicea: - Questa mi par cosa assai nuova, ch'essendo voi guerrier degno e prestante, costui compagno abbiate, che non truova, di viltà, pari in terra di Levante. Il fate forse per mostrar maggiore, per tal contrario, il vostro alto valore. 123 Ma ben vi giuro per gli eterni dèi, che se non fosse ch'io riguardo a vui, la publica ignominia gli farei, ch'io soglio fare agli altri pari a lui. Perpetua ricordanza gli darei, come ognor di viltà nimico fui. Ma sappia, s'impunito se ne parte, grado a voi che 'l menaste in questa parte. - 124 Colui che fu de tutti i vizii il vaso, rispose: - Alto signor, dir non sapria chi sia costui; ch'io l'ho trovato a caso, venendo d'Antïochia, in su la via. Il suo sembiante m'avea persuaso che fosse degno di mia compagnia; ch'intesa non n'avea pruova né vista, se non quella che fece oggi assai trista. 125 La qual mi spiacque sì, che restò poco, che per punir l'estrema sua viltade, non gli facessi allora allora un gioco, che non toccasse più lance né spade: ma ebbi, più ch'allui, rispetto al loco, e riverenzia a vostra maestade. Né per me voglio che gli sia guadagno l'essermi stato un giorno o dua compagno: 126 di che contaminato anco esser parme; e sopra il cor mi sarà eterno peso, se, con vergogna del mestier de l'arme, io lo vedrò da noi partire illeso: e meglio che lasciarlo, satisfarme potrete, se sarà d'un merlo impeso; e fia lodevol opra e signorile, perch'el sia esempio e specchio ad ogni vile. - 127 Al detto suo Martano Orrigille have, senza accennar, confermatrice presta. - Non son (rispose il re) l'opre sì prave, ch'al mio parer v'abbia d'andar la testa. Voglio per pena del peccato grave, che sol rinuovi al populo la festa. - E tosto a un suo baron, che fe' venire, impose quanto avesse ad esequire. 128 Quel baron molti armati seco tolse, et alla porta della terra scese; e quivi con silenzio li raccolse, e la venuta di Grifone attese: e ne l'entrar sì d'improviso il colse, che fra i duo ponti a salvamento il prese; e lo ritenne con beffe e con scorno in una oscura stanza insin al giorno. 129 Il Sole a pena avea il dorato crine tolto di grembio alla nutrice antica, e cominciava da le piagge alpine a cacciar l'ombre e far la cima aprica; quando temendo il vil Martan ch'al fine Grifone ardito la sua causa dica, e ritorni la colpa ond'era uscita, tolse licenzia, e fece indi partita, 130 trovando idonia scusa al priego regio, che non stia allo spettacolo ordinato. Altri doni gli avea fatto, col pregio de la non sua vittoria, il signor grato; e sopra tutto un amplo privilegio, dov'era d'altri onori al sommo ornato. Lasciànlo andar; ch'io vi prometto certo, che la mercede avrà secondo il merto. 131 Fu Grifon tratto a gran vergogna in piazza, quando più si trovò piena di gente. Gli avean levato l'elmo e la corazza, e lasciato in farsetto assai vilmente; e come il conducessero alla mazza, posto l'avean sopra un carro eminente, che lento lento tiravan due vacche da lunga fame attenuate e fiacche. 132 Venian d'intorno alla ignobil quadriga vecchie sfacciate e disoneste putte, di che n'era una et or un'altra auriga, e con gran biasmo lo mordeano tutte. Lo poneano i fanciulli in maggior briga, che, oltre le parole infami e brutte, l'avrian coi sassi insino a morte offeso, se dai più saggi non era difeso. 133 L'arme che del suo male erano state cagion, che di lui fêr non vero indicio, da la coda del carro strascinate patian nel fango debito supplicio. Le ruote inanzi a un tribunal fermate gli fêro udir de l'altrui maleficio la sua ignominia, che 'n sugli occhi detta gli fu, gridando un publico trombetta. 134 Lo levâr quindi, e lo mostrâr per tutto dinanzi a templi, ad officine e a case, dove alcun nome scelerato e brutto, che non gli fosse detto non rimase. Fuor de la terra all'ultimo condutto fu da la turba, che si persuase bandirlo e cacciare indi a suon di busse, non conoscendo ben ch'egli si fusse. 135 Sì tosto a pena gli sferraro i piedi e liberârgli l'una e l'altra mano, che tor lo scudo et impugnar gli vedi la spada, che rigò gran pezzo il piano. Non ebbe contra sé lance né spiedi; che senz'arme venìa il populo insano. Ne l'altro canto diferisco il resto; che tempo è omai, Signor, di finir questo.
1 Magnanimo Signore, ogni vostro atto ho sempre con ragion laudato e laudo; ben che col rozzo stil duro e mal atto gran parte de la gloria vi defraudo. Ma più de l'altre, una virtù m'ha tratto, a cui col core e con la lingua applaudo; che s'ognun truova in voi ben grata udienza, non vi truova però facil credenza. 2 Spesso in difesa del biasmato absente indur vi sento una et un'altra scusa, o riserbargli almen, fin che presente sua causa dica, l'altra orecchia chiusa; e sempre, prima che dannar la gente, vederla in faccia, e udir la ragion ch'usa; differir anco e giorni e mesi et anni, prima che giudicar negli altrui danni. 3 Se Norandino il simil fatto avesse, fatto a Grifon non avria quel che fece. A voi utile e onor sempre successe: denigrò sua fama egli più che pece. Per lui sue genti a morte furon messe; che fe' Grifone in dieci tagli, e in diece punte che trasse pien d'ira e bizzarro, che trenta ne cascaro appresso al carro. 4 Van gli altri in rotta ove il timor li caccia, chi qua chi là, pei campi e per le strade; e chi d'entrar ne la città procaccia, e l'un su l'altro ne la porta cade. Grifon non fa parole e non minaccia; ma lasciando lontana ogni pietade, mena tra il vulgo inerte il ferro intorno, e gran vendetta fa d'ogni suo scorno. 5 Di quei che primi giunsero alla porta, che le piante a levarsi ebbeno pronte, parte, al bisogno suo molto più accorta che degli amici, alzò subito il ponte; piangendo parte, o con la faccia smorta fuggendo andò senza mai volger fronte, e ne la terra per tutte le bande levò grido e tumulto e rumor grande. 6 Grifon gagliardo duo ne piglia in quella che 'l ponte si levò per lor sciagura. Sparge de l'uno al campo le cervella; che lo percuote ad una cote dura: prende l'altro nel petto, e l'arrandella in mezzo alla città sopra le mura. Scórse per l'ossa ai terrazzani il gelo, quando vider colui venir dal cielo. 7 Fur molti che temêr che 'l fier Grifone sopra le mura avesse preso un salto. Non vi sarebbe più confusïone, s'a Damasco il soldan desse l'assalto. Un muover d'arme, un correr di persone, e di talacimanni un gridar d'alto, e di tamburi un suon misto e di trombe il mondo assorda, e 'l ciel par ne ribombe. 8 Ma voglio a un'altra volta differire a ricontar ciò che di questo avenne. Del buon re Carlo mi convien seguire, che contra Rodomonte in fretta venne, il qual le genti gli facea morire. Io vi dissi ch'al re compagnia tenne il gran Danese e Namo et Oliviero e Avino e Avolio e Otone e Berlingiero. 9 Otto scontri di lance, che da forza di tali otto guerrier cacciati fôro, sostenne a un tempo la scagliosa scorza di ch'avea armato il petto il crudo Moro. Come legno si drizza, poi che l'orza lenta il nochier che crescer sente il Coro, così presto rizzossi Rodomonte dai colpi che gittar doveano un monte. 10 Guido, Ranier, Ricardo, Salamone, Ganelon traditor, Turpin fedele, Angioliero, Angiolino, Ughetto, Ivone, Marco e Matteo dal pian di san Michele, e gli otto di che dianzi fei menzione, son tutti intorno al Saracin crudele, Arimanno e Odoardo d'Inghilterra, ch'entrati eran pur dianzi ne la terra. 11 Non così freme in su lo scoglio alpino di ben fondata ròcca alta parete, quando il furor di borea o di garbino svelle dai monti il frassino e l'abete; come freme d'orgoglio il Saracino, di sdegno acceso e di sanguigna sete: e com'a un tempo è il tuono e la saetta, così l'ira de l'empio e la vendetta. 12 Mena alla testa a quel che gli è più presso, che gli è il misero Ughetto di Dordona: lo pone in terra insino ai denti fesso, come che l'elmo era di tempra buona. Percosso fu tutto in un tempo anch'esso da molti colpi in tutta la persona; ma non gli fan più ch'all'incude l'ago: sì duro intorno ha lo scaglioso drago. 13 Furo tutti i ripar, fu la cittade d'intorno intorno abandonata tutta; che la gente alla piazza, dove accade maggior bisogno, Carlo avea ridutta. Corre alla piazza da tutte le strade la turba, a chi il fuggir sì poco frutta. La persona del re sì i cori accende, ch'ognun prend'arme, ognuno animo prende. 14 Come se dentro a ben rinchiusa gabbia d'antiqua leonessa usata in guerra, perch'averne piacere il popul abbia, talvolta il tauro indomito si serra; i leoncin che veggion per la sabbia come altiero e mugliando animoso erra, e veder sì gran corna non son usi, stanno da parte timidi e confusi: 15 ma se la fiera madre a quel si lancia, e ne l'orecchio attacca il crudel dente, vogliono anch'essi insanguinar la guancia, e vengono in soccorso arditamente; chi morde al tauro il dosso e chi la pancia: così contra il pagan fa quella gente. Da tetti e da finestre e più d'appresso sopra gli piove un nembo d'arme e spesso. 16 Dei cavallieri e de la fanteria tanta è la calca, ch'a pena vi cape. La turba che vi vien per ogni via, v'abbonda ad or ad or spessa come ape; che quando, disarmata e nuda, sia più facile a tagliar che torsi o rape, non la potria, legata a monte a monte, in venti giorni spenger Rodomonte. 17 Al pagan, che non sa come ne possa venir a capo, omai quel gioco incresce. Poco, per far di mille, o di più, rossa la terra intorno, il populo discresce. Il fiato tuttavia più se gl'ingrossa, sì che comprende al fin che, se non esce or c'ha vigore e in tutto il corpo è sano, vorrà da tempo uscir, che sarà invano. 18 Rivolge gli occhi orribili, e pon mente che d'ogn'intorno sta chiusa l'uscita; ma con ruina d'infinita gente l'aprirà tosto, e la farà espedita. Ecco, vibrando la spada tagliente, che vien quel empio, ove il furor lo 'nvita, ad assalire il nuovo stuol britanno che vi trasse Odoardo et Arimanno. 19 Chi ha visto in piazza rompere steccato, a cui la folta turba ondeggi intorno, immansueto tauro accaneggiato, stimulato e percosso tutto 'l giorno; che 'l popul se ne fugge ispaventato, et egli or questo or quel leva sul corno: pensi che tale o più terribil fosse il crudele African quando si mosse. 20 Quindici o venti ne tagliò a traverso, altritanti lasciò del capo tronchi, ciascun d'un colpo sol dritto o riverso; che viti o salci par che poti e tronchi. Tutto di sangue il fier pagano asperso, lasciando capi fessi e bracci monchi, e spalle e gambe et altre membra sparte, ovunque il passo volga, al fin si parte. 21 De la piazza si vede in guisa tôrre, che non si può notar ch'abbia paura; ma tuttavolta col pensier discorre, dove sia per uscir via più sicura. Capita al fin dove la Senna corre sotto all'isola, e va fuor de le mura. La gente d'arme e il popul fatto audace lo stringe e incalza, e gir nol lascia in pace. 22 Qual per le selve nomade o massile cacciata va la generosa belva, ch'ancor fuggendo mostra il cor gentile, e minacciosa e lenta si rinselva; tal Rodomonte, in nessun atto vile, da strana circondato e fiera selva d'aste e di spade e di volanti dardi, si tira al fiume a passi lunghi e tardi. 23 E sì tre volte e più l'ira il sospinse, ch'essendone già fuor, vi tornò in mezzo, ove di sangue la spada ritinse, e più di cento ne levò di mezzo. Ma la ragione al fin la rabbia vinse di non far sì, ch'a Dio n'andasse il lezzo; e da la ripa, per miglior consiglio, si gittò all'acqua, e uscì di gran periglio. 24 Con tutte l'arme andò per mezzo l'acque, come s'intorno avesse tante galle. Africa, in te pare a costui non nacque, ben che d'Anteo ti vanti e d'Anniballe. Poi che fu giunto a proda, gli dispiacque, che si vide restar dopo le spalle quella città ch'avea trascorsa tutta, e non l'avea tutta arsa né distrutta. 25 E sì lo rode la superbia e l'ira, che, per tornarvi un'altra volta, guarda, e di profondo cor geme e sospira, né vuolne uscir, che non la spiani et arda. Ma lungo il fiume, in questa furia, mira venir chi l'odio estingue e l'ira tarda. Chi fosse io vi farò ben tosto udire; ma prima un'altra cosa v'ho da dire. 26 Io v'ho da dir de la Discordia altiera, a cui l'angel Michele avea commesso ch'a battaglia accendesse e a lite fiera quei che più forti avea Agramante appresso. Uscì de' frati la medesma sera, avendo altrui l'ufficio suo commesso: lasciò la Fraude a guerreggiare il loco, fin che tornasse, e a mantenervi il fuoco. 27 E le parve ch'andria con più possanza, se la Superbia ancor seco menasse; e perché stavan tutte in una stanza, non fu bisogno ch'a cercar l'andasse. La Superbia v'andò, ma non che sanza la sua vicaria il monaster lasciasse: per pochi dì che credea starne absente, lasciò l'Ipocrisia locotenente. 28 L'implacabil Discordia in compagnia de la Superbia si messe in camino, e ritrovò che la medesma via facea, per gire al campo saracino, l'afflitta e sconsolata Gelosia; e venìa seco un nano piccolino, il qual mandava Doralice bella al re di Sarza a dar di sé novella. 29 Quando ella venne a Mandricardo in mano (ch'io v'ho già raccontato e come e dove), tacitamente avea commesso al nano, che ne portasse a questo re le nuove. Ella sperò che nol saprebbe invano, ma che far si vedria mirabil pruove, per rïaverla con crudel vendetta da quel ladron che gli l'avea intercetta. 30 La Gelosia quel nano avea trovato; e la cagion del suo venir compresa, a caminar se gli era messa allato, parendo d'aver luogo a questa impresa. Alla Discordia ritrovar fu grato la Gelosia; ma più quando ebbe intesa la cagion del venir, che le potea molto valere in quel che far volea. 31 D'inimicar con Rodomonte il figlio del re Agrican le pare aver suggetto: troverà a sdegnar gli altri altro consiglio; a sdegnar questi duo questo è perfetto. Col nano se ne vien dove l'artiglio del fier pagano avea Parigi astretto; e capitaro a punto in su la riva, quando il crudel del fiume a nuoto usciva. 32 Tosto che riconobbe Rodomonte costui de la sua donna esser messaggio, estinse ogn'ira, e serenò la fronte, e si sentì brillar dentro il coraggio. Ogn'altra cosa aspetta che gli conte, prima ch'alcuno abbia a lei fatto oltraggio. Va contra il nano, e lieto gli domanda: - Ch'è de la donna nostra? ove ti manda? - 33 Rispose il nano: - Né più tua né mia donna dirò quella ch'è serva altrui. Ieri scontrammo un cavallier per via, che ne la tolse, e la menò con lui. - A quello annunzio entrò la Gelosia, fredda come aspe, et abbracciò costui. Séguita il nano, e narragli in che guisa un sol l'ha presa, e la sua gente uccisa. 34 L'acciaio allora la Discordia prese, e la pietra focaia, e picchiò un poco, e l'esca sotto la Superbia stese, e fu attaccato in un momento il fuoco; e sì di questo l'anima s'accese del Saracin, che non trovava loco: sospira e freme con sì orribil faccia, che gli elementi e tutto il ciel minaccia. 35 Come la tigre, poi ch'invan discende nel vòto albergo, e per tutto s'aggira, e i cari figli all'ultimo comprende essergli tolti, avampa di tant'ira, a tanta rabbia, a tal furor s'estende, che né a monte né a rio né a notte mira; né lunga via, né grandine raffrena l'odio che dietro al predator la mena: 36 così furendo il Saracin bizzarro si volge al nano, e dice: - Or là t'invia; - e non aspetta né destrier né carro, e non fa motto alla sua compagnia. Va con più fretta che non va il ramarro, quando il ciel arde, a traversar la via. Destrier non ha, ma il primo tor disegna, sia di chi vuol, ch'ad incontrar lo vegna. 37 La Discordia ch'udì questo pensiero, guardò, ridendo, la Superbia, e disse che volea gire a trovare un destriero che gli apportasse altre contese e risse; e far volea sgombrar tutto il sentiero, ch'altro che quello in man non gli venisse: e già pensato avea dove trovarlo. Ma costei lascio, e torno a dir di Carlo. 38 Poi ch'al partir del Saracin si estinse Carlo d'intorno il periglioso fuoco, tutte le genti all'ordine ristrinse. Lascionne parte in qualche debol loco: adosso il resto ai Saracini spinse, per dar lor scacco, e guadagnarsi il giuoco; e gli mandò per ogni porta fuore, da San Germano infin a San Vittore. 39 E commandò ch'a porta San Marcello, dov'era gran spianata di campagna, aspettasse l'un l'altro, e in un drappello si ragunasse tutta la compagna. Quindi animando ognuno a far macello tal, che sempre ricordo ne rimagna, ai lor ordini andar fe' le bandiere, e di battaglia dar segno alle schiere. 40 Il re Agramante in questo mezzo in sella, mal grado dei cristian, rimesso s'era; e con l'inamorato d'Isabella facea battaglia perigliosa e fiera: col re Sobrin Lurcanio si martella: Rinaldo incontra avea tutta una schiera; e con virtude e con fortuna molta l'urta, l'apre, ruina e mette in volta. 41 Essendo la battaglia in questo stato, l'imperatore assalse il retroguardo dal canto ove Marsilio avea fermato il fior di Spagna intorno al suo stendardo. Con fanti in mezzo e cavallieri allato, re Carlo spinse il suo popul gagliardo con tal rumor di timpani e di trombe, che tutto 'l mondo par che ne rimbombe. 42 Cominciavan le schiere a ritirarse de' Saracini, e si sarebbon volte tutte a fuggir, spezzate, rotte e sparse, per mai più non potere esser raccolte; ma 'l re Grandonio e Falsiron comparse, che stati in maggior briga eran più volte, e Balugante e Serpentin feroce, e Ferraù che lor dicea a gran voce: 43 - Ah (dicea) valentuomini, ah compagni, ah fratelli, tenete il luogo vostro. I nimici faranno opra di ragni, se non manchiamo noi del dover nostro. Guardate l'alto onor, gli ampli guadagni che Fortuna, vincendo, oggi ci ha mostro: guardate la vergogna e il danno estremo, ch'essendo vinti, a patir sempre avremo. - 44 Tolto in quel tempo una gran lancia avea, e contra Berlingier venne di botto, che sopra Largaliffa combattea, e l'elmo ne la fronte gli avea rotto: gittollo in terra, e con la spada rea appresso a lui ne fe' cader forse otto. Per ogni botta almanco, che disserra, cader fa sempre un cavalliero in terra. 45 In altra parte ucciso avea Rinaldo tanti pagan, ch'io non potrei contarli. Dinanzi a lui non stava ordine saldo: vedreste piazza in tutto 'l campo darli. Non men Zerbin, non men Lurcanio è caldo: per modo fan, ch'ognun sempre ne parli: questo di punta avea Balastro ucciso, e quello a Finadur l'elmo diviso. 46 L'esercito d'Alzerbe avea il primiero, che poco inanzi aver solea Tardocco; l'altro tenea sopra le squadre impero di Zamor e di Saffi e di Marocco. - Non è tra gli Africani un cavalliero che di lancia ferir sappia o di stocco? - mi si potrebbe dir; ma passo passo nessun di gloria degno a dietro lasso. 47 Del re de la Zumara non si scorda il nobil Dardinel figlio d'Almonte, che con la lancia Uberto da Mirforda, Claudio dal Bosco, Elio e Dulfin dal Monte, e con la spada Anselmo da Stanforda, e da Londra Raimondo e Pinamonte getta per terra (et erano pur forti), dui storditi, un piagato, e quattro morti. 48 Ma con tutto 'l valor che di sé mostra, non può tener sì ferma la sua gente, sì ferma, ch'aspettar voglia la nostra di numero minor, ma più valente. Ha più ragion di spada e più di giostra e d'ogni cosa a guerra appertinente. Fugge la gente maura, di Zumara, di Setta, di Marocco e di Canara. 49 Ma più degli altri fuggon quei d'Alzerbe, a cui s'oppose il nobil giovinetto; et or con prieghi, or con parole acerbe ripor lor cerca l'animo nel petto. - S'Almonte meritò ch'in voi si serbe di lui memoria, or ne vedrò l'effetto: io vedrò (dicea lor) se me, suo figlio, lasciar vorrete in così gran periglio. 50 State, vi priego per mia verde etade, in cui solete aver sì larga speme: deh non vogliate andar per fil di spade, ch'in Africa non torni di noi seme. Per tutto ne saran chiuse le strade, se non andiam raccolti e stretti insieme: troppo alto muro e troppo larga fossa è il monte e il mar, pria che tornar si possa. 51 Molto è meglio morir qui, ch'ai supplìci darsi e alla discrezion di questi cani. State saldi, per Dio, fedeli amici; che tutti son gli altri rimedii vani. Non han di noi più vita gli nimici; più d'un'alma non han, più di due mani. - Così dicendo, il giovinetto forte al conte d'Otonlei diede la morte. 52 Il rimembrare Almonte così accese l'esercito african che fuggia prima, che le braccia e le mani in sue difese meglio, che rivoltar le spalle, estima. Guglielmo da Burnich era uno Inglese maggior di tutti, e Dardinello il cima, e lo pareggia agli altri; e apresso taglia il capo ad Aramon di Cornovaglia. 53 Morto cadea questo Aramone a valle; e v'accorse il fratel per dargli aiuto: ma Dardinel l'aperse per le spalle fin giú dove lo stomaco è forcuto. Poi forò il ventre a Bogio da Vergalle, e lo mandò del debito assoluto: avea promesso alla moglier fra sei mesi, vivendo, di tornare a lei. 54 Vide non lungi Dardinel gagliardo venir Lurcanio, ch'avea in terra messo Dorchin, passato ne la gola, e Gardo per mezzo il capo e insin ai denti fesso; e ch'Alteo fuggir vòlse, ma fu tardo, Alteo ch'amò quanto il suo core istesso; che dietro alla collottola gli mise il fier Lurcanio un colpo che l'uccise. 55 Piglia una lancia, e va per far vendetta, dicendo al suo Macon (s'udir lo puote), che se morto Lurcanio in terra getta, ne la moschea ne porrà l'arme vòte. Poi traversando la campagna in fretta, con tanta forza il fianco gli percuote, che tutto il passa sin all'altra banda; et ai suoi, che lo spoglino, commanda. 56 Non è da domandarmi, se dolere se ne dovesse Arïodante il frate; se desïasse di sua man potere por Dardinel fra l'anime dannate: ma nol lascian le genti adito avere, non men de le 'nfedel le battezzate. Vorria pur vendicarsi, e con la spada di qua di là spianando va la strada. 57 Urta, apre, caccia, atterra, taglia e fende qualunque lo 'mpedisce o gli contrasta. E Dardinel che quel disire intende, a volerlo saziar già non sovrasta: ma la gran moltitudine contende con questa ancora, e i suoi disegni guasta. Se' Mori uccide l'un, l'altro non manco gli Scotti uccide e il campo inglese e 'l franco. 58 Fortuna sempremai la via lor tolse, che per tutto quel dì non s'accozzaro. A più famosa man serbar l'un vòlse; che l'uomo il suo destin fugge di raro. Ecco Rinaldo a questa strada volse, perch'alla vita d'un non sia riparo: ecco Rinaldo vien: Fortuna il guida per dargli onor che Dardinello uccida. 59 Ma sia per questa volta detto assai dei glorïosi fatti di Ponente. Tempo è ch'io torni ove Grifon lasciai, che tutto d'ira e di disdegno ardente facea, con più timor ch'avesse mai, tumultuar la sbigottita gente. Re Norandino a quel rumor corso era con più di mille armati in una schiera. 60 Re Norandin con la sua corte armata, vedendo tutto 'l populo fuggire, venne alla porta in battaglia ordinata, e quella fece alla sua giunta aprire. Grifone intanto avendo già cacciata da sé la turba sciocca e senza ardire, la sprezzata armatura in sua difesa (qual la si fosse) avea di nuovo presa; 61 e presso a un tempio ben murato e forte, che circondato era d'un'alta fossa, in capo un ponticel si fece forte, perché chiuderlo in mezzo alcun non possa. Ecco, gridando e minacciando forte, fuor de la porta esce una squadra grossa. L'animoso Grifon non muta loco, e fa sembiante che ne tema poco. 62 E poi ch'avicinar questo drappello si vide, andò a trovarlo in su la strada; e molta strage fattane e macello (che menava a due man sempre la spada), ricorso avea allo stretto ponticello, e quindi li tenea non troppo a bada: di nuovo usciva e di nuovo tornava; e sempre orribil segno vi lasciava. 63 Quando di dritto e quando di riverso getta or pedoni or cavallieri in terra. Il popul contra lui tutto converso più e più sempre inaspera la guerra. Teme Grifone al fin restar sommerso: sì cresce il mar che d'ogn'intorno il serra; e ne la spalla e ne la coscia manca è già ferito, e pur la lena manca. 64 Ma la virtù, ch'ai suoi spesso soccorre, gli fa appo Norandin trovar perdono. Il re, mentre al tumulto in dubbio corre, vede che morti già tanti ne sono; vede le piaghe che di man d'Ettorre pareano uscite: un testimonio buono, che dianzi esso avea fatto indegnamente vergogna a un cavallier molto eccellente. 65 Poi, come gli è più presso, e vede in fronte quel che la gente a morte gli ha condutta, e fattosene avanti orribil monte, e di quel sangue il fosso e l'acqua brutta; gli è aviso di veder proprio sul ponte Orazio sol contra Toscana tutta: e per suo onore, e perché gli ne 'ncrebbe, ritrasse i suoi, né gran fatica v'ebbe. 66 Et alzando la man nuda e senz'arme, antico segno di tregua o di pace, disse a Grifon: - Non so, se non chiamarme d'avere il torto, e dir che mi dispiace: ma il mio poco giudicio, e lo instigarme altrui, cadere in tanto error mi face. Quel che di fare io mi credea al più vile guerrier del mondo, ho fatto al più gentile. 67 E se bene alla ingiuria et a quell'onta ch'oggi fatta ti fu per ignoranza, l'onor che ti fai qui s'adegua e sconta, o (per più vero dir) supera e avanza; la satisfazïon ci serà pronta a tutto mio sapere e mia possanza, quando io conosca di poter far quella per oro o per cittadi o per castella. 68 Chiedimi la metà di questo regno, ch'io son per fartene oggi possessore; che l'alta tua virtù non ti fa degno di questo sol, ma ch'io ti doni il core: e la tua mano in questo mezzo, pegno di fé mi dona e di perpetuo amore. - Così dicendo, da cavallo scese, e vêr Grifon la destra mano stese. 69 Grifon, vedendo il re fatto benigno venirgli per gittar le braccia al collo, lasciò la spada e l'animo maligno, e sotto l'anche et umile abbracciollo. Lo vide il re di due piaghe sanguigno, e tosto fe' venir chi medicollo; indi portar ne la cittade adagio, e riposar nel suo real palagio. 70 Dove, ferito, alquanti giorni, inante che si potesse armar, fece soggiorno. Ma lascio lui, ch'al suo frate Aquilante et ad Astolfo in Palestina torno, che di Grifon, poi che lasciò le sante mura, cercare han fatto più d'un giorno in tutti i lochi in Solima devoti, e in molti ancor da la città remoti. 71 Or né l'uno né l'altro è sì indovino, che di Grifon possa saper che sia: ma venne lor quel Greco peregrino, nel ragionare, a caso a darne spia, dicendo ch'Orrigille avea il camino verso Antïochia preso di Soria, d'un nuovo drudo, ch'era di quel loco, di subito arsa e d'improviso fuoco. 72 Dimandògli Aquilante, se di questo così notizia avea data a Grifone; e come l'affermò, s'avisò il resto, perché fosse partito, e la cagione. Ch'Orrigille ha seguito è manifesto in Antïochia con intenzïone di levarla di man del suo rivale con gran vendetta e memorabil male. 73 Non tolerò Aquilante che 'l fratello solo e senz'esso a quell'impresa andasse; e prese l'arme, e venne dietro a quello: ma prima pregò il duca che tardasse l'andata in Francia et al paterno ostello, fin ch'esso d'Antïochia ritornasse. Scende al Zaffo e s'imbarca; che gli pare e più breve e miglior la via del mare. 74 Ebbe un ostrosilocco allor possente tanto nel mare, e sì per lui disposto, che la terra del Surro il dì seguente vide e Saffetto, un dopo l'altro tosto. Passa Barutti e il Zibeletto, e sente che da man manca gli è Cipro discosto. A Tortosa da Tripoli, e alla Lizza e al golfo di Laiazzo il camin drizza. 75 Quindi a levante fe' il nocchier la fronte del navilio voltar snello e veloce; et a sorger n'andò sopra l'Oronte, e colse il tempo, e ne pigliò la foce. Gittar fece Aquilante in terra il ponte, e n'uscì armato sul destrier feroce; e contra il fiume il camin dritto tenne, tanto ch'in Antïochia se ne venne. 76 Di quel Martano ivi ebbe ad informarse; et udì ch'a Damasco se n'era ito con Orrigille, ove una giostra farse dovea solenne per reale invito. Tanto d'andargli dietro il desir l'arse, certo che 'l suo german l'abbia seguito, che d'Antïochia anco quel dì si tolle; ma già per mar più ritornar non volle. 77 Verso Lidia e Larissa il camin piega: resta più sopra Aleppe ricca e piena. Dio, per mostrar ch'ancor di qua non niega mercede al bene, et al contrario pena, Martano appresso a Mamuga una lega ad incontrarsi in Aquilante mena. Martano si facea con bella mostra portare inanzi il pregio de la giostra. 78 Pensò Aquilante al primo comparire, che 'l vil Martano il suo fratello fosse; che l'ingannaron l'arme, e quel vestire candido più che nievi ancor non mosse: e con quell'oh! che d'allegrezza dire si suole, incominciò; ma poi cangiosse tosto di faccia e di parlar, ch'appresso s'avide meglio, che non era desso. 79 Dubitò che per fraude di colei ch'era con lui, Grifon gli avesse ucciso; e: - Dimmi (gli gridò) tu ch'esser déi un ladro e un traditor, come n'hai viso, onde hai quest'arme avute? onde ti sei sul buon destrier del mio fratello assiso? Dimmi se 'l mio fratello è morto o vivo; come de l'arme e del destrier l'hai privo. - 80 Quando Orrigille udì l'irata voce, a dietro il palafren per fuggir volse; ma di lei fu Aquilante più veloce, e fecela fermar, vòlse o non vòlse. Martano al minacciar tanto feroce del cavallier, che sì improviso il colse, pallido triema, come al vento fronda, né sa quel che si faccia o che risponda. 81 Grida Aquilante, e fulminar non resta, e la spada gli pon dritto alla strozza; e giurando minaccia che la testa ad Orrigille e a lui rimarrà mozza, se tutto il fatto non gli manifesta. Il mal giunto Martano alquanto ingozza, e tra sé volve se può sminuire sua grave colpa, e poi comincia a dire: 82 - Sappi, signor, che mia sorella è questa, nata di buona e virtuosa gente, ben che tenuta in vita disonesta l'abbia Grifone obbrobrïosamente: e tale infamia essendomi molesta, né per forza sentendomi possente di torla a sì grande uom, feci disegno d'averla per astuzia e per ingegno. 83 Tenni modo con lei, ch'avea desire di ritornare a più lodata vita, ch'essendosi Grifon messo a dormire, chetamente da lui fêsse partita. Così fece ella; e perché egli a seguire non n'abbia, et a turbar la tela ordita, noi lo lasciammo disarmato e a piedi; e qua venuti siàn, come tu vedi. - 84 Poteasi dar di somma astuzia vanto, che colui facilmente gli credea; e, fuor che 'n torgli arme e destrier e quanto tenesse di Grifon, non gli nocea; se non volea pulir sua scusa tanto, che la facesse di menzogna rea: buona era ogn'altra parte, se non quella che la femina allui fosse sorella. 85 Avea Aquilante in Antïochia inteso essergli concubina, da più genti; onde gridando, di furore acceso: - Falsissimo ladron, tu te ne menti! - un pugno gli tirò di tanto peso, che ne la gola gli cacciò duo denti: e senza più contesa, ambe le braccia gli volge dietro, e d'una fune allaccia; 86 e parimente fece ad Orrigille, ben che in sua scusa ella dicesse assai. Quindi li trasse per casali e ville, né li lasciò fin a Damasco mai; e de le miglia mille volte mille tratti gli avrebbe con pene e con guai, fin ch'avesse trovato il suo fratello, per farne poi come piacesse a quello. 87 Fece Aquilante lor scudieri e some seco tornare, et in Damasco venne, e trovò di Grifon celebre il nome per tutta la città batter le penne: piccoli e grandi, ognun sapea già come egli era, che sì ben corse l'antenne, et a cui tolto fu con falsa mostra dal compagno la gloria de la giostra. 88 Il popul tutto al vil Martano infesto, l'uno all'altro additandolo, lo scuopre. - Non è (dicean), non è il ribaldo questo, che si fa laude con l'altrui buone opre? e la virtù di chi non è ben desto, con la sua infamia e col suo obbrobrio copre? Non è l'ingrata femina costei, la qual tradisce i buoni e aiuta i rei? - 89 Altri dicean: - Come stan bene insieme segnati ambi d'un marchio e d'una razza! - Chi li bestemmia, chi lor dietro freme, chi grida: - Impicca, abrucia, squarta, amazza! - La turba per veder s'urta, si preme, e corre inanzi alle strade, alla piazza. Venne la nuova al re, che mostrò segno d'averla cara più ch'un altro regno. 90 Senza molti scudier dietro o davante, come si ritrovò, si mosse in fretta, e venne ad incontrarsi in Aquilante, ch'avea del suo Grifon fatto vendetta; e quello onora con gentil sembiante, seco lo 'nvita, e seco lo ricetta; di suo consenso avendo fatto porre i duo prigioni in fondo d'una torre. 91 Andaro insieme ove del letto mosso Grifon non s'era, poi che fu ferito, che vedendo il fratel, divenne rosso; che ben stimò ch'avea il suo caso udito. E poi che motteggiando un poco adosso gli andò Aquilante, messero a partito di dare a quelli duo iusto martoro, venuti in man degli avversari loro. 92 Vuole Aquilante, vuole il re che mille strazii ne sieno fatti; ma Grifone (perché non osa dir sol d'Orrigille) all'uno e all'altro vuol che si perdone. Disse assai cose, e molto ben ordille; fugli risposto; or per conclusïone Martano è disegnato in mano al boia, ch'abbia a scoparlo, e non però che moia. 93 Legar lo fanno, e non tra' fiori e l'erba, e per tutto scopar l'altra matina. Orrigille captiva si riserba fin che ritorni la bella Lucina, al cui saggio parere, o lieve o acerba, rimetton quei signor la disciplina. Quivi stette Aquilante a ricrearsi fin che 'l fratel fu sano e poté armarsi. 94 Re Norandin, che temperato e saggio divenuto era dopo un tanto errore, non potea non aver sempre il coraggio di penitenza pieno e di dolore, d'aver fatto a colui danno et oltraggio, che degno di mercede era e d'onore: sì che dì e notte avea il pensiero intento par farlo rimaner di sé contento. 95 E statuì nel publico conspetto de la città, di tanta ingiuria rea, con quella maggior gloria ch'a perfetto cavallier per un re dar si potea, di rendergli quel premio ch'intercetto con tanto inganno il traditor gli avea: e perciò fe' bandir per quel paese, che faria un'altra giostra indi ad un mese. 96 Di ch'apparecchio fa tanto solenne, quanto a pompa real possibil sia: onde la Fama con veloci penne portò la nuova per tutta Soria; et in Fenicia e in Palestina venne, e tanto, ch'ad Astolfo ne diè spia, il qual col viceré deliberosse che quella giostra senza lor non fosse. 97 Per guerrier valoroso e di gran nome la vera istoria Sansonetto vanta. Gli diè battesmo Orlando, e Carlo (come v'ho detto) a governar la Terra Santa. Astolfo con costui levò le some, per ritrovarsi ove la Fama canta sì, che d'intorno n'ha piena ogni orecchia, ch'in Damasco la giostra s'apparecchia. 98 Or cavalcando per quelle contrade con non lunghi vïaggi, agiati e lenti, per ritrovarsi freschi alla cittade poi di Damasco il dì de' torniamenti, scontraro in una croce di due strade persona ch'al vestire e a' movimenti avea sembianza d'uomo, e femin' era, ne le battaglie a maraviglia fiera. 99 La vergine Marfisa si nomava, di tal valor, che con la spada in mano fece più volte al gran signor di Brava sudar la fronte e a quel di Montalbano; e 'l dì e la notte armata sempre andava di qua di là cercando in monte e in piano con cavallieri erranti riscontrarsi, et immortale e gloriosa farsi. 100 Com'ella vide Astolfo e Sansonetto, ch'appresso le venian con l'arme indosso, prodi guerrier le parvero all'aspetto; ch'erano ambeduo grandi e di buono osso: e perché di provarsi avria diletto, per isfidarli avea il destrier già mosso; quando, affissando l'occhio più vicino, conosciuto ebbe il duca paladino. 101 De la piacevolezza le sovenne del cavallier, quando al Catai seco era: e lo chiamò per nome, e non si tenne la man nel guanto, e alzossi la visiera; e con gran festa ad abbracciarlo venne, come che sopra ogn'altra fosse altiera. Non men da l'altra parte riverente fu il paladino alla donna eccellente. 102 Tra lor si domandaron di lor via: e poi ch'Astolfo, che prima rispose, narrò come a Damasco se ne gìa, dove le genti in arme valorose avea invitato il re de la Soria a dimostrar lor opre virtuose; Marfisa, sempre a far gran pruove accesa, - Voglio esser con voi (disse) a questa impresa. - 103 Sommamente ebbe Astolfo grata questa compagna d'arme, e così Sansonetto. Furo a Damasco il dì inanzi la festa, e di fuora nel borgo ebbon ricetto: e sin all'ora che dal sonno desta l' Aurora il vecchiarel già suo diletto, quivi si riposâr con maggior agio, che se smontati fossero al palagio. 104 E poi che 'l nuovo sol lucido e chiaro per tutto sparsi ebbe i fulgenti raggi, la bella donna e i duo guerrier s'armaro, mandato avendo alla città messaggi; che, come tempo fu, lor rapportaro che per veder spezzar frassini e faggi re Norandino era venuto al loco ch'avea constituito al fiero gioco. 105 Senza più indugio alla città ne vanno, e per la via maestra alla gran piazza, dove aspettando il real segno stanno quinci e quindi i guerrier di buona razza. I premii che quel giorno si daranno a chi vince, è uno stocco et una mazza guerniti riccamente, e un destrier, quale sia convenevol dono a un signor tale. 106 Avendo Norandin fermo nel core che, come il primo pregio, il secondo anco, e d'ambedue le giostre il sommo onore si debba guadagnar Grifone il bianco; per dargli tutto quel ch'uom di valore dovrebbe aver, né debbe far con manco, posto con l'arme in questo ultimo pregio ha stocco e mazza e destrier molto egregio. 107 L'arme che ne la giostra fatta dianzi si doveano a Grifon che 'l tutto vinse, e che usurpate avea con tristi avanzi Martano che Grifone esser si finse, quivi si fece il re pendere inanzi, e il ben guernito stocco a quelle cinse, e la mazza all'arcion del destrier messe, perché Grifon l'un pregio e l'altro avesse. 108 Ma che sua intenzïone avesse effetto vietò quella magnanima guerriera, che con Astolfo e col buon Sansonetto in piazza nuovamente venuta era. Costei, vedendo l'arme ch'io v'ho detto, subito n'ebbe conoscenza vera: però che già sue furo, e l'ebbe care quanto si suol le cose ottime e rare; 109 ben che l'avea lasciate in su la strada a quella volta che le fur d'impaccio, quando per rïaver sua buona spada correa dietro a Brunel degno di laccio. Questa istoria non credo che m'accada altrimenti narrar; però la taccio. Da me vi basti intendere a che guisa quivi trovasse l'arme sue Marfisa. 110 Intenderete ancor, che come l'ebbe riconosciute a manifeste note, per altro che sia al mondo, non le avrebbe lasciate un dì di sua persona vòte. Se più tenere un modo o un altro debbe per racquistarle, ella pensar non puote: ma se gli accosta a un tratto, e la man stende, e senz'altro rispetto se le prende; 111 e per la fretta ch'ella n'ebbe, avenne ch'altre ne prese, altre mandonne in terra. Il re, che troppo offeso se ne tenne, con uno sguardo sol le mosse guerra; che 'l popul, che l'ingiuria non sostenne, per vendicarlo e lance e spade afferra, non rammentando ciò ch'i giorni inanti nocque il dar noia ai cavallieri erranti. 112 Né fra vermigli fiori, azzurri e gialli vago fanciullo alla stagion novella, né mai si ritrovò fra suoni e balli più volentieri ornata donna e bella; che fra strepito d'arme e di cavalli, e fra punte di lance e di quadrella, dove si sparga sangue e si dia morte, costei si truovi, oltre ogni creder forte. 113 Spinge il cavallo, e ne la turba sciocca con l'asta bassa impetuosa fere; e chi nel collo e chi nel petto imbrocca, e fa con l'urto or questo or quel cadere: poi con la spada uno et un altro tocca, e fa qual senza capo rimanere, e qual con rotto, e qual passato al fianco, e qual del braccio privo o destro o manco. 114 L'ardito Astolfo e il forte Sansonetto, ch'avean con lei vestita e piastra e maglia, ben che non venner già per tale effetto, pur, vedendo attaccata la battaglia, abbassan la visiera de l'elmetto, e poi la lancia per quella canaglia; et indi van con la tagliente spada di qua di là facendosi far strada. 115 I cavallieri di nazion diverse, ch'erano per giostrar quivi ridutti, vedendo l'arme in tal furor converse, e gli aspettati giuochi in gravi lutti (che la cagion ch'avesse di dolerse la plebe irata non sapeano tutti, né ch'al re tanta ingiuria fosse fatta), stavan con dubbia mente e stupefatta. 116 Di ch'altri a favorir la turba venne, che tardi poi non se ne fu a pentire; altri, a cui la città più non attenne che gli stranieri, accorse a dipartire; altri, più saggio, in man la briglia tenne, mirando dove questo avesse a uscire. Di quelli fu Grifone et Aquilante, che per vendicar l'arme andaro inante. 117 Essi, vedendo il re che di veneno avea le luci inebrïate e rosse, et essendo da molti instrutti a pieno de la cagion che la discordia mosse, e parendo a Grifon che sua, non meno che del re Norandin, l'ingiuria fosse; s'avean le lance fatte dar con fretta, e venian fulminando alla vendetta. 118 Astolfo d'altra parte Rabicano venìa spronando a tutti gli altri inante, con l'incantata lancia d'oro in mano, ch'al fiero scontro abbatte ogni giostrante. Ferì con essa e lasciò steso al piano prima Grifone, e poi trovò Aquilante; e de lo scudo toccò l'orlo a pena, che lo gittò riverso in su l'arena. 119 I cavallier di pregio e di gran pruova vòtan le selle inanzi a Sansonetto. L'uscita de la piazza il popul truova: il re n'arrabbia d'ira e di dispetto. Con la prima corazza e con la nuova Marfisa intanto, e l'uno e l'altro elmetto, poi che si vide a tutti dare il tergo, vincitrice venìa verso l'albergo. 120 Astolfo e Sansonetto non fur lenti a seguitarla, e seco a ritornarsi verso la porta (che tutte le genti gli davan loco), et al rastrel fermârsi. Aquilante e Grifon, troppo dolenti di vedersi a uno incontro riversarsi, tenean per gran vergogna il capo chino, né ardian venire inanzi a Norandino. 121 Presi e montati c'hanno i lor cavalli, spronano dietro agli nimici in fretta. Li segue il re con molti suoi vasalli, tutti pronti o alla morte o alla vendetta. La sciocca turba grida: - Dàlli dàlli -; e sta lontana, e le novelle aspetta. Grifone arriva ove volgean la fronte i tre compagni, et avean preso il ponte. 122 A prima giunta Astolfo raffigura, ch'avea quelle medesime divise, avea il cavallo, avea quella armatura ch'ebbe dal dì ch'Orril fatale uccise. Né miratol, né posto gli avea cura, quando in piazza a giostrar seco si mise: quivi il conobbe e salutollo; e poi gli domandò de li compagni suoi; 123 e perché tratto avean quell'arme a terra, portando al re sì poca riverenza. Di suoi compagni il duca d'Inghilterra diede a Grifon non falsa conoscenza: de l'arme ch'attaccate avean la guerra, disse che non n'avea troppa scïenza; ma perché con Marfisa era venuto, dar le volea con Sansonetto aiuto. 124 Quivi con Grifon stando il paladino, viene Aquilante, e lo conosce tosto che parlar col fratel l'ode vicino, e il voler cangia, ch'era mal disposto. Giungean molti di quei di Norandino, ma troppo non ardian venire accosto; e tanto più, vedendo i parlamenti, stavano cheti, e per udire intenti. 125 Alcun ch'intende quivi esser Marfisa, che tiene al mondo il vanto in esser forte, volta il cavallo, e Norandino avisa che s'oggi non vuol perder la sua corte, proveggia, prima che sia tutta uccisa, di man trarla a Tesifone e alla Morte; perché Marfisa veramente è stata, che l'armatura in piazza gli ha levata. 126 Come re Norandino ode quel nome così temuto per tutto Levante, che facea a molti anco arricciar le chiome, ben che spesso da lor fosse distante, è certo che ne debbia venir come dice quel suo, se non provede inante; però gli suoi, che già mutata l'ira hanno in timore, a sé richiama e tira. 127 Da l'altra parte i figli d'Oliviero con Sansonetto e col figliuol d'Otone, supplicando a Marfisa, tanto fêro, che si diè fine alla crudel tenzone. Marfisa, giunta al re, con viso altiero disse: - Io non so, signor, con che ragione vogli quest'arme dar, che tue non sono, al vincitor de le tue giostre in dono. 128 Mie sono l'arme, e 'n mezzo de la via che vien d'Armenia, un giorno le lasciai, perché seguire a piè mi convenia un rubator che m'avea offesa assai: e la mia insegna testimon ne fia, che qui si vede, se notizia n'hai. - E la mostrò ne la corazza impressa, ch'era in tre parti una corona fessa. 129 - Gli è ver (rispose il re) che mi fur date, son pochi dì, da un mercatante armeno; e se voi me l'avesse domandate, l'avreste avute, o vostre o no che sièno; ch'avenga ch'a Grifon già l'ho donate, ho tanta fede in lui, che nondimeno, acciò a voi darle avessi anche potuto, volentieri il mio don m'avria renduto. 130 Non bisogna allegar, per farmi fede che vostre sien, che tengan vostra insegna: basti il dirmelo voi; che vi si crede più ch'a qual altro testimonio vegna. Che vostre sian vostr'arme si conciede alla virtù di maggior premio degna. Or ve l'abbiate, e più non si contenda; e Grifon maggior premio da me prenda. - 131 Grifon che poco a cor avea quell'arme, ma gran disio che 'l re si satisfaccia, gli disse: - Assai potete compensarme, se mi fate saper ch'io vi compiaccia. - Tra sé disse Marfisa: - Esser qui parme l'onor mio in tutto: - e con benigna faccia volle a Grifon de l'arme esser cortese; e finalmente in don da lui le prese. 132 Ne la città con pace e con amore tornaro, ove le feste raddoppiârsi. Poi la giostra si fe', di che l'onore e 'l pregio Sansonetto fece darsi; ch'Astolfo e i duo fratelli e la migliore di lor, Marfisa, non volson provarsi, cercando, com'amici e buon compagni, che Sansonetto il pregio ne guadagni. 133 Stati che sono in gran piacere e in festa con Norandino otto giornate o diece, perché l'amor di Francia gli molesta, che lasciar senza lor tanto non lece, tolgon licenzia; e Marfisa, che questa via disïava, compagnia lor fece. Marfisa avuto avea lungo disire al paragon dei paladin venire; 134 e far esperïenza se l'effetto si pareggiava a tanta nominanza. Lascia un altro in suo loco Sansonetto, che di Ierusalem regga la stanza. Or questi cinque in un drappello eletto, che pochi pari al mondo han di possanza, licenzïati dal re Norandino, vanno a Tripoli e al mar che v'è vicino. 135 E quivi una caracca ritrovaro, che per Ponente mercantie raguna. Per loro e pei cavalli s'accordaro con un vecchio patron ch'era da Luna. Mostrava d'ogn'intorno il tempo chiaro, ch'avrian per molti dì buona fortuna. Sciolser dal lito, avendo aria serena, e di buon vento ogni lor vela piena. 136 L'isola sacra all'amorosa dea diede lor sotto un'aria il primo porto, che non ch'a offender gli uomini sia rea, ma stempra il ferro, e quivi è 'l viver corto. Cagion n'è un stagno: e certo non dovea Natura a Famagosta far quel torto d'appressarvi Costanza acre e maligna, quando al resto di Cipro è sì benigna. 137 Il grave odor che la palude esala non lascia al legno far troppo soggiorno. Quindi a un grecolevante spiegò ogni ala, volando da man destra a Cipro intorno, e surse a Pafo, e pose in terra scala; e i naviganti uscîr nel lito adorno, chi per merce levar, chi per vedere la terra d'amor piena e di piacere. 138 Dal mar sei miglia o sette, a poco a poco si va salendo inverso il colle ameno. Mirti e cedri e naranci e lauri il loco, e mille altri soavi arbori han pieno. Serpillo e persa e rose e gigli e croco spargon da l'odorifero terreno tanta suavità, ch'in mar sentire la fa ogni vento che da terra spire. 139 Da limpida fontana tutta quella piaggia rigando va un ruscel fecondo. Ben si può dir che sia di Vener bella il luogo dilettevole e giocondo; che v'è ogni donna affatto, ogni donzella piacevol più ch'altrove sia nel mondo: e fa la dea che tutte ardon d'amore, giovani e vecchie, infino all'ultime ore. 140 Quivi odono il medesimo ch'udito di Lucina e de l'Orco hanno in Soria, e come di tornare ella a marito facea nuovo apparecchio in Nicosia. Quindi il padrone (essendosi espedito, e spirando buon vento alla sua via) l'ancore sarpa, e fa girar la proda verso ponente, et ogni vela snoda. 141 Al vento di maestro alzò la nave le vele all'orza, et allargossi in alto. Un ponentelibecchio, che soave parve a principio e fin che 'l sol stette alto, e poi si fe' verso la sera grave, le leva incontra il mar con fiero assalto, con tanti tuoni e tanto ardor di lampi, che par che 'l ciel si spezzi e tutto avampi. 142 Stendon le nubi un tenebroso velo che né sole apparir lascia né stella. Di sotto il mar, di sopra mugge il cielo, il vento d'ogn'intorno, e la procella che di pioggia oscurissima e di gelo i naviganti miseri flagella: e la notte più sempre si diffonde sopra l'irate e formidabil onde. 143 I naviganti a dimostrare effetto vanno de l'arte in che lodati sono: chi discorre fischiando col fraschetto, e quanto han gli altri a far, mostra col suono; chi l'ancore apparechia da rispetto, e chi al mainare e chi alla scotta è buono; chi 'l timone, chi l'arbore assicura, chi la coperta di sgombrare ha cura. 144 Crebbe il tempo crudel tutta la notte, caliginosa e più scura ch'inferno. Tien per l'alto il padrone, ove men rotte crede l'onde trovar, dritto il governo; e volta ad or ad or contra le botte del mar la proda, e de l'orribil verno, non senza speme mai che, come aggiorni, cessi fortuna, o più placabil torni. 145 Non cessa e non si placa, e più furore mostra nel giorno, se pur giorno è questo, che si conosce al numerar de l'ore, non che per lume già sia manifesto. Or con minor speranza e più timore si dà in poter del vento il padron mesto: volta la poppa all'onde, e il mar crudele scorrendo se ne va con umil vele. 146 Mentre Fortuna in mar questi travaglia, non lascia anco posar quegli altri in terra, che sono in Francia, ove s'uccide e taglia coi Saracini il popul d'Inghilterra. Quivi Rinaldo assale, apre e sbaraglia le schiere avverse, e le bandiere atterra. Dissi di lui, che 'l suo destrier Baiardo mosso avea contra a Dardinel gagliardo. 147 Vide Rinaldo il segno del quartiero, di che superbo era il figliuol d'Almonte; e lo stimò gagliardo e buon guerriero, che concorrer d'insegna ardia col conte. Venne più appresso, e gli parea più vero; ch'avea d'intorno uomini uccisi a monte. - Meglio è (gridò) che prima io svella e spenga questo mal germe, che maggior divenga. - 148 Dovunque il viso drizza il paladino, levasi ognuno, e gli dà larga strada; né men sgombra il fedel, che 'l Saracino, si reverita è la famosa spada. Rinaldo, fuor che Dardinel meschino, non vede alcuno, e lui seguir non bada. Grida: - Fanciullo, gran briga ti diede chi ti lasciò di questo scudo erede. 149 Vengo a te per provar, se tu m'attendi, come ben guardi il quartier rosso e bianco; che s'ora contra me non lo difendi, difender contra Orlando il potrai manco. - Rispose Dardinello: - Or chiaro apprendi che s'io lo porto, il so difender anco; e guadagnar più onor, che briga, posso del paterno quartier candido e rosso. 150 Perché fanciullo io sia, non creder farme però fuggire, o che 'l quartier ti dia: la vita mi torrai, se mi toi l'arme; ma spero in Dio ch'anzi il contrario fia. Sia quel che vuol, non potrà alcun biasmarme che mai traligni alla progenie mia. - Così dicendo, con la spada in mano assalse il cavallier da Montalbano. 151 Un timor freddo tutto 'l sangue oppresse, che gli Africani aveano intorno al core, come vider Rinaldo che si messe con tanta rabbia incontra a quel signore, con quanta andria un leon ch'al prato avesse visto un torel ch'ancor non senta amore. Il primo che ferì, fu 'l Saracino; ma picchiò invan su l'elmo di Mambrino. 152 Rise Rinaldo, e disse: - Io vo' tu senta, s'io so meglio di te trovar la vena. - Sprona, e a un tempo al destrier la briglia allenta, e d'una punta con tal forza mena, d'una punta ch'al petto gli appresenta, che gli la fa apparir dietro alla schena. Quella trasse, al tornar, l'alma col sangue: di sella il corpo uscì freddo et esangue. 153 Come purpureo fior languendo muore, che 'l vomere al passar tagliato lassa; o come carco di superchio umore il papaver ne l'orto il capo abbassa: così, giù de la faccia ogni colore cadendo, Dardinel di vita passa; passa di vita, e fa passar con lui l'ardire e la virtù de tutti i sui. 154 Qual soglion l'acque per umano ingegno stare ingorgate alcuna volta e chiuse, che quando lor vien poi rotto il sostegno, cascano, e van con gran rumor difuse; tal gli African, ch'avean qualche ritegno mentre virtù lor Dardinello infuse, ne vanno or sparti in questa parte e in quella, che l'han veduto uscir morto di sella. 155 Chi vuol fuggir, Rinaldo fuggir lassa, et attende a cacciar chi vuol star saldo. Si cade ovunque Arïodante passa, che molto va quel dì presso a Rinaldo. Altri Lionetto, altri Zerbin fracassa, a gara ognuno a far gran prove caldo. Carlo fa il suo dover, lo fa Oliviero, Turpino e Guido e Salamone e Ugiero. 156 I Mori fur quel giorno in gran periglio che 'n Pagania non ne tornasse testa; ma 'l saggio re di Spagna dà di piglio, e se ne va con quel che in man gli resta. Restar in danno tien miglior consiglio, che tutti i denar perdere e la vesta: meglio è ritrarsi e salvar qualche schiera, che, stando, esser cagion che 'l tutto pèra. 157 Verso gli alloggiamenti i segni invia, ch'eron serrati d'argine e di fossa, con Stordilan, col re d'Andologia, col Portughese in una squadra grossa. Manda a pregar il re di Barbaria, che si cerchi ritrar meglio che possa; e se quel giorno la persona e 'l loco potrà salvar, non avrà fatto poco. 158 Quel re che si tenea spacciato al tutto, né mai credea più riveder Biserta, che con viso sì orribile e sì brutto unquanco non avea Fortuna esperta, s'allegrò che Marsilio avea ridutto parte del campo in sicurezza certa: et a ritrarsi cominciò, e a dar volta alle bandiere, e fe' sonar raccolta. 159 Ma la più parte de la gente rotta né tromba né tambur né segno ascolta: tanta fu la viltà, tanta la dotta, ch'in Senna se ne vide affogar molta. Il re Agramante vuol ridur la frotta: seco ha Sobrino, e van scorrendo in volta; e con lor s'affatica ogni buon duca, che nei ripari il campo si riduca. 160 Ma né il re, né Sobrin, né duca alcuno con prieghi, con minaccie, con affanno ritrar può il terzo, non ch'io dica ognuno, dove l'insegne mal seguite vanno. Morti o fuggiti ne son dua, per uno che ne rimane, e quel non senza danno: ferito è chi di dietro e chi davanti; ma travagliati e lassi tutti quanti. 161 E con gran tema fin dentro alle porte dei forti alloggiamenti ebbon la caccia: et era lor quel luogo anco mal forte, con ogni proveder che vi si faccia (che ben pigliar nel crin la buona sorte Carlo sapea, quando volgea la faccia), se non venìa la notte tenebrosa, che staccò il fatto, et acquetò ogni cosa; 162 dal Creator accelerata forse, che de la sua fattura ebbe pietade. Ondeggiò il sangue per campagna, e corse come un gran fiume, e dilagò le strade. Ottanta mila corpi numerorse, che fur quel dì messi per fil di spade. Villani e lupi uscîr poi de le grotte a dispogliargli e a devorar la notte. 163 Carlo non torna più dentro alla terra, ma contra gli nimici fuor s'accampa, et in assedio le lor tende serra, et alti e spessi fuochi intorno avampa. Il pagan si provede, e cava terra, fossi e ripari e bastïoni stampa; va rivedendo, e tien le guardie deste, né tutta notte mai l'arme si sveste. 164 Tutta la notte per gli alloggiamenti dei mal sicuri Saracini oppressi si versan pianti, gemiti e lamenti, ma quanto più si può, cheti e soppressi. Altri, perché gli amici hanno e i parenti lasciati morti, et altri per se stessi, che son feriti, e con disagio stanno: ma più è la tema del futuro danno. 165 Duo Mori ivi fra gli altri si trovaro, d'oscura stirpe nati in Tolomitta; de' quai l'istoria, per esempio raro di vero amore, è degna esser descritta. Cloridano e Medor si nominaro, ch'alla fortuna prospera e alla afflitta aveano sempre amato Dardinello, et or passato in Francia il mar con quello. 166 Cloridan, cacciator tutta sua vita, di robusta persona era et isnella: Medoro avea la guancia colorita e bianca e grata ne la età novella; e fra la gente a quella impresa uscita non era faccia più gioconda e bella: occhi avea neri, e chioma crespa d'oro: angel parea di quei del sommo coro. 167 Erano questi duo sopra i ripari con molti altri a guardar gli alloggiamenti, quando la Notte fra distanzie pari mirava il ciel con gli occhi sonnolenti. Medoro quivi in tutti i suoi parlari non può far che 'l signor suo non rammenti, Dardinello d'Almonte, e che non piagna che resti senza onor ne la campagna. 168 Vòlto al cornpagno, disse: - O Cloridano, io non ti posso dir quanto m'incresca del mio signor, che sia rimaso al piano, per lupi e corbi, ohimè! troppo degna esca. Pensando come sempre mi fu umano, mi par che quando ancor questa anima esca in onor di sua fama, io non compensi né sciolga verso lui gli oblighi immensi. 169 Io voglio andar, perché non stia insepulto in mezzo alla campagna, a ritrovarlo: e forse Dio vorrà ch'io vada occulto là dove tace il campo del re Carlo. Tu rimarrai; che quando in ciel sia sculto ch'io vi debba morir, potrai narrarlo: che se Fortuna vieta sì bell'opra, per fama almeno il mio buon cor si scuopra. - 170 Stupisce Cloridan, che tanto core, tanto amor, tanta fede abbia un fanciullo: e cerca assai, perché gli porta amore, di fargli quel pensiero irrito e nullo; ma non gli val, perch'un sì gran dolore non riceve conforto né trastullo. Medoro era disposto o di morire, o ne la tomba il suo signor coprire. 171 Veduto che nol piega e che nol muove, Cloridan gli risponde: - E verrò anch'io, anch'io vuo' pormi a sì lodevol pruove, anch'io famosa morte amo e disio. Qual cosa sarà mai che più mi giove, s'io resto senza te, Medoro mio? Morir teco con l'arme è meglio molto, che poi di duol, s'avvien che mi sii tolto. - 172 Così disposti, messero in quel loco le successive guardie, e se ne vanno. Lascian fosse e steccati, e dopo poco tra' nostri son, che senza cura stanno. Il campo dorme, e tutto è spento il fuoco, perché dei Saracin poca tema hanno. Tra l'arme e' carrïaggi stan roversi, nel vin, nel sonno insino agli occhi immersi. 173 Fermossi alquanto Cloridano, e disse: - Non son mai da lasciar l'occasïoni. Di questo stuol che 'l mio signor trafisse, non debbo far, Medoro, occisïoni? Tu, perché sopra alcun non ci venisse, gli occhi e l'orecchi in ogni parte poni; ch'io m'offerisco farti con la spada tra gli nimici spazïosa strada. - 174 Così disse egli, e tosto il parlar tenne, et entrò dove il dotto Alfeo dormia, che l'anno inanzi in corte a Carlo venne, medico e mago e pien d'astrologia: ma poco a questa volta gli sovenne; anzi gli disse in tutto la bugia. Predetto egli s'avea, che d'anni pieno dovea morire alla sua moglie in seno: 175 et or gli ha messo il cauto Saracino la punta de la spada ne la gola. Quattro altri uccide appresso all'indovino, che non han tempo a dire una parola: menzion dei nomi lor non fa Turpino, e 'l lungo andar le lor notizie invola: dopo essi Palidon da Moncalieri, che sicuro dormia fra duo destrieri. 176 Poi se ne vien dove col capo giace appoggiato al barile il miser Grillo: avealo vòto, e avea creduto in pace godersi un sonno placido e tranquillo. Troncògli il capo il Saracino audace: esce col sangue il vin per uno spillo, di che n'ha in corpo più d'una bigoncia; e di ber sogna, e Cloridan lo sconcia. 177 E presso a Grillo, un Greco et un Tedesco spenge in dui colpi, Andropono e Conrado. che de la notte avean goduto al fresco gran parte, or con la tazza, ora col dado: felici, se vegghiar sapeano a desco fin che de l'Indo il sol passassi il guado. Ma non potria negli uomini il destino, se del futuro ognun fosse indovino. 178 Come impasto leone in stalla piena, che lunga fame abbia smacrato e asciutto, uccide, scanna, mangia, a strazio mena l'infermo gregge in sua balìa condutto; così il crudel pagan nel sonno svena la nostra gente, e fa macel per tutto. La spada di Medoro anco non ebe; ma si sdegna ferir l'ignobil plebe. 179 Venuto era ove il duca di Labretto con una dama sua dormia abbracciato; e l'un con l'altro si tenea sì stretto, che non saria tra lor l'aere entrato. Medoro ad ambi taglia il capo netto. Oh felice morire! oh dolce fato! che come erano i corpi, ho così fede ch'andâr l'alme abbracciate alla lor sede. 180 Malindo uccise e Ardalico il fratello, che del conte di Fiandra erano figli; e l'uno e l'altro cavallier novello fatto avea Carlo, e aggiunto all'arme i gigli, perché il giorno amendui d'ostil macello con gli stocchi tornar vide vermigli: e terre in Frisa avea promesso loro, e date avria; ma lo vietò Medoro. 181 Gl'insidïosi ferri eran vicini ai padiglioni che tiraro in volta al padiglion di Carlo i paladini, facendo ognun la guardia la sua volta; quando da l'empia strage i Saracini trasson le spade, e diero a tempo volta; ch'impossibil lor par, tra sì gran torma, che non s'abbia a trovar un che non dorma. 182 E ben che possan gir di preda carchi, salvin pur sé, che fanno assai guadagno. Ove più creda aver sicuri i varchi va Cloridano, e dietro ha il suo compagno. Vengon nel campo, ove fra spade et archi e scudi e lance in un vermiglio stagno giaccion poveri e ricchi, e re e vassalli, e sozzopra con gli uomini i cavalli. 183 Quivi dei corpi l'orrida mistura, che piena avea la gran campagna intorno, potea far vaneggiar la fedel cura dei duo compagni insino al far del giorno, se non traea fuor d'una nube oscura, a' prieghi di Medor, la Luna il corno. Medoro in ciel divotamente fisse verso la Luna gli occhi, e così disse: 184 - O santa dea, che dagli antiqui nostri debitamente sei detta triforme; ch'in cielo, in terra e ne l'inferno mostri l'alta bellezza tua sotto più forme, e ne le selve, di fere e di mostri vai cacciatrice seguitando l'orme; mostrami ove 'l mio re giaccia fra tanti, che vivendo imitò tuoi studi santi. - 185 La luna a quel pregar la nube aperse (o fosse caso o pur la tanta fede), bella come fu allor ch'ella s'offerse, e nuda in braccio a Endimïon si diede. Con Parigi a quel lume si scoperse l'un campo e l'altro; e 'l monte e 'l pian si vede: si videro i duo colli di lontano, Martire a destra, e Lerì all'altra mano. 186 Rifulse lo splendor molto più chiaro ove d'Almonte giacea morto il figlio. Medoro andò, piangendo, al signor caro; che conobbe il quartier bianco e vermiglio: e tutto 'l viso gli bagnò d'amaro pianto, che n'avea un rio sotto ogni ciglio, in sì dolci atti, in sì dolci lamenti, che potea ad ascoltar fermare i venti. 187 Ma con sommessa voce e a pena udita; non che riguardi a non si far sentire, perch'abbia alcun pensier de la sua vita, più tosto l'odia, e ne vorrebbe uscire: ma per timor che non gli sia impedita l'opera pia che quivi il fe' venire. Fu il morto re sugli omeri sospeso di tramendui, tra lor partendo il peso. 188 Vanno affrettando i passi quanto ponno, sotto l'amata soma che gl'ingombra. E già venìa chi de la luce è donno le stelle a tor del ciel, di terra l'ombra; quando Zerbino, a cui del petto il sonno l'alta virtude, ove è bisogno, sgombra, cacciato avendo tutta notte i Mori, al campo si traea nei primi albori. 189 E seco alquanti cavallieri avea, che videro da lunge i dui compagni. Ciascuno a quella parte si traea, sperandovi trovar prede e guadagni. - Frate, bisogna (Cloridan dicea) gittar la soma, e dare opra ai calcagni; che sarebbe pensier non troppo accorto, perder duo vivi per salvar un morto. - 190 E gittò il carco, perché si pensava che 'l suo Medoro il simil far dovesse: ma quel meschin, che 'l suo signor più amava, sopra le spalle sue tutto lo resse. L'altro con molta fretta se n'andava, come l'amico a paro o dietro avesse: se sapea di lasciarlo a quella sorte, mille aspettate avria, non ch'una morte. 191 Quei cavallier, con animo disposto che questi a render s'abbino o a morire, chi qua chi là si spargono, et han tosto preso ogni passo onde si possa uscire. Da loro il capitan poco discosto, più degli altri è sollicito a seguire; ch'in tal guisa vedendoli temere, certo è che sian de le nimiche schiere. 192 Era a quel tempo ivi una selva antica, d'ombrose piante spessa e di virgulti, che, come labirinto, entro s'intrica di stretti calli e sol da bestie culti. Speran d'averla i duo pagan sì amica, ch'abbi a tenerli entro a' suoi rami occulti. Ma chi del canto mio piglia diletto, un'altra volta ad ascoltarlo aspetto.
1 Alcun non può saper da chi sia amato, quando felice in su la ruota siede; però c'ha i veri e i finti amici a lato, che mostran tutti una medesma fede. Se poi si cangia in tristo il lieto stato, volta la turba adulatrice il piede; e quel che di cor ama riman forte, et ama il suo signor dopo la morte. 2 Se, come il viso, si mostrasse il core, tal ne la corte è grande e gli altri preme, e tal è in poca grazia al suo signore, che la lor sorte muteriano insieme. Questo umil diverria tosto il maggiore: staria quel grande infra le turbe estreme. Ma torniamo a Medor fedele e grato, che 'n vita e in morte ha il suo signore amato. 3 Cercando gìa nel più intricato calle il giovine infelice di salvarsi; ma il grave peso ch'avea su le spalle, gli facea uscir tutti i partiti scarsi. Non conosce il paese, e la via falle, e torna fra le spine a invilupparsi. Lungi da lui tratto al sicuro s'era l'altro, ch'avea la spalla più leggiera. 4 Cloridan s'è ridutto ove non sente di chi segue lo strepito e il rumore: ma quando da Medor si vede absente, gli pare aver lasciato a dietro il core. - Deh, come fui (dicea) sì negligente, deh, come fui sì di me stesso fuore, che senza te, Medor, qui mi ritrassi, né sappia quando o dove io ti lasciassi! - 5 Così dicendo, ne la torta via de l'intricata selva si ricaccia; et onde era venuto si ravvia, e torna di sua morte in su la traccia. Ode i cavalli e i gridi tuttavia, e la nimica voce che minaccia: all' ultimo ode il suo Medoro, e vede che tra molti a cavallo è solo a piede. 6 Cento a cavallo, e gli son tutti intorno: Zerbin commanda e grida che sia preso. L'infelice s'aggira com'un torno, e quanto può si tien da lor difeso, or dietro quercia, or olmo, or faggio, or orno, né si discosta mai dal caro peso. L'ha riposato al fin su l'erba, quando regger nol puote, e gli va intorno errando: 7 come orsa, che l'alpestre cacciatore ne la pietrosa tana assalita abbia, sta sopra i figli con incerto core, e freme in suono di pietà e di rabbia: ira la 'nvita e natural furore a spiegar l'ugne e a insanguinar le labbia; amor la 'ntenerisce, e la ritira a riguardare ai figli in mezzo l'ira. 8 Cloridan, che non sa come l'aiuti, e ch'esser vuole a morir seco ancora, ma non ch'in morte prima il viver muti, che via non truovi ove più d'un ne mora; mette su l'arco un de' suoi strali acuti, e nascoso con quel sì ben lavora, che fora ad uno Scotto le cervella, e senza vita il fa cader di sella. 9 Volgonsi tutti gli altri a quella banda ond'era uscito il calamo omicida. Intanto un altro il Saracin ne manda, perché 'l secondo a lato al primo uccida; che mentre in fretta a questo e a quel domanda chi tirato abbia l'arco, e forte grida, lo strale arriva e gli passa la gola, e gli taglia pel mezzo la parola. 10 Or Zerbin, ch'era il capitano loro, non poté a questo aver più pazïenza. Con ira e con furor venne a Medoro, dicendo: - Ne farai tu penitenza. - Stese la mano in quella chioma d'oro, e strascinollo a sé con vïolenza: ma come gli occhi a quel bel volto mise, gli ne venne pietade, e non l'uccise. 11 Il giovinetto si rivolse a' prieghi, e disse: - Cavallier, per lo tuo Dio, non esser sì crudel, che tu mi nieghi ch'io sepelisca il corpo del re mio. Non vo' ch'altra pietà per me ti pieghi, né pensi che di vita abbi disio: ho tanta di mia vita, e non più, cura, quanta ch'al mio signor dia sepultura. 12 E se pur pascer vòi fiere et augelli, che 'n te il furor sia del teban Creonte, fa lor convito di miei membri, e quelli sepelir lascia del figliuol d'Almonte. - Così dicea Medor con modi belli, e con parole atte a voltare un monte; e sì commosso già Zerbino avea, che d'amor tutto e di pietade ardea. 13 In questo mezzo un cavallier villano, avendo al suo signor poco rispetto, ferì con una lancia sopra mano al supplicante il delicato petto. Spiacque a Zerbin l'atto crudele e strano; tanto più, che del colpo il giovinetto vide cader sì sbigottito e smorto, che 'n tutto giudicò che fosse morto. 14 E se ne sdegnò in guisa e se ne dolse, che disse: - Invendicato già non fia! - e pien di mal talento si rivolse al cavallier che fe' l'impresa ria: ma quel prese vantaggio, e se gli tolse dinanzi in un momento, e fuggì via. Cloridan, che Medor vede per terra, salta del bosco a discoperta guerra. 15 E getta l'arco, e tutto pien di rabbia tra gli nimici il ferro intorno gira, più per morir, che per pensier ch'egli abbia di far vendetta che pareggi l'ira. Del proprio sangue rosseggiar la sabbia fra tante spade, e al fin venir si mira; e tolto che si sente ogni potere, si lascia a canto al suo Medor cadere. 16 Seguon gli Scotti ove la guida loro per l'alta selva alto disdegno mena, poi che lasciato ha l'uno e l'altro Moro, l'un morto in tutto, e l'altro vivo a pena. Giacque gran pezzo il giovine Medoro, spicciando il sangue da sì larga vena, che di sua vita al fin saria venuto, se non sopravenia chi gli diè aiuto. 17 Gli sopravenne a caso una donzella, avolta in pastorale et umil veste, ma di real presenzia e in viso bella, d'alte maniere e accortamente oneste. Tanto è ch'io non ne dissi più novella, ch'a pena riconoscer la dovreste: questa, se non sapete, Angelica era, del gran Can del Catai la figlia altiera. 18 Poi che 'l suo annello Angelica rïebbe, di che Brunel l'avea tenuta priva, in tanto fasto, in tanto orgoglio crebbe, ch'esser parea di tutto 'l mondo schiva. Se ne va sola, e non si degnerebbe compagno aver qual più famoso viva: si sdegna a rimembrar che già suo amante abbia Orlando nomato, o Sacripante. 19 E sopra ogn'altro error via più pentita era del ben che già a Rinaldo vòlse, troppo parendole essersi avilita, ch'a riguardar sì basso gli occhi volse. Tant'arroganzia avendo Amor sentita, più lungamente comportar non vòlse: dove giacea Medor, si pose al varco, e l'aspettò, posto lo strale all'arco. 20 Quando Angelica vide il giovinetto languir ferito, assai vicino a morte, che del suo re che giacea senza tetto, più che del proprio mal si dolea forte; insolita pietade in mezzo al petto si sentì entrar per disusate porte, che le fe' il duro cor tenero e molle, e più, quando il suo caso egli narrolle. 21 E rivocando alla memoria l'arte ch'in India imparò già di chirugia (che par che questo studio in quella parte nobile e degno e di gran laude sia; e senza molto rivoltar di carte, che 'l patre ai figli ereditario il dia), si dispose operar con succo d'erbe, ch'a più matura vita lo riserbe. 22 E ricordossi che passando avea veduta un'erba in una piaggia amena; fosse dittamo, o fosse panacea, o non so qual, di tal effetto piena, che stagna il sangue, e de la piaga rea leva ogni spasmo e perigliosa pena. La trovò non lontana, e quella còlta, dove lasciato avea Medor, diè volta. 23 Nel ritornar s'incontra in un pastore ch'a cavallo pel bosco ne veniva, cercando una iuvenca, che già fuore duo dì di mandra e senza guardia giva. Seco lo trasse ove perdea il vigore Medor col sangue che del petto usciva; e già n'avea di tanto il terren tinto, ch'era omai presso a rimanere estinto. 24 Del palafreno Angelica giú scese, e scendere il pastor seco fece anche. Pestò con sassi l'erba, indi la prese, e succo ne cavò fra le man bianche; ne la piaga n'infuse, e ne distese e pel petto e pel ventre e fin a l'anche: e fu di tal virtù questo liquore, che stagnò il sangue, e gli tornò il vigore; 25 e gli diè forza, che poté salire sopra il cavallo che 'l pastor condusse. Non però volse indi Medor partire prima ch'in terra il suo signor non fusse. E Cloridan col re fe' sepelire; e poi dove a lei piacque si ridusse. Et ella per pietà ne l'umil case del cortese pastor seco rimase. 26 Né fin che nol tornasse in sanitade, volea partir: così di lui fe' stima, tanto se intenerì de la pietade che n'ebbe, come in terra il vide prima. Poi vistone i costumi e la beltade, roder si sentì il cor d'ascosa lima; roder si sentì il core, e a poco a poco tutto infiammato d'amoroso fuoco. 27 Stava il pastore in assai buona e bella stanza, nel bosco infra duo monti piatta, con la moglie e coi figli; et avea quella tutta di nuovo e poco inanzi fatta. Quivi a Medoro fu per la donzella la piaga in breve a sanità ritratta: ma in minor tempo si sentì maggiore piaga di questa avere ella nel core. 28 Assai più larga piaga e più profonda nel cor sentì da non veduto strale, che da' begli occhi e da la testa bionda di Medoro aventò l'Arcier c'ha l'ale. Arder si sente, e sempre il fuoco abonda; e più cura l'altrui che 'l proprio male: di sé non cura, e non è ad altro intenta, ch'a risanar chi lei fere e tormenta. 29 La sua piaga più s'apre e più incrudisce, quanto più l'altra si ristringe e salda. Il giovine si sana: ella languisce di nuova febbre, or agghiacciata, or calda. Di giorno in giorno in lui beltà fiorisce: la misera si strugge, come falda strugger di nieve intempestiva suole, ch'in loco aprico abbia scoperta il sole. 30 Se di disio non vuol morir, bisogna che senza indugio ella se stessa aiti: e ben le par che di quel ch'essa agogna, non sia tempo aspettar ch'altri la 'nviti. Dunque, rotto ogni freno di vergogna, la lingua ebbe non men che gli occhi arditi: e di quel colpo domandò mercede, che, forse non sapendo, esso le diede. 31 O conte Orlando, o re di Circassia, vostra inclita virtù, dite, che giova? Vostro alto onor dite in che prezzo sia, o che mercé vostro servir ritruova. Mostratemi una sola cortesia che mai costei v'usasse, o vecchia o nuova, per ricompensa e guidardone e merto di quanto avede già per lei sofferto. 32 Oh se potessi ritornar mai vivo, quanto ti parria duro, o re Agricane! che già mostrò costei sì averti a schivo con repulse crudeli et inumane. O Ferraù, o mille altri ch'io non scrivo, ch'avete fatto mille pruove vane per questa ingrata, quanto aspro vi fôra, s'a costu' in braccio voi la vedesse ora! 33 Angelica a Medor la prima rosa coglier lasciò, non ancor tocca inante: né persona fu mai sì aventurosa, ch'in quel giardin potesse por le piante. Per adombrar, per onestar la cosa, si celebrò con cerimonie sante il matrimonio, ch'auspice ebbe Amore, e pronuba la moglie del pastore. 34 Fêrsi le nozze sotto all'umil tetto le più solenni che vi potean farsi; e più d'un mese poi stêro a diletto i duo tranquilli amanti a ricrearsi. Più lunge non vedea del giovinetto la donna, né di lui potea saziarsi; né per mai sempre pendergli dal collo, il suo disir sentia di lui satollo. 35 Se stava all'ombra o se del tetto usciva, avea dì e notte il bel giovine a lato: matino e sera or questa or quella riva cercando andava, o qualche verde prato: nel mezzo giorno un antro li copriva, forse non men di quel commodo e grato, ch'ebber, fuggendo l'acque, Enea e Dido, de' lor secreti testimonio fido. 36 Fra piacer tanti, ovunque un arbor dritto vedesse ombrare o fonte o rivo puro, v'avea spillo o coltel subito fitto; così, se v'era alcun sasso men duro: et era fuori in mille luoghi scritto, e così in casa in altritanti il muro, Angelica e Medoro, in varii modi legati insieme di diversi nodi. 37 Poi che le parve aver fatto soggiorno quivi più ch'a bastanza, fe' disegno di fare in India del Catai ritorno, e Medor coronar del suo bel regno. Portava al braccio un cerchio d'oro, adorno di ricche gemme, in testimonio e segno del ben che 'l conte Orlando le volea; e portato gran tempo ve l'avea. 38 Quel donò già Morgana a Zilïante, nel tempo che nel lago ascoso il tenne; et esso, poi ch'al padre Monodante, per opra e per virtù d'Orlando venne, lo diede a Orlando: Orlando ch'era amante, di porsi al braccio il cerchio d'or sostenne, avendo disegnato di donarlo alla regina sua di ch'io vi parlo. 39 Non per amor del paladino, quanto perch'era ricco e d'artificio egregio, caro avuto l'avea la donna tanto, che più non si può aver cosa di pregio. Se lo serbò ne l'Isola del pianto, non so già dirvi con che privilegio, là dove esposta al marin mostro nuda fu da la gente inospitale e cruda. 40 Quivi non si trovando altra mercede ch'al buon pastor et alla moglie dessi, che serviti gli avea con sì gran fede dal dì che nel suo albergo si fur messi, levò dal braccio il cerchio e gli lo diede, e vòlse per suo amor che lo tenessi. Indi saliron verso la montagna che divide la Francia da la Spagna. 41 Dentro a Valenza o dentro a Barcellona per qualche giorno avea pensato porsi, fin che accadesse alcuna nave buona che per Levante apparecchiasse a sciorsi. Videro il mar scoprir sotto a Girona ne lo smontar giú dei montani dorsi; e costeggiando a man sinistra il lito, a Barcellona andâr pel camin trito. 42 Ma non vi giunser prima, ch'un uom pazzo giacer trovaro in su l'estreme arene, che, come porco, di loto e di guazzo tutto era brutto e volto e petto e schene. Costui si scagliò lor come cagnazzo ch'assalir forestier subito viene; e diè lor noia, e fu per far lor scorno. Ma di Marfisa a ricontarvi torno. 43 Di Marfisa, d'Astolfo, d' Aquilante, di Grifone e degli altri io vi vuo' dire, che travagliati, e con la morte inante, mal si poteano incontra il mar schermire: che sempre più superba e più arrogante crescea fortuna le minaccie e l'ire; e già durato era tre dì lo sdegno, né di placarsi ancor mostrava segno. 44 Castello e ballador spezza e fraccassa l'onda nimica e 'l vento ognor più fiero: se parte ritta il verno pur ne lassa, la taglia e dona al mar tutta il nocchiero. Chi sta col capo chino in una cassa su la carta appuntando il suo sentiero a lume di lanterna piccolina, e chi col torchio giú ne la sentina. 45 Un sotto poppe, un altro sotto prora si tiene inanzi l'oriuol da polve: e torna a rivedere ogni mezz'ora quanto è già corso, et a che via si volve: indi ciascun con la sua carta fuora a mezza nave il suo parer risolve, là dove a un tempo i marinari tutti sono a consiglio dal padron ridutti. 46 Chi dice: - Sopra Limissò venuti siamo, per quel ch'io trovo, alle seccagne; - chi: - Di Tripoli appresso i sassi acuti, dove il mar le più volte i legni fragne; - chi dice: - Siamo in Satalia perduti, per cui più d'un nocchier sospira e piagne. - Ciascun secondo il parer suo argomenta, ma tutti ugual timor preme e sgomenta. 47 Il terzo giorno con maggior dispetto gli assale il vento, e il mar più irato freme; e l'un ne spezza e portane il trinchetto, e 'l timon l'altro, e chi lo volge insieme. Ben è di forte e di marmoreo petto e più duro ch'acciar, ch'ora non teme. Marfisa, che già fu tanto sicura, non negò che quel giorno ebbe paura. 48 Al monte Sinaì fu peregrino, a Gallizia promesso, a Cipro, a Roma, al Sepolcro, alla Vergine d'Ettino, e se celebre luogo altro si noma. Sul mare intanto, e spesso al ciel vicino l'afflitto e conquassato legno toma, di cui per men travaglio avea il padrone fatto l'arbor tagliar de l'artimone. 49 E colli e casse e ciò che v'è di grave gitta da prora e da poppe e da sponde; e fa tutte sgombrar camere e giave, e dar le ricche merci all'avide onde. Altri attende alle trombe, e a tor di nave l'acque importune, e il mar nel mar rifonde; soccorre altri in sentina, ovunque appare legno da legno aver sdrucito il mare. 50 Stero in questo travaglio, in questa pena ben quattro giorni, e non avean più schermo; e n'avria avuto il mar vittoria piena, poco più che 'l furor tenesse fermo: ma diede speme lor d'aria serena la disïata luce di santo Ermo, ch'in prua s'una cocchina a por si venne; che più non v'erano arbori né antenne. 51 Veduto fiammeggiar la bella face, s'inginocchiaro tutti i naviganti, e domandaro il mar tranquillo e pace con umidi occhi e con voci tremanti. La tempesta crudel, che pertinace fu sin allora, non andò più inanti: Maestro e Traversia più non molesta, e sol del mar tiràn Libecchio resta. 52 Questo resta sul mar tanto possente, e da la negra bocca in modo esala, et è con lui sì il rapido corrente de l'agitato mar ch'in fretta cala, che porta il legno più velocemente, che pelegrin falcon mai facesse ala, con timor del nocchier ch'al fin del mondo non lo trasporti, o rompa, o cacci al fondo. 53 Rimedio a questo il buon nocchier ritruova, che commanda gittar per poppa spere, e caluma la gomona, e fa pruova di duo terzi del corso ritenere. Questo consiglio, e più l'augurio giova di chi avea acceso in proda le lumiere: questo il legno salvò, che peria forse, e fe' ch'in alto mar sicuro corse. 54 Nel golfo di Laiazzo invêr Soria sopra una gran città si trovò sorto, e sì vicino al lito, che scopria l'uno e l'altro castel che serra il porto. Come il padron s'accorse de la via che fatto avea, ritornò in viso smorto; che né porto pigliar quivi volea, né stare in alto, né fuggir potea. 55 Né potea stare in alto, né fuggire, che gli arbori e l'antenne avea perdute: eran tavole e travi pel ferire del mar, sdrucite, macere e sbattute. E 'l pigliar porto era un voler morire, o perpetuo legarsi in servitute; che riman serva ogni persona, o morta, che quivi errore o ria fortuna porta. 56 E 'l stare in dubbio era con gran periglio che non salisser genti de la terra con legni armati, e al suo desson di piglio, mal atto a star sul mar, non ch'a far guerra. Mentre il padron non sa pigliar consiglio, fu domandato da quel d'Inghilterra, chi gli tenea sì l'animo suspeso, e perché già non avea il porto preso. 57 Il padron narrò lui che quella riva tutta tenean le femine omicide, di quai l'antiqua legge ognun ch'arriva in perpetuo tien servo, o che l'uccide; e questa sorte solamente schiva chi nel campo dieci uomini conquide, e poi la notte può assaggiar nel letto diece donzelle con carnal diletto. 58 E se la prima pruova gli vien fatta, e non fornisca la seconda poi, egli vien morto, e chi è con lui si tratta da zappatore o da guardian di buoi. Se di far l'uno e l'altro è persona atta, impetra libertade a tutti i suoi; a sé non già, c'ha da restar marito di diece donne, elette a suo appetito. 59 Non poté udire Astolfo senza risa de la vicina terra il rito strano. Sopravien Sansonetto, e poi Marfisa, indi Aquilante, e seco il suo germano. Il padron parimente lor divisa la causa che dal porto il tien lontano: - Voglio (dicea) che inanzi il mar m'affoghi, ch'io senta mai di servitude i gioghi. - 60 Del parer del padrone i marinari e tutti gli altri naviganti furo; ma Marfisa e' compagni eran contrari, che, più che l'acque, il lito avean sicuro. Via più il vedersi intorno irati i mari, che cento mila spade, era lor duro. Parea lor questo e ciascun altro loco dov'arme usar potean, da temer poco. 61 Bramavano i guerrier venire a proda, ma con maggior baldanza il duca inglese; che sa, come del corno il rumor s'oda, sgombrar d'intorno si farà il paese. Pigliare il porto l'una parte loda, e l'altra il biasma, e sono alle contese; ma la più forte in guisa il padron stringe, ch'al porto, suo malgrado, il legno spinge. 62 Già, quando prima s'erano alla vista de la città crudel sul mar scoperti, veduto aveano una galea provista di molta ciurma e di nochieri esperti venire al dritto a ritrovar la trista nave, confusa di consigli incerti; che, l'alta prora alle sua poppe basse legando, fuor de l'empio mar la trasse. 63 Entrâr nel porto remorchiando, e a forza di remi più che per favor di vele; però che l'alternar di poggia e d'orza avea levato il vento lor crudele. Intanto ripigliâr la dura scorza i cavallieri e il brando lor fedele; et al padrone et a ciascun che teme non cessan dar con lor conforti speme. 64 Fatto è 'l porto a sembianza d'una luna, e gira più di quattro miglia intorno: seicento passi è in bocca, et in ciascuna parte una ròcca ha nel finir del corno. Non teme alcuno assalto di fortuna, se non quando gli vien dal mezzogiorno. A guisa di teatro se gli stende la città a cerco, e verso il poggio ascende. 65 Non fu quivi sì tosto il legno sorto (già l'aviso era per tutta la terra), che fur seimila femine sul porto, con gli archi in mano, in abito di guerra; e per tor de la fuga ogni conforto, tra l'una ròcca e l'altra il mar si serra: da navi e da catene fu rinchiuso, che tenean sempre instrutte a cotal uso. 66 Una che d'anni alla Cumea d'Apollo poté uguagliarsi e alla madre d'Ettorre, fe' chiamare il padrone, e domandollo se si volean lasciar la vita tôrre, o se voleano pur al giogo il collo, secondo la costuma, sottoporre. Degli dua l'uno aveano a tôrre: o quivi tutti morire, o rimaner captivi. 67 - Gli è ver (dicea) che s'uom si ritrovasse tra voi così animoso e così forte, che contra dieci nostri uomini osasse prender battaglia, e desse lor la morte, e far con diece femine bastasse per una notte ufficio di consorte; egli si rimarria principe nostro, e gir voi ne potreste al camin vostro. 68 E sarà in vostro arbitrio il restar anco, vogliate o tutti o parte; ma con patto, che chi vorrà restare, e restar franco, marito sia per diece femine atto. Ma quando il guerrier vostro possa manco dei dieci che gli fian nimici a un tratto, o la seconda pruova non fornisca, vogliàn voi siate schiavi, egli perisca. - 69 Dove la vecchia ritrovar timore credea nei cavallier, trovò baldanza; che ciascun si tenea tal feritore, che fornir l'uno e l'altro avea speranza: et a Marfisa non mancava il core, ben che mal atta alla seconda danza; ma dove non l'aitasse la natura, con la spada supplir stava sicura. 70 Al padron fu commessa la risposta, prima conchiusa per commun consiglio: ch'avean chi lor potria di sé a lor posta ne la piazza e nel letto far periglio. Levan l'offese, et il nocchier s'accosta, getta la fune e le fa dar di piglio; e fa acconciare il ponte, onde i guerrieri escono armati, e tranno i lor destrieri. 71 E quindi van per mezzo la cittade, e vi ritruovan le donzelle altiere, succinte cavalcar per le contrade, et in piazza armeggiar come guerriere. Né calciar quivi spron, né cinger spade, né cosa d'arme puon gli uomini avere, se non dieci alla volta, per rispetto de l'antiqua costuma ch'io v'ho detto. 72 Tutti gli altri alla spola, all'aco, al fuso, al pettine et all'aspo sono intenti, con vesti feminil che vanno giuso insin al piè, che gli fa molli e lenti. Si tengono in catena alcuni ad uso d'arar la terra o di guardar gli armenti. Son pochi i maschi, e non son ben, per mille femine, cento, fra cittadi e ville. 73 Volendo tôrre i cavallieri a sorte chi di lor debba, per commune scampo l'una decina in piazza porre a morte, e poi l'altra ferir ne l'altro campo; non disegnavan di Marfisa forte, stimando che trovar dovesse inciampo ne la seconda giostra de la sera; ch'ad averne vittoria abil non era. 74 Ma con gli altri esser vòlse ella sortita: or sopra lei la sorte in somma cade. Ella dicea: - Prima v'ho a por la vita, che v'abbiate a por voi la libertade: ma questa spada (e lor la spada addita, che cinta avea) vi do per securtade ch'io vi sciorrò tutti gl'intrichi al modo che fe' Alessandro il gordïano nodo. 75 Non vuo' mai più che forestier si lagni di questa terra, fin che 'l mondo dura. - Così disse; e non potero i compagni torle quel che le dava sua aventura. Dunque, o ch'in tutto perda, o lor guadagni la libertà, le lasciano la cura. Ella di piastre già guernita e maglia, s'appresentò nel campo alla battaglia. 76 Gira una piazza al sommo de la terra, di gradi a seder atti intorno chiusa; che solamente a giostre, a simil guerra, a caccie, a lotte, e non ad altro s'usa: quattro porte ha di bronzo, onde si serra. Quivi la moltitudine confusa de l'armigere femine si trasse; e poi fu detto a Marfisa ch'entrasse. 77 Entrò Marfisa s'un destrier leardo, tutto sparso di macchie e di rotelle, di piccol capo e d'animoso sguardo, d'andar superbo e di fattezze belle. Pel maggiore e più vago e più gagliardo, di mille che n'avea con briglie e selle, scelse in Damasco, e realmente ornollo, et a Marfisa Norandin donollo. 78 Da mezzogiorno e da la porta d'austro entrò Marfisa; e non vi stette guari, ch'appropinquare e risonar pel claustro udì di trombe acuti suoni e chiari: e vide poi di verso il freddo plaustro entrar nel campo i dieci suoi contrari. Il primo cavallier ch'apparve inante, di valer tutto il resto avea sembiante. 79 Quel venne in piazza sopra un gran destriero, che, fuor ch'in fronte e nel piè dietro manco, era, più che mai corbo, oscuro e nero: nel piè e nel capo avea alcun pelo bianco. Del color del cavallo il cavalliero vestito, volea dir che, come manco del chiaro era l'oscuro, era altretanto il riso in lui verso l'oscuro pianto. 80 Dato che fu de la battaglia il segno, nove guerrier l'aste chinaro a un tratto: ma quel dal nero ebbe il vantaggio a sdegno; si ritirò, né di giostrar fece atto. Vuol ch'alle leggi inanzi di quel regno, ch'alla sua cortesia, sia contrafatto. Si tra' da parte e sta a veder le pruove ch'una sola asta farà contra a nove. 81 Il destrier, ch'avea andar trito e soave, portò all'incontro la donzella in fretta, che nel corso arrestò lancia sì grave, che quattro uomini avriano a pena retta. L'avea pur dianzi al dismontar di nave per la più salda in molte antenne eletta. Il fier sembiante con ch'ella si mosse, mille faccie imbiancò, mille cor scosse. 82 Aperse al primo che trovò, sì il petto, che fôra assai che fosse stato nudo: gli passò la corazza e il soprapetto, ma prima un ben ferrato e grosso scudo. Dietro le spalle un braccio il ferro netto si vide uscir: tanto fu il colpo crudo. Quel fitto ne la lancia a dietro lassa, e sopra gli altri a tutta briglia passa. 83 E diede d'urto a chi venìa secondo, et a chi terzo sì terribil botta, che rotto ne la schena uscir del mondo fe' l'uno e l'altro, e de la sella a un'otta; sì duro fu l'incontro e di tal pondo, sì stretta insieme ne venìa la frotta. Ho veduto bombarde a quella guisa le squadre aprir, che fe' lo stuol Marfisa. 84 Sopra di lei più lance rotte furo; ma tanto a quelli colpi ella si mosse, quanto nel giuoco de le caccie un muro si muova a' colpi de le palle grosse. L'usbergo suo di tempra era sì duro, che non gli potean contra le percosse; e per incanto al fuoco de l'Inferno cotto, e temprato all'acque fu d'Averno. 85 Al fin del campo il destrier tenne e volse, e fermò alquanto: e in fretta poi lo spinse incontra gli altri, e sbarragliolli e sciolse, e di lor sangue insin all'elsa tinse. All'uno il capo, all'altro il braccio tolse; e un altro in guisa con la spada cinse, che 'l petto in terra andò col capo et ambe le braccia, e in sella il ventre era e le gambe. 86 Lo partì, dico, per dritta misura, de le coste e de l'anche alle confine, e lo fe' rimaner mezza figura, qual dinanzi all'imagini divine, posto d'argento, e più di cera pura son da genti lontane e da vicine, ch'a ringraziarle e sciorre il voto vanno de le domande pie ch'ottenute hanno. 87 Ad uno che fuggia, dietro si mise, né fu a mezzo la piazza, che lo giunse; e 'l capo e 'l collo in modo gli divise, che medico mai più non lo raggiunse. In somma tutti un dopo l'altro uccise, o ferì sì ch'ogni vigor n'emunse; e fu sicura che levar di terra mai più non si potrian per farle guerra. 88 Stato era il cavallier sempre in un canto, che la decina in piazza avea condutta; però che contra un solo andar con tanto vantaggio opra gli parve iniqua e brutta. Or che per una man tôrsi da canto vide sì tosto la compagna tutta, per dimostrar che la tardanza fosse cortesia stata e non timor, si mosse. 89 Con man fe' cenno di volere, inanti che facesse altro, alcuna cosa dire; e non pensando in sì viril sembianti che s'avesse una vergine a coprire, le disse; - Cavalliero, omai di tanti esser déi stanco, c'hai fatto morire; e s'io volessi, più di quel che sei, stancarti ancor, discortesia farei. 90 Che ti riposi in sino al giorno nuovo, e doman torni in campo, ti concedo. Non mi fia onor se teco oggi mi pruovo, che travagliato e lasso esser ti credo. - - Il travagliare in arme non m'è nuovo, né per sì poco alla fatica cedo (disse Marfisa); e spero ch'a tuo costo io ti farò di questo aveder tosto. 91 De la cortese offerta ti ringrazio, ma riposare ancor non mi bisogna; e ci avanza del giorno tanto spazio, ch'a porlo tutto in ozio è pur vergogna. - Rispose il cavallier: - Fuss'io sì sazio d'ogn'altra cosa che 'l mio core agogna, come t'ho in questo da saziar; ma vedi che non ti manchi il dì più che non credi. - 92 Così disse egli, e fe' portare in fretta due grosse lance, anzi due gravi antenne; et a Marfisa dar ne fe' l'eletta: tolse l'altra per sé, ch'indietro venne. Già sono in punto, et altro non s'aspetta ch'un alto suon che lor la giostra accenne. Ecco la terra e l'aria e il mar rimbomba nel mover loro al primo suon di tromba. 93 Trar fiato, bocca aprir, o battere occhi non si vedea de' riguardanti alcuno: tanto a mirare a chi la palma tocchi dei duo campioni, intento era ciascuno. Marfisa, acciò che de l'arcion trabocchi, sì che mai non si levi, il guerrier bruno, drizza la lancia; e il guerrier bruno forte studia non men di por Marfisa a morte. 94 Le lancie ambe di secco e suttil salce, non di cerro sembrâr grosso et acerbo, così n'andaro in tronchi fin al calce; e l'incontro ai destrier fu sì superbo, che parimente parve da una falce de le gambe esser lor tronco ogni nerbo. Cadero ambi ugualmente; ma i campioni fur presti a disbrigarsi dagli arcioni. 95 A mille cavallieri alla sua vita al primo incontro avea la sella tolta Marfisa, et ella mai non n'era uscita; e n'uscì, come udite, a questa volta. Del caso strano non pur sbigottita, ma quasi fu per rimanerne stolta. Parve anco strano al cavallier dal nero, che non solea cader già di leggiero. 96 Tocca avean nel cader la terra a pena, che furo in piedi e rinovâr l'assalto. Tagli e punte a furor quivi si mena, quivi ripara or scudo, or lama, or salto. Vada la botta vòta o vada piena, l'aria ne stride e ne risuona in alto. Quelli elmi, quelli usberghi, quelli scudi mostrâr ch'erano saldi più ch'incudi. 97 Se de l'aspra donzella il braccio è grave, né quel del cavallier nimico è lieve. Ben la misura ugual l'un da l'altro have: quanto a punto l'un dà, tanto riceve. Chi vol due fiere audaci anime brave, cercar più là di queste due non deve, né cercar più destrezza né più possa; che n'han tra lor quanto più aver si possa. 98 Le donne, che gran pezzo mirato hanno continuar tante percosse orrende, e che nei cavallier segno d'affanno e di stanchezza ancor non si comprende; dei duo miglior guerrier lode lor danno, che sien tra quanto il mar sua braccia estende. Par lor che, se non fosser più che forti, esser dovrian sol del travaglio morti. 99 Ragionando tra sé, dicea Marfisa: - Buon fu per me, che costui non si mosse; ch'andava a risco di restarne uccisa, se dianzi stato coi compagni fosse, quando io mi truovo a pena a questa guisa di potergli star contra alle percosse. - Così dice Marfisa; e tuttavolta non resta di menar la spada in volta. 100 - Buon fu per me (dicea quell'altro ancora), che riposar costui non ho lasciato. Difender me ne posso a fatica ora che de la prima pugna è travagliato. Se fin al nuovo dì facea dimora a ripigliar vigor, che saria stato? Ventura ebbi io, quanto più possa aversi, che non volesse tor quel ch'io gli offersi. - 101 La battaglia durò fin alla sera, né chi avesse anco il meglio era palese; né l'un né l'altro più senza lumiera saputo avria come schivar l'offese. Giunta la notte, all'inclita guerriera fu primo a dir il cavallier cortese: - Che faren, poi che con ugual fortuna n'ha sopragiunti la notte importuna? 102 Meglio mi par che 'l viver tuo prolunghi almeno insino a tanto che s'aggiorni. Io non posso concederti che aggiunghi fuor ch'una notte picciola ai tua giorni. E di ciò che non gli abbi aver più lunghi, la colpa sopra me non vuo' che torni: torni pur sopra alla spietata legge del sesso feminil che 'l loco regge. 103 Se di te duolmi e di quest'altri tuoi, lo sa colui che nulla cosa ha oscura. Con tuoi compagni star meco tu puoi: con altri non avrai stanza sicura; perché la turba, a cu' i mariti suoi oggi uccisi hai, già contra te congiura. Ciascun di questi a cui dato hai la morte, era di diece femine consorte. 104 Del danno c'han da te ricevut'oggi, disian novanta femine vendetta: sì che se meco ad albergar non poggi, questa notte assalito esser t'aspetta. - Disse Marfisa: - Accetto che m'alloggi, con sicurtà che non sia men perfetta in te la fede e la bontà del core, che sia l'ardire e il corporal valore. 105 Ma che t'incresca che m'abbi ad uccidere, ben ti può increscere anco del contrario. Fin qui non credo che l'abbi da ridere, perch'io sia men di te duro avversario. O la pugna seguir vogli o dividere, o farla all'uno o all'altro luminario, ad ogni cenno pronta tu m'avrai, e come et ogni volta che vorrai. - 106 Così fu differita la tenzone fin che di Gange uscisse il nuovo albóre, e si restò senza conclusïone chi d'essi duo guerrier fosse il migliore. Ad Aquilante venne et a Grifone e così agli altri il liberal signore, e li pregò che fin al nuovo giorno piacesse lor di far seco soggiorno. 107 Tenner lo 'nvito senza alcun sospetto: indi, a splendor de bianchi torchi ardenti, tutti saliro ov'era un real tetto, distinto in molti adorni alloggiamenti. Stupefatti al levarsi de l'elmetto, mirandosi, restaro i combattenti; che 'l cavallier, per quanto apparea fuora, non eccedeva i diciotto anni ancora. 108 Si maraviglia la donzella, come in arme tanto un giovinetto vaglia; si maraviglia l'altro, ch'alle chiome s'avede con chi avea fatto battaglia: e si domandan l'un con l'altro il nome, e tal debito tosto si ragguaglia. Ma come si nomasse il giovinetto, ne l'altro canto ad ascoltar v'aspetto.
1 Le donne antique hanno mirabil cose fatto ne l'arme e ne le sacre muse; e di lor opre belle e glorïose gran lume in tutto il mondo si diffuse. Arpalice e Camilla son famose, perché in battaglia erano esperte et use; Safo e Corinna, perché furon dotte, splendono illustri, e mai non veggon notte. 2 Le donne son venute in eccellenza di ciascun'arte ove hanno posto cura; e qualunque all'istorie abbia avvertenza, ne sente ancor la fama non oscura. Se 'l mondo n'è gran tempo stato senza, non però sempre il mal influsso dura; e forse ascosi han lor debiti onori l'invidia o il non saper degli scrittori. 3 Ben mi par di veder ch'al secol nostro tanta virtù fra belle donne emerga, che può dare opra a carte et ad inchiostro, perché nei futuri anni si disperga, e perché, odiose lingue, il mal dir vostro con vostra eterna infamia si sommerga: e le lor lode appariranno in guisa, che di gran lunga avanzeran Marfisa. 4 Or pur tornando a lei, questa donzella al cavallier che l'usò cortesia, de l'esser suo non niega dar novella, quando esso a lei voglia contar chi sia. Sbrigossi tosto del suo debito ella: tanto il nome di lui saper disia. - Io son (disse) Marfisa: - e fu assai questo; che si sapea per tutto 'l mondo il resto. 5 L'altro comincia, poi che tocca a lui, con più proemio a darle di sé conto, dicendo: - Io credo che ciascun di vui abbia de la mia stirpe il nome in pronto; che non pur Francia e Spagna e i vicin sui, ma l'India, l'Etïopia e il freddo Ponto han chiara cognizion di Chiaramonte, onde uscì il cavallier ch'uccise Almonte, 6 quel ch'a Chiarïello e al re Mambrino diede la morte, e il regno lor disfece. Di questo sangue, dove ne l'Eusino l'Istro ne vien con otto corna o diece, al duca Amone, il qual già peregrino vi capitò, la madre mia mi fece: e l'anno è ormai ch'io la lasciai dolente, per gire in Francia a ritrovar mia gente. 7 Ma non potei finire il mio vïaggio, che qua mi spinse un tempestoso Noto. Son dieci mesi o più che stanza v'aggio, che tutti i giorni e tutte l'ore noto. Nominato son io Guidon Selvaggio, di poca pruova ancora e poco noto. Uccisi qui Argilon da Melibea con dieci cavallier che seco avea. 8 Feci la pruova ancor de le donzelle: così n'ho diece a' miei piaceri allato; et alla scelta mia son le più belle, e son le più gentil di questo stato. E queste reggo e tutte l'altre; ch'elle di sé m'hanno governo e scettro dato: così daranno a qualunque altro arrida Fortuna sì, che la decina ancida. - 9 I cavallier domandano a Guidone, com'ha sì pochi maschi il tenitoro; e s'alle moglie hanno suggezïone, come esse l'han negli altri lochi a loro. Disse Guidon: - Più volte la cagione udita n'ho da poi che qui dimoro; e vi sarà, secondo ch'io l'ho udita, da me, poi che v'aggrada, riferita. 10 Al tempo che tornâr dopo anni venti da Troia i Greci (che durò l'assedio dieci, e dieci altri da contrari venti furo agitati in mar con troppo tedio), trovâr che le lor donne agli tormenti di tanta absenzia avean preso rimedio: tutte s'avean gioveni amanti eletti, per non si raffreddar sole nei letti. 11 Le case lor trovaro i Greci piene de l'altrui figli; e per parer commune perdonano alle mogli, che san bene che tanto non potean viver digiune: ma ai figli degli adulteri conviene altrove procacciarsi altre fortune; che tolerar non vogliono i mariti che più alle spese lor sieno notriti. 12 Sono altri esposti, altri tenuti occulti da le lor madri e sostenuti in vita. In varie squadre quei ch'erano adulti feron, chi qua chi là, tutti partita. Per altri l'arme son, per altri culti gli studi e l'arti; altri la terra trita; serve altri in corte; altri è guardian di gregge, come piace a colei che qua giú regge. 13 Partì fra gli altri un giovinetto, figlio di Clitemnestra, la crudel regina, di diciotto anni, fresco come un giglio, o rosa còlta allor di su la spina. Questi, armato un suo legno, a dar di piglio si pose e a depredar per la marina in compagnia di cento giovinetti del tempo suo, per tutta Grecia eletti. 14 I Cretesi, in quel tempo che cacciato il crudo Idomeneo del regno aveano, e per assicurarsi il nuovo stato, d'uomini e d'arme adunazion faceano; fêro con bon stipendio lor soldato Falanto (così al giovine diceano), e lui con tutti quei che seco avea, poser per guardia alla città Dictea. 15 Fra cento alme città ch'erano in Creta, Dictea più ricca e più piacevol era, di belle donne et amorose lieta, lieta di giochi da matino a sera: e com'era ogni tempo consueta d'accarezzar la gente forestiera, fe' a costor sì, che molto non rimase a fargli anco signor de le lor case. 16 Eran gioveni tutti e belli affatto (che 'l fior di Grecia avea Falanto eletto): sì ch'alle belle donne, al primo tratto che v'apparîr, trassero i cor del petto. Poi che non men che belli, ancora in fatto si dimostrâr buoni e gagliardi al letto, si fêro ad esse in pochi dì sì grati, che sopra ogn'altro ben n'erano amati. 17 Finita che d'accordo è poi la guerra per cui stato Falanto era condutto, e lo stipendio militar si serra, sì che non v'hanno i gioveni più frutto, e per questo lasciar voglion la terra; fan le donne di Creta maggior lutto, e per ciò versan più dirotti pianti, che se i lor padri avesson morti avanti. 18 Da le lor donne i gioveni assai fôro, ciascun per sé, di rimaner pregati: né volendo restare, esse con loro n'andâr, lasciando e padri e figli e frati, di ricche gemme e di gran summa d'oro avendo i lor dimestici spogliati; che la pratica fu tanto secreta, che non sentì la fuga uomo di Creta. 19 Sì fu propizio il vento, sì fu l'ora commoda, che Falanto a fuggir colse, che molte miglia erano usciti fuora, quando del danno suo Creta si dolse. Poi questa spiaggia, inabitata allora, trascorsi per fortuna li raccolse. Qui si posaro, e qui sicuri tutti meglio del furto lor videro i frutti. 20 Questa lor fu per dieci giorni stanza di piaceri amorosi tutta piena. Ma come spesso avvien, che l'abondanza seco in cor giovenil fastidio mena, tutti d'accordo fur di restar sanza femine, e liberarsi di tal pena; che non è soma da portar sì grave, come aver donna, quando a noia s'have. 21 Essi che di guadagno e di rapine eran bramosi, e di dispendio parchi, vider ch'a pascer tante concubine, d'altro che d'aste avean bisogno e d'archi: sì che sole lasciâr qui le meschine, e se n'andâr di lor ricchezze carchi là dove in Puglia in ripa al mar poi sento ch'edificâr la terra di Tarento. 22 Le donne, che si videro tradite dai loro amanti in che più fede aveano, restâr per alcun dì sì sbigottite, che statue immote in lito al mar pareano. Visto poi che da gridi e da infinite lacrime alcun profitto non traeano, a pensar cominciaro e ad aver cura come aiutarsi in tanta lor sciagura. 23 E proponendo in mezzo i lor pareri, altre diceano: in Creta è da tornarsi; e più tosto all'arbitrio de' severi padri e d'offesi lor mariti darsi, che nei deserti liti e boschi fieri, di disagio e di fame consumarsi. Altre dicean che lor saria più onesto affogarsi nel mar, che mai far questo; 24 e che manco mal era meretrici andar pel mondo, andar mendiche o schiave, che se stesse offerire agli supplìci di ch'eran degne l'opere lor prave. Questi e simil partiti le infelici si proponean, ciascun più duro e grave. Tra loro al fine una Orontea levosse, ch'origine traea dal re Minosse; 25 la più gioven de l'artre e la più bella e la più accorta, e ch'avea meno errato: amato avea Falanto, e a lui pulzella datasi, e per lui il padre avea lasciato. Costei mostrando in viso et in favella il magnanimo cor d'ira infiammato, redarguendo di tutte altre il detto, suo parer disse, e fe' seguirne effetto. 26 Di questa terra a lei non parve tôrsi, che conobbe feconda e d'aria sana, e di limpidi fiumi aver discorsi, di selve opaca, e la più parte piana; con porti e foci, ove dal mar ricorsi per ria fortuna avea la gente estrana, ch'or d'Africa portava, ora d'Egitto cose diverse e necessarie al vitto. 27 Qui parve a lei fermarsi, e far vendetta del viril sesso che le avea sì offese: vuol ch'ogni nave, che da venti astretta a pigliar venga porto in suo paese, a sacco, a sangue, a fuoco al fin si metta; né de la vita a un sol si sia cortese. Così fu detto e così fu concluso, e fu fatta la legge e messa in uso. 28 Come turbar l'aria sentiano, armate le femine correan su la marina, da l'implacabile Orontea guidate, che diè lor legge e si fe' lor regina: e de le navi ai liti lor cacciate faceano incendi orribili e rapina, uom non lasciando vivo, che novella dar ne potesse o in questa parte o in quella. 29 Così solinghe vissero qualch'anno aspre nimiche del sesso virile: ma conobbero poi, che 'l proprio danno procaccierian, se non mutavan stile; che se di lor propagine non fanno, sarà lor legge in breve irrita e vile, e mancherà con l'infecondo regno, dove di farla eterna era il disegno. 30 Sì che, temprando il suo rigore un poco scelsero, in spazio di quattro anni interi, di quanti capitaro in questo loco dieci belli e gagliardi cavallieri, che per durar ne l'amoroso gioco contr'esse cento fosser buon guerrieri. Esse in tutto eran cento; e statuito ad ogni lor decina fu un marito. 31 Prima ne fur decapitati molti che riusciro al paragon mal forti. Or questi dieci a buona pruova tolti, del letto e del governo ebbon consorti; facendo lor giurar che, se più còlti altri uomini verriano in questi porti, essi sarian che, spenta ogni pietade, li porriano ugualmente a fil di spade. 32 Ad ingrossare, et a figliar appresso le donne, indi a temere incominciaro che tanti nascerian del viril sesso, che contra lor non avrian poi riparo; e al fine in man degli uomini rimesso saria il governo ch'elle avean sì caro: sì ch'ordinâr, mentre eran gli anni imbelli, far sì, che mai non fosson lor ribelli. 33 Acciò il sesso viril non le soggioghi, uno ogni madre vuol la legge orrenda, che tenga seco; gli altri, o li suffoghi, o fuor del regno li permuti o venda. Ne mandano per questo in varii luoghi: e a chi gli porta dicono che prenda femine, se a baratto aver ne puote; se non, non torni almen con le man vòte. 34 Né uno ancora alleverian, se senza potesson fare, e mantenere il gregge. Questa è quanta pietà, quanta clemenza più ai suoi ch'agli altri usa l'iniqua legge: gli altri condannan con ugual sentenza; e solamente in questo si corregge, che non vuol che, secondo il primiero uso, le femine gli uccidano in confuso. 35 Se dieci o venti o più persone a un tratto vi fosser giunte, in carcere eran messe: e d'una al giorno, e non di più, era tratto il capo a sorte, che perir dovesse nel tempio orrendo ch'Orontea avea fatto, dove un altare alla Vendetta eresse; e dato all'un de' dieci il crudo ufficio per sorte era di farne sacrificio. 36 Dopo molt'anni alle ripe omicide a dar venne di capo un giovinetto, la cui stirpe scendea dal buono Alcide, di gran valor ne l'arme, Elbanio detto. Qui preso fu, ch'a pena se n'avide, come quel che venìa senza sospetto; e con gran guardia in stretta parte chiuso, con gli altri era serbato al crudel uso. 37 Di viso era costui bello e giocondo, e di maniere e di costumi ornato, e di parlar sì dolce e sì facondo, ch'un aspe volentier l'avria ascoltato: sì che, come di cosa rara al mondo, de l'esser suo fu tosto rapportato ad Alessandra figlia d'Orontea, che di molt'anni grave anco vivea. 38 Orontea vivea ancora; e già mancate tutt'eran l'altre ch'abitâr qui prima: e diece tante e più n'erano nate, e in forza eran cresciute e in maggior stima; né tra diece fucine che serrate stavan pur spesso, avean più d'una lima; e dieci cavallieri anco avean cura di dare a chi venìa fiera aventura. 39 Alessandra, bramosa di vedere il giovinetto ch'avea tante lode, da la sua matre in singular piacere impetra sì, ch'Elbanio vede et ode; e quando vuol partirne, rimanere si sente il core ove è chi 'l punge e rode: legar si sente e non sa far contesa, e al fin dal suo prigion si trova presa. 40 Elbanio disse a lei: « Se di pietade s'avesse, donna, qui notizia ancora, come se n'ha per tutt'altre contrade, dovunque il vago sol luce e colora; io vi osarei, per vostr'alma beltade ch'ogn'animo gentil di sé inamora, chiedervi in don la vita mia, che poi saria ognor presto a spenderla per voi. 41 Or quando fuor d'ogni ragion qui sono privi d'umanitade i cori umani, non vi domanderò la vita in dono, che i prieghi miei so ben che sarian vani; ma che da cavalliero, o tristo o buono ch'io sia, possi morir con l'arme in mani, e non come dannato per giudicio, o come animal bruto in sacrificio ». 42 Alessandra gentil, ch'umidi avea, per la pietà del giovinetto, i rai, rispose: « Ancor che più crudele e rea sia questa terra, ch'altra fosse mai; non concedo però che qui Medea ogni femina sia, come tu fai: e quando ogn'altra così fosse ancora, me sola di tant'altre io vo' trar fuora. 43 E se ben per adietro io fossi stata empia e crudel, come qui sono tante, dir posso che suggetto ove mostrata per me fosse pietà, non ebbi avante. Ma ben sarei di tigre più arrabbiata, e più duro avre' il cor che di diamante, se non m'avesse tolto ogni durezza tua beltà, tuo valor, tua gentilezza. 44 Così non fosse la legge più forte, che contra i peregrini è statuita, come io non schiverei con la mia morte di ricomprar la tua più degna vita. Ma non è grado qui di sì gran sorte, che ti potesse dar libera aita; e quel che chiedi ancor, ben che sia poco, difficile ottener fia in questo loco. 45 Pur io vedrò di far che tu l'ottenga, ch'abbi inanzi al morir questo contento; ma mi dubito ben che te n'avenga, tenendo il morir lungo, più tormento ». Suggiunse Elbanio: « Quando incontra io venga a dieci armato, di tal cor mi sento, che la vita ho speranza di salvarme, e uccider lor, se tutti fosser arme ». 46 Alessandra a quel detto non rispose se non un gran sospiro, e dipartisse, e portò nel partir mille amorose punte nel cor, mai non sanabil, fisse. Venne alla madre, e voluntà le pose di non lasciar che 'l cavallier morisse, quando si dimostrasse così forte, che, solo, avesse posto i dieci a morte. 47 La regina Orontea fece raccorre il suo consiglio, e disse: « A noi conviene sempre il miglior che ritroviamo, porre a guardar nostri porti e nostre arene; e per saper chi ben lasciar, chi tôrre, prova è sempre da far quando gli avviene; per non patir con nostro danno a torto, che regni il vile, e chi ha valor sia morto. 48 A me par, se a voi par, che statuito sia, ch'ogni cavallier per lo avvenire, che fortuna abbia tratto al nostro lito, prima ch'al tempio si faccia morire, possa egli sol, se gli piace il partito, incontra i dieci alla battaglia uscire; e se di tutti vincerli è possente, guardi egli il porto, e seco abbia altra gente. 49 Parlo così, perché abbiàn qui un prigione che par che vincer dieci s'offerisca. Quando, sol, vaglia tante altre persone, dignissimo è, per Dio, che s'esaudisca. Così in contrario avrà punizïone, quando vaneggi e temerario ardisca ». Orontea fine al suo parlar qui pose, a cui de le più antique una rispose: 50 « La principal cagion ch'a far disegno sul comercio degli uomini ci mosse, non fu perch'a difender questo regno del loro aiuto alcun bisogno fosse; che per far questo abbiamo ardire e ingegno da noi medesme, e a sufficienzia posse: così senza sapessimo far anco, che non venisse il propagarci a manco! 51 Ma poi che senza lor questo non lece, tolti abbiàn, ma non tanti, in compagnia, che mai ne sia più d'uno incontra diece, sì ch'aver di noi possa signoria. Per conciper di lor questo si fece, non che di lor difesa uopo ci sia. La lor prodezza sol ne vaglia in questo, e sieno ignavi e inutili nel resto. 52 Tra noi tenere un uom che sia sì forte, contrario è in tutto al principal disegno. Se può un solo a dieci uomini dar morte, quante donne farà stare egli al segno? Se i dieci nostri fosser di tal sorte, il primo dì n'avrebbon tolto il regno. Non è la via di dominar, se vuoi por l'arme in mano a chi può più di noi. 53 Pon mente ancor, che quando così aiti Fortuna questo tuo, che i dieci uccida, di cento donne che de' lor mariti rimarran prive, sentirai le grida. Se vuol campar, proponga altri partiti, ch'esser di dieci gioveni omicida. Pur, se per far con cento donne è buono quel che dieci fariano, abbi perdono ». 54 Fu d'Artemia crudel questo il parere (così avea nome), e non mancò per lei di far nel tempio Elbanio rimanere scannato inanzi agli spietati dèi. Ma la madre Orontea che compiacere volse alla figlia, replicò a colei altre et altre ragioni, e modo tenne che nel senato il suo parer s'ottenne. 55 L'aver Elbanio di bellezza il vanto sopra ogni cavallier che fosse al mondo, fu nei cor de le giovani di tanto, ch'erano in quel consiglio, e di tal pondo, che 'l parer de le vecchie andò da canto, che con Artemia volean far secondo l'ordine antiquo; né lontan fu molto ad esser per favore Elbanio assolto. 56 Di perdonargli in somma fu concluso, ma poi che la decina avesse spento, e che ne l'altro assalto fosse ad uso di diece donne buono, e non di cento. Di carcer l'altro giorno fu dischiuso; e avuto arme e cavallo a suo talento, contra dieci guerrier, solo, si mise, e l'uno appresso all'altro in piazza uccise. 57 Fu la notte seguente a prova messo contra diece donzelle ignudo e solo, dove ebbe all'ardir suo sì buon successo, che fece il saggio di tutto lo stuolo. E questo gli acquistò tal grazia appresso ad Orontea, che l'ebbe per figliuolo; e gli diete Alessandra e l'altre nove con ch'avea fatto le notturne prove. 58 E lo lasciò con Alessandra bella, che poi diè nome a questa terra, erede, con patto, ch'a servare egli abbia quella legge, et ogn'altro che da lui succede: che ciascun che già mai sua fiera stella farà qui por lo sventurato piede, elegger possa, o in sacrificio darsi, o con dieci guerrier, solo, provarsi. 59 E se gli avvien che 'l dì gli uomini uccida, la notte con le femine si provi; e quando in questo ancor tanto gli arrida la sorte sua, che vincitor si trovi, sia del femineo stuol principe e guida, e la decina a scelta sua rinovi, con la qual regni, fin ch'un altro arrivi, che sia più forte, e lui di vita privi. 60 Appresso a dua mila anni il costume empio si è mantenuto, e si mantiene ancora; e sono pochi giorni che nel tempio uno infelice peregrin non mora. Se contra dieci alcun chiede, ad esempio d'Elbanio, armarsi (che ve n'è talora), spesso la vita al primo assalto lassa; né di mille uno all'altra prova passa. 61 Pur ci passano alcuni, ma sì rari, che su le dita annoverar si ponno. Uno di questi fu Argilon: ma guari con la decina sua non fu qui donno; che cacciandomi qui venti contrari, gli occhi gli chiusi in sempiterno sonno. Così fossi io con lui morto quel giorno, prima che viver servo in tanto scorno. 62 Che piaceri amorosi e riso e gioco, che suole amar ciascun de la mia etade, le purpure e le gemme e l'aver loco inanzi agli altri ne la sua cittade, potuto hanno, per Dio, mai giovar poco all'uom che privo sia di libertade: e 'l non poter mai più di qui levarmi, servitù grave e intolerabil parmi. 63 Il vedermi lograr dei miglior anni il più bel fiore in sì vile opra e molle, tiemmi il cor sempre in stimulo e in affanni, et ogni gusto di piacer mi tolle. La fama del mio sangue spiega i vanni per tutto 'l mondo, e fin al ciel s'estolle; che forse buona parte anch'io n'avrei, s'esser potessi coi fratelli miei. 64 Parmi ch'ingiuria il mio destin mi faccia, avendomi a sì vil servigio eletto; come chi ne l'armento il destrier caccia, il qual d'occhi o di piedi abbia difetto, o per altro accidente che dispiaccia, sia fatto all'arme e a miglior uso inetto: né sperando io, se non per morte, uscire di sì vil servitù, bramo morire. - 65 Guidon qui fine alle parole pose, e maledì quel giorno per isdegno, il qual dei cavallieri e de le spose gli diè vittoria in acquistar quel regno. Astolfo stette a udire, e si nascose tanto, che si fe' certo a più d'un segno, che, come detto avea, questo Guidone era figliol del suo parente Amone. 66 Poi gli rispose: - Io sono il duca inglese, il tuo cugino Astolfo; - et abbracciollo, e con atto amorevole e cortese, non senza sparger lagrime, baciollo. - Caro parente mio, non più palese tua madre ti potea por segno al collo; ch'a farne fede che tu sei de' nostri, basta il valor che con la spada mostri. - 67 Guidon, ch'altrove avria fatto gran festa d'aver trovato un sì stretto parente, quivi l'accolse con la faccia mesta, perché fu di vedervilo dolente. Se vive, sa ch'Astolfo schiavo resta, né il termine è più là che 'l dì seguente; se fia libero Astolfo, ne more esso: sì che 'l ben d'uno è il mal de l'altro espresso. 68 Gli duol che gli altri cavallieri ancora abbia, vincendo, a far sempre captivi; né più, quando esso in quel contrasto mora, potrà giovar che servitù lor schivi: che se d'un fango ben gli porta fuora, e poi s'inciampi come all'altro arrivi, avrà lui senza pro vinto Marfisa; ch'essi pur ne fien schiavi, et ella uccisa. 69 Da l'altro canto avea l'acerba etade, la cortesia e il valor del giovinetto d'amore intenerito e di pietade tanto a Marfisa et ai compagni il petto, che, con morte di lui lor libertade esser dovendo, avean quasi a dispetto: e se Marfisa non può far con manco ch'uccider lui, vuol essa morir anco. 70 Ella disse a Guidon: - Vientene insieme con noi, ch'a viva forza usciren quinci. - - Deh (rispose Guidon) lascia ogni speme di mai più uscirne, o perdi meco o vinci. - Ella suggiunse: - Il mio cor mai non teme di non dar fine a cosa che cominci; né trovar so la più sicura strada di quella ove mi sia guida la spada. 71 Tal ne la piazza ho il tuo valor provato, che, s'io son teco, ardisco ad ogn'impresa. Quando la turba intorno allo steccato sarà domani in sul teatro ascesa, io vo' che l'uccidian per ogni lato, o vada in fuga o cerchi far difesa, e ch'agli lupi e agli avoltoi del loco lasciamo i corpi, e la cittade al fuoco. - 72 Suggiunse a lei Guidon: - Tu m'avrai pronto a seguitarti et a morirti a canto, ma vivi rimaner non facciàn conto; bastar ne può di vendicarci alquanto: che spesso dieci mila in piazza conto del popul feminile, et altretanto resta a guardare e porto e ròcca e mura, né alcuna via d'uscir trovo sicura. - 73 Disse Marfisa: - E molto più sieno elle degli uomini che Serse ebbe già intorno, e sieno più de l'anime ribelle ch'uscîr del ciel con lor perpetuo scorno; se tu sei meco, o almen non sie con quelle, tutte le voglio uccidere in un giorno. - Guidon suggiunse: - Io non ci so via alcuna ch'a valer n'abbia, se non val quest'una. 74 Ne può sola salvar, se ne succede, quest'una ch'io dirò, ch'or mi soviene. Fuor ch'alle donne, uscir non si concede, né metter piede in su le salse arene: e per questo commettermi alla fede d'una de le mie donne mi conviene, del cui perfetto amor fatta ho sovente più pruova ancor, ch'io non farò al presente. 75 Non men di me tormi costei disia di servitù, pur che ne venga meco, che così spera, senza compagnia de le rivali sue, ch'io viva seco. Ella nel porto o fuste o saettia farà ordinar, mentre è ancor l'aer cieco, che i marinai vostri troveranno acconcia a navigar, come vi vanno. 76 Dietro a me tutti in un drappel ristretti, cavallieri, mercanti e galeotti, ch'ad albergarvi sotto a questi tetti meco, vostra mercé, sète ridotti, avrete a farvi amplo sentier coi petti, se del nostro camin siamo interrotti: così spero, aiutandoci le spade, ch'io vi trarrò de la crudel cittade. - 77 - Tu fa come ti par (disse Marfisa), ch'io son per me d'uscir di qui sicura. Più facil fia che di mia mano uccisa la gente sia, che è dentro a queste mura, che mi veggi fuggire, o in altra guisa alcun possa notar ch'abbi paura. Vo' uscir di giorno, e sol per forza d'arme; che per ogn'altro modo obbrobrio parme. 78 S'io ci fossi per donna conosciuta, so ch'avrei da le donne onore e pregio; e volentieri io ci sarei tenuta e tra le prime forse del collegio: ma con costoro essendoci venuta, non ci vo' d'essi aver più privilegio. Troppo error fôra ch'io mi stessi o andassi libera, e gli altri in servitù lasciassi. - 79 Queste parole et altre seguitando, mostrò Marfisa che 'l rispetto solo ch'avea al periglio de' compagni (quando potria loro il suo ardir tornare in duolo), la tenea che con alto e memorando segno d'ardir non assalia lo stuolo: e per questo a Guidon lascia la cura d'usar la via che più gli par sicura. 80 Guidon la notte con Aleria parla (così avea nome la più fida moglie), né bisogno gli fu molto pregarla, che la trovò disposta alle sue voglie. Ella tolse una nave e fece armarla, e v'arrecò le sue più ricche spoglie, fingendo di volere al nuovo albóre con le compagne uscire in corso fuore. 81 Ella avea fatto nel palazzo inanti spade e lancie arrecar, corazze e scudi, onde armar si potessero i mercanti e i galeotti ch'eran mezzo nudi. Altri dormiro, et altri stêr vegghianti, compartendo tra lor gli ozii e gli studi; spesso guardando, e pur con l' arme indosso, se l'orïente ancor si facea rosso. 82 Dal duro volto de la terra il sole non tollea ancora il velo oscuro et atro; a pena avea la licaonia prole per li solchi del ciel volto l'aratro: quando il femineo stuol, che veder vuole il fin de la battaglia, empì il teatro, come ape del suo claustro empie la soglia, che mutar regno al nuovo tempo voglia. 83 Di trombe, di tambur, di suon de corni il popul risonar fa cielo e terra, così citando il suo signor, che torni a terminar la cominciata guerra. Aquilante e Grifon stavano adorni de le lor arme, e il duca d'Inghilterra, Guidon, Marfisa, Sansonetto e tutti gli altri, chi a piedi e chi a cavallo instrutti. 84 Per scender dal palazzo al mare e al porto, la piazza traversar si convenia, né v'era altro camin lungo né corto: così Guidon disse alla compagnia. E poi che di ben far molto conforto lor diede, entrò senza rumore in via; e ne la piazza, dove il popul era, s'appresentò con più di cento in schiera. 85 Molto affrettando i suoi compagni, andava Guidone all'altra porta per uscire: ma la gran moltitudine che stava intorno armata, e sempre atta a ferire, pensò, come lo vide che menava seco quegli altri, che volea fuggire; e tutta a un tratto agli archi suoi ricorse, e parte, onde s'uscia, venne ad opporse. 86 Guidone e gli altri cavallier gagliardi, e sopra tutti lor Marfisa forte, al menar de le man non furon tardi, e molto fêr per isforzar le porte: ma tanta e tanta copia era dei dardi che, con ferite dei compagni e morte, pioveano lor di sopra e d'ogn'intorno, ch'al fin temean d'averne danno e scorno. 87 D'ogni guerrier l'usbergo era perfetto; che se non era, avean più da temere. Fu morto il destrier sotto a Sansonetto; quel di Marfisa v'ebbe a rimanere. Astolfo tra sé disse: - Ora, ch'aspetto che mai mi possa il corno più valere? Io vo' veder, poi che non giova spada, s'io so col corno assicurar la strada. - 88 Come aiutar ne le fortune estreme sempre si suol, si pone il corno a bocca. Par che la terra e tutto 'l mondo trieme, quando l'orribil suon ne l'aria scocca. Sì nel cor de la gente il timor preme, che per disio di fuga si trabocca giù del teatro sbigottita e smorta, non che lasci la guardia de la porta. 89 Come talor si getta e si periglia e da finestra e da sublime loco l'esterrefatta subito famiglia, che vede appresso e d'ogn'intorno il fuoco, che mentre le tenea gravi le ciglia il pigro sonno, crebbe a poco a poco; così, messa la vita in abandono, ognun fuggia lo spaventoso suono. 90 Di qua di là, di su di giú smarrita surge la turba, e di fuggir procaccia. Son più di mille a un tempo ad ogni uscita: cascano a monti, e l'una l'altra impaccia. In tanta calca perde altra la vita; da palchi e da finestre altra si schiaccia: più d'un braccio si rompe e d'una testa, di ch'altra morta, altra storpiata resta. 91 Il pianto e 'l grido insino al ciel saliva, d'alta ruina misto e di fraccasso. Affretta, ovunque il suon del corno arriva, la turba spaventata in fuga il passo. Se udite dir che d'ardimento priva la vil plebe si mostri e di cor basso, non vi maravigliate; che natura è de la lepre aver sempre paura. 92 Ma che direte del già tanto fiero cor di Marfisa e di Guidon Selvaggio? dei dua giovini figli d'Oliviero, che già tanto onoraro il lor lignaggio? Già cento mila avean stimato un zero; e in fuga or se ne van senza coraggio, come conigli, o timidi colombi a cui vicino alto rumor rimbombi. 93 Così noceva ai suoi come agli strani la forza che nel corno era incantata. Sansonetto, Guidone e i duo germani fuggon dietro a Marfisa spaventata; né fuggendo ponno ir tanto lontani, che lor non sia l'orecchia anco intronata. Scorre Astolfo la terra in ogni lato, dando via sempre al corno maggior fiato. 94 Chi scese al mare, e chi poggiò su al monte, e chi tra i boschi ad occultar si venne: alcuna, senza mai volger la fronte, fuggir per dieci dì non si ritenne: uscì in tal punto alcuna fuor del ponte, ch'in vita sua mai più non vi rivenne. Sgombraro in modo e piazze e templi e case, che quasi vòta la città rimase. 95 Marfisa e 'l bon Guidone e i duo fratelli e Sansonetto, pallidi e tremanti, fuggiano inverso il mare, e dietro a quelli fuggian i marinari e i mercatanti; ove Aleria trovâr, che, fra i castelli, loro avea un legno apparechiato inanti. Quindi, poi ch'in gran fretta li raccolse, diè i remi all'acqua et ogni vela sciolse. 96 Dentro e d'intorno il duca la cittade avea scorsa dai colli insino all'onde; fatto avea vòte rimaner le strade: ognun lo fugge, ognun se gli nasconde. Molte trovate fur, che per viltade s'eran gittate in parti oscure e immonde; e molte, non sappiendo ove s'andare, messesi a nuoto et affogate in mare. 97 Per trovare i compagni il duca viene, che si credea di riveder sul molo. Si volge intorno, e le deserte arene guarda per tutto, e non v'appare un solo. Leva più gli occhi, e in alto a vele piene da sé lontani andar li vede a volo: sì che gli convien fare altro disegno al suo camin, poi che partito è il legno. 98 Lasciamolo andar pur - né vi rincresca che tanta strada far debba soletto per terra d'infedeli e barbaresca, dove mai non si va senza sospetto: non è periglio alcuno, onde non esca con quel suo corno, e n'ha mostrato effetto; - e dei compagni suoi pigliamo cura, ch'al mar fuggian tremando di paura. 99 A piena vela si cacciaron lunge da la crudele e sanguinosa spiaggia: e poi che di gran lunga non li giunge l'orribil suon ch'a spaventar più gli aggia, insolita vergogna sì gli punge, che, com'un fuoco, a tutti il viso raggia. L'un non ardisce a mirar l'altro, e stassi tristo, senza parlar, con gli occhi bassi. 100 Passa il nocchiero, al suo vïaggio intento, e Cipro e Rodi, e giú per l'onda egea da sé vede fuggire isole cento col periglioso capo di Malea; e con propizio et immutabil vento asconder vede la greca Morea; volta Sicilia, e per lo mar Tirreno costeggia de l'Italia il lito ameno: 101 e sopra Luna ultimamente sorse, dove lasciato avea la sua famiglia. Dio ringraziando che 'l pelago corse senza più danno, il noto lito piglia. Quindi un nochier trovâr per Francia sciorse, il qual di venir seco li consiglia: e nel suo legno ancor quel dì montaro, et a Marsilia in breve si trovaro. 102 Quivi non era Bradamante allora, ch'aver solea governo del paese; che se vi fosse, a far seco dimora gli avria sforzati con parlar cortese. Sceser nel lito, e la medesima ora dai quattro cavallier congedo prese Marfisa, e da la donna del Selvaggio; e pigliò alla ventura il suo vïaggio, 103 dicendo che lodevole non era ch'andasser tanti cavallieri insieme: che gli storni e i colombi vanno in schiera, i daini e i cervi e ogn'animal che teme; ma l'audace falcon, l'aquila altiera, che ne l'aiuto altrui non metton speme, orsi, tigri, leon, soli ne vanno; che di più forza alcun timor non hanno. 104 Nessun degli altri fu di quel pensiero; sì ch'a lei sola toccò a far partita. Per mezzo i boschi e per strano sentiero dunque ella se n'andò sola e romita. Grifone il bianco et Aquilante il nero pigliâr con gli altri duo la via più trita, e giunsero a un castello il dì seguente, dove albergati fur cortesemente. 105 Cortesemente dico in apparenza, ma tosto vi sentîr contrario effetto; che 'l signor del castel, benivolenza fingendo e cortesia, lor dè ricetto: e poi la notte, che sicuri senza timor dormian, gli fe' pigliar nel letto; né prima li lasciò, che d'osservare una costuma ria li fe' giurare. 106 Ma vo' seguir la bellicosa donna, prima, Signor, che di costor più dica. Passò Druenza, il Rodano e la Sonna, e venne a piè d'una montagna aprica. Quivi lungo un torrente, in negra gonna vide venire una femina antica, che stanca e lassa era di lunga via, ma via più afflitta di malenconia. 107 Questa è la vecchia che solea servire ai malandrin nel cavernoso monte, là dove alta giustizia fe' venire e dar lor morte il paladino conte. La vecchia, che timore ha di morire per le cagion che poi vi saran conte, già molti dì va per via oscura e fosca, fuggendo ritrovar chi la conosca. 108 Quivi d'estrano cavallier sembianza l'ebbe Marfisa all'abito e all'arnese; e perciò non fuggì, com'avea usanza fuggir dagli altri ch'eran del paese; anzi con sicurezza e con baldanza si fermò al guado, e di lontan l'attese: al guado del torrente, ove trovolla, la vecchia le uscì incontra e salutolla. 109 Poi la pregò che seco oltr'a quell'acque ne l'altra ripa in groppa la portasse. Marfisa, che gentil fu da che nacque, di là dal fiumicel seco la trasse; e portarla anch'un pezzo non le spiacque, fin ch'a miglior camin la ritornasse, fuor d'un gran fango; e al fin di quel sentiero si videro all'incontro un cavalliero. 110 Il cavallier su ben guernita sella, di lucide arme e di bei panni ornato, verso il fiume venìa, da una donzella e da un solo scudiero accompagnato. La donna ch'avea seco era assai bella, ma d'altiero sembiante e poco grato, tutta d'orgoglio e di fastidio piena, del cavallier ben degna che la mena. 111 Pinabello, un de' conti maganzesi, era quel cavallier ch'ella avea seco; quel medesmo che dianzi a pochi mesi Bradamante gittò nel cavo speco. Quei sospir, quei singulti così accesi, quel pianto che lo fe' già quasi cieco, tutto fu per costei ch'or seco avea, che 'l negromante allor gli ritenea. 112 Ma poi che fu levato di sul colle l'incantato castel del vecchio Atlante, e che poté ciascuno ire ove volle, per opra e per virtù di Bradamante; costei, ch'agli disii facile e molle di Pinabel sempre era stata inante, si tornò a lui, et in sua compagnia da un castello ad un altro or se ne gìa. 113 E sì come vezzosa era e mal usa, quando vide la vecchia di Marfisa, non si poté tenere a bocca chiusa di non la motteggiar con beffe e risa. Marfisa altiera, appresso a cui non s'usa sentirsi oltraggio in qualsivoglia guisa, rispose d'ira accesa alla donzella, che di lei quella vecchia era più bella; 114 e ch'al suo cavallier volea provallo, con patto di poi tôrre a lei la gonna e il palafren ch'avea, se da cavallo gittava il cavallier di ch'era donna. Pinabel che faria, tacendo, fallo, di risponder con l'arme non assonna: piglia lo scudo e l'asta, e il destrier gira, poi vien Marfisa a ritrovar con ira. 115 Marfisa incontra una gran lancia afferra, e ne la vista a Pinabel l'arresta, e sì stordito lo riversa in terra, che tarda un'ora a rilevar la testa. Marfisa vincitrice de la guerra, fe' trarre a quella giovane la vesta, et ogn'altro ornamento le fe' porre, e ne fe' il tutto alla sua vecchia tôrre: 116 e di quel giovenile abito vòlse che si vestisse e se n'ornasse tutta; e fe' che 'l palafreno anco si tolse, che la giovane avea quivi condutta. Indi al preso camin con lei si volse, che quant'era più ornata, era più brutta. Tre giorni se n'andâr per lunga strada, senza far cosa onde a parlar m'accada. 117 Il quarto giorno un cavallier trovaro, che venìa in fretta galoppando solo. Se di saper chi sia forse v'è caro, dicovi ch'è Zerbin, di re figliuolo, di virtù esempio e di bellezza raro, che se stesso rodea d'ira e di duolo di non aver potuto far vendetta d'un che gli avea gran cortesia interdetta. 118 Zerbino indarno per la selva corse dietro a quel suo che gli avea fatto oltraggio; ma sì a tempo colui seppe via tôrse, sì seppe nel fuggir prender vantaggio, sì il bosco e sì una nebbia lo soccorse, ch'avea offuscato il matutino raggio, che di man di Zerbin si levò netto, fin che l'ira e il furor gli uscì del petto. 119 Non poté, ancor che Zerbin fosse irato, tener, vedendo quella vecchia, il riso; che gli parea dal giovenile ornato troppo diverso il brutto antiquo viso; et a Marfisa, che le venìa a lato, disse: - Guerrier, tu sei pien d'ogni aviso, che damigella di tal sorte guidi, che non temi trovar chi te la invidi.- 120 Avea la donna (se la crespa buccia può darne indicio) più de la Sibilla, e parea, così ornata, una bertuccia, quando per muover riso alcun vestilla; et or più brutta par, che si coruccia, e che dagli occhi l'ira le sfavilla: ch'a donna non si fa maggior dispetto, che quando o vecchia o brutta le vien detto. 121 Mostrò turbarse l'inclita donzella, per prenderne piacer, come si prese; e rispose a Zerbin: - Mia donna è bella, per Dio, via più che tu non sei cortese; come ch'io creda che la tua favella da quel che sente l'animo non scese: tu fingi non conoscer sua beltade, per escusar la tua somma viltade. 122 E chi saria quel cavallier, che questa sì giovane e sì bella ritrovasse senza più compagnia ne la foresta, e che di farla sua non si provasse? - - Sì ben (disse Zerbin) teco s'assesta, che saria mal ch'alcun te la levasse; et io per me non son così indiscreto, che te ne privi mai: stanne pur lieto. 123 S'in altro conto aver vuoi a far meco, di quel ch'io vaglio son per farti mostra; ma per costei non mi tener sì cieco, che solamente far voglia una giostra. O brutta o bella sia, restisi teco: non vo' partir tanta amicizia vostra. Ben vi sète accoppiati: io giurerei, com'ella è bella, tu gagliardo sei. - 124 Suggiunse a lui Marfisa: - Al tuo dispetto di levarmi costei provar convienti. Non vo' patir ch'un sì leggiadro aspetto abbi veduto, e guadagnar nol tenti. - Rispose a lei Zerbin - Non so a ch'effetto l'uom si metta a periglio e si tormenti, per riportarne una vittoria poi, che giovi al vinto, e al vincitore annoi. - 125 - Se non ti par questo partito buono, te ne do un altro, e ricusar nol déi (disse a Zerbin Marfisa): che s'io sono vinto da te, m'abbia a restar costei; ma s'io te vinco, a forza te la dono. Dunque provian chi de' star senza lei: se perdi, converrà che tu le faccia compagnia sempre, ovunque andar le piaccia. - 126 - E così sia, - Zerbin rispose; e volse a pigliar campo subito il cavallo. Si levò su le staffe e si raccolse fermo in arcione, e per non dare in fallo, lo scudo in mezzo alla donzella colse; ma parve urtasse un monte di metallo: et ella in guisa a lui toccò l'elmetto, che stordito il mandò di sella netto. 127 Troppo spiacque a Zerbin l'esser caduto, ch'in altro scontro mai più non gli avvenne, e n'avea mille e mille egli abbattuto; et a perpetuo scorno se lo tenne. Stette per lungo spazio in terra muto; e più gli dolse poi che gli sovenne ch'avea promesso e che gli convenia aver la brutta vecchia in compagnia. 128 Tornando a lui la vincitrice in sella, disse ridendo: - Questa t'appresento; e quanto più la veggio e grata e bella, tanto, ch'ella sia tua, più mi contento. Or tu in mio loco sei campion di quella; ma la tua fé non se ne porti il vento, che per sua guida e scorta tu non vada (come hai promesso) ovunque andar l'aggrada. - 129 Senza aspettar risposta urta il destriero per la foresta, e subito s'imbosca. Zerbin, che la stimava un cavalliero, dice alla vecchia: - Fa ch'io lo conosca. - Et ella non gli tiene ascoso il vero, onde sa che lo 'ncende e che l'attosca: - Il colpo fu di man d'una donzella, che t'ha fatto votar (disse) la sella. 130 Pel suo valor costei debitamente usurpa a' cavallieri e scudo e lancia; e venuta è pur dianzi d'Orïente per assaggiare i paladin di Francia. - Zerbin di questo tal vergogna sente, che non pur tinge di rossor la guancia, ma restò poco di non farsi rosso seco ogni pezzo d'arme ch'avea indosso. 131 Monta a cavallo, e se stesso rampogna che non seppe tener strette le cosce. Tra sé la vecchia ne sorride, e agogna di stimularlo e di più dargli angosce. Gli ricorda ch'andar seco bisogna: e Zerbin, ch'ubligato si conosce, l'orecchie abbassa, come vinto e stanco destrier c'ha in bocca il fren, gli sproni al fianco. 132 E sospirando: - Ohimè, Fortuna fella (dicea), che cambio è questo che tu fai? Colei che fu sopra le belle bella, ch'esser meco dovea, levata m'hai. Ti par ch'in luogo et in ristor di quella si debba por costei ch'ora mi dai? Stare in danno del tutto era men male che fare un cambio tanto diseguale. 133 Colei che di bellezze e di virtuti unqua non ebbe e non avrà mai pare, sommersa e rotta tra gli scogli acuti hai data ai pesci et agli augei del mare; e costei che dovria già aver pasciuti sotterra i vermi, hai tolta a perservare dieci o venti anni più che non devevi, per dar più peso agli mie' affanni grevi. - 134 Zerbin così parlava; né men tristo in parole e in sembianti esser parea di questo nuovo suo sì odioso acquisto, che de la donna che perduta avea. La vecchia, ancor che non avesse visto mai più Zerbin, per quel ch'ora dicea, s'avvide esser colui di che notizia le diede già Issabella di Galizia. 135 Se 'l vi ricorda quel ch'avete udito, costei da la spelonca ne veniva, dove Issabella, che d'amor ferito Zerbino avea, fu molti dì captiva. Più volte ella le avea già riferito come lasciasse la paterna riva, e come rotta in mar da la procella, si salvasse alla spiaggia di Rocella. 136 E sì spesso dipinto di Zerbino le avea il bel viso e le fattezze conte, ch'ora udendol parlare, e più vicino gli occhi alzandogli meglio ne la fronte, vide esser quel per cui sempre meschino fu d'Issabella il cor nel cavo monte; che di non veder lui più si lagnava, che d'esser fatta ai malandrini schiava. 137 La vecchia, dando alle parole udienza, che con sdegno e con duol Zerbino versa, s'avede ben ch'egli ha falsa credenza che sia Issabella in mar rotta e sommersa: e ben ch'ella del certo abbia scïenza, per non lo rallegrar, pur la perversa quel che far lieto lo potria, gli tace, e sol gli dice quel che gli dispiace. 138 - Odi tu (gli disse ella), tu che sei cotanto altier, che sì mi scherni e sprezzi, se sapessi che nuova ho di costei che morta piangi, mi faresti vezzi: ma più tosto che dirtelo, torrei che mi strozzassi o fêssi in mille pezzi; dove, s'eri vêr me più mansueto, forse aperto t'avrei questo secreto. - 139 Come il mastin che con furor s'aventa adosso al ladro, ad achetarsi è presto, che quello o pane o cacio gli appresenta, o che fa incanto approprïato a questo; così tosto Zerbino umil diventa, e vien bramoso di sapere il resto, che la vecchia gli accenna che di quella, che morta piange, gli sa dir novella. 140 E volto a lei con più piacevol faccia, la supplica, la prega, la scongiura per gli uomini, per Dio, che non gli taccia quanto ne sappia, o buona o ria ventura. - Cosa non udirai che pro ti faccia (disse la vecchia pertinace e dura): non è Issabella, come credi, morta; ma viva sì, ch'a' morti invidia porta. 141 È capitata in questi pochi giorni che non n'udisti, in man di più di venti; sì che, qualora anco in man tua ritorni, ve' se sperar di côrre il fior convienti. - Ah vecchia maladetta, come adorni la tua menzogna! e tu sai pur se menti. Se ben in man de venti ell'era stata, non l'avea alcun però mai vïolata. 142 Dove l'avea veduta domandolle Zerbino, e quando, ma nulla n'invola; che la vecchia ostinata più non volle a quel c'ha detto aggiungere parola. Prima Zerbin le fece un parlar molle, poi minacciolle di tagliar la gola: ma tutto è invan ciò che minaccia e prega; che non può far parlar la brutta strega. 143 Lasciò la lingua all'ultimo in riposo Zerbin, poi che 'l parlar gli giovò poco; per quel ch'udito avea, tanto geloso, che non trovava il cor nel petto loco; d'Issabella trovar sì disïoso, che saria per vederla ito nel fuoco: ma non poteva andar più che volesse colei, poi ch'a Marfisa lo promesse. 144 E quindi per solingo e strano calle, dove a lei piacque, fu Zerbin condotto; né per o poggiar monte o scender valle, mai si guardaro in faccia o si fêr motto. Ma poi ch'al mezzodì volse le spalle il vago sol, fu il lor silenzio rotto da un cavallier che nel camin scontraro. Quel che seguì, ne l'altro canto è chiaro.
1 Né fune intorto crederò che stringa soma così, né così legno chiodo, come la fé ch'una bella alma cinga del suo tenace indissolubil nodo. Né dagli antiqui par che si dipinga la santa Fé vestita in altro modo, che d'un vel bianco che la cuopra tutta: ch'un sol punto, un sol neo la può far brutta. 2 La fede unqua non debbe esser corrotta, o data a un solo, o data insieme a mille; e così in una selva, in una grotta, lontan da le cittadi e da le ville, come dinanzi a tribunali, in frotta di testimon, di scritti e di postille, senza giurare o segno altro più espresso, basti una volta che s'abbia promesso. 3 Quella servò, come servar si debbe in ogni impresa, il cavallier Zerbino: e quivi dimostrò che conto n'ebbe, quando si tolse dal proprio camino per andar con costei, la qual gl'increbbe, come s'avesse il morbo sì vicino, o pur la morte istessa; ma potea, più che 'l disio, quel che promesso avea. 4 Dissi di lui, che di vederla sotto la sua condotta tanto al cor gli preme, che n'arrabbia di duol, né le fa motto, e vanno muti e taciturni insieme: dissi che poi fu quel silenzio rotto, ch'al mondo il sol mostrò le ruote estreme, da un cavalliero aventuroso errante, ch'in mezzo del camin lor si fe' inante. 5 La vecchia che conobbe il cavalliero, ch'era nomato Ermonide d'Olanda, che per insegna ha ne lo scudo nero attraversata una vermiglia banda, posto l'orgoglio e quel sembiante altiero, umilmente a Zerbin si raccomanda, e gli ricorda quel ch'esso promise alla guerriera ch'in sua man la mise. 6 Perché di lei nimico e di sua gente era il guerrier che contra lor venìa: ucciso ad essa avea il padre innocente, e un fratello che solo al mondo avia; e tuttavolta far del rimanente, come degli altri, il traditor disia. - Fin ch'alla guardia tua, donna, mi senti (dicea Zerbin), non vo' che tu paventi. - 7 Come più presso il cavallier si specchia in quella faccia che sì in odio gli era: - O di combatter meco t'apparecchia (gridò con voce minacciosa e fiera), o lascia la difesa de la vecchia, che di mia man secondo il merto pèra. Se combatti per lei, rimarrai morto; che così avviene a chi s'appiglia al torto. - 8 Zerbin cortesemente a lui risponde che gli è desir di bassa e mala sorte, et a cavalleria non corrisponde che cerchi dare ad una donna morte: se pur combatter vuol, non si nasconde; ma che prima consideri ch'importe ch'un cavallier, com'era egli, gentile, voglia por man nel sangue feminile, 9 Queste gli disse e più parole invano; e fu bisogno al fin venire a' fatti. Poi che preso a bastanza ebbon del piano, tornârsi incontra a tutta briglia ratti. Non van sì presti i razzi fuor di mano, ch'al tempo son de le allegrezze tratti, come andaron veloci i duo destrieri ad incontrare insieme i cavallieri. 10 Ermonide d'Olanda segnò basso, che per passare il destro fianco attese: ma la sua debol lancia andò in fracasso, e poco il cavallier di Scozia offese. Non fu già l'altro colpo vano e casso: roppe lo scudo, e sì la spalla prese, che la forò da l'uno all'altro lato, e riversar fe' Ermonide sul prato. 11 Zerbin che si pensò d'averlo ucciso, di pietà vinto, scese in terra presto, e levò l'elmo da lo smorto viso; e quel guerrier, come dal sonno desto, senza parlar guardò Zerbino fiso; e poi gli disse: - Non m'è già molesto ch'io sia da te abbattuto, ch'ai sembianti mostri esser fior de' cavallier erranti; 12 ma ben mi duol che questo per cagione d'una femina perfida m'avviene, a cui non so come tu sia campione, che troppo al tuo valor si disconviene. E quando tu sapessi la cagione ch'a vendicarmi di costei mi mene, avresti, ognor che rimembrassi, affanno d'aver, per campar lei, fatto a me danno. 13 E se spirto a bastanza avrò nel petto ch'io il possa dir (ma del contrario temo), io ti farò veder ch'in ogni effetto scelerata è costei più ch'in estremo. Io ebbi già un fratel che giovinetto d'Olanda si partì, donde noi semo, e si fece d'Eraclio cavalliero, ch'allor tenea de' Greci il sommo impero. 14 Quivi divenne intrinseco e fratello d'un cortese baron di quella corte, che nei confin di Servia avea un castello di sito ameno e di muraglia forte. Nomossi Argeo colui di ch'io favello, di questa iniqua femina consorte, la quale egli amò sì, che passò il segno ch'a un uom si convenia, come lui, degno. 15 Ma costei, più volubile che foglia quando l'autunno è più priva d'umore, che l' freddo vento gli arbori ne spoglia, e le soffia dinanzi al suo furore; verso il marito cangiò tosto voglia, che fisso qualche tempo ebbe nel core; e volse ogni pensiero, ogni disio d'acquistar per amante il fratel mio. 16 Ma né sì saldo all'impeto marino l'Acrocerauno d'infamato nome, né sta sì duro incontra borea il pino che rinovato ha più di cento chiome, che quanto appar fuor de lo scoglio alpino, tanto sotterra ha le radici; come il mio fratello a' prieghi di costei, nido de tutti i vizii infandi e rei. 17 Or, come avviene a un cavallier ardito, che cerca briga e la ritrova spesso, fu in una impresa il mio fratel ferito, molto al castel del suo compagno appresso, dove venir senza aspettare invito solea, fosse o non fosse Argeo con esso; e dentro a quel per riposar fermosse tanto che del suo mal libero fosse. 18 Mentre egli quivi si giacea, convenne ch'in certa sua bisogna andasse Argeo. Tosto questa sfacciata a tentar venne il mio fratello, et a sua usanza feo; ma quel fedel non oltre più sostenne avere ai fianchi un stimulo sì reo: elesse, per servar sua fede a pieno, di molti mal quel che gli parve meno. 19 Tra molti mal gli parve elegger questo: lasciar d'Argeo l'intrinsichezza antiqua; lungi andar sì, che non sia manifesto mai più il suo nome alla femina iniqua. Ben che duro gli fosse, era più onesto che satisfare a quella voglia obliqua, o ch'accusar la moglie al suo signore, da cui fu amata a par del proprio core. 20 E de le sue ferite ancora infermo l'arme si veste, e del castel si parte; e con animo va constante e fermo di non mai più tornare in quella parte. Ma che gli val? ch'ogni difesa e schermo gli disipa Fortuna con nuova arte; ecco il marito che ritorna intanto, e trova la moglier che fa gran pianto, 21 e scapigliata e con la faccia rossa; e le domanda di che sia turbata. Prima ch'ella a rispondere sia mossa, pregar si lascia più d'una fïata, pensando tuttavia come si possa vendicar di colui che l'ha lasciata: e ben convenne al suo mobile ingegno cangiar l'amore in subitano sdegno. 22 « Deh (disse al fine), a che l'error nascondo c'ho commesso, signor, ne la tua absenzia? che quando ancora io 'l celi a tutto 'l mondo, celar nol posso alla mia conscïenzia. L'alma che sente il suo peccato immondo, pate dentro da sé tal penitenzia, ch'avanza ogn'altro corporal martire che dar mi possa alcun del mio fallire; 23 quando fallir sia quel che si fa a forza: ma sia quel che si vuol, tu sappil'anco; poi con la spada da la immonda scorza scioglie lo spirto imaculato e bianco, e le mie luci eternamente ammorza; che dopo tanto vituperio, almanco tenerle basse ognor non mi bisogni, e di ciascun ch'io vegga, io mi vergogni. 24 Il tuo compagno ha l'onor mio distrutto: questo corpo per forza ha vïolato; e perché teme ch'io ti narri il tutto, or si parte il villan senza commiato ». In odio con quel dir gli ebbe ridutto colui che più d'ogn'altro gli fu grato. Argeo lo crede, et altro non aspetta; ma piglia l'arme e corre a far vendetta. 25 E come quel ch'avea il paese noto, lo giunse che non fu troppo lontano; che 'l mio fratello, debole et egroto, senza sospetto se ne gìa pian piano: e brevemente, in un loco remoto pose, per vendicarsene, in lui mano. Non trova il fratel mio scusa che vaglia; ch'in somma Argeo con lui vuol la battaglia. 26 Era l'un sano e pien di nuovo sdegno, infermo l'altro, et all'usanza amico: sì ch'ebbe il fratel mio poco ritegno contra il compagno fattogli nimico. Dunque Filandro di tal sorte indegno (de l'infelice giovene ti dico: così avea nome), non sofrendo il peso di sì fiera battaglia, restò preso. 27 « Non piaccia a Dio che mi conduca a tale il mio giusto furore e il tuo demerto (gli disse Argeo), che mai sia omicidiale di te ch'amava; e me tu amavi certo, ben che nel fin me l'hai mostrato male; pur voglio a tutto il mondo fare aperto che, come fui nel tempo de l'amore, così ne l'odio son di te migliore. 28 Per altro modo punirò il tuo fallo, che le mie man più nel tuo sangue porre ». Così dicendo, fece sul cavallo di verdi rami una bara comporre, e quasi morto in quella riportallo dentro al castello in una chiusa torre, dove in perpetuo per punizïone condannò l'innocente a star prigione. 29 Non però ch'altra cosa avesse manco, che la libertà prima del partire; perché nel resto, come sciolto e franco vi commandava e si facea ubidire. Ma non essendo ancor l'animo stanco di questa ria del suo pensier fornire, quasi ogni giorno alla prigion veniva; ch'avea le chiavi, e a suo piacer l'apriva: 30 e movea sempre al mio fratello assalti, e con maggiore audacia che di prima. « Questa tua fedeltà (dicea) che valti, poi che perfidia per tutto si stima? Oh che trionfi glorïosi et alti! oh che superbe spoglie e preda opima! oh che merito al fin te ne risulta, se, come a traditore, ognun t'insulta! 31 Quanto utilmente, quanto con tuo onore m'avresti dato quel che da te volli! Di questo sì ostinato tuo rigore la gran mercé che tu guadagni, or tolli: in prigion sei, né crederne uscir fuore, se la durezza tua prima non molli. Ma quando mi compiacci, io farò trama di racquistarti e libertade e fama ». 32 « No, no (disse Filandro) aver mai spene che non sia, come suol, mia vera fede, se ben contra ogni debito mi avviene ch'io ne riporti sì dura mercede, e di me creda il mondo men che bene: basta che inanti a quel che 'l tutto vede e mi può ristorar di grazia eterna, chiara la mia innocenzia si discerna. 33 Se non basta ch'Argeo mi tenga preso, tolgami ancor questa noiosa vita. Forse non mi fia il premio in ciel conteso de la buona opra, qui poco gradita. Forse egli, che da me si chiama offeso, quando sarà quest'anima partita, s'avedrà poi d'avermi fatto torto, e piangerà il fedel compagno morto ». 34 Così più volte la sfacciata donna tenta Filandro, e torna senza frutto. Ma il cieco suo desir, che non assonna del scelerato amor traer construtto, cercando va più dentro ch'alla gonna suoi vizii antiqui, e ne discorre il tutto. Mille pensier fa d'uno in altro modo, prima che fermi in alcun d'essi il chiodo. 35 Stette sei mesi che non messe piede, come prima facea, ne la prigione; di che il miser Filandro e spera e crede che costei più non gli abbia affezïone. Ecco Fortuna, al mal propizia, diede a questa scelerata occasïone di metter fin con memorabil male al suo cieco appetito irrazionale. 36 Antiqua nimicizia avea il marito con un baron detto Morando il bello, che, non v'essendo Argeo, spesso era ardito di correr solo, e sin dentro al castello; ma s'Argeo v'era, non tenea lo 'nvito, né s'accostava a dieci miglia a quello. Or, per poterlo indur che ci venisse, d'ire in Ierusalem per voto disse. 37 Disse d'andare; e partesi ch'ognuno lo vede, e fa di ciò sparger le grida: né il suo pensier, fuor che la moglie, alcuno puote saper; che sol di lei si fida. Torna poi nel castello all'aer bruno, né mai, se non la notte, ivi s'annida; e con mutate insegne al nuovo albóre, senza vederlo alcun, sempre esce fuore. 38 Se ne va in questa e in quella parte errando, e volteggiando al suo castello intorno, pur per veder se credulo Morando volesse far, come solea, ritorno. Stava il dì tutto alla foresta; e quando ne la marina vedea ascoso il giorno, venìa al castello, e per nascose porte lo togliea dentro l'infedel consorte. 39 Crede ciascun, fuor che l'iniqua moglie, che molte miglia Argeo lontan si trove. Dunque il tempo oportuno ella si toglie: al fratel mio va con malizie nuove. Ha di lagrime a tutte le sue voglie un nembo che dagli occhi al sen le piove. « Dove potrò (dicea) trovare aiuto, che in tutto l'onor mio non sia perduto? 40 E col mio quel del mio marito insieme, il qual se fosse qui, non temerei. Tu conosci Morando, e sai se teme, quando Argeo non ci sente, òmini e dèi. Questi or pregando, or minacciando, estreme prove fa tuttavia, né alcun de' miei lascia che non contamini, per trarmi a' suoi desii, né so s'io potrò aitarmi. 41 Or c'ha inteso il partir del mio consorte, e ch'al ritorno non sarà sì presto, ha avuto ardir d'entrar ne la mia corte senza altra scusa e senz'altro pretesto; che se ci fosse il mio signor per sorte, non sol non avria audacia di far questo, ma non si terria ancor, per Dio, sicuro d'appressarsi a tre miglia a questo muro. 42 E quel che già per messi ha ricercato, oggi me l'ha richiesto a fronte a fronte, e con tai modi, che gran dubbio è stato de lo avvenirmi disonore et onte, e se non che parlar dolce gli ho usato, e finto le mie voglie alle sue pronte, saria a forza, di quel suto rapace, che spera aver per mie parole in pace. 43 Promesso gli ho, non già per osservargli (che fatto per timor, nullo è il contratto); ma la mia intenzïon fu per vietargli quel che per forza avrebbe allora fatto. Il caso è qui: tu sol pòi rimediargli; del mio onor altrimenti sarà tratto, e di quel del mio Argeo, che già m'hai detto aver o tanto, o più che 'l proprio, a petto. 44 E se questo mi nieghi, io dirò dunque ch'in te non sia la fé di che ti vanti; ma che fu sol per crudeltà, qualunque volta hai sprezzati i miei supplici pianti; non per rispetto alcun d'Argeo, quantunque m'hai questo scudo ognora opposto inanti. Saria stato tra noi la cosa occulta; ma di qui aperta infamia mi risulta ». 45 « Non si convien (disse Filandro) tale prologo a me, per Argeo mio disposto. Narrami pur quel che tu vuoi, che quale sempre fui, di sempre essere ho proposto; e ben ch'a torto io ne riporti male, a lui non ho questo peccato imposto. Per lui son pronto andare anco alla morte, e siami contra il mondo e la mia sorte ». 46 Rispose l'empia: « Io voglio che tu spenga colui che 'l nostro disonor procura. Non temer ch'alcun mal di ciò t'avenga; ch'io te ne mostrerò la via sicura. Debbe egli a me tornar come rivenga su l'ora terza la notte più scura; e fatto un segno de ch'io l'ho avvertito, io l'ho a tor dentro, che non sia sentito. 47 A te non graverà prima aspettarme ne la camera mia dove non luca, tanto che dispogliar gli faccia l'arme, e quasi nudo in man te lo conduca ». Così la moglie conducesse parme il suo marito alla tremenda buca; se per dritto costei moglie s'appella, più che furia infernal crudele e fella. 48 Poi che la notte scelerata venne, fuor trasse il mio fratel con l'arme in mano; e ne l'oscura camera lo tenne, fin che tornasse il miser castellano. Come ordine era dato, il tutto avvenne; che 'l consiglio del mal va raro invano. Così Filandro il buon Argeo percosse, che si pensò che quel Morando fosse. 49 Con esso un colpo il capo fesse e il collo; ch'elmo non v'era, e non vi fu riparo. Pervenne Argeo, senza pur dare un crollo, de la misera vita al fine amaro: e tal l'uccise, che mai non pensollo, né mai l'avria creduto: oh caso raro! che cercando giovar, fece all'amico quel di che peggio non si fa al nimico. 50 Poscia ch'Argeo non conosciuto giacque, rende a Gabrina il mio fratel la spada. Gabrina è il nome di costei, che nacque sol per tradire ognun che in man le cada. Ella, che 'l ver fin a quell'ora tacque, vuol che Filandro a riveder ne vada col lume in mano il morto ond'egli è reo: e gli dimostra il suo compagno Argeo. 51 E gli minaccia poi, se non consente all'amoroso suo lungo desire, di palesare a tutta quella gente quel ch'egli ha fatto, e nol può contradire; e lo farà vituperosamente come assassino e traditor morire: e gli ricorda che sprezzar la fama non de', se ben la vita sì poco ama. 52 Pien di paura e di dolor rimase Filandro, poi che del suo error s'accorse. Quasi il primo furor gli persuase d'uccider questa, e stette un pezzo in forse: e se non che ne le nimiche case si ritrovò (che la ragion soccorse), non si trovando avere altr'arme in mano, coi denti la stracciava a brano a brano. 53 Come ne l'alto mar legno talora, che da duo venti sia percosso e vinto, ch'ora uno inanzi l'ha mandato, et ora un altro al primo termine respinto, e l'han girato da poppa e da prora, dal più possente al fin resta sospinto; così Filandro, tra molte contese de' duo pensieri, al manco rio s'apprese. 54 Ragion gli dimostrò il pericol grande, oltre il morir, del fine infame e sozzo, se l'omicidio nel castel si spande; e del pensare il termine gli è mozzo. Voglia o non voglia, al fin convien che mande l'amarissimo calice nel gozzo. Pur finalmente ne l'afflitto core più de l'ostinazion poté il timore. 55 Il timor del supplicio infame e brutto prometter fece con mille scongiuri, che faria di Gabrina il voler tutto, se di quel luogo se partian sicuri. Così per forza colse l'empia il frutto del suo desire, e poi lasciâr quei muri. Così Filandro a noi fece ritorno, di sé lasciando in Grecia infamia e scorno. 56 E portò nel cor fisso il suo compagno che così scioccamente ucciso avea, per far con sua gran noia empio guadagno d'una Progne crudel, d'una Medea. E se la fede e il giuramento, magno e duro freno, non lo ritenea, come al sicuro fu, morta l'avrebbe; ma, quanto più si puote, in odio l'ebbe. 57 Non fu da indi in qua rider mai visto: tutte le sue parole erano meste, sempre sospir gli uscian dal petto tristo; et era divenuto un nuovo Oreste, poi che la madre uccise e il sacro Egisto, e che l'ultrice Furie ebbe moleste. E senza mai cessar, tanto l'afflisse questo dolor, ch'infermo al letto il fisse. 58 Or questa meretrice, che si pensa quanto a quest'altro suo poco sia grata, muta la fiamma già d'amore intensa in odio, in ira ardente et arrabbiata; né meno è contra al mio fratello accensa, che fosse contra Argeo la scelerata: e dispone tra sé levar dal mondo, come il primo marito, anco il secondo. 59 Un medico trovò d'inganni pieno, sufficïente et atto a simil uopo, che sapea meglio uccider di veneno, che risanar gl'infermi di silopo; e gli promesse, inanzi più che meno di quel che domandò, donargli, dopo ch'avesse con mortifero liquore levatole dagli occhi il suo signore. 60 Già in mia presenza e d'altre più persone venìa col tòsco in mano il vecchio ingiusto, dicendo ch'era buona pozïone da ritornare il mio fratel robusto. Ma Gabrina con nuova intenzïone, pria che l'infermo ne turbasse il gusto, per tôrsi il consapevole d'appresso, o per non dargli quel ch'avea promesso, 61 la man gli prese, quando a punto dava la tazza dove il tòsco era celato, dicendo: « Ingiustamente è se 'l ti grava ch'io tema per costui c'ho tanto amato. Voglio esser certa che bevanda prava tu non gli dia, né succo avelenato; e per questo mi par che 'l beveraggio non gli abbi a dar, se non ne fai tu il saggio ». 62 Come pensi, signor, che rimanesse il miser vecchio conturbato allora? La brevità del tempo sì l'oppresse, che pensar non poté che meglio fôra; pur, per non dar maggior sospetto, elesse il calice gustar senza dimora: e l'infermo, seguendo una tal fede, tutto il resto pigliò, che si gli diede. 63 Come sparvier che nel piede grifagno tenga la starna e sia per trarne pasto, dal can che si tenea fido compagno, ingordamente è sopragiunto e guasto; così il medico intento al rio guadagno, donde sperava aiuto ebbe contrasto. Odi di summa audacia esempio raro! e così avvenga a ciascun altro avaro. 64 Fornito questo, il vecchio s'era messo, per ritornare alla sua stanza, in via, et usar qualche medicina appresso, che lo salvasse da la peste ria; ma da Gabrina non gli fu concesso, dicendo non voler ch'andasse pria che 'l succo ne lo stomaco digesto il suo valor facesse manifesto. 65 Pregar non val, né far di premio offerta, che lo voglia lasciar quindi partire. Il disperato, poi che vede certa la morte sua, né la poter fuggire, ai circostanti fa la cosa aperta; né la seppe costei troppo coprire. E così quel che fece agli altri spesso, quel buon medico al fin fece a se stesso: 66 e sequitò con l'alma quella ch'era già de mio frate caminata inanzi. Noi circostanti, che la cosa vera del vecchio udimmo, che fe' pochi avanzi, pigliammo questa abominevol fera, più crudel di qualunque in selva stanzi; e la serrammo in tenebroso loco, per condannarla al meritato foco. - 67 Questo Ermonide disse, e più voleva seguir, com'ella di prigion levossi; ma il dolor de la piaga sì l'aggreva, che pallido ne l'erba riversossi. Intanto duo scudier che seco aveva, fatto una bara avean di rami grossi: Ermonide si fece in quella porre; ch'indi altrimente non si potea tôrre. 68 Zerbin col cavallier fece sua scusa, che gl'increscea d'averli fatto offesa; ma, come pur tra cavallieri s'usa, colei che venìa seco avea difesa: ch'altrimente sua fé saria confusa; perché, quando in sua guardia l'avea presa, promesse a sua possanza di salvarla contra ognun che venisse a disturbarla. 69 E s'in altro potea gratificargli, prontissimo offeriase alla sua voglia. Rispose il cavallier, che ricordargli sol vuol, che da Gabrina si discioglia prima ch'ella abbia cosa a machinargli, di ch'esso indarno poi si penta e doglia. Gabrina tenne sempre gli occhi bassi, perché non ben risposta al vero dassi. 70 Con la vecchia Zerbin quindi partisse al già promesso debito vïaggio; e tra sé tutto il dì la maledisse, che far gli fece a quel barone oltraggio. Et or che pel gran mal che gli ne disse chi lo sapea, di lei fu instrutto e saggio, se prima l'avea a noia e a dispiacere, or l'odia sì che non la può vedere. 71 Ella che di Zerbin sa l'odio a pieno, né in mala voluntà vuole esser vinta, un'oncia a lui non ne riporta meno: la tien di quarta, e la rifà di quinta. Nel cor era gonfiata di veneno, e nel viso altrimente era dipinta. Dunque ne la concordia ch'io vi dico, tenean lor via per mezzo il bosco antico. 72 Ecco, volgendo il sol verso la sera, udiron gridi e strepiti e percosse, che facean segno di battaglia fiera che, quanto era il rumor, vicina fosse. Zerbino, per veder la cosa ch'era, verso il rumore in gran fretta si mosse: non fu Gabrina lenta a seguitarlo. Di quel ch'avvenne, all'altro canto io parlo.
1 Cortesi donne e grate al vostro amante, voi che d'un solo amor sète contente, come che certo sia, fra tante e tante, che rarissime siate in questa mente; non vi dispiaccia quel ch'io dissi inante, quando contra Gabrina fui sì ardente, e s'ancor son per spendervi alcun verso, di lei biasmando l'animo perverso. 2 Ella era tale; e come imposto fummi da chi può in me, non preterisco il vero. Per questo io non oscuro gli onor summi d'una e d'un'altra ch'abbia il cor sincero. Quel che 'l Maestro suo per trenta nummi diede a' Iudei, non nocque a Ianni o a Piero; né d'Ipermestra è la fama men bella, se ben di tante inique era sorella. 3 Per una che biasmar cantando ardisco (che l'ordinata istoria così vuole), lodarne cento incontra m'offerisco, e far lor virtù chiara più che 'l sole. Ma tornando al lavor che vario ordisco, ch'a molti, lor mercé, grato esser suole, del cavallier di Scozia io vi dicea, ch'un alto grido appresso udito avea. 4 Fra due montagne entrò in un stretto calle onde uscia il grido, e non fu molto inante, che giunse dove in una chiusa valle si vide un cavallier morto davante. Chi sia dirò; ma prima dar le spalle a Francia voglio, e girmene in Levante, tanto ch'io trovi Astolfo paladino, che per Ponente avea preso il camino. 5 Io lo lasciai ne la città crudele, onde col suon del formidabil corno avea cacciato il populo infedele, e gran periglio toltosi d'intorno, et a' compagni fatto alzar le vele, e dal lito fuggir con grave scorno. Or seguendo di lui, dico che prese la via d'Armenia, e uscì di quel paese. 6 E dopo alquanti giorni in Natalia trovossi, e inverso Bursia il camin tenne; onde, continuando la sua via di qua dal mare, in Tracia se ne venne. Lungo il Danubio andò per l'Ungaria; e come avesse il suo destrier le penne, i Moravi e i Boemi passò in meno di venti giorni e la Franconia e il Reno. 7 Per la selva d'Ardenna in Aquisgrana giunse e in Barbante, e in Fiandra al fin s'imbarca. L'aura che soffia verso tramontana, la vela in guisa in su la prora carca, ch'a mezzo giorno Astolfo non lontana vede Inghilterra, ove nel lito varca. Salta a cavallo, e in tal modo lo punge, ch'a Londra quella sera ancora giunge. 8 Quivi sentendo poi che 'l vecchio Otone già molti mesi inanzi era in Parigi, e che di nuovo quasi ogni barone avea imitato i suoi degni vestigi; d'andar subito in Francia si dispone: e così torna al porto di Tamigi, onde con le vele alte uscendo fuora, verso Calessio fe' drizzar la prora. 9 Un ventolin che leggiermente all'orza ferendo, avea adescato il legno all'onda, a poco a poco cresce e si rinforza; poi vien sì, ch'al nocchier ne soprabonda. Che li volti la poppa al fine è forza; se non, gli caccierà sotto la sponda. Per la schena del mar tien dritto il legno, e fa camin diverso al suo disegno. 10 Or corre a destra, or a sinistra mano, di qua di là, dove fortuna spinge, e piglia terra al fin presso a Roano; e come prima il dolce lito attinge, fa rimetter la sella a Rabicano, e tutto s'arma e la spada si cinge. Prende il camino, et ha seco quel corno che gli val più che mille uomini intorno. 11 E giunse, traversando una foresta, a piè d'un colle ad una chiara fonte, ne l'ora che 'l monton di pascer resta, chiuso in capanna, o sotto un cavo monte. E dal gran caldo e da la sete infesta vinto, si trasse l'elmo da la fronte; legò il destrier tra le più spesse fronde, e poi venne per bere alle fresche onde. 12 Non avea messo ancor le labra in molle, ch'un villanel che v'era ascoso appresso, sbuca fuor d'una macchia, e il destrier tolle, sopra vi sale, e se ne va con esso. Astolfo il rumor sente, e'l capo estolle; e poi che 'l danno suo vede sì espresso, lascia la fonte, e sazio senza bere, gli va dietro correndo a più potere. 13 Quel ladro non si stende a tutto corso, che dileguato si saria di botto; ma or lentando or raccogliendo il morso, se ne va di galoppo e di buon trotto. Escon del bosco dopo un gran discorso; e l'uno e l'altro al fin si fu ridotto là dove tanti nobili baroni eran senza prigion più che prigioni. 14 Dentro il palagio il villanel si caccia con quel destrier che i venti al corso adegua. Forza è ch'Astolfo, il qual lo scudo impaccia, l'elmo e l'altr'arme, di lontan lo segua. Pur giunge anch'egli, e tutta quella traccia che fin qui avea seguita, si dilegua; che più né Rabican né 'l ladro vede, e gira gli occhi, e indarno affretta il piede: 15 affretta il piede e va cercando invano e le loggie e le camere e le sale; ma per trovare il perfido villano, di sua fatica nulla si prevale. Non sa dove abbia ascoso Rabicano, quel suo veloce sopra ogni animale; e senza frutto alcun tutto quel giorno cercò di su di giú, dentro e d'intorno. 16 Confuso e lasso d'aggirarsi tanto, s'avvide che quel loco era incantato; e del libretto ch'avea sempre a canto, che Logistilla in India gli avea dato, acciò che, ricadendo in nuovo incanto, potessi aitarsi, si fu ricordato: all'indice ricorse, e vide tosto a quante carte era il rimedio posto. 17 Del palazzo incantato era difuso scritto nel libro; e v'eran scritti i modi di fare il mago rimaner confuso, e a tutti quei prigion di sciorre i nodi. Sotto la soglia era uno spirto chiuso, che facea questi inganni e queste frodi: e levata la pietra ov'è sepolto, per lui sarà il palazzo in fumo sciolto. 18 Desideroso di condurre a fine il paladin sì glorïosa impresa, non tarda più che 'l braccio non inchine a provar quanto il grave marmo pesa. Come Atlante le man vede vicine per far che l'arte sua sia vilipesa, sospettoso di quel che può avvenire, lo va con nuovi incanti ad assalire. 19 Lo fa con dïaboliche sue larve parer da quel diverso, che solea: gigante ad altri, ad altri un villan parve, ad altri un cavallier di faccia rea. Ognuno in quella forma in che gli apparve nel bosco il mago, il paladin vedea; sì che per rïaver quel che gli tolse il mago, ognuno al paladin si volse. 20 Ruggier, Gradasso, Iroldo, Bradamante, Brandimarte, Prasildo, altri guerrieri in questo nuovo error si fêro inante, per distruggere il duca accesi e fieri. Ma ricordossi il corno in quello instante, che fe' loro abbassar gli animi altieri. Se non si soccorrea col grave suono, morto era il paladin senza perdono. 21 Ma tosto che si pon quel corno a bocca e fa sentire intorno il suono orrendo, a guisa dei colombi, quando scocca lo scoppio, vanno i cavallier fuggendo. Non meno al negromante fuggir tocca, non men fuor de la tana esce temendo pallido e sbigottito, e se ne slunga tanto, che 'l suono orribil non lo giunga. 22 Fuggì il guardian coi suo' prigioni; e dopo de le stalle fuggîr molti cavalli, ch'altro che fune a ritenerli era uopo, e seguiro i patron per varii calli. In casa non restò gatta né topo al suon che par che dica: Dàlli, dàlli. Sarebbe ito con gli altri Rabicano, se non ch'all'uscir venne al duca in mano. 23 Astolfo, poi ch'ebbe cacciato il mago, levò di su la soglia il grave sasso, e vi ritrovò sotto alcuna imago, et altre cose che di scriver lasso: e di distrugger quello incanto vago, di ciò che vi trovò, fece fraccasso, come gli mostra il libro che far debbia; e si sciolse il palazzo in fumo e in nebbia. 24 Quivi trovò che di catena d'oro di Ruggiero il cavallo era legato, parlo di quel che 'l negromante moro per mandarlo ad Alcina gli avea dato; a cui poi Logistilla fe' il lavoro del freno, ond'era in Francia ritornato, e girato da l'India all'Inghilterra tutto avea il lato destro de la terra. 25 Non so se vi ricorda che la briglia lasciò attaccata all'arbore quel giorno che nuda da Ruggier sparì la figlia di Galafrone, e gli fe' l'alto scorno. Fe' il volante destrier, con maraviglia di chi lo vide, al mastro suo ritorno; e con lui stette infin al giorno sempre, che de l'incanto fur rotte le tempre. 26 Non potrebbe esser stato più giocondo d'altra aventura Astolfo, che di questa; che per cercar la terra e il mar, secondo ch'avea desir, quel ch'a cercar gli resta, e girar tutto in pochi giorni il mondo, troppo venìa questo ippogrifo a sesta. Sapea egli ben quanto a portarlo era atto, che l'avea altrove assai provato in fatto. 27 Quel giorno in India lo provò, che tolto da la savia Melissa fu di mano a quella scelerata che travolto gli avea in mirto silvestre il viso umano: e ben vide e notò come raccolto gli fu sotto la briglia il capo vano da Logistilla, e vide come instrutto fosse Ruggier di farlo andar per tutto. 28 Fatto disegno l'ippogrifo tôrsi, la sella sua, ch'appresso avea, gli messe; e gli fece, levando da più morsi una cosa et un'altra, un che lo resse; che dei destrier ch'in fuga erano corsi, quivi attaccate eran le briglie spesse. Ora un pensier di Rabicano solo lo fa tardar che non si leva a volo. 29 D'amar quel Rabicano avea ragione; che non v'era un miglior per correr lancia, e l'avea da l'estrema regïone de l'India cavalcato insin in Francia. Pensa egli molto; e in somma si dispone darne più tosto ad un suo amico mancia, che, lasciandolo quivi in su la strada, se l'abbia il primo ch'a passarvi accada. 30 Stava mirando se vedea venire pel bosco o cacciatore o alcun villano, da cui far si potesse indi seguire a qualche terra, e trarvi Rabicano. Tutto quel giorno e sin all'apparire de l'altro stette riguardando invano. L'altro matin, ch'era ancor l'aer fosco, veder gli parve un cavallier pel bosco. 31 Ma mi bisogna, s'io vo' dirvi il resto, ch'io trovi Ruggier prima e Bradamante. Poi che si tacque il corno, e che da questo loco la bella coppia fu distante, guardò Ruggiero, e fu a conoscer presto quel che fin qui gli avea nascoso Atlante: fatto avea Atlante che fin a quell'ora tra lor non s'eran conosciuti ancora. 32 Ruggier riguarda Bradamante, et ella riguarda lui con alta maraviglia, che tanti dì l'abbia offuscato quella illusïon sì l'animo e le ciglia. Ruggiero abbraccia la sua donna bella, che più che rosa ne divien vermiglia; e poi di su la bocca i primi fiori cogliendo vien dei suoi beati amori. 33 Tornaro ad iterar gli abbracciamenti mille fïate, et a tenersi stretti i duo felici amanti, e sì contenti, ch'a pena i gaudii lor capiano i petti. Molto lor duol che per incantamenti, mentre che fur negli errabondi tetti, tra lor non s'eran mai riconosciuti, e tanti lieti giorni eran perduti. 34 Bradamante, disposta di far tutti i piaceri che far vergine saggia debbia ad un suo amator, sì che di lutti, senza il suo onore offendere, il sottraggia; dice a Ruggier, se a dar gli ultimi frutti lei non vuol sempre aver dura e selvaggia, la faccia domandar per buoni mezzi al padre Amon: ma prima si battezzi. 35 Ruggier, che tolto avria non solamente viver cristiano per amor di questa, com'era stato il padre, e antiquamente l'avolo e tutta la sua stirpe onesta; ma, per farle piacere, immantinente data le avria la vita che gli resta: - Non che ne l'acqua (disse), ma nel fuoco per tuo amor porre il capo mi fia puoco. - 36 Per battezzarsi dunque, indi per sposa la donna aver, Ruggier si messe in via, guidando Bradamante a Vallombrosa (così fu nominata una badia ricca e bella, né men religïosa, e cortese a chiunque vi venìa); e trovaro all'uscir de la foresta donna che molto era nel viso mesta. 37 Ruggier, che sempre uman, sempre cortese era a ciascun, ma più alle donne molto, come le belle lacrime comprese cader rigando il delicato volto, n'ebbe pietade, e di disir s'accese di saper il suo affanno; et a lei volto, dopo onesto saluto, domandolle perch'avea sì di pianto il viso molle. 38 Et ella, alzando i begli umidi rai, umanissimamente gli rispose, e la cagion de' suoi penosi guai, poi che le domandò, tutta gli espose. - Gentil signor (disse ella), intenderai che queste guancie son sì lacrimose per la pietà ch'a un giovinetto porto, ch'in un castel qui presso oggi fia morto. 39 Amando una gentil giovane e bella, che di Marsilio re di Spagna è figlia, sotto un vel bianco e in feminil gonella, finta la voce e il volger de le ciglia, egli ogni notte si giacea con quella, senza darne sospetto alla famiglia: ma sì secreto alcuno esser non puote, ch'al lungo andar non sia chi 'l vegga e note. 40 Se n'accorse uno, e ne parlò con dui; gli dui con altri, insin ch'al re fu detto. Venne un fedel del re l'altr'ieri a nui, che questi amanti fe' pigliar nel letto; e ne la ròcca gli ha fatto ambedui divisamente chiudere in distretto: né credo per tutto oggi ch'abbia spazio il gioven, che non mora in pena e in strazio. 41 Fuggita me ne son per non vedere tal crudeltà; che vivo l'arderanno: né cosa mi potrebbe più dolere, che faccia di sì bel giovine il danno; né potrò aver giamai tanto piacere, che non si volga subito in affanno, che de la crudel fiamma mi rimembri, ch'abbia arsi i belli e delicati membri. - 42 Bradamante ode, e par ch'assai le prema questa novella, e molto il cor l'annoi; né par che men per quel dannato tema, che se fosse uno dei fratelli suoi. Né certo la paura in tutto scema era di causa, come io dirò poi. Si volse ella a Ruggiero, e disse: - Parme ch'in favor di costui sien le nostr'arme. - 43 E disse a quella mesta: - Io ti conforto che tu vegga di porci entro alle mura, che se 'l giovine ancor non avran morto, più non l'uccideran, stanne sicura. - Ruggiero, avendo il cor benigno scorto de la sua donna e la pietosa cura, sentì tutto infiammarsi di desire di non lasciare il giovine morire. 44 Et alla donna, a cui dagli occhi cade un rio di pianto, dice: - Or che s'aspetta? Soccorrer qui, non lacrimare accade: fa ch'ove è questo tuo, pur tu ci metta. Di mille lance trar, di mille spade tel promettian, pur che ci meni in fretta: ma studia il passo più che puoi; che tarda non sia l'aita, e intanto il fuoco l'arda. - 45 L'alto parlare e la fiera sembianza di quella coppia a maraviglia ardita, ebbon di tornar forza la speranza colà dond'era già tutta fuggita; ma perch'ancor, più che la lontananza, temeva il ritrovar la via impedita, e che saria per questo indarno presa, stava la donna in sé tutta sospesa. 46 Poi disse lor: - Facendo noi la via che dritta e piana va fin a quel loco, credo ch'a tempo vi si giungeria, che non sarebbe ancora acceso il fuoco: ma gir convien per così torta e ria, che 'l termine d'un giorno saria poco a riuscirne; e quando vi saremo, che troviam morto il giovine mi temo. - 47 - E perché non andian (disse Ruggiero) per la più corta? - E la donna rispose: - Perché un castel de' conti da Pontiero tra via si trova, ove un costume pose, non son tre giorni ancora, iniquo e fiero a cavallieri e a donne aventurose, Pinabello, il peggior uomo che viva, figliuol del conte Anselmo d'Altariva. 48 Quindi né cavallier né donna passa, che se ne vada senza ingiuria e danni: l'uno e l'altro a piè resta; ma vi lassa il guerrier l'arme, e la donzella i panni. Miglior cavallier lancia non abbassa, e non abbassò in Francia già molt'anni, di quattro che giurato hanno al castello la legge mantener di Pinabello. 49 Come l'usanza (che non è più antiqua di tre dì) cominciò, vi vo' narrare; e sentirete se fu dritta o obliqua cagion che i cavallier fece giurare. Pinabello ha una donna così iniqua, così bestial, ch'al mondo è senza pare; che con lui, non so dove, andando un giorno, ritrovò un cavallier che le fe' scorno. 50 Il cavallier, perché da lei beffato fu d'una vecchia che portava in groppa, giostrò con Pinabel ch'era dotato di poca forza e di superbia troppa; et abbattello, e lei smontar nel prato fece, e provò s'andava dritta o zoppa: lasciolla a piede, e fe' de la gonella di lei vestir l'antiqua damigella. 51 Quella ch'a piè rimase, dispettosa, e di vendetta ingorda e sitibonda, congiunta a Pinabel che d'ogni cosa dove sia da mal far, ben la seconda, né giorno mai, né notte mai riposa, e dice che non fia mai più gioconda, se mille cavallieri e mille donne non mette a piedi, e lor tolle arme e gonne. 52 Giunsero il dì medesmo, come accade, quattro gran cavallieri ad un suo loco, li quai di rimotissime contrade venuti a queste parti eran di poco; di tal valor, che non ha nostra etade tant'altri buoni al bellicoso gioco: Aquilante, Grifone e Sansonetto, et un Guidon Selvaggio giovinetto. 53 Pinabel con sembiante assai cortese al castel ch'io v'ho detto gli raccolse. La notte poi tutti nel letto prese, e presi tenne; e prima non li sciolse, che li fece giurar ch'un anno e un mese (questo fu a punto il termine che tolse) stariano quivi, e spogliarebbon quanti vi capitasson cavallieri erranti; 54 e le donzelle ch'avesson con loro porriano a piedi, e torrian lor le vesti. Così giurâr, così costretti fôro ad osservar, ben che turbati e mesti. Non par che fin a qui contra costoro alcun possa giostrar, ch'a piè non resti: e capitati vi sono infiniti, ch'a piè e senz'arme se ne son partiti. 55 È ordine tra lor, che chi per sorte esce fuor prima, vada a correr solo: ma se trova il nimico così forte, che resti in sella, e getti lui nel suolo, sono ubligati gli altri infin a morte pigliar l'impresa tutti in uno stuolo. Vedi or, se ciascun d'essi è così buono, quel ch'esser de', se tutti insieme sono. 56 Poi non conviene all'importanza nostra che ne vieta ogni indugio, ogni dimora, che punto vi fermiate a quella giostra; e presuppongo che vinciate ancora, che vostra alta presenzia lo dimostra, ma non è cosa da fare in un'ora; et è gran dubbio che 'l giovine s'arda, se tutto oggi a soccorrerlo si tarda. - 57 Disse Ruggier: - Non riguardiamo a questo: facciàn nui quel che si può far per nui; abbia chi regge il ciel cura del resto, o la Fortuna, se non tocca a lui. Ti fia per questa giostra manifesto, se buoni siamo d'aiutar colui che per cagion sì debole e sì lieve, come n'hai detto, oggi bruciar si deve. - 58 Senza risponder altro, la donzella si messe per la via ch'era più corta. Più di tre miglia non andâr per quella, che si trovaro al ponte et alla porta dove si perdon l'arme e la gonnella, e de la vita gran dubbio si porta. Al primo apparir lor, di su la ròcca è chi duo botti la campana tocca. 59 Et ecco de la porta con gran fretta, trottando s'un ronzino, un vecchio uscìo; e quel venìa gridando: - Aspetta, aspetta: restate olà, che qui si paga il fio: e se l'usanza non v'è stata detta, che qui si tiene, or ve la vo' dir io. - E contar loro incominciò di quello costume, che servar fa Pinabello. 60 Poi seguitò, volendo dar consigli, com'era usato agli altri cavallieri: - Fate spogliar la donna (dicea), figli, e voi l'arme lasciateci e i destrieri; e non vogliate mettervi a perigli d'andare incontra a tai quattro guerrieri. Per tutto vesti, arme e cavalli s'hanno: la vita sol mai non ripara il danno. - 61 - Non più (disse Ruggier), non più; ch'io sono del tutto informatissimo, e qui venni per far prova di me, se così buono in fatti son, come nel cor mi tenni. Arme, vesti e cavallo altrui non dono, s'altro non sento che minaccie e cenni; e son ben certo ancor, che per parole il mio compagno le sue dar non vuole. 62 Ma, per Dio, fa ch'io vegga tosto in fronte quei che ne voglion tôrre arme e cavallo; ch'abbiamo da passar anco quel monte, e qui non si può far troppo intervallo. - Rispose il vecchio: - Eccoti fuor del ponte chi vien per farlo: - e non lo disse in fallo; ch'un cavallier n'uscì, che sopraveste vermiglie avea, di bianchi fior conteste. 63 Bradamante pregò molto Ruggiero che le lasciasse in cortesia l'assunto di gittar de la sella il cavalliero, ch'avea di fiori il bel vestir trapunto; ma non poté impetrarlo, e fu mestiero a lei far ciò che Ruggier vòlse a punto. Egli vòlse l'impresa tutta avere, e Bradamante si stesse a vedere. 64 Ruggiero al vecchio domandò, chi fosse questo primo ch'uscia fuor de la porta. - È Sansonetto (disse); che le rosse veste conosco e i bianchi fior che porta. - L'uno di qua, l'altro di là si mosse senza parlarsi, e fu l'indugia corta; che s'andaro a trovar coi ferri bassi, molto affrettando i lor destrieri i passi. 65 In questo mezzo de la ròcca usciti eran con Pinabel molti pedoni, presti per levar l'arme et espediti ai cavallier ch'uscian fuor degli arcioni. Veniansi incontra i cavallieri arditi, fermando in su le reste i gran lancioni, grossi duo palmi, di nativo cerro, che quasi erano uguali insino al ferro. 66 Di tali n'avea più d'una decina fatto tagliar di su lor ceppi vivi Sansonetto a una selva indi vicina, e portatone duo per giostrar quivi. Aver scudo e corazza adamantina bisogna ben, che le percosse schivi. Aveane fatto dar, tosto che venne, l'uno a Ruggier, l'altro per sé ritenne. 67 Con questi, che passar dovean gl'incudi (sì ben ferrate avean le punte estreme), di qua e di là fermandoli agli scudi, a mezzo il corso si scontraro insieme. Quel di Ruggiero, che i demòni ignudi fece sudar, poco del colpo teme: de lo scudo vo' dir che fece Atlante, de le cui forze io v'ho già detto inante. 68 Io v'ho già detto che con tanta forza l'incantato splendor negli occhi fere, ch'al discoprirsi ogni veduta ammorza, e tramortito l'uom fa rimanere: perciò, s'un gran bisogno non lo sforza, d'un vel coperto lo solea tenere. Si crede ch'anco impenetrabil fosse, poi ch'a questo incontrar nulla si mosse. 69 L'altro, ch'ebbe l'artefice men dotto, il gravissimo colpo non sofferse. Come tocco da fulmine, di botto diè loco al ferro, e pel mezzo s'aperse; diè loco al ferro, e quel trovò di sotto il braccio ch'assai mal si ricoperse; sì che ne fu ferito Sansonetto, e de la sella tratto al suo dispetto. 70 E questo il primo fu di quei compagni che quivi mantenean l'usanza fella, che de le spoglie altrui non fe' guadagni, e ch'alla giostra uscì fuor de la sella. Convien chi ride, anco talor si lagni, e Fortuna talor trovi ribella. Quel da la ròcca, replicando il botto, ne fece agli altri cavallieri motto. 71 S'era accostato Pinabello intanto a Bradamante, per saper chi fusse colui che con prodezza e valor tanto il cavallier del suo castel percusse. La giustizia di Dio, per dargli quanto era il merito suo, vi lo condusse su quel destrier medesimo ch'inante tolto avea per inganno a Bradamante. 72 Fornito a punto era l'ottavo mese che, con lei ritrovandosi a camino, (se 'l vi raccorda) questo Maganzese la gittò ne la tomba di Merlino, quando da morte un ramo la difese, che seco cadde, anzi il suo buon destino; e trassene, credendo ne lo speco ch'ella fosse sepolta, il destrier seco. 73 Bradamante conosce il suo cavallo, e conosce per lui l'iniquo conte; e poi ch'ode la voce, e vicino hallo con maggiore attenzion mirato in fronte: - Questo è il traditor (disse), senza fallo, che procacciò di farmi oltraggio et onte: ecco il peccato suo, che l'ha condutto ove avrà de' suoi merti il premio tutto. - 74 Il minacciare e il por mano alla spada fu tutto a un tempo, e lo aventarsi a quello; ma inanzi tratto gli levò la strada, che non poté fuggir verso il castello. Tolta è la speme ch'a salvar si vada, come volpe alla tana, Pinabello. Egli gridando e senza mai far testa, fuggendo si cacciò ne la foresta. 75 Pallido e sbigottito il miser sprona, che posto ha nel fuggir l'ultima speme. L'animosa donzella di Dordona gli ha il ferro ai fianchi, e lo percuote e preme: vien con lui sempre, e mai non l'abbandona. Grande è il rumore, e il bosco intorno geme. Nulla al castel di questo ancor s'intende, però ch'ognuno a Ruggier solo attende. 76 Gli altri tre cavallier de la fortezza intanto erano usciti in su la via; et avean seco quella male avezza che v'avea posta la costuma ria. A ciascun di lor tre, che 'l morir prezza più ch'aver vita che con biasmo sia, di vergogna arde il viso, e il cor di duolo, che tanti ad assalir vadano un solo. 77 La crudel meretrice ch'avea fatto por quella iniqua usanza et osservarla, il giuramento lor ricorda e il patto ch'essi fatti l'avean, di vendicarla. - Se sol con questa lancia te gli abbatto, perché mi vòi con altre accompagnarla? (dicea Guidon Selvaggio): e s'io ne mento, levami il capo poi, ch'io son contento. - 78 Così dicea Grifon, così Aquilante. Giostrar da sol a sol volea ciascuno, e preso e morto rimanere inante ch'incontra un sol volere andar più d'uno. La donna dicea loro: - A che far tante parole qui senza profitto alcuno? Per tôrre a colui l'arme io v'ho qui tratti, non per far nuove leggi e nuovi patti. 79 Quando io v'avea in prigione, era da farme queste escuse, e non ora, che son tarde. Voi dovete il preso ordine servarme, non vostre lingue far vane e bugiarde. - Ruggier gridava lor: - Eccovi l'arme, ecco il destrier c'ha nuovo e sella e barde; i panni de la donna eccovi ancora: se li volete, a che più far dimora? - 80 La donna del castel da un lato preme, Ruggier da l'altro li chiama e rampogna, tanto ch'a forza si spiccaro insieme, ma nel viso infiammati di vergogna. Dinanzi apparve l'uno e l'altro seme del marchese onorato di Borgogna; ma Guidon, che più grave ebbe il cavallo, venìa lor dietro con poco intervallo. 81 Con la medesima asta con che avea Sansonetto abbattuto, Ruggier viene, coperto da lo scudo che solea Atlante aver sui monti di Pirene: dico quello incantato, che splendea tanto, ch'umana vista nol sostiene; a cui Ruggier per l'ultimo soccorso nei più gravi perigli avea ricorso. 82 Ben che sol tre fïate bisognolli, e certo in gran perigli, usarne il lume: le prime due, quando dai regni molli si trasse a più lodevole costume; la terza, quando i denti mal satolli lasciò de l'orca alle marine spume, che dovean devorar la bella nuda che fu a chi la campò poi così cruda. 83 Fuor che queste tre volte, tutto 'l resto lo tenea sotto un velo in modo ascoso, ch'a discoprirlo esser potea ben presto, che del suo aiuto fosse bisognoso. Quivi alla giostra ne venìa con questo, come io v'ho detto ancora, sì animoso, che quei tre cavallier che vedea inanti, manco temea che pargoletti infanti. 84 Ruggier scontra Grifone, ove la penna de lo scudo alla vista si congiunge. Quel di cader da ciascun lato accenna, et al fin cade, e resta al destrier lunge. Mette allo scudo a lui Grifon l'antenna; ma pel traverso e non pel dritto giunge: e perché lo trovò forbito e netto, l'andò strisciando, e fe' contrario effetto. 85 Roppe il velo e squarciò, che gli copria lo spaventoso et incantato lampo, al cui splendor cader si convenia con gli occhi ciechi, e non vi s'ha alcun scampo. Aquilante, ch'a par seco venìa, stracciò l'avanzo, e fe' lo scudo vampo. Lo splendor ferì gli occhi ai duo fratelli et a Guidon, che correa dopo quelli. 86 Chi di qua, chi di là cade per terra: lo scudo non pur lor gli occhi abbarbaglia, ma fa che ogn'altro senso attonito erra. Ruggier, che non sa il fin de la battaglia, volta il cavallo; e nel voltare afferra la spada sua che sì ben punge e taglia: e nessun vede che gli sia all'incontro, che tutti eran caduti a quello scontro. 87 I cavallieri e insieme quei ch'a piede erano usciti, e così le donne anco, e non meno i destrieri in guisa vede, che par che per morir battano il fianco. Prima si maraviglia, e poi s'avvede che 'l velo ne pendea dal lato manco: dico il velo di seta, in che solea chiuder la luce di quel caso rea. 88 Presto si volge, e nel voltar, cercando con gli occhi va l'amata sua guerriera; e vien là dove era rimasa, quando la prima giostra cominciata s'era. Pensa ch'andata sia (non la trovando) a vietar che quel giovine non pèra, per dubbio ch'ella ha forse che non s'arda in questo mezzo ch'a giostrar si tarda. 89 Fra gli altri che giacean vede la donna, la donna che l'avea quivi guidato. Dinanzi se la pon, sì come assonna, e via cavalca tutto conturbato. D'un manto ch'essa avea sopra la gonna, poi ricoperse lo scudo incantato; e i sensi rïaver le fece, tosto che 'l nocivo splendore ebbe nascosto. 90 Via se ne va Ruggier con faccia rossa che, per vergogna, di levar non osa: gli par ch'ognuno improverar gli possa quella vittoria poco glorïosa. - Ch'emenda poss'io fare, onde rimossa mi sia una colpa tanto obbrobrïosa? che ciò ch'io vinsi mai, fu per favore, diran, d'incanti, e non per mio valore. - 91 Mentre così pensando seco giva, venne in quel che cercava a dar di cozzo; che 'n mezzo de la strada soprarriva dove profondo era cavato un pozzo. Quivi l'armento alla calda ora estiva si ritraea, poi ch'avea pieno il gozzo. Disse Ruggiero: - Or proveder bisogna, che non mi facci, o scudo, più vergogna. 92 Più non starai tu meco; e questo sia l'ultimo biasmo c'ho d'averne al mondo. - Così dicendo, smonta ne la via: piglia una grossa pietra e di gran pondo, e la lega allo scudo, et ambi invia per l'alto pozzo a ritrovarne il fondo; e dice: - Costà giú statti sepulto, e teco stia sempre il mio obbrobrio occulto. - 93 Il pozzo è cavo, e pieno al sommo d'acque: grieve è lo scudo, e quella pietra grieve. Non si fermò fin che nel fondo giacque: sopra si chiuse il liquor molle e lieve. Il nobil atto e di splendor non tacque la vaga Fama, e divulgollo in breve; e di rumor n'empì, suonando il corno, e Francia e Spagna e le provincie intorno. 94 Poi che di voce in voce si fe' questa strana aventura in tutto il mondo nota, molti guerrier si missero all'inchiesta e di parte vicina e di remota: ma non sapean qual fosse la foresta dove nel pozzo il sacro scudo nuota; che la donna che fe' l'atto palese, dir mai non vòlse il pozzo né il paese. 95 Al partir che Ruggier fe' dal castello, dove avea vinto con poca battaglia; che i quattro gran campion di Pinabello fece restar come uomini di paglia; tolto lo scudo, avea levato quello lume che gli occhi e gli animi abbarbaglia: e quei che giaciuti eran come morti, pieni di meraviglia eran risorti. 96 Né per tutto quel giorno si favella altro fra lor, che de lo strano caso, e come fu che ciascun d'essi a quella orribil luce vinto era rimaso. Mentre parlan di questo, la novella vien lor di Pinabel giunto all'occaso: che Pinabello è morto hanno l'aviso, ma non sanno però chi l'abbia ucciso. 97 L'ardita Bradamante in questo mezzo giunto avea Pinabello a un passo stretto; e cento volte gli avea fin a mezzo messo il brando pei fianchi e per lo petto. Tolto ch'ebbe dal mondo il puzzo e 'l lezzo che tutto intorno avea il paese infetto, le spalle al bosco testimonio volse con quel destrier che già il fellon le tolse. 98 Vòlse tornar dove lasciato avea Ruggier; né seppe mai trovar la strada. Or per valle or per monte s'avvolgea: tutta quasi cercò quella contrada. Non vòlse mai la sua fortuna rea, che via trovasse onde a Ruggier si vada. Questo altro canto ad ascoltare aspetto chi de l'istoria mia prende diletto.
1 Studisi ognun giovare altrui; che rade volte il ben far senza il suo premio fia: e se pur senza, almen non te ne accade morte né danno né ignominia ria. Chi nuoce altrui, tardi o per tempo cade il debito a scontar, che non s'oblia. Dice il proverbio, ch'a trovar si vanno gli uomini spesso, e i monti fermi stanno. 2 Or vedi quel ch'a Pinabello avviene per essersi portato iniquamente: è giunto in somma alle dovute pene, dovute e giuste alla sua ingiusta mente. E Dio, che le più volte non sostiene veder patire a torto uno innocente, salvò la donna; e salverà ciascuno che d'ogni fellonia viva digiuno. 3 Credette Pinabel questa donzella già d'aver morta, e colà giú sepulta; né la pensava mai veder, non ch'ella gli avesse a tor degli error suoi la multa. Né il ritrovarsi in mezzo le castella del padre, in alcun util gli risulta. Quivi Altaripa era tra monti fieri vicina al tenitorio di Pontieri. 4 Tenea quell'Altaripa il vecchio conte Anselmo, di ch'uscì questo malvagio, che, per fuggir la man di Chiaramonte, d'amici e di soccorso ebbe disagio. La donna al traditore a piè d'un monte tolse l'indegna vita a suo grande agio; che d'altro aiuto quel non si provede, che d'alti gridi e di chiamar mercede. 5 Morto ch'ella ebbe il falso cavalliero che lei voluto avea già porre a morte, vòlse tornare ove lasciò Ruggiero; ma non lo consentì sua dura sorte, che la fe' travïar per un sentiero che la portò dov'era spesso e forte, dove più strano e più solingo il bosco, lasciando il sol già il mondo all'aer fosco. 6 Né sappiendo ella ove potersi altrove la notte riparar, si fermò quivi sotto le frasche in su l'erbette nuove, parte dormendo, fin che 'l giorno arrivi, parte mirando ora Saturno or Giove, Venere e Marte e gli altri erranti divi; ma sempre, o vegli o dorma, con la mente contemplando Ruggier come presente. 7 Spesso di cor profondo ella sospira, di pentimento e di dolor compunta, ch'abbia in lei, più ch'amor, potuto l'ira. - L'ira (dicea) m'ha dal mio amor disgiunta: almen ci avessi io posta alcuna mira, poi ch'avea pur la mala impresa assunta, di saper ritornar donde io veniva; che ben fui d'occhi e di memoria priva. - 8 Queste et altre parole ella non tacque, e molto più ne ragionò col core. Il vento intanto di sospiri, e l'acque di pianto facean pioggia di dolore. Dopo una lunga aspettazion pur nacque in orïente il disïato albóre: et ella prese il suo destrier ch'intorno giva pascendo, et andò contra il giorno. 9 Né molto andò, che si trovò all'uscita del bosco, ove pur dianzi era il palagio, là dove molti dì l'avea schernita con tanto error l'incantator malvagio. Ritrovò quivi Astolfo, che fornita la briglia all'ippogrifo avea a grande agio, e stava in gran pensier di Rabicano, per non sapere a chi lasciarlo in mano. 10 A caso si trovò che fuor di testa l'elmo allor s'avea tratto il paladino; sì che tosto ch'uscì de la foresta, Bradamante conobbe il suo cugino. Di lontan salutollo, e con gran festa gli corse, e l'abbracciò poi più vicino; e nominossi, et alzò la visiera, e chiaramente fe' veder ch'ell'era. 11 Non potea Astolfo ritrovar persona a chi il suo Rabican meglio lasciasse, perché dovesse averne guardia buona e renderglielo poi come tornasse, de la figlia del duca di Dordona; e parvegli che Dio gli la mandasse. Vederla volentier sempre solea, ma pel bisogno or più ch'egli n'avea. 12 Da poi che due o tre volte ritornati fraternamente ad abbracciar si fôro, e si fôr l'uno a l'altro domandati con molta affezïon de l'esser loro, Astolfo disse: - Ormai, se dei pennati vo' 'l paese cercar, troppo dimoro: - et aprendo alla donna il suo pensiero, veder le fece il volator destriero. 13 A lei non fu di molta maraviglia veder spiegare a quel destrier le penne; ch'altra volta, reggendogli la briglia Atlante incantator, contra le venne; e le fece doler gli occhi e le ciglia: sì fisse dietro a quel volar le tenne quel giorno, che da lei Ruggier lontano portato fu per camin lungo e strano. 14 Astolfo disse a lei, che le volea dar Rabican, che sì nel corso affretta, che, se scoccando l'arco si movea, si solea lasciar dietro la saetta; e tutte l'arme ancor, quante n'avea, che vuol che a Montalban gli le rimetta, e gli le serbi fin al suo ritorno; che non gli fanno or di bisogno intorno. 15 Volendosene andar per l'aria a volo, aveasi a far quanto potea più lieve. Tiensi la spada e 'l corno, ancor che solo bastargli il corno ad ogni risco deve. Bradamante la lancia che 'l figliuolo portò di Galafrone, anco riceve; la lancia che di quanti ne percuote fa le selle restar subito vòte. 16 Salito Astolfo sul destrier volante, lo fa mover per l'aria lento lento; indi lo caccia sì, che Bradamante ogni vista ne perde in un momento. Così si parte col pilota inante il nochier che gli scogli teme e 'l vento; e poi che 'l porto e i liti a dietro lassa, spiega ogni vela e inanzi ai venti passa. 17 La donna, poi che fu partito il duca, rimase in gran travaglio de la mente; che non sa come a Montalban conduca l'armatura e il destrier del suo parente; però che 'l cuor le cuoce e le manuca l'ingorda voglia e il desiderio ardente di riveder Ruggier, che, se non prima, a Vallombrosa ritrovar lo stima. 18 Stando quivi suspesa, per ventura si vede inanzi giungere un villano, dal qual fa rassettar quella armatura, come si puote, e por su Rabicano; poi di menarsi dietro gli diè cura i duo cavalli, un carco e l'altro a mano: ella n'avea duo prima; ch'avea quello sopra il qual levò l'altro a Pinabello. 19 Di Vallombrosa pensò far la strada, che trovar quivi il suo Ruggier ha speme; ma qual più breve o qual miglior vi vada, poco discerne, e d'ire errando teme. Il villan non avea de la contrada pratica molta; et erreranno insieme. Pur andare a ventura ella si messe, dove pensò che 'l loco esser dovesse. 20 Di qua di là si volse, né persona incontrò mai da domandar la via. Si trovò uscir del bosco in su la nona dove un castel poco lontan scopria, il qual la cima a un monticel corona. Lo mira, e Montalban le par che sia: et era certo Montalbano; e in quello avea la matre et alcun suo fratello. 21 Come la donna conosciuto ha il loco, nel cor s'attrista, e più ch'i' non so dire: sarà scoperta, se si ferma un poco, né più le sarà lecito a partire; se non si parte, l'amoroso foco l'arderà sì, che la farà morire: non vedrà più Ruggier, né farà cosa di quel ch'era ordinato a Vallombrosa. 22 Stette alquanto a pensar; poi si risolse di voler dar a Montalban le spalle: e verso la badia pur si rivolse; che quindi ben sapea qual era il calle. Ma sua fortuna, o buona o trista, vòlse che prima ch'ella uscisse de la valle, scontrasse Alardo, un de' fratelli sui; né tempo di celarsi ebbe da lui. 23 Veniva da partir gli alloggiamenti per quel contado a cavallieri e a fanti; ch'ad instanzia di Carlo nuove genti fatto avea de le terre circonstanti. I saluti e i fraterni abbracciamenti con le grate accoglienze andaro inanti; e poi, di molte cose a paro a paro tra lor parlando, in Montalban tornaro. 24 Entrò la bella donna in Montalbano, dove l'avea con lacrimosa guancia Beatrice molto desïata invano, e fattone cercar per tutta Francia. Or quivi i baci e il giunger mano a mano di matre e di fratelli estimò ciancia verso gli avuti con Ruggier complessi, ch'avrà ne l'alma eternamente impressi. 25 Non potendo ella andar, fece pensiero ch'a Vallombrosa altri in suo nome andasse immantinente ad avisar Ruggiero de la cagion ch'andar lei non lasciasse; e lui pregar (s'era pregar mistero) che quivi per suo amor si battezzasse, e poi venisse a far quanto era detto, sì che si desse al matrimonio effetto. 26 Pel medesimo messo fe' disegno di mandar a Ruggiero il suo cavallo, che gli solea tanto esser caro: e degno d'essergli caro era ben senza fallo; che non s'avria trovato in tutto 'l regno dei Saracin, né sotto il signor Gallo, più bel destrier di questo o più gagliardo, eccetti Brigliador, soli, e Baiardo. 27 Ruggier, quel dì che troppo audace ascese su l'ippogrifo, e verso il ciel levosse, lasciò Frontino, e Bradamante il prese (Frontino, che 'l destrier così nomosse); mandollo a Montalbano, e a buone spese tener lo fece, e mai non cavalcosse, se non per breve spazio e a picciol passo; sì ch'era più che mai lucido e grasso. 28 Ogni sua donna tosto, ogni donzella pon seco in opra, e con suttil lavoro fa sopra seta candida e morella tesser ricamo di finissimo oro; e di quel cuopre et orna briglia e sella del buon destrier: poi sceglie una di loro figlia di Callitrefia sua nutrice, d'ogni secreto suo fida uditrice. 29 Quanto Ruggier l'era nel core impresso, mille volte narrato avea a costei; la beltà, la virtude, i modi d'esso esaltato l'avea fin sopra i dèi. A sé chiamolla, e disse: - Miglior messo a tal bisogno elegger non potrei; che di te né più fido né più saggio imbasciator, Ippalca mia, non aggio. - 30 Ippalca la donzella era nomata. - Va, - le dice, e l'insegna ove de' gire; e pienamente poi l'ebbe informata di quanto avesse al suo signore a dire; e far la scusa se non era andata al monaster: che non fu per mentire; ma che Fortuna, che di noi potea più che noi stessi, da imputar s'avea. 31 Montar la fece s'un ronzino, e in mano la ricca briglia di Frontin le messe: e se sì pazzo alcuno o sì villano trovasse, che levar le lo volesse; per fargli a una parola il cervel sano, di chi fosse il destrier sol gli dicesse; che non sapea sì ardito cavalliero, che non tremasse al nome di Ruggiero. 32 Di molte cose l'ammonisce e molte, che trattar con Ruggier abbia in sua vece; le qual poi ch'ebbe Ippalca ben raccolte, si pose in via, né più dimora fece. Per strade e campi e selve oscure e folte cavalcò de le miglia più di diece; che non fu a darle noia chi venisse, né a domandarla pur dove ne gisse. 33 A mezzo il giorno, nel calar d'un monte, in una stretta e malagevol via si venne ad incontrar con Rodomonte, ch'armato un piccol nano e a piè seguia. Il Moro alzò vêr lei 1'altiera fronte, e bestemmiò l'eterna Ierarchia, poi che sì bel destrier, sì bene ornato, non avea in man d'un cavallier trovato. 34 Avea giurato che 'l primo cavallo torria per forza, che tra via incontrasse. Or questo è stato il primo; e trovato hallo più bello e più per lui, che mai trovasse: ma torlo a una donzella gli par fallo; e pur agogna averlo, e in dubbio stasse. Lo mira, lo contempla, e dice spesso: - Deh perché il suo signor non è con esso! - 35 - Deh ci fosse egli! (gli rispose Ippalca) che ti faria cangiar forse pensiero. Assai più di te val chi lo cavalca, né lo pareggia al mondo altro guerriero. - - Chi è (le disse il Moro) che sì calca l'onore altrui? - Rispose ella: - Ruggiero. - E quel suggiunse: - Adunque il destrier voglio, poi ch'a Ruggier, sì gran campion, lo toglio. 36 Il qual, se sarà ver, come tu parli, che sia sì forte, e più d'ogn'altro vaglia, non che il destrier, ma la vettura darli converrammi, e in suo albitrio fia la taglia. Che Rodomonte io sono, hai da narrarli, e che, se pur vorrà meco battaglia, mi troverà; ch'ovunque io vada o stia, mi fa sempre apparir la luce mia. 37 Dovunque io vo, sì gran vestigio resta, che non lo lascia il fulmine maggiore. - Così dicendo, avea tornate in testa le retine dorate al corridore: sopra gli salta; e lacrimosa e mesta rimane Ippalca, e spinta dal dolore minaccia Rodomonte e gli dice onta: non l'ascolta egli, e su pel poggio monta. 38 Per quella via dove lo guida il nano per trovar Mandricardo e Doralice, gli viene Ippalca dietro di lontano, e lo bestemmia sempre e maledice. Ciò che di questo avvenne, altrove è piano. Turpin, che tutta questa istoria dice, fa qui digresso, e torna in quel paese dove fu dianzi morto il Maganzese. 39 Dato avea a pena a quel loco le spalle la figliuola d'Amon, ch'in fretta gìa, che v'arrivò Zerbin per altro calle con la fallace vecchia in compagnia: e giacer vide il corpo ne la valle del cavallier, che non sa già chi sia; ma, come quel ch'era cortese e pio, ebbe pietà del caso acerbo e rio. 40 Giaceva Pinabello in terra spento, versando il sangue per tante ferite, ch'esser doveano assai, se più di cento spade in sua morte si fossero unite. Il cavallier di Scozia non fu lento per l'orme che di fresco eran scolpite a porsi in avventura, se potea saper chi l'omicidio fatto avea. 41 Et a Gabrina dice che l'aspette; che senza indugio a lei farà ritorno. Ella presso al cadavero si mette, e fissamente vi pon gli occhi intorno; perché, se cosa v'ha che le dilette, non vuol ch'un morto invan più ne sia adorno, come colei che fu, tra l'altre note, quanto avara esser più femina puote. 42 Se di portarne il furto ascosamente avesse avuto modo o alcuna speme, la sopravesta fatta riccamente gli avrebbe tolta, e le bell'arme insieme. Ma quel che può celarsi agevolmente, si piglia, e 'l resto fin al cor le preme. Fra l'altre spoglie un bel cinto levonne, e se ne legò i fianchi infra due gonne. 43 Poco dopo arrivò Zerbin, ch'avea seguito invan di Bradamante i passi, perché trovò il sentier che si torcea in molti rami ch'ivano alti e bassi: e poco ormai del giorno rimanea, né volea al buio star fra quelli sassi; e per trovare albergo diè le spalle con l'empia vecchia alla funesta valle. 44 Quindi presso a dua miglia ritrovaro un gran castel che fu detto Altariva, dove per star la notte si fermaro, che già a gran volo inverso il ciel saliva. Non vi ster molto, ch'un lamento amaro l'orecchie d'ogni parte lor feriva; e veggon lacrimar da tutti gli occhi, come la cosa a tutto il popul tocchi. 45 Zerbino dimandonne, e gli fu detto che venut'era al cont'Anselmo aviso, che fra duo monti in un sentiero istretto giacea il suo figlio Pinabello ucciso. Zerbin, per non ne dar di sé sospetto, di ciò si finge nuovo, e abbassa il viso; ma pensa ben, che senza dubbio sia quel ch'egli trovò morto in su la via. 46 Dopo non molto la bara funèbre giunse, a splendor di torchi e di facelle, là dove fece le strida più crebre con un batter di man gire alle stelle, e con più vena fuor de le palpèbre le lacrime inundar per le mascelle: ma più de l'altre nubilose et atre era la faccia del misero patre. 47 Mentre apparecchio si facea solenne di grandi esequie e di funèbri pompe, secondo il modo et ordine che tenne l'usanza antiqua e ch'ogni età corrompe; da parte del signore un bando venne, che tosto il popular strepito rompe, e promette gran premio a chi dia aviso chi stato sia che gli abbia il figlio ucciso. 48 Di voce in voce e d'una in altra orecchia il grido e 'l bando per la terra scorse, fin che l'udì la scelerata vecchia che di rabbia avanzò le tigri e l'orse; e quindi alla ruina s'apparecchia di Zerbino, o per l'odio che gli ha forse, o per vantarsi pur, che sola priva d'umanitade in uman corpo viva; 49 o fosse pur per guadagnarsi il premio: a ritrovar n'andò quel signor mesto; e dopo un verisimil suo proemio, gli disse che Zerbin fatto avea questo: e quel bel cinto si levò di gremio, che 'l miser padre a riconoscer presto, appresso il testimonio e tristo uffizio de l'empia vecchia, ebbe per chiaro indizio. 50 E lacrimando al ciel leva le mani, che 'l figliuol non sarà senza vendetta. Fa circundar l'albergo ai terrazzani; che tutto 'l popul s'è levato in fretta. Zerbin che gli nimici aver lontani si crede, e questa ingiuria non aspetta, dal conte Anselmo, che si chiama offeso tanto da lui, nel primo sonno è preso; 51 e quella notte in tenebrosa parte incatenato, e in gravi ceppi messo. Il sole ancor non ha le luci sparte, che l'ingiusto supplicio è già commesso: che nel loco medesimo si squarte, dove fu il mal c'hanno imputato ad esso. Altra esamina in ciò non si facea: bastava che 'l signor così credea. 52 Poi che l'altro matin la bella Aurora l'aer seren fe' bianco e rosso e giallo, tutto 'l popul gridando: Mora, mora, vien per punir Zerbin del non suo fallo. Lo sciocco vulgo l'accompagna fuora, senz'ordine, chi a piede e chi a cavallo; e 'l cavallier di Scozia a capo chino ne vien legato in s'un piccol ronzino. 53 Ma Dio, che spesso gl'innocenti aiuta, né lascia mai ch'in sua bontà si fida, tal difesa gli avea già proveduta, che non v'è dubbio più ch'oggi s'uccida. Quivi Orlando arrivò, la cui venuta alla via del suo scampo gli fu guida. Orlando giú nel pian vide la gente che traea a morte il cavallier dolente. 54 Era con lui quella fanciulla, quella che ritrovò ne la selvaggia grotta, del re galego la figlia lssabella, in poter già de' malandrin condotta, poi che lasciato avea ne la procella del truculento mar la nave rotta: quella che più vicino al core avea questo Zerbin, che l'alma onde vivea. 55 Orlando se l'avea fatta compagna, poi che de la caverna la riscosse. Quando costei li vide alla campagna, domandò Orlando, chi la turba fosse. - Non so, - diss'egli; e poi su la montagna lasciolla, e verso il pian ratto si mosse. Guardò Zerbino, et alla vista prima lo giudicò baron di molta stima. 56 E fattosegli appresso, domandollo per che cagione e dove il menin preso. Levò il dolente cavalliero il collo, e meglio avendo il paladino inteso, rispose il vero; e così ben narrollo, che meritò dal conte esser difeso. Bene avea il conte alle parole scorto ch'era innocente, e che moriva a torto. 57 E poi che 'ntese che commesso questo era dal conte Anselmo d'Altariva, fu certo ch'era torto manifesto; ch'altro da quel fellon mai non deriva. Et oltre acciò, l'uno era all'altro infesto per l'antiquissimo odio che bolliva tra il sangue di Maganza e di Chiarmonte; e tra lor eran morti e danni et onte. 58 - Slegate il cavallier (gridò), canaglia, (il conte a' masnadieri), o ch'io v'uccido. - - Chi è costui che sì gran colpi taglia? (rispose un che parer volle il più fido). Se di cera noi fussimo o di paglia, e di fuoco egli, assai fôra quel grido. - E venne contra il paladin di Francia: Orlando contra lui chinò la lancia. 59 La lucente armatura il Maganzese, che levata la notte avea a Zerbino, e postasela indosso, non difese contro l'aspro incontrar del paladino. Sopra la destra guancia il ferro prese: l'elmo non passò già, perch'era fino; ma tanto fu de la percossa il crollo, che la vita gli tolse e roppe il collo. 60 Tutto in un corso, senza tor di resta la lancia, passò un altro in mezzo 'l petto: quivi lasciolla, e la mano ebbe presta a Durindana; e nel drappel più stretto a chi fece due parti de la testa, a chi levò dal busto il capo netto; forò la gola a molti; e in un momento n'uccise e messe in rotta più di cento. 61 Più del terzo n'ha morto, e 'l resto caccia e taglia e fende e fiere e fora e tronca. Chi lo scudo, e chi l'elmo che lo 'mpaccia, e chi lascia lo spiedo e chi la ronca; chi al lungo, chi al traverso il camin spaccia; altri s'appiatta in bosco, altri in spelonca. Orlando, di pietà questo dì privo, a suo poter non vuol lasciarne un vivo. 62 Di cento venti (che Turpin sottrasse il conto), ottanta ne periro almeno. Orlando finalmente si ritrasse dove a Zerbin tremava il cor nel seno. S'al ritornar d'Orlando s'allegrasse, non si potria contare in versi a pieno. Se gli saria per onorar prostrato; ma si trovò sopra il ronzin legato. 63 Mentre ch'Orlando, poi che lo disciolse, l'aiutava a ripor l'arme sue intorno, ch'al capitan de la sbirraglia tolse, che per suo mal se n'era fatto adorno; Zerbino gli occhi ad Issabella volse, che sopra il colle avea fatto soggiorno, e poi che de la pugna vide il fine, portò le sue bellezze più vicine. 64 Quando apparir Zerbin si vide appresso la donna che da lui fu amata tanto, la bella donna che per falso messo credea sommersa, e n'ha più volte pianto; com'un ghiaccio nel petto gli sia messo, sente dentro aggelarsi, e triema alquanto: ma tosto il freddo manca, et in quel loco tutto s'avampa d'amoroso fuoco. 65 Di non tosto abbracciarla lo ritiene la riverenza del signor d'Anglante; perché si pensa, e senza dubbio tiene ch'Orlando sia de la donzella amante. Così cadendo va di pene in pene, e poco dura il gaudio ch'ebbe inante: il vederla d'altrui peggio sopporta, che non fe' quando udì ch'ella era morta. 66 E molto più gli duol che sia in podesta del cavalliero a cui cotanto debbe; perché volerla a lui levar né onesta né forse impresa facile sarebbe. Nessuno altro da sé lassar con questa preda partir senza romor vorrebbe: ma verso il conte il suo debito chiede che se lo lasci por sul collo il piede. 67 Giunsero taciturni ad una fonte, dove smontaro e fêr qualche dimora. Trassesi l'elmo il travagliato conte, et a Zerbin lo fece trarre ancora. Vede la donna il suo amatore in fronte, e di subito gaudio si scolora; poi torna come fiore umido suole dopo gran pioggia all'apparir del sole. 68 E senza indugio e senza altro rispetto corre al suo caro amante, e il collo abbraccia; e non può trar parola fuor del petto, ma di lacrime il sen bagna e la faccia. Orlando attento all'amoroso affetto, senza che più chiarezza se gli faccia, vide a tutti gl'indizi manifesto ch'altri esser, che Zerbin, non potea questo. 69 Come la voce aver poté Issabella, non bene asciutta ancor l'umida guancia, sol de la molta cortesia favella, che l'avea usata il paladin di Francia. Zerbino, che tenea questa donzella con la sua vita pare a una bilancia, si getta a' piè del conte, e quello adora come a chi gli ha due vite date a un'ora. 70 Molti ringraziamenti e molte offerte erano per seguir tra i cavallieri, se non udian sonar le vie coperte dagli arbori di frondi oscuri e neri. Presti alle teste lor, ch'eran scoperte, posero gli elmi, e presero i destrieri: et ecco un cavalliero e una donzella lor sopravien, ch'a pena erano in sella. 71 Era questo guerrier quel Mandricardo che dietro Orlando in fretta si condusse per vendicar Alzirdo e Manilardo, che 'l paladin con gran valor percusse: quantunque poi lo seguitò più tardo; che Doralice in suo poter ridusse, la quale avea con un troncon di cerro tolta a cento guerrier carchi di ferro. 72 Non sapea il Saracin però, che questo, ch'egli seguia, fosse il signor d'Anglante: ben n'avea indizio e segno manifesto ch'esser dovea gran cavalliero errante. A lui mirò più ch'a Zerbino, e presto gli andò con gli occhi dal capo alle piante; e i dati contrasegni ritrovando, disse: - Tu se' colui ch'io vo cercando. 73 Sono omai dieci giorni (gli soggiunse) che di cercar non lascio i tuo' vestigi: tanto la fama stimolommi e punse, che di te venne al campo di Parigi, quando a fatica un vivo sol vi giunse di mille che mandasti ai regni stigi; e la strage contò, che da te venne sopra i Norizii e quei di Tremisenne. 74 Non fui, come lo seppi, a seguir lento, e per vederti e per provarti appresso: e perché m'informai del guernimento c'hai sopra l'arme, io so che tu sei desso; e se non l'avessi anco, e che fra cento per celarti da me ti fossi messo, il tuo fiero sembiante mi faria chiaramente veder che tu quel sia. - 75 - Non si può (gli rispose Orlando) dire che cavallier non sii d'alto valore; però che sì magnanimo desire non mi credo albergasse in umil core. Se 'l volermi veder ti fa venire, vo' che mi veggi dentro, come fuore: mi leverò questo elmo da le tempie, acciò ch'a punto il tuo desire adempie. 76 Ma poi che ben m'avrai veduto in faccia, all'altro desiderio ancora attendi: resta ch'alla cagion tu satisfaccia, che fa che dietro questa via mi prendi; che veggi se 'l valor mio si confaccia a quel sembiante fier che sì commendi. - - Orsù (disse il pagano), al rimanente; ch'al primo ho satisfatto interamente. - 77 Il conte tuttavia dal capo al piede va cercando il pagan tutto con gli occhi: mira ambi i fianchi, indi l'arcion; né vede pender né qua né là mazze né stocchi. Gli domanda di ch'arme si provede, s'avvien che con la lancia in fallo tocchi. Rispose quel: - Non ne pigliar tu cura: così a molt'altri ho ancor fatto paura. 78 Ho sacramento di non cinger spada, fin ch'io non tolgo Durindana al conte; e cercando lo vo per ogni strada, acciò più d'una posta meco sconte. Lo giurai (se d'intenderlo t'aggrada) quando mi posi quest'elmo alla fronte, il qual con tutte l'altr'arme ch'io porto, era d'Ettòr, che già mill'anni è morto. 79 La spada sola manca alle buone arme: come rubata fu, non ti so dire. Or che la porti il paladino, parme; e di qui vien ch'egli ha sì grande ardire. Ben penso, se con lui posso accozzarme, fargli il mal tolto ormai ristituire. Cercolo ancor, che vendicar disio il famoso Agrican genitor mio. 80 Orlando a tradimento gli diè morte: ben so che non potea farlo altrimente. - Il conte più non tacque, e gridò forte: - E tu e qualunque il dice, se ne mente. Ma quel che cerchi t'è venuto in sorte: io sono Orlando, e uccisil giustamente; e questa è quella spada che tu cerchi, che tua sarà, se con virtù la merchi. 81 Quantunque sia debitamente mia, tra noi per gentilezza si contenda: né voglio in questa pugna ch'ella sia più tua che mia; ma a un arbore s'appenda. Levala tu liberamente via, s'avvien che tu m'uccida o che mi prenda. - Così dicendo, Durindana prese, e 'n mezzo il campo a un arbuscel l'appese. 82 Già l'un da l'altro è dipartito lunge, quanto sarebbe un mezzo tratto d'arco: già l'uno contra l'altro il destrier punge, né de le lente retine gli è parco: già l'uno e l'altro di gran colpo aggiunge dove per l'elmo la veduta ha varco. Parveno l'aste, al rompersi, di gielo; e in mille schegge andâr volando al cielo. 83 L'una e l'altra asta è forza che si spezzi; che non voglion piegarsi i cavallieri, i cavallier che tornano coi pezzi che son restati appresso i calci interi. Quelli, che sempre fur nel ferro avezzi, or, come duo villan per sdegno fieri nel partir acque o termini de prati, fan crudel zuffa di duo pali armati. 84 Non stanno l'aste a quattro colpi salde, e mancan nel furor di quella pugna. Di qua e di là si fan l'ire più calde; né da ferir lor resta altro che pugna. Schiodano piastre, e straccian maglie e falde, pur che la man, dove s'aggraffi, giugna. Non desideri alcun, perché più vaglia, martel più grave o più dura tanaglia. 85 Come può il Saracin ritrovar sesto di finir con suo onore il fiero invito? Pazzia sarebbe il perder tempo in questo, che nuoce al feritor più ch'al ferito. Andò alle strette l'uno e l'altro, e presto il re pagano Orlando ebbe ghermito: lo strigne al petto; e crede far le prove che sopra Anteo fe' già il figliol di Giove. 86 Lo piglia con molto impeto a traverso: quando lo spinge, e quando a sé lo tira; et è ne la gran còlera sì immerso, ch'ove resti la briglia poco mira. Sta in sé raccolto Orlando, e ne va verso il suo vantaggio, e alla vittoria aspira: gli pon la cauta man sopra le ciglia del cavallo, e cader ne fa la briglia. 87 Il Saracino ogni poter vi mette, che lo soffoghi, o de l'arcion lo svella: negli urti il conte ha le ginocchia strette; né in questa parte vuol piegar né in quella. Per quel tirar che fa il pagan, costrette le cingie son d'abandonar la sella. Orlando è in terra, e a pena sel conosce: ch'i piedi ha in staffa, e stringe ancor le cosce. 88 Con quel rumor ch'un sacco d'arme cade, risuona il conte, come il campo tocca. Il destrier c'ha la testa in libertade, quello a chi tolto il freno era di bocca, non più mirando i boschi che le strade, con ruinoso corso si trabocca, spinto di qua e di là dal timor cieco; e Mandricardo se ne porta seco. 89 Doralice che vede la sua guida uscir dal campo e torlesi d'appresso, e mal restarne senza si confida, dietro, correndo, il suo ronzin gli ha messo. Il pagan per orgoglio al destrier grida, e con mani e con piedi il batte spesso; e, come non sia bestia, lo minaccia perché si fermi, e tuttavia più il caccia. 90 La bestia, ch'era spaventosa e poltra, sanza guardarsi ai piè, corre a traverso. Già corso avea tre miglia, e seguiva oltra, s'un fosso a quel desir non era avverso; che, sanza aver nel fondo o letto o coltra, ricevé l'uno e l'altro in sé riverso. Diè Mandricardo in terra aspra percossa; né però si fiaccò né si roppe ossa. 91 Quivi si ferma il corridore al fine, ma non si può guidar, che non ha freno. Il Tartaro lo tien preso nel crine, e tutto è di furore e d'ira pieno. Pensa, e non sa quel che di far destine. - Pongli la briglia del mio palafreno (la donna gli dicea); che non è molto il mio feroce, o sia col freno o sciolto. - 92 Al Saracin parea discortesia la proferta accettar di Doralice; ma fren gli farà aver per altra via Fortuna a' suoi disii molto fautrice. Quivi Gabrina scelerata invia, che, poi che di Zerbin fu traditrice, fuggia, come la lupa che lontani oda venire i cacciatori e i cani. 93 Ella avea ancora indosso la gonnella, e quei medesmi giovenili ornati che furo alla vezzosa damigella di Pinabel, per lei vestir, levati; et avea il palafreno anco di quella, dei buon del mondo e degli avantaggiati. La vecchia sopra il Tartaro trovosse, ch'ancor non s'era accorta che vi fosse. 94 L'abito giovenil mosse la figlia di Stordilano, e Mandricardo a riso, vedendolo a colei che rassimiglia a un babuino, a un bertuccione in viso. Disegna il Saracin torle la briglia pel suo destriero, e riuscì l'aviso. Toltogli il morso, il palafren minaccia, gli grida, lo spaventa, e in fuga il caccia. 95 Quel fugge per la selva, e seco porta la quasi morta vecchia di paura per valli e monti e per via dritta e torta, per fossi e per pendici alla ventura. Ma il parlar di costei sì non m'importa, ch'io non debba d'Orlando aver più cura, ch'alla sua sella ciò ch'era di guasto, tutto ben racconciò sanza contrasto. 96 Rimontò sul destriero, e ste' gran pezzo a riguardar che 'l Saracin tornasse. Nol vedendo apparir, vòlse da sezzo egli esser quel ch'a ritrovarlo andasse; ma, come costumato e bene avezzo, non prima il paladin quindi si trasse, che con dolce parlar grato e cortese buona licenzia dagli amanti prese. 97 Zerbin di quel partir molto si dolse; di tenerezza ne piangea Issabella: voleano ir seco, ma il conte non vòlse lor compagnia, ben ch'era e buona e bella; e con questa ragion se ne disciolse, ch'a guerrier non è infamia sopra quella che, quando cerchi un suo nimico, prenda compagno che l'aiuti e che 'l difenda. 98 Li pregò poi, che quando il Saracino, prima ch'in lui, si riscontrasse in loro, gli dicesser ch'Orlando avria vicino ancor tre giorni per quel tenitoro; ma dopo, che sarebbe il suo camino verso le 'nsegne dei bei gigli d'oro, per esser con l'esercito di Carlo, acciò, volendol, sappia onde chiamarlo. 99 Quelli promiser farlo volentieri, e questa e ogn'altra cosa al suo comando. Feron camin diverso i cavallieri, di qua Zerbino, e di là il conte Orlando. Prima che pigli il conte altri sentieri, all'arbor tolse, e a sé ripose il brando; e dove meglio col pagan pensosse di potersi incontrare, il destrier mosse. 100 Lo strano corso che tenne il cavallo del Saracin pel bosco senza via, fece ch'Orlando andò duo giorni in fallo, né lo trovò, né poté averne spia. Giunse ad un rivo che parea cristallo, ne le cui sponde un bel pratel fioria, di nativo color vago e dipinto, e di molti e belli arbori distinto. 101 Il merigge facea grato l'orezzo al duro armento et al pastore ignudo; sì che né Orlando sentia alcun ribrezzo, che la corazza avea, l'elmo e lo scudo. Quivi egli entrò per riposarvi in mezzo; e v'ebbe travaglioso albergo e crudo, e più che dir si possa empio soggiorno, quell'infelice e sfortunato giorno. 102 Volgendosi ivi intorno, vide scritti molti arbuscelli in su l'ombrosa riva. Tosto che fermi v'ebbe gli occhi e fitti, fu certo esser di man de la sua diva. Questo era un di quei lochi già descritti, ove sovente con Medor veniva da casa del pastore indi vicina la bella donna del Catai regina. 103 Angelica e Medor con cento nodi legati insieme, e in cento lochi vede. Quante lettere son, tanti son chiodi coi quali Amore il cor gli punge e fiede. Va col pensier cercando in mille modi non creder quel ch'al suo dispetto crede: ch'altra Angelica sia, creder si sforza, ch'abbia scritto il suo nome in quella scorza. 104 Poi dice: - Conosco io pur queste note: di tal'io n'ho tante vedute e lette. Finger questo Medoro ella si puote: forse ch'a me questo cognome mette. - Con tali opinïon dal ver remote usando fraude a sé medesmo, stette ne la speranza il malcontento Orlando, che si seppe a se stesso ir procacciando. 105 Ma sempre più raccende e più rinuova, quanto spenger più cerca, il rio sospetto: come l'incauto augel che si ritrova in ragna o in visco aver dato di petto, quanto più batte l'ale e più si prova di disbrigar, più vi si lega stretto. Orlando viene ove s'incurva il monte a guisa d'arco in su la chiara fonte. 106 Aveano in su l'entrata il luogo adorno coi piedi storti edere e viti erranti. Quivi soleano al più cocente giorno stare abbracciati i duo felici amanti. V'aveano i nomi lor dentro e d'intorno, più che in altro dei luoghi circonstanti, scritti, qual con carbone e qual con gesso, e qual con punte di coltelli impresso. 107 Il mesto conte a piè quivi discese; e vide in su l'entrata de la grotta parole assai, che di sua man distese Medoro avea, che parean scritte allotta. Del gran piacer che ne la grotta prese, questa sentenza in versi avea ridotta. Che fosse culta in suo linguaggio io penso; et era ne la nostra tale il senso: 108 - Liete piante, verdi erbe, limpide acque, spelunca opaca e di fredde ombre grata, dove la bella Angelica che nacque di Galafron, da molti invano amata, spesso ne le mie braccia nuda giacque; de la commodità che qui m'è data, io povero Medor ricompensarvi d'altro non posso, che d'ognior lodarvi: 109 e di pregare ogni signore amante, e cavallieri e damigelle, e ognuna persona, o paesana o vïandante, che qui sua volontà meni o Fortuna; ch'all'erbe, all'ombre, all'antro, al rio, alle piante dica: benigno abbiate e sole e luna, e de le ninfe il coro, che proveggia che non conduca a voi pastor mai greggia. - 110 Era scritto in arabico, che 'l conte intendea così ben come latino: fra molte lingue e molte ch'avea pronte, prontissima avea quella il paladino; e gli schivò più volte e danni et onte, che si trovò tra il popul saracino: ma non si vanti, se già n'ebbe frutto; ch'un danno or n'ha, che può scontargli il tutto. 111 Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto quello infelice, e pur cercando invano che non vi fosse quel che v'era scritto; e sempre lo vedea più chiaro e piano: et ogni volta in mezzo il petto afflitto stringersi il cor sentia con fredda mano. Rimase al fin con gli occhi e con la mente fissi nel sasso, al sasso indifferente. 112 Fu allora per uscir del sentimento sì tutto in preda del dolor si lassa. Credete a chi n'ha fatto esperimento, che questo è 'l duol che tutti gli altri passa. Caduto gli era sopra il petto il mento, la fronte priva di baldanza e bassa; né poté aver (che 'l duol l'occupò tanto) alle querele voce, o umore al pianto. 113 L'impetuosa doglia entro rimase, che volea tutta uscir con troppa fretta. Così veggiàn restar l'acqua nel vase, che largo il ventre e la bocca abbia stretta; che nel voltar che si fa in su la base, l'umor che vorria uscir, tanto s'affretta, e ne l'angusta via tanto s'intrica, ch'a goccia a goccia fuore esce a fatica. 114 Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come possa esser che non sia la cosa vera: che voglia alcun così infamare il nome de la sua donna e crede e brama e spera, o gravar lui d'insoportabil some tanto di gelosia, che se ne pèra; et abbia quel, sia chi si voglia stato, molto la man di lei bene imitato. 115 In così poca, in così debol speme sveglia gli spirti e gli rifranca un poco; indi al suo Brigliadoro il dosso preme, dando già il sole alla sorella loco. Non molto va, che da le vie supreme dei tetti uscir vede il vapor del fuoco, sente cani abbaiar, muggiare armento: viene alla villa, e piglia alloggiamento. 116 Languido smonta, e lascia Brigliadoro a un discreto garzon che n'abbia cura; altri il disarma, altri gli sproni d'oro gli leva, altri a forbir va l'armatura. Era questa la casa ove Medoro giacque ferito, e v'ebbe alta avventura. Corcarsi Orlando e non cenar domanda, di dolor sazio e non d'altra vivanda. 117 Quanto più cerca ritrovar quïete, tanto ritrova più travaglio e pena; che de l'odiato scritto ogni parete, ogni uscio, ogni finestra vede piena. Chieder ne vuol: poi tien le labra chete; che teme non si far troppo serena, troppo chiara la cosa che di nebbia cerca offuscar, perché men nuocer debbia. 118 Poco gli giova usar fraude a se stesso; che senza domandarne, è chi ne parla. Il pastor che lo vede così oppresso da sua tristizia, e che voria levarla, l'istoria nota a sé, che dicea spesso di quei duo amanti a chi volea ascoltarla, ch'a molti dilettevole fu a udire, gl'incominciò senza rispetto a dire: 119 come esso a prieghi d'Angelica bella portato avea Medoro alla sua villa, ch'era ferito gravemente; e ch'ella curò la piaga, e in pochi dì guarilla: ma che nel cor d'una maggior di quella lei ferì Amor; e di poca scintilla l'accese tanto e sì cocente fuoco, che n'ardea tutta, e non trovava loco: 120 e sanza aver rispetto ch'ella fusse figlia del maggior re ch'abbia il Levante, da troppo amor costretta si condusse a farsi moglie d'un povero fante. All'ultimo l'istoria si ridusse, che 'l pastor fe' portar la gemma inante, ch'alla sua dipartenza, per mercede del buono albergo, Angelica gli diede. 121 Questa conclusion fu la secure che 'l capo a un colpo gli levò dal collo, poi che d'innumerabil battiture si vide il manigoldo Amor satollo. Celar si studia Orlando il duolo; e pure quel gli fa forza, e male asconder pòllo: per lacrime e suspir da bocca e d'occhi convien, voglia o non voglia, al fin che scocchi. 122 Poi ch'allargare il freno al dolor puote (che resta solo e senza altrui rispetto), giú dagli occhi rigando per le gote sparge un fiume di lacrime sul petto: sospira e geme, e va con spesse ruote di qua di là tutto cercando il letto; e più duro ch'un sasso, e più pungente che se fosse d'urtica, se lo sente. 123 In tanto aspro travaglio gli soccorre che nel medesmo letto in che giaceva, l'ingrata donna venutasi a porre col suo drudo più volte esser doveva. Non altrimenti or quella piuma abborre, né con minor prestezza se ne leva, che de l'erba il villan che s'era messo per chiuder gli occhi, e vegga il serpe appresso. 124 Quel letto, quella casa, quel pastore immantinente in tant'odio gli casca, che senza aspettar luna, o che l'albóre che va dinanzi al nuovo giorno nasca, piglia l'arme e il destriero, et esce fuore per mezzo il bosco alla più oscura frasca; e quando poi gli è aviso d'esser solo, con gridi et urli apre le porte al duolo. 125 Di pianger mai, mai di gridar non resta; né la notte né 'l dì si dà mai pace. Fugge cittadi e borghi, e alla foresta sul terren duro al discoperto giace. Di sé si meraviglia ch'abbia in testa una fontana d'acqua sì vivace, e come sospirar possa mai tanto; e spesso dice a sé così nel pianto: 126 - Queste non son più lacrime, che fuore stillo dagli occhi con sì larga vena. Non suppliron le lacrime al dolore: finîr, ch'a mezzo era il dolore a pena. Dal fuoco spinto ora il vitale umore fugge per quella via ch'agli occhi mena; et è quel che si versa, e trarrà insieme e 'l dolore e la vita all'ore estreme. 127 Questi ch'indizio fan del mio tormento, sospir non sono, né i sospir sono tali. Quelli han triegua talora; io mai non sento che 'l petto mio men la sua pena esali. Amor che m'arde il cor, fa questo vento, mentre dibatte intorno al fuoco l'ali. Amor, con che miracolo lo fai, che 'n fuoco il tenghi, e nol consumi mai? 128 Non son, non sono io quel che paio in viso: quel ch'era Orlando è morto et è sotterra; la sua donna ingratissima l'ha ucciso: sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra. Io son lo spirto suo da lui diviso, ch'in questo inferno tormentandosi erra, acciò con l'ombra sia, che sola avanza, esempio a chi in Amor pone speranza. - 129 Pel bosco errò tutta la notte il conte; e allo spuntar de la dïurna fiamma lo tornò il suo destin sopra la fonte dove Medoro insculse l'epigramma. Veder l'ingiuria sua scritta nel monte l'accese sì, ch'in lui non restò dramma che non fosse odio, rabbia, ira e furore; né più indugiò, che trasse il brando fuore. 130 Tagliò lo scritto e 'l sasso, e sin al cielo a volo alzar fe' le minute schegge. Infelice quell'antro, et ogni stelo in cui Medoro e Angelica si legge! Così restâr quel dì, ch'ombra né gielo a pastor mai non daran più, né a gregge: e quella fonte, già si chiara e pura, da cotanta ira fu poco sicura; 131 che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle non cessò di gittar ne le bell'onde, fin che da sommo ad imo sì turbolle che non furo mai più chiare né monde. E stanco al fin, e al fin di sudor molle, poi che la lena vinta non risponde allo sdegno, al grave odio, all'ardente ira, cade sul prato, e verso il ciel sospira. 132 Afflitto e stanco al fin cade ne l'erba, e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto. Senza cibo e dormir così si serba, che 'l sole esce tre volte e torna sotto. Di crescer non cessò la pena acerba, che fuor del senno al fin l'ebbe condotto. Il quarto dì, da gran furor commosso, e maglie e piastre si stracciò di dosso. 133 Qui riman l'elmo, e là riman lo scudo, lontan gli arnesi, e più lontan l'usbergo: l'arme sue tutte, in somma vi concludo, avean pel bosco differente albergo. E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo l'ispido ventre e tutto 'l petto e 'l tergo; e cominciò la gran follia, sì orrenda, che de la più non sarà mai ch'intenda. 134 In tanta rabbia, in tanto furor venne, che rimase offuscato in ogni senso. Di tor la spada in man non gli sovenne; che fatte avria mirabil cose, penso. Ma né quella, né scure, né bipenne era bisogno al suo vigore immenso. Quivi fe' ben de le sue prove eccelse, ch'un alto pino al primo crollo svelse: 135 e svelse dopo il primo altri parecchi, come fosser finocchi, ebuli o aneti; e fe' il simil di querce e d'olmi vecchi, di faggi e d'orni e d'illici e d'abeti. Quel ch'un ucellator che s'apparecchi il campo mondo, fa, per por le reti, dei giunchi e de le stoppie e de l'urtiche, facea de cerri e d'altre piante antiche. 136 I pastor che sentito hanno il fracasso, lasciando il gregge sparso alla foresta, chi di qua, chi di là, tutti a gran passo vi vengono a veder che cosa è questa. Ma son giunto a quel segno il qual s'io passo vi potria la mia istoria esser molesta; et io la vo' più tosto diferire, che v'abbia per lunghezza a fastidire.
1 Chi mette il piè su l'amorosa pania, cerchi ritrarlo, e non v'inveschi l'ale; che non è in somma amor, se non insania, a giudizio de' savi universale: e se ben come Orlando ognun non smania, suo furor mostra a qualch'altro segnale. E quale è di pazzia segno più espresso che, per altri voler, perder se stesso? 2 Varii gli effetti son, ma la pazzia è tutt'una però, che li fa uscire. Gli è come una gran selva, ove la via conviene a forza, a chi vi va, fallire: chi su, chi giú, chi qua, chi là travia. Per concludere in somma, io vi vo' dire: a chi in amor s'invecchia, oltr'ogni pena, si convengono i ceppi e la catena. 3 Ben mi si potria dir: - Frate, tu vai l'altrui mostrando, e non vedi il tuo fallo. - Io vi rispondo che comprendo assai, or che di mente ho lucido intervallo; et ho gran cura (e spero farlo ormai) di riposarmi e d'uscir fuor di ballo: ma tosto far, come vorrei, nol posso; che 'l male è penetrato infin all'osso. 4 Signor, ne l'altro canto io vi dicea che 'l forsennato e furïoso Orlando trattesi l'arme e sparse al campo avea, squarciati i panni, via gittato il brando, svelte le piante, e risonar facea i cavi sassi e l'alte selve; quando alcun' pastori al suon trasse in quel lato lor stella, o qualche lor grave peccato. 5 Viste del pazzo l'incredibil prove poi più d'appresso e la possanza estrema, si voltan per fuggir, ma non sanno ove, sì come avviene in subitana tema. Il pazzo dietro lor ratto si muove: uno ne piglia, e del capo lo scema con la facilità che torria alcuno da l'arbor pome, o vago fior dal pruno. 6 Per una gamba il grave tronco prese, e quello usò per mazza adosso al resto: in terra un paio addormentato stese, ch'al novissimo dì forse fia desto. Gli altri sgombraro subito il paese, ch'ebbono il piede e il buono aviso presto. Non saria stato il pazzo al seguir lento, se non ch'era già volto al loro armento. 7 Gli agricultori, accorti agli altru' esempli, lascian nei campi aratri e marre e falci: chi monta su le case e chi sui templi (poi che non son sicuri olmi né salci), onde l'orrenda furia si contempli, ch'a pugni, ad urti, a morsi, a graffi, a calci, cavalli e buoi rompe, fraccassa e strugge; e ben è corridor chi da lui fugge. 8 Già potreste sentir come ribombe l'alto rumor ne le propinque ville d'urli e di corni, rusticane trombe, e più spesso che d'altro, il suon di squille; e con spuntoni et archi e spiedi e frombe veder dai monti sdrucciolarne mille, et altritanti andar da basso ad alto, per fare al pazzo un villanesco assalto. 9 Qual venir suol nel salso lito l'onda mossa da l'austro ch'a principio scherza, che maggior de la prima è la seconda, e con più forza poi segue la terza; et ogni volta più l'umore abonda, e ne l'arena più stende la sferza: tal contra Orlando l'empia turba cresce, che giú da balze scende e di valli esce. 10 Fece morir diece persone e diece, che senza ordine alcun gli andaro in mano: e questo chiaro esperimento fece, ch'era assai più sicur starne lontano. Trar sangue da quel corpo a nessun lece, che lo fere e percuote il ferro invano. Al conte il re del ciel tal grazia diede, per porlo a guardia di sua santa fede. 11 Era a periglio di morire Orlando, se fosse di morir stato capace. Potea imparar ch'era a gittare il brando, e poi voler senz'arme essere audace. La turba già s'andava ritirando, vedendo ogni suo colpo uscir fallace. Orlando, poi che più nessun l'attende, verso un borgo di case il camin prende. 12 Dentro non vi trovò piccol né grande, che 'l borgo ognun per tema avea lasciato. V'erano in copia povere vivande, convenïenti a un pastorale stato. Senza il pane di scerner da le giande, dal digiuno e da l'impeto cacciato, le mani e il dente lasciò andar di botto in quel che trovò prima, o crudo o cotto. 13 E quindi errando per tutto il paese, dava la caccia e agli uomini e alle fere; e scorrendo pei boschi, talor prese i capri isnelli e le damme leggiere. Spesso con orsi e con cingiai contese, e con man nude li pose a giacere: e di lor carne con tutta la spoglia più volte il ventre empì con fiera voglia. 14 Di qua, di là, di su, di giú discorre per tutta Francia; e un giorno a un ponte arriva, sotto cui largo e pieno d'acqua corre un fiume d'alta e di scoscesa riva. Edificato accanto avea una torre che d'ogn'intorno e di lontan scopriva. Quel che fe' quivi, avete altrove a udire; che di Zerbin mi convien prima dire. 15 Zerbin, da poi ch'Orlando fu partito, dimorò alquanto, e poi prese il sentiero che 'l paladino inanzi gli avea trito, e mosse a passo lento il suo destriero. Non credo che duo miglia anco fosse ito, che trar vide legato un cavalliero sopra un picciol ronzino, e d'ogni lato la guardia aver d'un cavalliero armato. 16 Zerbin questo prigion conobbe tosto che gli fu appresso, e così fe' Issabella: era Odorico il Biscaglin, che posto fu come lupo a guardia de l'agnella. L'avea a tutti gli amici suoi preposto Zerbino in confidargli la donzella, sperando che la fede che nel resto sempre avea avuta, avesse ancora in questo. 17 Come era a punto quella cosa stata, venìa Issabella raccontando allotta: come nel palischermo fu salvata, prima ch'avesse il mar la nave rotta; la forza che l'avea Odorico usata; e come tratta poi fosse alla grotta. Né giunt'era anco al fin di quel sermone, che trarre il malfattor vider prigione. 18 I duo ch'in mezzo avean preso Odorico, d'Issabella notizia ebbeno vera; e s'avisaro esser di lei l'amico, e 'l signor lor, colui ch'appresso l'era; ma più, che ne lo scudo il segno antico vider dipinto di sua stirpe altiera: e trovâr poi, che guardâr meglio al viso, che s'era al vero apposto il loro aviso. 19 Saltaro a piedi, e con aperte braccia correndo se n'andâr verso Zerbino, e l'abbracciaro ove il maggior s'abbraccia, col capo nudo e col ginocchio chino. Zerbin, guardando l'uno e l'altro in faccia, vide esser l'un Corebo il Biscaglino, Almonio l'altro, ch'egli avea mandati con Odorico in sul navilio armati. 20 Almonio disse: - Poi che piace a Dio (la sua mercé) che sia Issabella teco, io posso ben comprender, signor mio, che nulla cosa nuova ora t'arreco, s'io vo' dir la cagion che questo rio fa che così legato vedi meco; che da costei, che più sentì l'offesa, a punto avrai tutta l'istoria intesa. 21 Come dal traditore io fui schernito quando da sé levommi, saper déi; e come poi Corebo fu ferito, ch'a difender s'avea tolto costei. Ma quanto al mio ritorno sia seguito, né veduto né inteso fu da lei, che te l'abbia potuto riferire: di questa parte dunque io ti vo' dire. 22 Da la cittade al mar ratto io veniva con cavalli ch'in fretta avea trovati, sempre con gli occhi intenti s'io scopriva costor che molto a dietro eran restati. Io vengo inanzi, io vengo in su la riva del mare, al luogo ove io gli avea lasciati; io guardo, né di loro altro ritrovo, che ne l'arena alcun vestigio nuovo. 23 La pesta seguitai, che mi condusse nel bosco fier; né molto adentro fui, che, dove il suon l'orecchie mi percusse, giacere in terra ritrovai costui. Gli domandai che de la donna fusse, che d'Odorico, e chi avea offeso lui. Io me n'andai, poi che la cosa seppi, il traditor cercando per quei greppi. 24 Molto aggirando vommi, e per quel giorno altro vestigio ritrovar non posso. Dove giacea Corebo al fin ritorno, che fatto appresso avea il terren sì rosso, che poco più che vi facea soggiorno, gli saria stato di bisogno il fosso e i preti e i frati più per sotterrarlo, ch'i medici e che 'l letto per sanarlo. 25 Dal bosco alla città feci portallo, e posi in casa d'uno ostier mio amico, che fatto sano in poco termine hallo per cura et arte d'un chirurgo antico. Poi d'arme proveduti e di cavallo Corebo et io cercammo d'Odorico, ch'in corte del re Alfonso di Biscaglia trovammo; e quivi fui seco a battaglia. 26 La giustizia del re, che il loco franco de la pugna mi diede, e la ragione, et oltre alla ragion la Fortuna anco, che spesso la vittoria, ove vuol, pone, mi giovâr sì, che di me poté manco il traditore; onde fu mio prigione. Il re, udito il gran fallo, mi concesse di poter farne quanto mi piacesse. 27 Non l'ho voluto uccider né lasciarlo, ma, come vedi, trarloti in catena; perché vo' ch'a te stia di giudicarlo, se morire o tener si deve in pena. L'avere inteso ch'eri appresso a Carlo, e 'l desir di trovarti qui mi mena. Ringrazio Dio che mi fa in questa parte, dove lo sperai meno, ora trovarte. 28 Ringraziolo anco, che la tua Issabella io veggo (e non so come) che teco hai; di cui, per opera del fellon, novella pensai che non avessi ad udir mai. - Zerbino ascolta Almonio e non favella, fermando gli occhi in Odorico assai; non sì per odio, come che gl'incresce ch'a sì mal fin tanta amicizia gli esce. 29 Finito ch'ebbe Almonio il suo sermone, Zerbin riman gran pezzo sbigottito, che chi d'ogn'altro men n'avea cagione, sì espressamente il possa aver tradito. Ma poi che d'una lunga ammirazione fu, sospirando, finalmente uscito, al prigion domandò se fosse vero quel ch'avea di lui detto il cavalliero. 30 Il disleal con le ginocchia in terra lasciò cadersi, e disse: - Signor mio, ognun che vive al mondo pecca et erra: né differisce in altro il buon dal rio, se non che l'uno è vinto ad ogni guerra che gli vien mossa da un piccol disio; l'altro ricorre all'arme e si difende, ma se 'l nimico è forte, anco ei si rende. 31 Se tu m'avessi posto alla difesa d'una tua ròcca, e ch'al primiero assalto alzate avessi, senza far contesa, degl'inimici le bandiere in alto; di viltà, o tradimento, che più pesa, sugli occhi por mi si potria uno smalto: ma s'io cedessi a forza, son ben certo che biasmo non avrei, ma gloria e merto. 32 Sempre che l'inimico è più possente, più chi perde accettabile ha la scusa. Mia fé guardar dovea non altrimente ch'una fortezza d'ogn'intorno chiusa: così, con quanto senno e quanta mente da la somma Prudenzia m'era infusa, io mi sforzai guardarla; ma al fin vinto da intolerando assalto, ne fui spinto. - 33 Così disse Odorico, e poi soggiunse (che saria lungo a ricontarvi il tutto) mostrando che gran stimolo lo punse, e non per lieve sferza s'era indutto. Se mai per prieghi ira di cor si emunse, s'umiltà di parlar fece mai frutto, quivi far lo dovea; che ciò che muova di cor durezza, ora Odorico trova. 34 Pigliar di tanta ingiuria alta vendetta, tra il sì Zerbino e il no resta confuso: il vedere il demerito lo alletta a far che sia il fellon di vita escluso; il ricordarsi l'amicizia stretta ch'era stata tra lor per sì lungo uso, con l'acqua di pietà l'accesa rabbia nel cor gli spegne, e vuol che mercé n'abbia. 35 Mentre stava così Zerbino in forse di liberare, o di menar captivo, o pur il disleal dagli occhi tôrse per morte, o pur tenerlo in pena vivo; quivi rignando il palafreno corse, che Mandricardo avea di briglia privo; e vi portò la vecchia che vicino a morte dianzi avea tratto Zerbino. 36 Il palafren, ch'udito di lontano avea quest'altri, era tra lor venuto, e la vecchia portatavi, ch'invano venìa piangendo e domandando aiuto. Come Zerbin lei vide, alzò la mano al ciel che sì benigno gli era suto, che datogli in arbitrio avea que' dui che soli odiati esser dovean da lui. 37 Zerbin fa ritener la mala vecchia, tanto che pensi quel che debba farne: tagliarle il naso e l'una e l'altra orecchia pensa, et esempio a' malfattori darne; poi gli par assai meglio, s'apparecchia un pasto agli avoltoi di quella carne. Punizïon diversa tra sé volve; e così finalmente si risolve. 38 Si rivolta ai compagni, e dice: - Io sono di lasciar vivo il disleal contento; che s'in tutto non merita perdono, non merita anco sì crudel tormento. Che viva e che slegato sia gli dono, però ch'esser d'Amor la colpa sento; e facilmente ogni scusa s'ammette, quando in Amor la colpa si reflette. 39 Amore ha volto sottosopra spesso senno più saldo che non ha costui, et ha condotto a via maggiore eccesso di questo, ch'oltraggiato ha tutti nui. Ad Odorico debbe esser rimesso: punito esser debbo io, che cieco fui, cieco a dargline impresa, e non por mente che 'l fuoco arde la paglia facilmente. - 40 Poi mirando Odorico: - Io vo' che sia (gli disse) del tuo error la penitenza, che la vecchia abbi un anno in compagnia, né di lasciarla mai ti sia licenza; ma notte e giorno, ove tu vada o stia, un'ora mai non te ne trovi senza; e fin a morte sia da te difesa contra ciascun che voglia farle offesa. 41 Vo', se da lei ti sarà commandato, che pigli contra ognun contesa e guerra: vo' in questo tempo, che tu sia ubligato tutta Francia cercar di terra in terra. - Così dicea Zerbin; che pel peccato meritando Odorico andar sotterra, questo era porgli inanzi un'alta fossa, che fia gran sorte che schivar la possa. 42 Tante donne, tanti uomini traditi avea la vecchia, e tanti offesi e tanti, che chi sarà con lei, non senza liti potrà passar de' cavallieri erranti. Così di par saranno ambi puniti: ella de' suoi commessi errori inanti, egli di torne la difesa a torto; né molto potrà andar che non sia morto. 43 Di dover servar questo, Zerbin diede ad Odorico un giuramento forte, con patto che se mai rompe la fede, e ch'inanzi gli càpiti per sorte, senza udir prieghi e averne più mercede, lo debba far morir di cruda morte. Ad Almonio e a Corebo poi rivolto, fece Zerbin che fu Odorico sciolto. 44 Corebo, consentendo Almonio, sciolse il traditore al fin, ma non in fretta; ch'all'uno e all'altro esser turbato dolse da sì desiderata sua vendetta. Quindi partissi il disleale, e tolse in compagnia la vecchia maledetta. Non si legge in Turpin che n'avvenisse; ma vidi già un autor che più ne scrisse. 45 Scrive l'autore, il cui nome mi taccio, che non furo lontani una giornata, che per tôrsi Odorico quello impaccio, contra ogni patto et ogni fede data, al collo di Gabrina gittò un laccio, e che ad un olmo la lasciò impiccata; e ch'indi a un anno (ma non dice il loco) Almonio a lui fece il medesmo giuoco. 46 Zerbin che dietro era venuto all'orma del paladin, né perder la vorrebbe, manda a dar di sé nuove alla sua torma, che star senza gran dubbio non ne debbe: Almonio manda, e di più cose informa, che lungo il tutto a ricontar sarebbe; Almonio manda, e a lui Corebo appresso; né tien, fuor ch'Issabella, altri con esso. 47 Tant'era l'amor grande che Zerbino, e non minor del suo quel che Issabella portava al virtuoso paladino; tanto il desir d'intender la novella ch'egli avesse trovato il Saracino che del destrier lo trasse con la sella; che non farà all'esercito ritorno, se non finito che sia il terzo giorno; 48 il termine ch'Orlando aspettar disse il cavallier ch'ancor non porta spada. Non è alcun luogo dove il conte gisse, che Zerbin pel medesimo non vada. Giunse al fin tra quegli arbori che scrisse l'ingrata donna, un poco fuor di strada; e con la fonte e col vicino sasso tutti li ritruovò messi in fracasso. 49 Vede lontan non sa che luminoso, e trova la corazza esser del conte; e trova l'elmo poi, non quel famoso ch'armò già il capo all'africano Almonte. Il destrier ne la selva più nascoso sente anitrire, e leva al suon la fronte; e vede Brigliador pascer per l'erba, che dall'arcion pendente il freno serba. 50 Durindana cercò per la foresta, e fuor la vide del fodero starse. Trovò, ma in pezzi, ancor la sopravesta ch'in cento lochi il miser conte sparse. Issabella e Zerbin con faccia mesta stanno mirando, e non san che pensarse: pensar potrian tutte le cose, eccetto che fosse Orlando fuor dell'intelletto. 51 Se di sangue vedessino una goccia, creder potrian che fosse stato morto. Intanto lungo la corrente doccia vider venire un pastorello smorto. Costui pur dianzi avea di su la roccia l'alto furor de l'infelice scorto, come l'arme gittò, squarciossi i panni, pastori uccise, e fe' mill'altri danni. 52 Costui, richiesto da Zerbin, gli diede vera informazïon di tutto questo. Zerbin si maraviglia, e a pena il crede; e tuttavia n'ha indizio manifesto. Sia come vuole, egli discende a piede, pien di pietade, lacrimoso e mesto; e ricogliendo da diversa parte le reliquie ne va ch'erano sparte. 53 Del palafren discende anco Issabella, e va quell'arme riducendo insieme. Ecco lor sopraviene una donzella dolente in vista, e di cor spesso geme. Se mi domanda alcun chi sia, perch'ella così s'affligge, e che dolor la preme, io gli risponderò che è Fiordiligi che de l'amante suo cerca i vestigi. 54 Da Brandimarte senza farle motto lasciata fu ne la città di Carlo, dov'ella l'aspettò sei mesi od otto; e quando al fin non vide ritornarlo, da un mare all'altro si mise, fin sotto Pirene e l'Alpe, e per tutto a cercarlo: l'andò cercando in ogni parte, fuore ch'al palazzo d'Atlante incantatore. 55 Se fosse stata a quell'ostel d'Atlante, veduto con Gradasso andare errando l'avrebbe, con Ruggier, con Bradamante, e con Ferraù prima e con Orlando; ma poi che cacciò Astolfo il negromante col suono del corno orribile e mirando, Brandimarte tornò verso Parigi: ma non sapea già questo Fiordiligi. 56 Come io vi dico, sopraggiunta a caso a quei duo amanti Fiordiligi bella, conobbe l'arme, e Brigliador rimaso senza il patrone e col freno alla sella. Vide con gli occhi il miserabil caso, e n'ebbe per udita anco novella; che similmente il pastorel narrolle aver veduto Orlando correr folle. 57 Quivi Zerbin tutte raguna l'arme, e ne fa come un bel trofeo su 'n pino; e volendo vietar che non se n'arme cavallier paesan né peregrino, scrive nel verde ceppo in breve carme: « Armatura d'Orlando paladino »; come volesse dir: nessun la muova, che star non possa con Orlando a prova. 58 Finito ch'ebbe la lodevol opra, tornava a rimontar sul suo destriero; et ecco Mandricardo arrivar sopra, che visto il pin di quelle spoglie altiero, lo priega che la cosa gli discuopra: e quel gli narra, come ha inteso, il vero. Allora il re pagan lieto non bada, che viene al pino, e ne leva la spada, 59 dicendo: - Alcun non me ne può riprendere; non è pur oggi ch'io l'ho fatta mia, et il possesso giustamente prendere ne posso in ogni parte, ovunque sia. Orlando che temea quella difendere, s'ha finto pazzo, e l'ha gittata via; ma quando sua viltà pur così scusi, non debbe far ch'io mia ragion non usi. - 60 Zerbino a lui gridava: - Non la tôrre, o pensa non l'aver senza questione. Se togliesti così l'arme d'Ettorre, tu l'hai di furto, più che di ragione. - Senz'altro dir l'un sopra l'altro corre, d'animo e di virtù gran paragone. Di cento colpi già rimbomba il suono, né bene ancor ne la battaglia sono. 61 Di prestezza Zerbin pare una fiamma a tôrsi ovunque Durindana cada: di qua di là saltar come una damma fa 'l suo destrier dove è miglior la strada. E ben convien che non ne perda dramma; ch'andrà, s'un tratto il coglie quella spada, a ritrovar gl'innamorati spirti ch'empion la selva degli ombrosi mirti. 62 Come il veloce can che 'l porco assalta che fuor del gregge errar vegga nei campi, lo va aggirando, e quinci e quindi salta; ma quello attende ch'una volta inciampi: così, se vien la spada o bassa od alta, sta mirando Zerbin come ne scampi; come la vita e l'onor salvi a un tempo, tien sempre l'occhio, e fiere e fugge a tempo. 63 Da l'altra parte, ovunque il Saracino la fiera spada vibra o piena o vòta, sembra fra due montagne un vento alpino ch'una frondosa selva il marzo scuota; ch'ora la caccia a terra a capo chino, or gli spezzati rami in aria ruota. Ben che Zerbin più colpi e fùggia e schivi, non può schivare al fin, ch'un non gli arrivi. 64 Non può schivare al fine un gran fendente che tra 'l brando e lo scudo entra sul petto. Grosso l'usbergo, e grossa parimente era la piastra, e 'l panziron perfetto: pur non gli steron contra, et ugualmente alla spada crudel dieron ricetto. Quella calò tagliando ciò che prese, la corazza e l'arcion fin su l'arnese. 65 E se non che fu scarso il colpo alquanto, per mezzo lo fendea come una canna; ma penetra nel vivo a pena tanto, che poco più che la pelle gli danna: la non profunda piaga è lunga quanto non si misureria con una spanna. Le lucid'arme il caldo sangue irriga per sino al piè di rubiconda riga. 66 Così talora un bel purpureo nastro ho veduto partir tela d'argento da quella bianca man più ch'alabastro, da cui partire il cor spesso mi sento. Quivi poco a Zerbin vale esser mastro di guerra, et aver forza e più ardimento; che di finezza d'arme e di possanza il re di Tartaria troppo l'avanza. 67 Fu questo colpo del pagan maggiore in apparenza, che fosse in effetto; tal ch'Issabella se ne sente il core fendere in mezzo all'agghiacciato petto. Zerbin pien d'ardimento e di valore tutto s'infiamma d'ira e di dispetto; e quanto più ferire a due man puote, in mezzo l'elmo il Tartaro percuote. 68 Quasi sul collo del destrier piegosse per l'aspra botta il Saracin superbo; e quando l'elmo senza incanto fosse, partito il capo gli avria il colpo acerbo. Con poco differir ben vendicosse, né disse: A un'altra volta io te la serbo: e la spada gli alzò verso l'elmetto, sperandosi tagliarlo infin al petto. 69 Zerbin che tenea l'occhio ove la mente, presto il cavallo alla man destra volse; non sì presto però, che la tagliente spada fuggisse, che lo scudo colse. Da sommo ad imo ella il partì ugualmente, e di sotto il braccial roppe e disciolse; e lui ferì nel braccio, e poi l'arnese spezzògli, e ne la coscia anco gli scese. 70 Zerbin di qua di là cerca ogni via, né mai di quel che vuol, cosa gli avviene; che l'armatura sopra cui feria, un piccol segno pur non ne ritiene. Da l'altra parte il re di Tartaria sopra Zerbino a tal vantaggio viene, che l'ha ferito in sette parti o in otto, tolto lo scudo, e mezzo l'elmo rotto. 71 Quel tuttavia più va perdendo il sangue; manca la forza, e ancor par che nol senta: il vigoroso cor che nulla langue, val sì, che 'l debol corpo ne sostenta. La donna sua, per timor fatta esangue, intanto a Doralice s'appresenta, e la priega e la supplica per Dio, che partir voglia il fiero assalto e rio. 72 Cortese come bella, Doralice, né ben sicura come il fatto segua, fa volentier quel ch'Issabella dice, e dispone il suo amante a pace e a triegua. Così a' prieghi de l'altra l'ira ultrice di cor fugge a Zerbino e si dilegua: et egli, ove a lei par, piglia la strada, senza finir l'impresa de la spada. 73 Fiordiligi, che mal vede difesa la buona spada del misero conte, tacita duolsi, e tanto le ne pesa, che d'ira piange e battesi la fronte. Vorria aver Brandimarte a quella impresa; e se mai lo ritrova e gli lo conte, non crede poi che Mandricardo vada lunga stagione altier di quella spada. 74 Fiordiligi cercando pure invano va Brandimarte suo matina e sera; e fa camin da lui molto lontano, da lui che già tornato a Parigi era. Tanto ella se n'andò per monte e piano, che giunse ove, al passar d'una riviera, vide e conobbe il miser paladino; ma diciàn quel ch'avvenne di Zerbino: 75 che 'l lasciar Durindana sì gran fallo gli par, che più d'ogn'altro mal gl'incresce; quantunque a pena star possa a cavallo pel molto sangue che gli è uscito et esce. Or poi che dopo non troppo intervallo cessa con l'ira il caldo, il dolor cresce: cresce il dolor sì impetuosamente, che mancarsi la vita se ne sente. 76 Per debolezza più non potea gire; sì che fermossi appresso una fontana. Non sa che far né che si debba dire per aiutarlo la donzella umana. Sol di disagio lo vede morire; che quindi è troppo ogni città lontana, dove in quel punto al medico ricorra, che per pietade o premio gli soccorra. 77 Ella non sa, se non invan dolersi, chiamar fortuna e il cielo empio e crudele. - Perché, ahi lassa! (dicea) non mi sommersi quando levai ne l'Oceàn le vele? - Zerbin che i languidi occhi ha in lei conversi, sente più doglia, ch'ella si querele, che de la passïon tenace e forte che l'ha condutto omai vicino a morte. 78 - Così, cor mio, vogliate (le diceva), dopo ch'io sarò morto, amarmi ancora, come solo il lasciarvi è che m'aggreva qui senza guida, e non già perch'io mora: che se in sicura parte m'accadeva finir de la mia vita l'ultima ora, lieto e contento e fortunato a pieno morto sarei, poi ch'io vi moro in seno. 79 Ma poi che 'l mio destino iniquo e duro vol ch'io vi lasci, e non so in man di cui; per questa bocca e per questi occhi giuro, per queste chiome onde allacciato fui, che disperato nel profondo oscuro vo de lo 'nferno, ove il pensar di vui ch'abbia così lasciata, assai più ria sarà d'ogn'altra pena che vi sia. - 80 A questo la mestissima Issabella, declinando la faccia lacrimosa e congiungendo la sua bocca a quella di Zerbin, languidetta come rosa, rosa non colta in sua stagion, sì ch'ella impallidisca in su la siepe ombrosa, disse: - Non vi pensate già, mia vita, far senza me quest'ultima partita. 81 Di ciò, cor mio, nessun timor vi tocchi; ch'io vo' seguirvi o in cielo o ne lo 'nferno. Convien che l'uno e l'altro spirto scocchi, insieme vada, insieme stia in eterno. Non sì tosto vedrò chiudervi gli occhi, o che m'ucciderà il dolore interno, o se quel non può tanto, io vi prometto con questa spada oggi passarmi il petto. 82 De' corpi nostri ho ancor non poca speme, che me' morti che vivi abbian ventura. Qui forse alcun capiterà, ch'insieme, mosso a pietà, darà lor sepoltura. - Così dicendo, le reliquie estreme de lo spirto vital che morte fura, va ricogliendo con le labra meste, fin ch'una minima aura ve ne reste. 83 Zerbin la debol voce riforzando, disse: - Io vi priego e supplico, mia diva, per quello amor che mi mostraste, quando per me lasciaste la paterna riva; e se commandar posso, io vel commando, che fin che piaccia a Dio, restiate viva; né mai per caso pogniate in oblio che quanto amar si può, v'abbia amato io. 84 Dio vi provederà d'aiuto forse, per liberarvi d'ogni atto villano, come fe' quando alla spelonca torse, per indi trarvi, il senator romano. Così (la sua mercé) già vi soccorse nel mare e contra il Biscaglin profano: e se pure avverrà che poi si deggia morire, allora il minor mal s'elleggia. - 85 Non credo che quest'ultime parole potesse esprimer sì, che fosse inteso; e finì come il debol lume suole, cui cera manchi od altro in che sia acceso. Chi potrà dire a pien come si duole, poi che si vede pallido e disteso, la giovanetta, e freddo come ghiaccio il suo caro Zerbin restare in braccio? 86 Sopra il sanguigno corpo s'abbandona, e di copiose lacrime lo bagna, e stride sì, ch'intorno ne risuona a molte miglia il bosco e la campagna. Né alle guancie né al petto si perdona, che l'uno e l'altro non percuota e fragna; e straccia a torto l'auree crespe chiome, chiamando sempre invan l'amato nome. 87 In tanta rabbia, in tal furor sommersa l'avea la doglia sua, che facilmente avria la spada in se stessa conversa, poco al suo amante in questo ubidïente; s'uno eremita ch'alla fresca e tersa fonte avea usanza di tornar sovente da la sua quindi non lontana cella, non s'opponea, venendo, al voler d'ella. 88 Il venerabile uom, ch'alta bontade avea congiunta a natural prudenzia, et era tutto pien di caritade, di buoni esempi ornato e d'eloquenzia, alla giovan dolente persuade con ragioni efficaci pazïenza; et inanzi le puon, come uno specchio, donne del Testamento e nuovo e vecchio. 89 Poi le fece veder, come non fusse alcun, se non in Dio, vero contento, e ch'eran l'altre transitorie e flusse speranze umane, e di poco momento; e tanto seppe dir, che la ridusse da quel crudele et ostinato intento, che la vita sequente ebbe disio tutta al servigio dedicar di Dio. 90 Non che lasciar del suo signor voglia unque né 'l grand'amor, né le reliquie morte: convien che l'abbia ovunque stia et ovunque vada, e che seco e notte e dì le porte. Quindi aiutando l'eremita dunque, ch'era de la sua età valido e forte, sul mesto suo destrier Zerbin posaro, e molti dì per quelle selve andaro. 91 Non vòlse il cauto vecchio ridur seco, sola con solo, la giovane bella là dove ascosa in un selvaggio speco non lungi avea la solitaria cella; fra sé dicendo: Con periglio arreco in una man la paglia e la facella. Né si fida in sua età né in sua prudenzia, che di sé faccia tanta esperïenzia. 92 Di condurla in Provenza ebbe pensiero non lontano a Marsilia in un castello, dove di sante donne un monastero ricchissimo era, e di edificio bello: e per portarne il morto cavalliero, composto in una cassa aveano quello, che 'n un castel ch'era tra via, si fece lunga e capace, e ben chiusa di pece. 93 Più e più giorni gran spazio di terra cercaro, e sempre per lochi più inculti; che pieno essendo ogni cosa di guerra, voleano gir più che poteano occulti. Al fine un cavallier la via lor serra, che lor fe' oltraggi e disonesti insulti; di cui dirò quando il suo loco fia; ma ritorno ora al re di Tartaria. 94 Avuto ch'ebbe la battaglia il fine che già v'ho detto, il giovin si raccolse alle fresche ombre e all'onde cristalline; et al destrier la sella e 'l freno tolse, e lo lasciò per l'erbe tenerine del prato andar pascendo ove egli vòlse: ma non ste' molto, che vide lontano calar dal monte un cavalliero al piano. 95 Conobbel, come prima alzò la fronte, Doralice, e mostrollo a Mandricardo, dicendo: - Ecco il superbo Rodomonte, se non m'inganna di lontan lo sguardo. Per far teco battaglia cala il monte: or ti potrà giovar l'esser gagliardo. Perduta avermi a grande ingiuria tiene, ch'era sua sposa, e a vendicar si viene. - 96 Qual buono astor che l'anitra o l'acceggia, starna o colombo o simil altro augello venirsi incontra di lontano veggia, leva la testa e si fa lieto e bello; tal Mandricardo, come certo deggia di Rodomonte far strage e macello, con letizia e baldanza il destrier piglia, le staffe ai piedi, e dà alla man la briglia. 97 Quando vicini fur sì, ch'udir chiare tra lor poteansi le parole altiere, con le mani e col capo a minacciare incominciò gridando il re d'Algiere, ch'a penitenza gli faria tornare che per un temerario suo piacere non avesse rispetto a provocarsi lui ch'altamente era per vendicarsi. 98 Rispose Mandricardo: - Indarno tenta chi mi vuol impaurir per minacciarme: così fanciulli o femine spaventa, o altri che non sappia che sieno arme; me non, cui la battaglia più talenta d'ogni riposo; e son per adoprarme a piè, a cavallo, armato e disarmato, sia alla campagna, o sia ne lo steccato. - 99 Ecco sono agli oltraggi, al grido, all'ire, al trar de' brandi, al crudel suon de' ferri; come vento che prima a pena spire, poi cominci a crollar frassini e cerri, et indi oscura polve in cielo aggire, indi gli arbori svella e case atterri, sommerga in mare, e porti ria tempesta che 'l gregge sparso uccida alla foresta. 100 De' duo pagani, senza pari in terra, gli audacissimi cor, le forze estreme parturiscono colpi, et una guerra convenïente a sì feroce seme. Del grande e orribil suon triema la terra, quando le spade son percosse insieme: gettano l'arme insin al ciel scintille, anzi lampadi accese a mille a mille. 101 Senza mai riposarsi o pigliar fiato dura fra quei duo re l'aspra battaglia, tentando ora da questo, or da quel lato aprir le piastre e penetrar la maglia. Né perde l'un, né l'altro acquista il prato, ma come intorno sian fosse o muraglia, o troppo costi ogn'oncia di quel loco, non si parton d'un cerchio angusto e poco. 102 Fra mille colpi il Tartaro una volta colse a duo mani in fronte il re d'Algiere; che gli fece veder girare in volta quante mai furon fiacole e lumiere. Come ogni forza all'African sia tolta, le groppe del destrier col capo fere: perde la staffa, et è, presente quella che cotant'ama, per uscir di sella. 103 Ma come ben composto e valido arco di fino acciaio in buona somma greve, quanto si china più, quanto è più carco, e più lo sforzan martinelli e lieve; con tanto più furor, quanto è poi scarco, ritorna, e fa più mal che non riceve: così quello African tosto risorge, e doppio il colpo all'inimico porge. 104 Rodomonte a quel segno ove fu colto, colse a punto il figliol del re Agricane. Per questo non poté nuocergli al volto, ch'in difesa trovò l'arme troiane; ma stordì in modo il Tartaro, che molto non sapea s'era vespero o dimane. L'irato Rodomonte non s'arresta, che mena l'altro, e pur segna alla testa. 105 Il cavallo del Tartaro, ch'aborre la spada che fischiando cala d'alto, al suo signor con suo gran mal soccorre, perché s'arretra, per fuggir, d'un salto: il brando in mezzo il capo gli trascorre, ch'al signor, non a lui, movea l'assalto. Il miser non avea l'elmo di Troia, come il patrone; onde convien che muoia. 106 Quel cade, e Mandricardo in piedi guizza, non più stordito, e Durindana aggira. Veder morto il cavallo entro gli adizza, e fuor divampa un grave incendio d'ira. L'African, per urtarlo, il destrier drizza; ma non più Mandricardo si ritira, che scoglio far soglia da l'onde: e avvenne che 'l destrier cadde, et egli in piè si tenne. 107 L'African che mancarsi il destrier sente, lascia le staffe e sugli arcion si ponta, e resta in piedi e sciolto agevolmente: così l'un l'altro poi di pari affronta. La pugna più che mai ribolle ardente, e l'odio e l'ira e la superbia monta: et era per seguir; ma quivi giunse in fretta un messaggier che gli disgiunse. 108 Vi giunse un messagger del popul Moro, di molti che per Francia eran mandati a richiamare agli stendardi loro i capitani e i cavallier privati; perché l'imperator dai gigli d'oro gli avea gli alloggiamenti già assediati; e se non è il soccorso a venir presto, l'eccidio suo conosce manifesto. 109 Riconobbe il messaggio i cavallieri, oltre all'insegne, oltre alle sopraveste, al girar de le spade, e ai colpi fieri ch'altre man non farebbeno che queste. Tra lor però non osa entrar, che speri che fra tant'ira sicurtà gli preste l'esser messo del re; né si conforta per dir ch'imbasciator pena non porta. 110 Ma viene a Doralice, et a lei narra ch'Agramante, Marsilio e Stordilano, con pochi dentro a mal sicura sbarra sono assediati dal popul cristiano. Narrato il caso, con prieghi ne inarra che faccia il tutto ai duo guerrieri piano, e che gli accordi insieme, e per lo scampo del popul saracin li meni in campo. 111 Tra i cavallier la donna di gran core si mette, e dice loro: - Io vi comando, per quanto so che mi portate amore, che riserbiate a miglior uso il brando, e ne vegnate subito in favore del nostro campo saracino, quando si trova ora assediato ne le tende, e presto aiuto, o gran ruina attende. - 112 Indi il messo soggiunse il gran periglio dei Saracini, e narrò il fatto a pieno; e diede insieme lettere del figlio del re Troiano al figlio d'Ulïeno. Si piglia finalmente per consiglio che i duo guerrier, deposto ogni veneno, facciano insieme triegua fin al giorno che sia tolto l'assedio ai Mori intorno; 113 e senza più dimora, come pria liberato d'assedio abbian lor gente, non s'intendano aver più compagnia, ma crudel guerra e inimicizia ardente, fin che con l'arme diffinito sia chi la donna aver de' meritamente. Quella, ne le cui man giurato fue, fece la sicurtà per amendue. 114 Quivi era la Discordia impazïente, inimica di pace e d'ogni triegua; e la Superbia v'è, che non consente né vuol patir che tale accordo segua. Ma più di lor può Amor quivi presente, di cui l'alto valor nessuno adegua; e fe' ch'indietro, a colpi di saette, e la Discordia e la Superbia stette. 115 Fu conclusa la triegua fra costoro sì come piacque a chi di lor potea. Vi mancava uno dei cavalli loro, che morto quel del Tartaro giacea: però vi venne a tempo Brigliadoro, che le fresche erbe lungo il rio pascea. Ma al fin del canto io mi trovo esser giunto; sì ch'io farò, con vostra grazia, punto.
1 Oh gran contrasto in giovenil pensiero, desir di laude et impeto d'amore! né chi più vaglia, ancor si trova il vero; che resta or questo or quel superïore. Ne l'uno ebbe e ne l'altro cavalliero quivi gran forza il debito e l'onore; che l'amorosa lite s'intermesse, fin che soccorso il campo lor s'avesse. 2 Ma più ve l'ebbe Amor: che se non era che così commandò la donna loro, non si sciogliea quella battaglia fiera, che l'un n'avrebbe il triunfale alloro; et Agramante invan con la sua schiera l'aiuto avria aspettato di costoro. Dunque Amor sempre rio non si ritrova: se spesso nuoce, anco talvolta giova. 3 Or l'uno e l'altro cavallier pagano, che tutti ha differiti i suoi litigi, va, per salvar l'esercito africano, con la donna gentil verso Parigi; e va con essi ancora il piccol nano che seguitò del Tartaro i vestigi, fin che con lui condotto a fronte a fronte avea quivi il geloso Rodomonte. 4 Capitaro in un prato ove a diletto erano cavallier sopra un ruscello, duo disarmati e duo ch'avean l'elmetto, e una donna con lor di viso bello. Chi fosser quelli, altrove vi fia detto; or no, che di Ruggier prima favello, del buon Ruggier di cui vi fu narrato che lo scudo nel pozzo avea gittato. 5 Non è dal pozzo ancor lontano un miglio, che venire un corrier vede in gran fretta, di quei che manda di Troiano il figlio ai cavallieri onde soccorso aspetta; dal qual ode che Carlo in tal periglio la gente saracina tien ristretta, che, se non è chi tosto le dia aita, tosto l'onor vi lascierà o la vita. 6 Fu da molti pensier ridutto in forse Ruggier, che tutti l'assaliro a un tratto; ma qual per lo miglior dovesse tôrse, né luogo avea né tempo a pensar atto. Lasciò andare il messaggio, e 'l freno torse là dove fu da quella donna tratto, ch'ad or ad or in modo egli affrettava, che nessun tempo d'indugiar le dava. 7 Quindi seguendo il camin preso, venne (già declinando il sole) ad una terra che 'l re Marsilio in mezzo Francia tenne, tolta di man di Carlo in quella guerra. Né al ponte né alla porta si ritenne, che non gli niega alcuno il passo o serra, ben ch'intorno al rastrello e in su le fosse gran quantità d'uomini e d'arme fosse. 8 Perch'era conosciuta da la gente quella donzella ch'avea in compagnia, fu lasciato passar liberamente, né domandato pure onde venìa. Giunse alla piazza, e di fuoco lucente, e piena la trovò di gente ria; e vide in mezzo star con viso smorto il giovine dannato ad esser morto. 9 Ruggier come gli alzò gli occhi nel viso, che chino a terra e lacrimoso stava, di veder Bradamante gli fu aviso, tanto il giovine a lei rassimigliava. Più dessa gli parea, quanto più fiso al volto e alla persona il riguardava; e fra sé disse: - O questa è Bradamante, o ch'io non son Ruggier com'era inante. 10 Per troppo ardir si sarà forse messa del garzon condennato alla difesa; e poi che mal la cosa l'è successa, ne sarà stata, come io veggo, presa. Deh perché tanta fretta, che con essa io non potei trovarmi a questa impresa? Ma Dio ringrazio che ci son venuto, ch'a tempo ancora io potrò darle aiuto. - 11 E sanza più indugiar la spada stringe (ch'avea all'altro castel rotta la lancia), e adosso il vulgo inerme il destrier spinge per lo petto, pei fianchi e per la pancia. Mena la spada a cerco, et a chi cinge la fronte, a chi la gola, a chi la guancia. Fugge il popul gridando; e la gran frotta resta o sciancata o con la testa rotta. 12 Come stormo d'augei ch'in ripa a un stagno vola sicuro e a sua pastura attende, s'improviso dal ciel falcon grifagno gli dà nel mezzo et un ne batte o prende, si sparge in fuga, ognun lascia il compagno, e de lo scampo suo cura si prende; così veduto avreste far costoro, tosto che 'l buon Ruggier diede fra loro. 13 A quattro o sei dai colli i capi netti levò Ruggier, ch'indi a fuggir fur lenti; ne divise altretanti infin ai petti, fin agli occhi infiniti e fin ai denti. Conciederò che non trovasse elmetti, ma ben di ferro assai cuffie lucenti: e s'elmi fini anco vi fosser stati, così gli avrebbe, o poco men, tagliati. 14 La forza di Ruggier non era quale or si ritrovi in cavallier moderno, né in orso né in leon né in animale altro più fiero, o nostrale od esterno. Forse il tremuoto le sarebbe uguale, forse il Gran diavol; non quel de lo 'nferno, ma quel del mio signor, che va col fuoco ch'a cielo e a terra e a mar si fa dar loco. 15 D'ogni suo colpo mai non cadea manco d'un uomo in terra, e le più volte un paio; e quattro a un colpo e cinque n'uccise anco, sì che si venne tosto al centinaio. Tagliava il brando che trasse dal fianco, come un tenero latte, il duro acciaio. Falerina, per dar morte ad Orlando, fe' nel giardin d'Orgagna il crudel brando. 16 Averlo fatto poi ben le rincrebbe, che 'l suo giardin disfar vide con esso. Che strazio dunque, che ruina debbe far or ch'in man di tal guerriero è messo? Se mai Ruggier furor, se mai forza ebbe, se mai fu l'alto suo valore espresso, qui l'ebbe, il pose qui, qui fu veduto, sperando dare alla sua donna aiuto. 17 Qual fa la lepre contra i cani sciolti, facea la turba contra lui riparo. Quei che restaro uccisi, furo molti; furo infiniti quei ch'in fuga andaro. Avea la donna intanto i lacci tolti, ch'ambe le mani al giovine legaro; e come poté meglio, presto armollo, gli diè una spada in mano e un scudo al collo. 18 Egli che molto è offeso, più che puote si cerca vendicar di quella gente: e quivi son sì le sue forze note, che riputar si fa prode e valente. Già avea attuffato le dorate ruote il Sol ne la marina d'occidente, quando Ruggier vittorïoso e quello giovine seco uscîr fuor del castello. 19 Quando il garzon sicuro de la vita con Ruggier si trovò fuor de le porte, gli rendé molta grazia et infinita con gentil modi e con parole accorte, che non lo conoscendo, a dargli aita si fosse messo a rischio de la morte; e pregò che 'l suo nome gli dicesse, per sapere a chi tanto obligo avesse. 20 « Veggo (dicea Ruggier) la faccia bella e le belle fattezze e 'l bel sembiante, ma la suavità de la favella non odo già de la mia Bradamante; né la relazïon di grazie è quella ch'ella usar debba al suo fedele amante. Ma se pur questa è Bradamante, or come ha sì tosto in oblio messo il mio nome? » 21 Per ben saperne il certo, accortamente Ruggier le disse: - Io v'ho veduto altrove; et ho pensato e penso, e finalmente non so né posso ricordarmi dove. Ditemel voi, se vi ritorna a mente, e fate che 'l nome anco udir mi giove, acciò che saper possa a cui mia aita dal fuoco abbia salvata oggi la vita. - 22 - Che voi m'abbiate visto esser potria (rispose quel), che non so dove o quando: ben vo pel mondo anch'io la parte mia, strane aventure or qua or là cercando. Forse una mia sorella stata fia, che veste l'arme e porta al lato il brando; che nacque meco, e tanto mi somiglia, che non ne può discerner la famiglia. 23 Né primo né secondo né ben quarto sète di quei ch'errore in ciò preso hanno: né 'l padre né i fratelli né chi a un parto ci produsse ambi, scernere ci sanno. Gli è ver che questo crin raccorcio e sparto ch'io porto, come gli altri uomini fanno, et il suo lungo e in treccia al capo avvolta, ci solea far già differenzia molta: 24 ma poi ch'un giorno ella ferita fu nel capo (lungo saria a dirvi come), e per sanarla un servo di Iesù a mezza orecchia le tagliò le chiome, alcun segno tra noi non restò più di differenzia, fuor che 'l sesso e 'l nome. Ricciardetto son io, Bradamante ella; io fratel di Rinaldo, essa sorella. 25 E se non v'increscesse l'ascoltarmi, cosa direi che vi faria stupire, la qual m'occorse per assimigliarmi a lei: gioia al principio e al fin martìre. - Ruggiero il qual più grazïosi carmi, più dolce istoria non potrebbe udire, che dove alcun ricordo intervenisse de la sua donna, il pregò sì, che disse. 26 - Accadde a questi dì, che pei vicini boschi passando la sorella mia, ferita da uno stuol de Saracini che senza l'elmo la trovâr per via, fu di scorciarsi astretta i lunghi crini, se sanar vòlse d'una piaga ria ch'avea con gran periglio ne la testa; e così scorcia errò per la foresta. 27 Errando giunse ad una ombrosa fonte; e perché afflitta e stanca ritrovosse, dal destrier scese e disarmò la fronte, e su le tenere erbe addormentosse. Io non credo che fabula si conte, che più di questa istoria bella fosse. Fiordispina di Spagna soprarriva, che per cacciar nel bosco ne veniva. 28 E quando ritrovò la mia sirocchia tutta coperta d'arme, eccetto il viso, ch'avea la spada in luogo di conocchia, le fu vedere un cavalliero aviso. La faccia e le viril fattezze adocchia tanto, che se ne sente il cor conquiso; la invita a caccia, e tra l'ombrose fronde lunge dagli altri al fin seco s'asconde. 29 Poi che l'ha seco in solitario loco dove non teme d'esser sopraggiunta, con atti e con parole a poco a poco le scopre il fisso cuor di grave punta. Con gli occhi ardenti e coi sospir di fuoco le mostra l'alma di disio consunta. Or si scolora in viso, or si raccende; tanto s'arrischia, ch'un bacio ne prende. 30 La mia sorella avea ben conosciuto che questa donna in cambio l'avea tolta: né dar poteale a quel bisogno aiuto, e si trovava in grande impaccio avvolta. « Gli è meglio (dicea seco) s'io rifiuto questa avuta di me credenza stolta e s'io mi mostro femina gentile, che lasciar riputarmi un uomo vile ». 31 E dicea il ver; ch'era viltade espressa, convenïente a un uom fatto di stucco, con cui sì bella donna fosse messa, piena di dolce e di nettareo succo, e tuttavia stesse a parlar con essa, tenendo basse l'ale come il cucco. Con modo accorto ella il parlar ridusse, che venne a dir come donzella fusse; 32 che gloria, qual già Ippolita e Camilla, cerca ne l'arme; e in Africa era nata in lito al mar ne la città d'Arzilla, a scudo e a lancia da fanciulla usata. Per questo non si smorza una scintilla del fuoco de la donna inamorata. Questo rimedio all'alta piaga è tardo: tant'avea Amor cacciato inanzi il dardo. 33 Per questo non le par men bello il viso, men bel lo sguardo e men belli i costumi; per ciò non torna il cor, che già diviso da lei, godea dentro gli amati lumi. Vedendola in quell'abito, l'è aviso che può far che 'l desir non la consumi; e quando, ch'ella è pur femina, pensa, sospira e piange e mostra doglia immensa. 34 Chi avesse il suo ramarico e 'l suo pianto quel giorno udito, avria pianto con lei. « Quai tormenti (dicea) furon mai tanto crudel, che più non sian crudeli i miei? D'ogn'altro amore, o scelerato o santo, il desïato fin sperar potrei; saprei partir la rosa da le spine: solo il mio desiderio è senza fine! 35 Se pur volevi, Amor, darmi tormento che t'increscesse il mio felice stato, d'alcun martìr dovevi star contento, che fosse ancor negli altri amanti usato. Né tra gli uomini mai né tra l'armento, che femina ami femina ho trovato: non par la donna all'altre donne bella, né a cervie cervia, né all'agnelle agnella. 36 In terra, in aria, in mar, sola son io che patisco da te sì duro scempio; e questo hai fatto acciò che l'error mio sia ne l'imperio tuo l'ultimo esempio. La moglie del re Nino ebbe disio, il figlio amando, scelerato et empio, e Mirra il padre, e la Cretense il toro: ma gli è più folle il mio, ch'alcun dei loro. 37 La femina nel maschio fe' disegno, speronne il fine, et ebbelo, come odo: Pasife ne la vacca entrò del legno, altre per altri mezzi e vario modo. Ma se volasse a me con ogni ingegno Dedalo, non potria scioglier quel nodo che fece il mastro troppo diligente, Natura d'ogni cosa più possente ». 38 Così si duole e si consuma et ange la bella donna, e non s'accheta in fretta. Talor si batte il viso e il capel frange, e di sé contra sé cerca vendetta. La mia sorella per pietà ne piange, et è a sentir di quel dolor constretta. Del folle e van disio si studia trarla, ma non fa alcun profitto, e invano parla. 39 Ella ch'aiuto cerca e non conforto, sempre più si lamenta e più si duole. Era del giorno il termine ormai corto, che rosseggiava in occidente il sole, ora oportuna da ritrarsi in porto a chi la notte al bosco star non vuole; quando la donna invitò Bradamante a questa terra sua poco distante. 40 Non le seppe negar la mia sorella: e così insieme ne vennero al loco, dove la turba scelerata e fella posto m'avria, se tu non v'eri, al fuoco. Fece là dentro Fiordispina bella la mia sirocchia accarezzar non poco: e rivestita di feminil gonna, conoscer fe' a ciascun ch'ella era donna. 41 Però che conoscendo che nessuno util traea da quel virile aspetto, non le parve anco di voler ch'alcuno biasmo di sé per questo fosse detto: féllo anco, acciò che 'l mal ch'avea da l'uno virile abito, errando, già concetto, ora con l'altro, discoprendo il vero, provassi di cacciar fuor del pensiero. 42 Commune il letto ebbon la notte insieme, ma molto differente ebbon riposo; che l'una dorme, e l'altra piange e geme che sempre il suo desir sia più focoso. E se 'l sonno talor gli occhi le preme, quel breve sonno è tutto imaginoso: le par veder che 'l ciel l'abbia concesso Bradamante cangiata in miglior sesso. 43 Come l'infermo acceso di gran sete, s'in quella ingorda voglia s'addormenta, ne l'interrotta e turbida quïete, d'ogn'acqua che mai vide si ramenta; così a costei di far sue voglie liete l'imagine del sonno rappresenta. Si desta; e nel destar mette la mano, e ritrova pur sempre il sogno vano. 44 Quanti prieghi la notte, quanti voti, offerse al suo Macone e a tutti i dèi, che con miracoli apparenti e noti mutassero in miglior sesso costei! ma tutti vede andar d'effetto vòti, e forse ancora il ciel ridea di lei. Passa la notte; e Febo il capo biondo traea del mare, e dava luce al mondo. 45 Poi che 'l dì venne e che lasciaro il letto, a Fiordispina s'augumenta doglia; che Bradamante ha del partir già detto, ch'uscir di questo impaccio avea gran voglia. La gentil donna un ottimo ginetto in don da lei vuol che partendo toglia, guernito d'oro, et una sopravesta che riccamente ha di sua man contesta. 46 Accompagnolla un pezzo Fiordispina, poi fe' piangendo al suo castel ritorno. La mia sorella sì ratto camina, che venne a Montalbano anco quel giorno. Noi suoi fratelli e la madre meschina tutti le siamo festeggiando intorno; che di lei non sentendo, avuto forte dubbio e tema avevàn de la sua morte. 47 Mirammo (al trar de l'elmo) al mozzo crine, ch'intorno al capo prima s'avolgea; così le sopraveste peregrine ne fêr maravigliar, ch'indosso avea. Et ella il tutto dal principio al fine narronne, come dianzi io vi dicea: come ferita fosse al bosco, e come lasciasse, per guarir, le belle chiome; 48 e come poi dormendo in ripa all'acque, la bella cacciatrice sopragiunse, a cui la falsa sua sembianza piacque; e come da la schiera la disgiunse. Del lamento di lei poi nulla tacque, che di pietade l'anima ci punse; e come alloggiò seco, e tutto quello che fece fin che ritornò al castello. 49 Di Fiordispina gran notizia ebb'io, ch'in Siragozza e già la vidi in Francia, e piacquer molto all'appetito mio i suoi begli occhi e la polita guancia: ma non lasciai fermarvisi il disio; che l'amar senza speme è sogno e ciancia. Or, quando in tal ampiezza mi si porge, l'antiqua fiamma subito risorge. 50 Di queste speme Amore ordisce i nodi, che d'altre fila ordir non li potea, onde mi piglia: e mostra insieme i modi che da la donna avrei quel ch'io chiedea. A succeder saran facil le frodi; che come spesso altri ingannato avea la simiglianza c'ho di mia sorella, forse anco ingannerà questa donzella. 51 Faccio o nol faccio? Al fin mi par che buono sempre cercar quel che diletti sia. Del mio pensier con altri non ragiono, né vo' ch'in ciò consiglio altri mi dia. Io vo la notte ove quell'arme sono che s'avea tratte la sorella mia: tolgole, e col destrier suo via camino, né sto aspettar che luca il matutino. 52 Io me ne vo la notte (Amore è duce) a ritrovar la bella Fiordispina; e v'arrivai che non era la luce del sole ascosa ancor ne la marina. Beato è chi correndo si conduce prima degli altri a dirlo alla regina, da lei sperando per l'annunzio buono acquistar grazia e riportarne dono. 53 Tutti m'aveano tolto così in fallo, com'hai tu fatto ancor, per Bradamante; tanto più che le vesti ebbi e 'l cavallo con che partita era ella il giorno inante. Vien Fiordispina di poco intervallo con feste incontra e con carezze tante, e con sì allegro viso e sì giocondo, che più gioia mostrar non potria al mondo. 54 Le belle braccia al collo indi mi getta, e dolcemente stringe, e bacia in bocca. Tu puoi pensar s'allora la saetta dirizzi Amor, s'in mezzo il cor mi tocca. Per man mi piglia, e in camera con fretta mi mena; e non ad altri, ch'a lei, tocca che da l'elmo allo spron l'arme mi slacci e nessun altro vuol che se n'impacci. 55 Poi fattasi arrecare una sua veste adorna e ricca, di sua man la spiega, e come io fossi femina, mi veste, e in reticella d'oro il crin mi lega. Io muovo gli occhi con maniere oneste, né ch'io sia donna alcun mio gesto niega. La voce ch'accusar mi potea forse, sì ben usai, ch'alcun non se n'accorse. 56 Uscimmo poi là dove erano molte persone in sala, e cavallieri e donne, dai quali fummo con l'onor raccolte, ch'alle regine fassi e gran madonne. Quivi d'alcuni mi risi io più volte, che non sappiendo ciò che sotto gonne si nascondesse valido e gagliardo, mi vagheggiavan con lascivo sguardo. 57 Poi che si fece la notte più grande, e già un pezzo la mensa era levata, la mensa, che fu d'ottime vivande, secondo la stagione, apparecchiata; non aspetta la donna ch'io domande quel che m'era cagion del venir stata: ella m'invita per sua cortesia, che quella notte a giacer seco io stia. 58 Poi che donne e donzelle ormai levate si furo, e paggi e camerieri intorno, essendo ambe nel letto dispogliate, coi torchi accesi che parea di giorno, io cominciai: « Non vi maravigliate, madonna, se sì tosto a voi ritorno; che forse v'andavate imaginando di non mi riveder fin Dio sa quando. 59 Dirò prima la causa del partire, poi del ritorno l'udirete ancora. Se 'l vostro ardor, madonna, intiepidire potuto avessi col mio far dimora, vivere in vostro servizio e morire voluto avrei, né starne senza un'ora; ma visto quanto il mio star vi nocessi, per non poter far meglio, andare elessi. 60 Fortuna mi tirò fuor del camino in mezzo un bosco d'intricati rami, dove odo un grido risonar vicino, come di donna che soccorso chiami. V'accorro, e sopra un lago cristallino ritrovo un fauno ch'avea preso agli ami in mezzo l'acqua una donzella nuda, e mangiarsi, il crudel, la volea cruda. 61 Colà mi trassi, e con la spada in mano (perch'aiutar non la potea altrimente) tolsi di vita il pescator villano: ella saltò ne l'acqua immantinente. " Non m'avrai (disse) dato aiuto invano: ben ne sarai premiato e riccamente quanto chieder saprai, perché son ninfa che vivo dentro a questa chiara linfa; 62 et ho possanza far cose stupende, e sforzar gli elementi e la natura. Chiedi tu, quanto il mio valor s'estende, poi lascia a me di satisfarti cura. Dal ciel la luna al mio cantar discende, s'agghiaccia il fuoco, e l'aria si fa dura; et ho talor con semplici parole mossa la terra, et ho fermato il sole ". 63 Non le domando a questa offerta unire tesor, né dominar populi e terre, né in più virtù né in più vigor salire, né vincer con onor tutte le guerre; ma sol che qualche via donde il desire vostro s'adempia, mi schiuda e disserre: né più le domando un ch'un altro effetto, ma tutta al suo giudicio mi rimetto. 64 Ebbile a pena mia domanda esposta, ch'un'altra volta la vidi attuffata; né fece al mio parlare altra risposta, che di spruzzar vêr me l'acqua incantata: la qual non prima al viso mi s'accosta, ch'io (non so come) son tutta mutata. Io 'l veggo, io 'l sento, e a pena vero parmi: sento in maschio, di femina, mutarmi. 65 E se non fosse che senza dimora vi potete chiarir, nol credereste: e qual nell'altro sesso, in questo ancora ho le mie voglie ad ubbidirvi preste. Commandate lor pur, che fieno or ora e sempremai per voi vigile e deste ». Così le dissi; e feci ch'ella istessa trovò con man la veritade espressa. 66 Come interviene a chi già fuor di speme di cosa sia che nel pensier molt'abbia, che mentre più d'esserne privo geme, più se n'afflige e se ne strugge e arrabbia; se ben la trova poi, tanto gli preme l'aver gran tempo seminato in sabbia, e la disperazion l'ha sì male uso, che non crede a se stesso, e sta confuso: 67 così la donna, poi che tocca e vede quel di ch'avuto avea tanto desire, agli occhi, al tatto, a se stessa non crede, e sta dubbiosa ancor di non dormire; e buona prova bisognò a far fede, che sentia quel che le parea sentire. « Fa, Dio (disse ella), se son sogni questi, ch'io dorma sempre, e mai più non mi desti ». 68 Non rumor di tamburi o suon di trombe furon principio all'amoroso assalto, ma baci ch'imitavan le colombe, davan segno or di gire, or di fare alto. Usammo altr'arme che saette o frombe. Io senza scale in su la ròcca salto e lo stendardo piantovi di botto, e la nimica mia mi caccio sotto. 69 Se fu quel letto la notte dinanti pien di sospiri e di querele gravi, non stette l'altra poi senza altretanti risi, feste, gioir, giochi soavi. Non con più nodi i flessuosi acanti le colonne circondano e le travi, di quelli con che noi legammo stretti e colli e fianchi e braccia e gambe e petti. 70 La cosa stava tacita fra noi, sì che durò il piacer per alcun mese: pur si trovò chi se n'accorse poi, tanto che con mio danno il re lo 'ntese. Voi che mi liberaste da quei suoi che ne la piazza avean le fiamme accese, comprendere oggimai potete il resto; ma Dio sa ben con che dolor ne resto. - 71 Così a Ruggier narrava Ricciardetto, e la notturna via facea men grave, salendo tuttavia verso un poggietto cinto di ripe e di pendici cave. Un erto calle e pien di sassi e stretto apria il camin con faticosa chiave. Sedea al sommo un castel detto Agrismonte, ch'ave' in guardia Aldigier di Chiaramonte. 72 Di Buovo era costui figliuol bastardo, fratel di Malagigi e di Viviano: chi legitimo dice di Gherardo, è testimonio temerario e vano. Fosse come si voglia, era gagliardo, prudente, liberal, cortese, umano; e facea quivi le fraterne mura la notte e il dì guardar con buona cura. 73 Raccolse il cavallier cortesemente, come dovea, il cugin suo Ricciardetto, ch'amò come fratello; e parimente fu ben visto Ruggier per suo rispetto. Ma non gli uscì già incontra allegramente, come era usato, anzi con tristo aspetto, perch'uno aviso il giorno avuto avea, che nel viso e nel cor mesto il facea. 74 A Ricciardetto in cambio di saluto disse: - Fratello, abbiàn nuova non buona. Per certissimo messo oggi ho saputo che Bertolagi iniquo di Baiona con Lanfusa crudel s'è convenuto, che prezïose spoglie esso a lei dona, et essa a lui pon nostri frati in mano, il tuo bon Malagigi e il tuo Viviano. 75 Ella dal dì che Ferraù li prese, gli ha ognor tenuti in loco oscuro e fello, fin che 'l brutto contratto e discortese n'ha fatto con costui di ch'io favello. Gli de' mandar domane al Maganzese nei confin tra Baiona e un suo castello. Verrà in persona egli a pagar la mancia che compra il miglior sangue che sia in Francia. 76 Rinaldo nostro n'ho avisato or ora, et ho cacciato il messo di galoppo; ma non mi par ch'arrivar possa ad ora che non sia tarda, che 'l camino è troppo. Io non ho meco gente da uscir fuora: l'animo è pronto, ma il potere è zoppo. Se gli ha quel traditor, li fa morire: sì che non so che far, non so che dire. - 77 La dura nuova a Ricciardetto spiace, e perché spiace a lui, spiace a Ruggiero; che poi che questo e quel vede che tace, né tra' profitto alcun del suo pensiero, disse con grande ardir: - Datevi pace: sopra me quest'impresa tutta chero; e questa mia varrà per mille spade a riporvi i fratelli in libertade. 78 Io non voglio altra gente, altri sussidi, ch'io credo bastar solo a questo fatto: io vi domando solo un che mi guidi al luogo ove si dee fare il baratto. Io vi farò sin qui sentire i gridi di chi sarà presente al rio contratto. - Così dicea; né dicea cosa nuova all'un de' dui, che n'avea visto pruova. 79 L'altro non l'ascoltava, se non quanto s'ascolti un ch'assai parli e sappia poco: ma Ricciardetto gli narrò da canto come fu per costui tratto del fuoco; e ch'era certo che maggior del vanto faria veder l'effetto a tempo e a loco. Gli diede allor udienza più che prima, e riverillo, e fe' di lui gran stima. 80 Et alla mensa, ove la Copia fuse il corno, l'onorò come suo donno. Quivi senz'altro aiuto si concluse che liberare i duo fratelli ponno. Intanto sopravenne e gli occhi chiuse ai signori e ai sergenti il pigro Sonno, fuor ch'a Ruggier; che, per tenerlo desto, gli punge il cor sempre un pensier molesto. 81 L'assedio d'Agramante ch'avea il giorno udito dal corrier, gli sta nel core. Ben vede ch'ogni minimo soggiorno che faccia d'aiutarlo, è suo disnore. Quanta gli sarà infamia, quanto scorno, se coi nemici va del suo signore! Oh come a gran viltade, a gran delitto, battezzandosi alor, gli sarà ascritto! 82 Potria in ogn'altro tempo esser creduto che vera religion l'avesse mosso; ma ora che bisogna col suo aiuto Agramante d'assedio esser riscosso, più tosto da ciascun sarà tenuto che timore e viltà l'abbia percosso, ch'alcuna opinïon di miglior fede: questo il cor di Ruggier stimula e fiede. 83 Che s'abbia da partire anco lo punge senza licenzia de la sua regina. Quando questo pensier, quando quel giunge, che 'l dubio cor diversamente inchina. Gli era l'aviso riuscito lunge di trovarla al castel di Fiordispina, dove insieme dovean, come ho già detto, in soccorso venir di Ricciardetto. 84 Poi gli sovien ch'egli le avea promesso di seco a Vallombrosa ritrovarsi. Pensa ch'andar v'abbi ella, e quivi d'esso che non vi trovi poi, maravigliarsi. Potesse almen mandar lettera o messo, sì ch'ella non avesse a lamentarsi che, oltre ch'egli mal le avea ubbidito, senza far motto ancor fosse partito. 85 Poi che più cose imaginate s'ebbe, pensa scriverle al fin quanto gli accada; e ben ch'egli non sappia come debbe la lettera inviar, sì che ben vada, non però vuol restar; che ben potrebbe alcun messo fedel trovar per strada. Più non s'indugia, e salta de le piume; si fa dar carta, inchiostro, penna e lume. 86 I camarier discreti et aveduti arrecano a Ruggier ciò che commanda. Egli comincia a scrivere, e i saluti (come si suol) nei primi versi manda: poi narra degli avisi che venuti son dal suo re, ch'aiuto gli domanda; e se l'andata sua non è ben presta, o morto o in man degli nimici resta. 87 Poi sèguita, ch'essendo a tal partito, e ch'a lui per aiuto si volgea, vedesse ella che 'l biasmo era infinito s'a quel punto negar gli lo volea; e ch'esso, a lei dovendo esser marito, guardarsi da ogni macchia si dovea; che non si convenia con lei, che tutta era sincera, alcuna cosa brutta. 88 E se mai per adietro un nome chiaro, ben oprando, cercò di guadagnarsi, e guadagnato poi, se avuto caro, se cercato l'avea di conservarsi; or lo cercava, e n'era fatto avaro, poi che dovea con lei participarsi, la qual sua moglie, e totalmente in dui corpi esser dovea un'anima con lui. 89 E sì come già a bocca le avea detto, le ridicea per questa carta ancora: finito il tempo in che per fede astretto era al suo re, quando non prima muora, che si farà cristian così d'effetto, come di buon voler stato era ogni ora; e ch'al padre e a Rinaldo e agli altri suoi per moglie domandar la farà poi. 90 - Voglio (le soggiungea), quando vi piaccia, l'assedio al mio signor levar d'intorno, acciò che l'ignorante vulgo taccia, il qual direbbe, a mia vergogna e scorno: Ruggier, mentre Agramante ebbe bonaccia, mai non l'abandonò notte né giorno; or che Fortuna per Carlo si piega, egli col vincitor l'insegna spiega. 91 Voglio quindici dì termine o venti, tanto che comparir possa una volta, sì che degli africani alloggiamenti la grave ossedïon per me sia tolta. Intanto cercherò convenïenti cagioni, e che sian giuste, di dar volta. Io vi domando per mio onor sol questo: tutto poi vostro è di mia vita il resto. - 92 In simili parole si diffuse Ruggier, che tutte non so dirvi a pieno; e seguì con molt'altre, e non concluse fin che non vide tutto il foglio pieno; e poi piegò la lettera e la chiuse, e suggellata se la pose in seno, con speme che gli occorra il dì seguente chi alla donna la dia secretamente. 93 Chiusa ch'ebbe la lettera, chiuse anco gli occhi sul letto, e ritrovò quïete; che 'l Sonno venne, e sparse il corpo stanco col ramo intinto nel liquor di Lete: e posò fin ch'un nembo rosso e bianco di fiori sparse le contrade liete del lucido orïente d'ogn'intorno, et indi uscì de l'aureo albergo il giorno. 94 E poi ch'a salutar la nuova luce pei verdi rami incominciâr gli augelli, Aldigier che voleva essere il duce di Ruggiero e de l'altro, e guidar quelli ove faccin che dati in mano al truce Bertolagi non siano i duo fratelli, fu 'l primo in piede; e quando sentîr lui, del letto usciro anco quegli altri dui. 95 Poi che vestiti furo e bene armati, coi duo cugin Ruggier si mette in via, già molto indarno avendoli pregati che questa impresa a lui tutta si dia; ma essi, pel desir c'han de' lor frati, e perché lor parea discortesia, steron negando più duri che sassi, né consentiron mai che solo andassi. 96 Giunsero al loco il dì che si dovea Malagigi mutar nei carrïaggi. Era un'ampla campagna che giacea tutta scoperta agli apollinei raggi. Quivi né allor né mirto si vedea, né cipressi né frassini né faggi, ma nuda ghiara, e qualche umil virgulto non mai da marra o mai da vomer culto. 97 I tre guerrieri arditi si fermaro dove un sentier fendea quella pianura; e giunger quivi un cavallier miraro, ch'avea d'oro fregiata l'armatura, e per insegna in campo verde il raro e bello augel che più d'un secol dura. Signor, non più, che giunto al fin mi veggio di questo canto, e riposarmi chieggio.
1 Cortesi donne ebbe l'antiqua etade, che le virtù, non le ricchezze, amaro: al tempo nostro si ritrovan rade a cui, più del guadagno, altro sia caro. Ma quelle che per lor vera bontade non seguon de le più lo stile avaro, vivendo, degne son d'esser contente; glorïose e immortal poi che fian spente. 2 Degna d'eterna laude è Bradamante, che non amò tesor, non amò impero, ma la virtù, ma l'animo prestante, ma l'alta gentilezza di Ruggiero; e meritò che ben le fosse amante un così valoroso cavalliero, e per piacere a lei facesse cose nei secoli avenir miracolose. 3 Ruggier, come di sopra vi fu detto, coi duo di Chiaramonte era venuto, dico con Aldigier, con Ricciardetto, per dare ai duo fratei prigioni aiuto. Vi dissi ancor che di superbo aspetto venire un cavalliero avean veduto, che portava l'augel che si rinuova, e sempre unico al mondo si ritrova. 4 Come di questi il cavallier s'accorse, che stavan per ferir quivi su l'ale, in prova disegnò di voler porse, s'alla sembianza avean virtude uguale. - È di voi (disse loro) alcuno forse che provar voglia chi di noi più vale a' colpi o de la lancia o de la spada, fin che l'un resti in sella e l'altro cada? - 5 - Farei (disse Aldigier) teco, o volessi menar la spada a cerco, o correr l'asta; ma un'altra impresa che, se qui tu stessi, veder potresti, questa in modo guasta, ch'a parlar teco, non che ci traessi a correr giostra, a pena tempo basta: seicento uomini al varco, o più, attendiamo, coi qua' d'oggi provarci obligo abbiamo. 6 Per tor lor duo de' nostri che prigioni quinci trarran, pietade e amor n'ha mosso. - E seguitò narrando le cagioni che li fece venir con l'arme indosso. - Sì giusta è questa escusa che m'opponi (disse il guerrier), che contradir non posso; e fo certo giudicio che voi siate tre cavallier che pochi pari abbiate. 7 Io chiedea un colpo o dui con voi scontrarme, per veder quanto fosse il valor vostro; ma quando all'altrui spese dimostrarme lo vogliate, mi basta, e più non giostro. Vi priego ben, che por con le vostr'arme quest'elmo io possa e questo scudo nostro; e spero dimostrar, se con voi vegno, che di tal compagnia non sono indegno. - 8 Parmi veder ch'alcun saper desia il nome di costui, che quivi giunto a Ruggiero e a' compagni si offeria compagno d'arme al periglioso punto. Costei (non più costui detto vi sia) era Marfisa che diede l'assunto al misero Zerbin de la ribalda vecchia Gabrina ad ogni mal sì calda. 9 I duo di Chiaramonte e il buon Ruggiero l'accettâr volentier ne la lor schiera, ch'esser credeano certo un cavalliero, e non donzella, e non quella ch'ella era. Non molto dopo scoperse Aldigiero e veder fe' ai compagni una bandiera che facea l'aura tremolare in volta, e molta gente intorno avea raccolta. 10 E poi che più lor fur fatti vicini, e che meglio notâr l'abito moro, conobbero che gli eran Saracini, e videro i prigioni in mezzo a loro legati e tratti su piccol ronzini a' Maganzesi, per cambiarli in oro. Disse Marfisa agli altri: - Ora che resta, poi che son qui, di cominciar la festa? - 11 Ruggier rispose: - Gl'invitati ancora non ci son tutti, e manca una gran parte. Gran ballo s'apparecchia di fare ora; e perché sia solenne, usiamo ogn'arte: ma far non ponno omai lunga dimora. - Così dicendo, veggono in disparte venire i traditori di Maganza: sì ch'eran presso a cominciar la danza. 12 Giungean da l'una parte i Maganzesi, e conducean con loro i muli carchi d'oro e di vesti e d'altri ricchi arnesi; da l'altra in mezzo a lance, spade et archi, venian dolenti i duo germani presi, che si vedeano essere attesi ai varchi: e Bertolagi, empio inimico loro, udian parlar col capitano Moro. 13 Né di Buovo il figliuol né quel d'Amone, veduto il Maganzese, indugiar puote: la lancia in resta l'uno e l'altro pone, e l'uno e l'altro il traditor percuote. L'un gli passa la pancia e 'l primo arcione, e l'altro il viso per mezzo le gote. Così n'andasser pur tutti i malvagi, come a quei colpi n'andò Bertolagi. 14 Marfisa con Ruggiero a questo segno si muove, e non aspetta altra trombetta; né prima rompe l'arrestato legno, che tre, l'un dopo l'altro, in terra getta. De l'asta di Ruggier fu il pagan degno, che guidò gli altri, e uscì di vita in fretta; e per quella medesima con lui uno et un altro andò nei regni bui. 15 Di qui nacque un error tra gli assaliti, che lor causò lor ultima ruina. Da un lato i Maganzesi esser traditi credeansi da la squadra saracina; da l'altro i Mori in tal modo feriti, l'altra schiera chiamavano assassina: e tra lor cominciâr con fiera clade a tirare archi e a menar lancie e spade. 16 Salta ora in questa squadra et ora in quella Ruggiero, e via ne toglie or dieci or venti: altritanti per man de la donzella di qua e di là ne son scemati e spenti. Tanti si veggon gir morti di sella, quanti ne toccan le spade taglienti, a cui dan gli elmi e le corazze loco, come nel bosco i secchi legni al fuoco. 17 Se mai d'aver veduto vi raccorda, o rapportato v'ha fama all'orecchie, come, allor che 'l collegio si discorda, e vansi in aria a far guerra le pecchie, entri fra lor la rondinella ingorda, e mangi e uccida e guastine parecchie; dovete imaginar che similmente Ruggier fosse e Marfisa in quella gente. 18 Non così Ricciardetto e il suo cugino tra le due genti varïavan danza, perché, lasciando il campo saracino, sol tenean l'occhio all'altro di Maganza. Il fratel di Rinaldo paladino con molto animo avea molta possanza, e quivi raddoppiar glie la facea l'odio che contra ai Maganzesi avea. 19 Facea parer questa medesma causa un leon fiero il bastardo di Buovo, che con la spada senza indugio e pausa fende ogn'elmo, o lo schiaccia come un ovo. E qual persona non saria stata ausa, non saria comparita un Ettor nuovo, Marfisa avendo in compagnia e Ruggiero, ch'eran la scelta e 'l fior d'ogni guerriero? 20 Marfisa tuttavolta combattendo, spesso ai compagni gli occhi rivoltava; e di lor forza paragon vedendo, con maraviglia tutti li lodava: ma di Ruggier pur il valor stupendo e senza pari al mondo le sembrava; e talor si credea che fosse Marte sceso dal quinto cielo in quella parte. 21 Mirava quelle orribili percosse, miravale non mai calare in fallo: parea che contra Balisarda fosse il ferro carta, e non duro metallo. Gli elmi tagliava e le corazze grosse, e gli uomini fendea fin sul cavallo, e li mandava in parte uguali al prato, tanto da l'un quanto da l'altro lato. 22 Continuando la medesma botta, uccidea col signore il cavallo anche. I capi dalle spalle alzava in frotta, e spesso i busti dipartia da l'anche. Cinque e più a un colpo ne tagliò talotta: e se non che pur dubito che manche credenza al ver c'ha faccia di menzogna, di più direi; ma di men dir bisogna. 23 Il buon Turpin, che sa che dice il vero, e lascia creder poi quel ch'a l'uom piace, narra mirabil cose di Ruggiero, ch'udendolo, il direste voi mendace. Così parea di ghiaccio ogni guerriero contra Marfisa, et ella ardente face; e non men di Ruggier gli occhi a sé trasse, ch'ella di lui l'alto valor mirasse. 24 E s'ella lui Marte stimato avea, stimato egli avria lei forse Bellona, se per donna così la conoscea, come parea il contrario alla persona. E forse emulazion tra lor nascea per quella gente misera, non buona, ne la cui carne e sangue e nervi et ossa fan prova chi di loro abbia più possa. 25 Bastò di quattro l'animo e il valore a far ch'un campo e l'altro andasse rotto. Non restava arme, a chi fuggia, migliore che quella che si porta più di sotto. Beato chi il cavallo ha corridore, ch'in prezzo non è quivi ambio né trotto; e chi non ha destrier, quivi s'avede, quanto il mestier de l'arme è tristo a piede. 26 Riman la preda e 'l campo ai vincitori che non è fante o mulatier che resti. Là Maganzesi, e qua fuggono i Mori: quei lasciano i prigion, le some questi. Furon, con lieti visi e più coi cori, Malagigi e Viviano a scioglier presti; non fur men diligenti a sciorre i paggi, e por le some in terra e i carrïaggi. 27 Oltre una buona quantità d'argento ch'in diverse vasella era formato, et alcun mulïebre vestimento di lavoro bellissimo fregiato, e per stanze reali un paramento d'oro e di seta in Fiandra lavorato, et altre cose ricche in copia grande; fiaschi di vin trovâr, pane e vivande. 28 Al trar degli elmi, tutti vider come avea lor dato aiuto una donzella: fu conosciuta all'auree crespe chiome et alla faccia delicata e bella. L'onoran molto, e pregano che 'l nome di gloria degno non asconda; et ella, che sempre tra gli amici era cortese, a dar di sé notizia non contese. 29 Non si ponno saziar di riguardarla; che tal vista l'avean ne la battaglia. Sol mira ella Ruggier, sol con lui parla: altri non prezza, altri non par che vaglia. Vengono i servi intanto ad invitarla coi compagni a goder la vettovaglia, ch'apparecchiata avean sopra una fonte che difendea dal raggio estivo un monte. 30 Era una de le fonti di Merlino, de le quattro di Francia da lui fatte, d'intorno cinta di bel marmo fino, lucido e terso, e bianco più che latte. Quivi d'intaglio con lavor divino avea Merlino imagini ritratte: direste che spiravano, e, se prive non fossero di voce, ch'eran vive. 31 Quivi una bestia uscir de la foresta parea, di crudel vista, odiosa e brutta, ch'avea l'orecchie d'asino, e la testa di lupo e i denti, e per gran fame asciutta: branche avea di leon; l'altro che resta, tutto era volpe: e parea scorrer tutta e Francia e Italia e Spagna et Inghelterra, l'Europa e l'Asia, e al fin tutta la terra. 32 Per tutto avea genti ferite e morte, la bassa plebe e i più superbi capi: anzi nuocer parea molto più forte a re, a signori, a principi, a satrapi. Peggio facea ne la romana corte, che v'avea uccisi cardinali e papi contaminato avea la bella sede di Pietro, e messo scandol ne la fede. 33 Par che dinanzi a questa bestia orrenda cada ogni muro, ogni ripar che tocca. Non si vede città che si difenda: se l'apre incontra ogni castello e ròcca. Par che agli onor divini anco s'estenda, e sia adorata da la gente sciocca, e che le chiavi s'arroghi d'avere del cielo e de l'abisso in suo potere. 34 Poi si vedea d'imperïale alloro cinto le chiome un cavallier venire con tre giovini a par, che i gigli d'oro tessuti avean nel lor real vestire; e, con insegna simile, con loro parea un leon contra quel mostro uscire: avean lor nomi chi sopra la testa, e chi nel lembo scritto de la vesta. 35 L'un ch'avea fin a l'elsa ne la pancia la spada immersa alla maligna fera, Francesco primo, avea scritto, di Francia; Massimigliano d'Austria a par seco era; e Carlo quinto imperator, di lancia avea passato il mostro alla gorgiera; e l'altro, che di stral gli fige il petto, l'ottavo Enrigo d'Inghilterra è detto. 36 Decimo ha quel Leon scritto sul dosso, ch'al brutto mostro i denti ha ne l'orecchi; e tanto l'ha già travagliato e scosso, che vi sono arrivati altri parecchi. Parea del mondo ogni timor rimosso; et in emenda degli errori vecchi nobil gente accorrea, non però molta, onde alla belva era la vita tolta. 37 I cavallieri stavano e Marfisa con desiderio di conoscer questi per le cui mani era la bestia uccisa, che fatti avea tanti luoghi atri e mesti. Avenga che la pietra fosse incisa dei nomi lor, non eran manifesti. Si pregavan tra lor, che, se sapesse l'istoria alcuno, agli altri la dicesse. 38 Voltò Viviano a Malagigi gli occhi, che stava a udire, e non facea lor motto: - A te (disse) narrar l'istoria tocchi, ch'esser ne déi, per quel ch'io vegga, dotto. Chi son costor che con saette e stocchi e lance a morte han l'animal condotto? - Rispose Malagigi: - Non è istoria di ch'abbia autor fin qui fatto memoria. 39 Sappiate che costor che qui scritto hanno nel marmo i nomi, al mondo mai non furo; ma fra settecento anni vi saranno, con grande onor del secolo futuro. Merlino, il savio incantator britanno, fe' far la fonte al tempo del re Arturo; e di cose ch'al mondo hanno a venire, la fe' da buoni artefici scolpire. 40 Questa bestia crudele uscì del fondo de lo 'nferno a quel tempo che fur fatti alle campagne i termini, e fu il pondo trovato e la misura, e scritti i patti. Ma non andò a principio in tutto 'l mondo: di sé lasciò molti paesi intatti. Al tempo nostro in molti lochi sturba; ma i populari offende e la vil turba. 41 Dal suo principio infin al secol nostro sempre è cresciuto, e sempre andrà crescendo: sempre crescendo, al lungo andar fia il mostro il maggior che mai fosse e lo più orrendo. Quel Fiton che per carte e per inchiostro s'ode che fu sì orribile e stupendo, alla metà di questo non fu tutto, né tanto abominevol né sì brutto. 42 Farà strage crudel, né sarà loco che non guasti, contamini et infetti: e quanto mostra la scultura, è poco de' suoi nefandi e abominosi effetti. Al mondo, di gridar mercé già roco, questi, dei quali i nomi abbiamo letti, che chiari splenderan più che piropo, verranno a dare aiuto al maggior uopo. 43 Alla fera crudele il più molesto non sarà di Francesco il re de' Franchi: e ben convien che molti ecceda in questo, e nessun prima, e pochi n'abbia a' fianchi; quando in splendor real, quando nel resto di virtù farà molti parer manchi, che già parver compiuti; come cede tosto ogn'altro splendor, che 'l sol si vede. 44 L'anno primier del fortunato regno, non ferma ancor ben la corona in fronte, passerà l'Alpe, e romperà il disegno di chi all'incontro avrà occupato il monte, da giusto spinto e generoso sdegno, che vendicate ancor non sieno l'onte che dal furor da paschi e mandre uscito l'esercito di Francia avrà patito. 45 E quindi scenderà nel ricco piano di Lombardia, col fior di Francia intorno, e sì l'Elvezio spezzerà, ch'invano farà mai più pensier d'alzare il corno. Con grande e de la Chiesa e de l'ispano campo e del fiorentin vergogna e scorno espugnerà il castel che prima stato sarà non espugnabile stimato. 46 Sopra ogn'altr'arme, ad espugnarlo, molto più gli varrà quella onorata spada con la qual prima avrà di vita tolto il monstro corruttor d'ogni contrada. Convien ch'inanzi a quella sia rivolto in fuga ogni stendardo, o a terra vada; né fossa, né ripar, né grosse mura possan da lei tener città sicura. 47 Questo principe avrà quanta eccellenza aver felice imperator mai debbia: l'animo del gran Cesar, la prudenza di chi mostrolla a Transimeno e a Trebbia, con la fortuna d'Alessandro, senza cui saria fumo ogni disegno, e nebbia. Sarà sì liberal, ch'io lo contemplo qui non aver né paragon né esemplo. - 48 Così diceva Malagigi, e messe desire a' cavallier d'aver contezza del nome d'alcun altro ch'uccidesse l'infernal bestia, uccider gli altri avezza. Quivi un Bernardo tra' primi si lesse, che Merlin molto nel suo scritto apprezza. - Fia nota per costui (dicea) Bibiena, quanto Fiorenza sua vicina e Siena. - 49 Non mette piede inanzi ivi persona a Sismondo, a Giovanni, a Ludovico: un Gonzaga, un Salviati, un d'Aragona, ciascuno al brutto mostro aspro nimico. V'è Francesco Gonzaga, né abandona le sue vestigie il figlio Federico; et ha il cognato e il genero vicino, quel di Ferrara, e quel duca d'Urbino. 50 De l'un di questi il figlio Guidobaldo non vuol che 'l padre o ch'altri a dietro il metta. Con Otobon dal Flisco, Sinibaldo caccia la fera, e van di pari in fretta. Luigi da Gazolo il ferro caldo fatto nel collo le ha d'una saetta, che con l'arco gli diè Febo, quando anco Marte la spada sua gli messe al fianco. 51 Duo Erculi, duo Ippoliti da Este, un altro Ercule, un altro Ippolito anco, da Gonzaga, de' Medici, le péste seguon del mostro, e l'han, cacciando, stanco. Né Giuliano al figliuol, né par che reste Ferrante al fratel dietro; né che manco Andrea Doria sia pronto; né che lassi Francesco Sforza, ch'ivi uomo lo passi. 52 Del generoso, illustre e chiaro sangue d'Avalo vi son dui ch'han per insegna lo scoglio, che dal capo ai piedi d'angue par che l'empio Tifeo sotto si tegna. Non è di questi duo, per fare esangue l'orribil mostro, che più inanzi vegna: l'uno Francesco di Pescara invitto, l'altro Alfonso del Vasto ai piedi ha scritto. 53 Ma Consalvo Ferrante ove ho lasciato, l'ispano onor, ch'in tanto pregio v'era, che fu da Malagigi sì lodato, che pochi il pareggiâr di quella schiera? Guglielmo si vedea di Monferrato fra quei che morto avean la brutta fera; et eran pochi verso gl'infiniti ch'ella v'avea chi morti e chi feriti. 54 In giuochi onesti e parlamenti lieti, dopo mangiar, spesero il caldo giorno, corcati su finissimi tapeti tra gli arbuscelli ond'era il rivo adorno. Malagigi e Vivian, perché quïeti più fosser gli altri, tenean l'arme intorno; quando una donna senza compagnia vider, che verso lor ratto venìa. 55 Questa era quella Ippalca a cui fu tolto Frontino, il bon destrier, da Rodomonte. L'avea il dì inanzi ella seguito molto, pregandolo ora, ora dicendogli onte; ma non giovando, avea il camin rivolto per ritrovar Ruggiero in Agrismonte. Tra via le fu (non so già come) detto che quivi il troveria con Ricciardetto. 56 E perché il luogo ben sapea (che v'era stata altre volte), se ne venne al dritto alla fontana; et in quella maniera ve lo trovò, ch'io v'ho di sopra scritto. Ma come buona e cauta messaggiera che sa meglio esequir che non l'è ditto, quando vide il fratel di Bradamante, non conoscer Ruggier fece sembiante. 57 A Ricciardetto tutta rivoltosse, sì come drittamente a lui venisse; e quel che la conobbe, se le mosse incontra, e domandò dove ne gisse. Ella ch'ancora avea le luci rosse del pianger lungo, sospirando disse; ma disse forte, acciò che fosse espresso a Ruggiero il suo dir, che gli era presso. 58 - Mi traea dietro (disse) per la briglia, come imposto m'avea la tua sorella, un bel cavallo e buono a maraviglia, ch'ella molto ama e che Frontino appella; e l'avea tratto più di trenta miglia verso Marsilia, ove venir debbe ella fra pochi giorni, e dove ella mi disse ch'io l'aspettassi fin che vi venisse. 59 Era sì baldanzoso il creder mio, ch'io non stimava alcun di cor sì saldo, che me l'avesse a tor, dicendogli io ch'era de la sorella di Rinaldo. Ma vano il mio disegno ieri m'uscìo, che me lo tolse un Saracin ribaldo; né per udir di chi Frontino fusse, a volermelo rendere s'indusse. 60 Tutto ieri et oggi l'ho pregato; e quando ho visto uscir prieghi e minaccie invano, maledicendol molto e bestemmiando, l'ho lasciato di qui poco lontano, dove il cavallo e sé molto affannando, s'aiuta, quanto può, con l'arme in mano contra un guerrier ch'in tal travaglio il mette, che spero ch'abbia a far le mie vendette. - 61 Ruggiero a quel parlar salito in piede, ch'avea potuto a pena il tutto udire, si volta a Ricciardetto, e per mercede e premio e guidardon del ben servire (prieghi aggiungendo senza fin) gli chiede che con la donna solo il lasci gire tanto che 'l Saracin gli sia mostrato, ch'a lei di mano ha il buon destrier levato. 62 A Ricciardetto, ancor che discortese il conciedere altrui troppo paresse di terminar le a sé debite imprese, al voler di Ruggier pur si rimesse: e quel licenzia dai compagni prese, e con Ippalca a ritornar si messe, lasciando a quei che rimanean, stupore, con maraviglia pur del suo valore. 63 Poi che dagli altri allontanato alquanto Ippalca l'ebbe, gli narrò ch'ad esso era mandata da colei che tanto avea nel core il suo valore impresso; e senza finger più, seguitò quanto la sua donna al partir le avea commesso, e che se dianzi avea altrimente detto, per la presenzia fu di Ricciardetto. 64 Disse, che chi le avea tolto il destriero, ancor detto l'avea con molto orgoglio: - Perché so che 'l cavallo è di Ruggiero, più volontier per questo te lo toglio. S'egli di racquistarlo avrà pensiero, fagli saper (ch'asconder non gli voglio) ch'io son quel Rodomonte il cui valore mostra per tutto 'l mondo il suo splendore. - 65 Ascoltando, Ruggier mostra nel volto, di quanto sdegno acceso il cor gli sia, sì perché caro avria Frontino molto, sì perché venìa il dono onde venìa sì perché in suo dispregio gli par tolto; vede che biasmo e disonor gli fia, se tôrlo a Rodomonte non s'affretta, e sopra lui non fa degna vendetta. 66 La donna Ruggier guida, e non soggiorna, che por lo brama col Pagano a fronte; e giunge ove la strada fa dua corna: l'un va giú al piano, e l'altro va su al monte; e questo e quel ne la vallea ritorna, dov'ella avea lasciato Rodomonte. Aspra, ma breve era la via del colle; l'altra più lunga assai, ma piana e molle. 67 Il desiderio che conduce Ippalca d'aver Frontino e vendicar l'oltraggio, fa che 'l sentier de la montagna calca, onde molto più corto era il vïaggio. Per l'altra intanto il re d'Algier cavalca col Tartaro e cogli altri che detto aggio; e giú nel pian la via più facil tiene, né con Ruggier ad incontrar si viene. 68 Già son le lor querele differite fin che soccorso ad Agramante sia (questo sapete); et han d'ogni lor lite la cagion, Doralice, in compagnia. Ora il successo de l'istoria udite. Alla fontana è la lor dritta via, ove Aldigier, Marfisa, Ricciardetto, Malagigi e Vivian stanno a diletto. 69 Marfisa a' prieghi de' compagni avea veste da donna et ornamenti presi, di quelli ch'a Lanfusa si credea mandare il traditor de' Maganzesi; e ben che veder raro si solea senza l'osbergo e gli altri buoni arnesi, pur quel dì se li trasse; e come donna, a' prieghi lor lasciò vedersi in gonna. 70 Tosto che vede il Tartaro Marfisa, per la credenza c'ha di guadagnarla, in ricompensa e in cambio ugual s'avisa di Doralice, a Rodomonte darla; sì come Amor si regga a questa guisa, che vender la sua donna o permutarla possa l'amante, né a ragion s'attrista, se quando una ne perde, una n'acquista. 71 Per dunque provedergli di donzella, acciò per sé quest'altra si ritegna, Marfisa, che gli par leggiadra e bella, e d'ogni cavallier femina degna, come abbia ad aver questa, come quella, subito cara, a lui donar disegna; e tutti i cavallier che con lei vede, a giostra seco et a battaglia chiede. 72 Malagigi e Vivian, che l'arme aveano come per guardia e sicurtà del resto, si mossero dal luogo ove sedeano, l'un come l'altro alla battaglia presto, perché giostrar con amenduo credeano; ma l'African che non venìa per questo, non ne fe' segno o movimento alcuno: sì che la giostra restò lor contra uno. 73 Viviano è il primo, e con gran cor si muove, e nel venire abbassa un'asta grossa: e 'l re pagan da le famose pruove da l'altra parte vien con maggior possa. Dirizza l'uno e l'altro, e segna dove crede meglio fermar l'aspra percossa. Viviano indarno a l'elmo il pagan fere; che non lo fa piegar, non che cadere. 74 Il re pagan, ch'avea più l'asta dura, fe' lo scudo a Vivian parer di ghiaccio; e fuor di sella in mezzo alla verdura, all'erbe e ai fiori il fe' cadere in braccio. Vien Malagigi, e ponsi in aventura di vendicare il suo fratello avaccio; ma poi d'andargli appresso ebbe tal fretta, che gli fe' compagnia più che vendetta. 75 L'altro fratel fu prima del cugino coll'arme indosso, e sul destrier salito; e disfidato contra il Saracino venne a scontrarlo a tutta briglia ardito. Risonò il colpo in mezzo a l'elmo fino di quel pagan sotto la vista un dito: volò al ciel l'asta in quattro tronchi rotta; ma non mosse il pagan per quella botta. 76 Il pagan ferì lui dal lato manco; e perché il colpo fu con troppa forza, poco lo scudo, e la corazza manco gli valse, che s'aprîr come una scorza. Passò il ferro crudel l'omero bianco: piegò Aldigier ferito a poggia e ad orza; tra fiori et erbe al fin si vide avolto, rosso su l'arme, e pallido nel volto. 77 Con molto ardir vien Ricciardetto appresso; e nel venire arresta sì gran lancia, che mostra ben, come ha mostrato spesso, che degnamente è paladin di Francia: et al pagan ne facea segno espresso, se fosse stato pari alla bilancia; ma sozzopra n'andò, perché il cavallo gli cadde adosso, e non già per suo fallo. 78 Poi ch'altro cavallier non si dimostra, ch'al pagan per giostrar volti la fronte, pensa aver guadagnato de la giostra la donna, e venne a lei presso alla fonte; e disse: - Damigella, sète nostra, s'altri non è per voi ch'in sella monte. Nol potete negar, né farne iscusa; che di ragion di guerra così s'usa. - 79 Marfisa, alzando con un viso altiero la faccia, disse: - Il tuo parer molto erra. Io ti concedo che diresti il vero, ch'io sarei tua per la ragion di guerra, quando mio signor fosse o cavalliero alcun di questi ch'hai gittato in terra. Io sua non son, né d'altri son che mia: dunque me tolga a me chi mi desia. 80 So scudo e lancia adoperare anch'io, e più d'un cavalliero in terra ho posto. - - Datemi l'arme, disse, e il destrier mio, - agli scudier che l'ubbidiron tosto. Trasse la gonna, et in farsetto uscìo; e le belle fattezze e il ben disposto corpo mostrò, ch'in ciascuna sua parte, fuor che nel viso, assimigliava a Marte. 81 Poi che fu armata, la spada si cinse e sul destrier montò d'un leggier salto; e qua e là tre volte e più lo spinse, e quinci e quindi fe' girare in alto; e poi, sfidando il Saracino, strinse la grossa lancia e cominciò l'assalto. Tal nel campo troian Pentesilea contra il tessalo Achille esser dovea. 82 Le lance infin al calce si fiaccaro a quel superbo scontro, come vetro; né pero chi le corsero, piegaro, che si notasse, un dito solo a dietro. Marfisa che volea conoscer chiaro s'a più stretta battaglia simil metro le serverebbe contra il fier pagano, se gli rivolse con la spada in mano. 83 Bestemmiò il cielo e gli elementi il crudo pagan, poi che restar la vide in sella: ella, che gli pensò romper lo scudo, non men sdegnosa contra il ciel favella. Già l'uno e l'altro ha in mano il ferro nudo e su le fatal arme si martella: l'arme fatali han parimente intorno, che mai non bisognâr più di quel giorno. 84 Sì buona è quella piastra e quella maglia, che spada o lancia non le taglia o fora; sì che potea seguir l'aspra battaglia tutto quel giorno e l'altro appresso ancora. Ma Rodomonte in mezzo lor si scaglia, e riprende il rival de la dimora, dicendo: - Se battaglia pur far vuoi, finiàn la cominciata oggi fra noi. 85 Facemmo, come sai, triegua con patto di dar soccorso alla milizia nostra. Non debbiàn, prima che sia questo fatto, incominciare altra battaglia o giostra. - Indi a Marfisa, riverente in atto si volta, e quel messaggio le dimostra; e le racconta come era venuto a chieder lor per Agramante aiuto. 86 La priega poi che le piaccia non solo lasciar quella battaglia o differire, ma che voglia in aiuto del figliuolo del re Troian con essi lor venire; onde la fama sua con maggior volo potrà far meglio infin al ciel salire, che, per querela di poco momento, dando a tanto disegno impedimento. 87 Marfisa, che fu sempre disïosa di provar quei di Carlo a spada e a lancia, né l'avea indotta a venire altra cosa di sì lontana regïone in Francia, se non per esser certa se famosa lor nominanza era per vero o ciancia, tosto d'andar con lor partito prese, che d'Agramante il gran bisogno intese. 88 Ruggiero in questo mezzo avea seguìto indarno Ippalca per la via del monte; e trovò, giunto al loco, che partito per altra via se n'era Rodomonte: e pensando che lungi non era ito, e che 'l sentier tenea dritto alla fonte, trottando in fretta dietro gli venìa per l'orme ch'eran fresche in su la via. 89 Vòlse che Ippalca a Montalban pigliasse la via, ch'una giornata era vicino; perché s'alla fontana ritornasse, si torria troppo dal dritto camino. E disse a lei, che già non dubitasse che non s'avesse a ricovrar Frontino: ben le farebbe a Montalbano, o dove ella si trovi, udir tosto le nuove. 90 E le diede la lettera che scrisse in Agrismonte, e che si portò in seno; e molte cose a bocca anco le disse, e la pregò che l'escusasse a pieno. Ne la memoria Ippalca il tutto fisse, prese licenzia e voltò il palafreno; e non cessò la buona messaggiera, ch'in Montalban si ritrovò la sera. 91 Seguia Ruggiero in fretta il Saracino per l'orme ch'apparian ne la via piana, ma non lo giunse prima che vicino con Mandricardo il vide alla fontana. Già promesso s'avean che per camino l'un non farebbe all'altro cosa strana, né fin ch'al campo si fosse soccorso, a cui Carlo era appresso a porre il morso. 92 Quivi giunto Ruggier, Frontin conobbe, e conobbe per lui chi adosso gli era; e su la lancia fe' le spalle gobbe, e sfidò l'African con voce altiera. Rodomonte quel dì fe' più che Iobbe, poi che domò la sua superbia fiera; e ricusò la pugna ch'avea usanza di sempre egli cercar con ogni instanza. 93 Il primo giorno e l'ultimo, che pugna mai ricusasse il re d'Algier, fu questo; ma tanto il desiderio che si giugna, in soccorso al suo re gli pare onesto, che se credesse aver Ruggier ne l'ugna più che mai lepre il pardo isnello e presto, non se vorria fermar tanto con lui, che fêsse un colpo de la spada o dui. 94 Aggiungi che sapea ch'era Ruggiero che seco per Frontin facea battaglia, tanto famoso, ch'altro cavalliero non è ch'a par di lui di gloria saglia, l'uom che bramato ha di saper per vero esperimento quanto in arme vaglia; e pur non vuol seco accettar l'impresa: tanto l'assedio del suo re gli pesa. 95 Trecento miglia sarebbe ito e mille, se ciò non fosse, a comperar tal lite; ma se l'avesse oggi sfidato Achille, più fatto non avria di quel ch'udite: tanto a quel punto sotto le faville le fiamme avea del suo furor sopite. Narra a Ruggier perché pugna rifiuti; et anco il priega che l'impresa aiuti: 96 che facendol, farà quel che far deve al suo signore un cavallier fedele. Sempre che questo assedio poi si leve, avran ben tempo da finir querele. Ruggier rispose a lui: - Mi sarà lieve differir questa pugna, fin che de le forze di Carlo si traggia Agramante, pur che mi rendi il mio Frontino inante. 97 Se di provarti c'hai fatto gran fallo, e fatto hai cosa indegna ad un uom forte, d'aver tolto a una donna il mio cavallo, vuoi ch'io prolunghi fin che siamo in corte, lascia Frontino, e nel mio arbitrio dàllo. Non pensare altrimente ch'io sopporte che la battaglia qui tra noi non segua, o ch'io ti faccia sol d'un'ora triegua. - 98 Mentre Ruggiero all'African domanda o Frontino o battaglia allora allora, e quello in lungo e l'uno e l'altro manda, né vuol dare il destrier, né far dimora; Mandricardo ne vien da un'altra banda, e mette in campo un'altra lite ancora, poi che vede Ruggier che per insegna porta l'augel che sopra gli altri regna. 99 Nel campo azzur l'aquila bianca avea, che de' Troiani fu l'insegna bella: perché Ruggier l'origine traea dal fortissimo Ettòr, portava quella. Ma questo Mandricardo non sapea; né vuol patire, e grande ingiuria appella, che ne lo scudo un altro debba porre l'aquila bianca del famoso Ettorre. 100 Portava Mandricardo similmente l'augel che rapì in Ida Ganimede. Come l'ebbe quel dì che fu vincente al castel periglioso, per mercede, credo vi sia con l'altre istorie a mente, e come quella fata gli lo diede con tutte le bell'arme che Vulcano avea già date al cavallier troiano. 101 Altra volta a battaglia erano stati Mandricardo e Ruggier solo per questo; e per che caso fosser distornati, io nol dirò, che già v'è manifesto. Dopo non s'eran mai più raccozzati, se non quivi ora; e Mandricardo presto, visto lo scudo, alzò il superbo grido minacciando, e a Ruggier disse: - Io ti sfido. 102 Tu la mia insegna, temerario, porti; né questo è il primo dì ch'io te l'ho detto. E credi, pazzo, ancor ch'io tel comporti, per una volta ch'io t'ebbi rispetto? Ma poi che né minaccie né conforti ti pôn questa follia levar del petto, ti mostrerò quanto miglior partito t'era d'avermi subito ubbidito. 103 Come ben riscaldato àrrido legno a piccol soffio subito s'accende, così s'avampa di Ruggier lo sdegno al primo motto che di questo intende. - Ti pensi (disse) farmi stare al segno, perché quest'altro ancor meco contende? Ma mostrerotti ch'io son buon per tôrre Frontino a lui, lo scudo a te d'Ettorre. 104 Un'altra volta pur per questo venni teco a battaglia, e non è gran tempo anco; ma d'ucciderti allora mi contenni, perché tu non avevi spada al fianco. Questi fatti saran, quelli fur cenni; e mal sarà per te quell'augel bianco, ch'antiqua insegna è stata di mia gente: tu te l'usurpi, io 'l porto giustamente. - 105 - Anzi t'usurpi tu l'insegna mia! - rispose Mandricardo; e trasse il brando, quello che poco inanzi per follia avea gittato alla foresta Orlando. Il buon Ruggier, che di sua cortesia non può non sempre ricordarsi, quando vide il Pagan ch'avea tratta la spada, lasciò cader la lancia ne la strada. 106 E tutto a un tempo Balisarda stringe, la buona spada, e me' lo scudo imbraccia: ma l'Africano in mezzo il destrier spinge, e Marfisa con lui presta si caccia; e l'uno questo, e l'altro quel respinge, e priegano amendui che non si faccia. Rodomonte si duol che rotto il patto due volte ha Mandricardo, che fu fatto. 107 Prima, credendo d'acquistar Marfisa, fermato s'era a far più d'una giostra; or per privar Ruggier d'una divisa, di curar poco il re Agramante mostra. - Se pur (dicea) déi fare a questa guisa, finiàn prima tra noi la lite nostra, convenïente e più debita assai, ch'alcuna di quest'altre che prese hai. 108 Con tal condizïon fu stabilita la triegua e questo accordo ch'è fra nui. Come la pugna teco avrò finita, poi del destrier risponderò a costui. Tu del tuo scudo, rimanendo in vita, la lite avrai da terminar con lui; ma ti darò da far tanto, mi spero, che non n'avanzarà troppo a Ruggiero. - 109 - La parte che ti pensi, non n'avrai (rispose Mandricardo a Rodomonte): io te ne darò più che non vorrai, e ti farò sudar dal piè alla fronte: e me ne rimarrà per darne assai (come non manca mai l'acqua del fonte) et a Ruggiero et a mill'altri seco, e a tutto il mondo che la voglia meco. - 110 Moltiplicavan l'ire e le parole quando da questo e quando da quel lato: con Rodomonte e con Ruggier la vuole tutto in un tempo Mandricardo irato; Ruggier, ch'oltraggio sopportar non suole, non vuol più accordo, anzi litigio e piato. Marfisa or va da questo or da quel canto per riparar, ma non può sola tanto. 111 Come il villan, se fuor per l'alte sponde trapela il fiume e cerca nuova strada, frettoloso a vietar che non affonde i verdi paschi e la sperata biada, chiude una via et un'altra, e si confonde; che se ripara quinci che non cada, quindi vede lassar gli argini molli, e fuor l'acqua spicciar con più rampolli: 112 così, mentre Ruggiero e Mandricardo e Rodomonte son tutti sozzopra, ch'ognun vuol dimostrarsi più gagliardo, et ai compagni rimaner di sopra, Marfisa ad acchetarli have riguardo, e s'affatica, e perde il tempo e l'opra; che, come ne spicca uno e lo ritira, gli altri duo risalir vede con ira. 113 Marfisa, che volea porgli d'accordo, dicea: - Signori, udite il mio consiglio: differire ogni lite è buon ricordo fin ch'Agramante sia fuor di periglio. S'ognun vuole al suo fatto essere ingordo, anch'io con Mandricardo mi ripiglio; e vo' vedere al fin se guadagnarme, come egli ha detto, è buon per forza d'arme. 114 Ma se si de' soccorrere Agramante, soccorrasi, e tra noi non si contenda. - - Per me non si starà d'andare inante (disse Ruggier), pur che 'l destrier si renda. O che mi dia il cavallo, a far di tante una parola, o che da me il difenda: o che qui morto ho da restare, o ch'io in campo ho da tornar sul destrier mio. - 115 Rispose Rodomonte: - Ottener questo non fia così, come quell'altro, lieve.- E seguitò dicendo: - Io ti protesto che, s'alcun danno il nostro re riceve, fia per tua colpa; ch'io per me non resto di fare a tempo quel che far si deve.- Ruggiero a quel protesto poco bada; ma stretto dal furor stringe la spada. 116 Al re d'Algier come cingial si scaglia, e l'urta con lo scudo e con la spalla; e in modo lo disordina e sbarraglia, che fa che d'una staffa il piè gli falla. Mandricardo gli grida: - O la battaglia differisci, Ruggiero, o meco fàlla; - e crudele e fellon più che mai fosse, Ruggier su l'elmo in questo dir percosse. 117 Fin sul collo al destrier Ruggier s'inchina, né, quando vuolsi rilevar, si puote; perché gli sopragiunge la ruina del figlio d'Ulïen che lo percuote. Se non era di tempra adamantina, fesso l'elmo gli avria fin tra le gote. Apre Ruggier le mani per l'ambascia, e l'una il fren, l'altra la spada lascia. 118 Se lo porta il destrier per la campagna: dietro gli resta in terra Balisarda. Marfisa che quel dì fatta compagna se gli era d'arme, par ch'avampi et arda, che solo fra que' duo così rimagna: e come era magnanima e gagliarda, si drizza a Mandricardo, e col potere ch'avea maggior, sopra la testa il fiere. 119 Rodomonte a Ruggier dietro si spinge: vinto è Frontin, s'un'altra gli n'appicca; ma Ricciardetto con Vivian si stringe, e tra Ruggiero e 'l Saracin si ficca. L'uno urta Rodomonte e lo rispinge, e da Ruggier per forza lo dispicca; l'altro la spada sua, che fu Viviano, pone a Ruggier, già risentito, in mano. 120 Tosto che 'l buon Ruggiero in sé ritorna, e che Vivian la spada gli appresenta, a vendicar l'ingiuria non soggiorna, e verso il re d'Algier ratto s'aventa, come il leon che tolto su le corna dal bue sia stato, e che 'l dolor non senta: sì sdegno et ira et impeto l'affretta, stimula e sferza a far la sua vendetta. 121 Ruggier sul capo al Saracin tempesta: e se la spada sua si ritrovasse, che, come ho detto, al comminciar di questa pugna, di man gran fellonia gli trasse, mi credo ch'a difendere la testa di Rodomonte l'elmo non bastasse, l'elmo che fece il re far di Babelle quando muover pensò guerra alle stelle. 122 La Discordia, credendo non potere altro esser quivi che contese e risse, né vi dovesse mai più luogo avere o pace o triegua, alla sorella disse ch'omai sicuramente a rivedere i monachetti suoi seco venisse. Lasciànle andare, e stiàn noi dove in fronte Ruggiero avea ferito Rodomonte. 123 Fu il colpo di Ruggier di sì gran forza, che fece in su la groppa di Frontino percuoter l'elmo e quella dura scorza di ch'avea armato il dosso il Saracino, e lui tre volte e quattro a poggia e ad orza piegar per gire in terra a capo chino; e la spada egli ancora avria perduta, se legata alla man non fosse suta. 124 Avea Marfisa a Mandricardo intanto fatto sudar la fronte, il viso e il petto, et egli aveva a lei fatto altretanto; ma sì l'osbergo d'ambi era perfetto, che mai potêr falsarlo in nessun canto, e stati eran sin qui pari in effetto: ma in un voltar che fece il suo destriero, bisogno ebbe Marfisa di Ruggiero. 125 Il destrier di Marfisa in un voltarsi che fece stretto, ov'era molle il prato, sdrucciolò in guisa, che non poté aitarsi di non tutto cader sul destro lato; e nel volere in fretta rilevarsi, da Brigliador fu pel traverso urtato, con che il pagan poco cortese venne; sì che cader di nuovo gli convenne. 126 Ruggier che la donzella a mal partito vide giacer, non differì il soccorso, or che l'agio n'avea, poi che stordito da sé lontan quell'altro era trascorso: ferì su l'elmo il Tartaro; e partito quel colpo gli avria il capo, come un torso, se Ruggier Balisarda avesse avuta, o Mandricardo in capo altra barbuta. 127 Il re d'Algier che si risente in questo, si volge intorno, e Ricciardetto vede; e si ricorda che gli fu molesto dianzi, quando soccorso a Ruggier diede. A lui si drizza, e saria stato presto a darli del ben fare aspra mercede, se con grande arte e nuovo incanto tosto non se gli fosse Malagigi opposto. 128 Malagigi, che sa d'ogni malia quel che ne sappia alcun mago eccellente, ancor che 'l libro suo seco non sia, con che fermare il sole era possente, pur la scongiurazione onde solia commandare ai demoni aveva a mente: tosto in corpo al ronzino un ne costringe di Doralice, et in furor lo spinge. 129 Nel mansueto ubino che sul dosso avea la figlia del re Stordilano, fece entrar un degli angel di Minosso sol con parole il frate di Viviano: e quel che dianzi mai non s'era mosso, se non quanto ubidito avea alla mano, or d'improviso spiccò in aria un salto, che trenta piè fu lungo e sedeci alto. 130 Fu grande il salto, non però di sorte che ne dovesse alcun perder la sella. Quando si vide in alto, gridò forte (che si tenne per morta) la donzella. Quel ronzin, come il diavol se lo porte, dopo un gran salto se ne va con quella, che pur grida soccorso, in tanta fretta, che non l'avrebbe giunto una saetta. 131 Da la battaglia il figlio d'Ulïeno si levò al primo suon di quella voce; e dove furïava il palafreno, per la donna aiutar n'andò veloce. Mandricardo di lui non fece meno, né più a Ruggier, né più a Marfisa nòce; ma, senza chieder loro o paci o tregue, e Rodomonte e Doralice segue. 132 Marfisa intanto si levò di terra, e tutta ardendo di disdegno e d'ira, credesi far la sua vendetta, et erra; che troppo lungi il suo nimico mira. Ruggier, ch'aver tal fin vede la guerra, rugge come un leon, non che sospira. Ben sanno che Frontino e Brigliadoro giunger non ponno coi cavalli loro. 133 Ruggier non vuol cessar fin che decisa col re d'Algier non l'abbia del cavallo: non vuol quietar il Tartaro Marfisa, che provato a suo senno anco non hallo. Lasciar la sua querela a questa guisa parrebbe all'uno e all'altro troppo fallo. Di commune parer disegno fassi di chi offesi gli avea seguire i passi. 134 Nel campo saracin li troveranno, quando non possan ritrovarli prima; che per levar l'assedio iti seranno, prima che 'l re di Francia il tutto opprima. Così dirittamente se ne vanno dove averli a man salva fanno stima. Già non andò Ruggier così di botto, che non facesse ai suoi compagni motto. 135 Ruggier se ne ritorna ove in disparte era il fratel de la sua donna bella, e se gli proferisce in ogni parte amico, per fortuna e buona e fella: indi lo priega (e lo fa con bella arte) che saluti in suo nome la sorella; e questo così ben gli venne detto, che né a lui diè né agli altri alcun sospetto. 136 E da lui, da Vivian, da Malagigi, dal ferito Aldigier tolse commiato. Si proferiro anch'essi alli servigi di lui, debitor sempre in ogni lato. Marfisa avea sì il cor d'ire a Parigi, che 'l salutar gli amici avea scordato; ma Malagigi andò tanto e Viviano, che pur la salutaron di lontano; 137 e così Ricciardetto; ma Aldigiero giace, e convien che suo mal grado resti. Verso Parigi avean preso il sentiero quelli duo prima, et or lo piglian questi. Dirvi, Signor, ne l'altro canto spero miracolosi e sopraumani gesti, che con danno degli uomini di Carlo ambe le coppie fêr, di ch'io vi parlo.
1 Molti consigli de le donne sono meglio improviso, ch'a pensarvi, usciti; che questo è spezïale e proprio dono fra tanti e tanti lor dal ciel largiti. Ma può mal quel degli uomini esser buono, che maturo discorso non aiti, ove non s'abbia a ruminarvi sopra speso alcun tempo e molto studio et opra. 2 Parve, e non fu però buono il consiglio di Malagigi, ancor che (come ho detto) per questo di grandissimo periglio liberassi il cugin suo Ricciardetto. A levare indi Rodomonte e il figlio del re Agrican, lo spirto avea costretto, non avvertendo che sarebbon tratti dove i cristian ne rimarrian disfatti. 3 Ma se spazio a pensarvi avesse avuto, creder si può che dato similmente al suo cugino avria debito aiuto, né fatto danno alla cristiana gente. Commandare allo spirto avria potuto, ch'alla via di levante o di ponente sì dilungata avesse la donzella, che non n'udisse Francia più novella. 4 Così gli amanti suoi l'avrian seguita, come a Parigi, anco in ogn'altro loco; ma fu questa avvertenza inavvertita da Malagigi, per pensarvi poco: e la Malignità dal ciel bandita, che sempre vorria sangue e strage e fuoco, prese la via donde più Carlo afflisse, poi che nessuna il mastro gli prescrisse. 5 Il palafren ch'avea il demonio al fianco, portò la spaventata Doralice, che non poté arrestarla fiume, e manco fossa, bosco, palude, erta o pendice; fin che per mezzo il campo inglese e franco, e l'altra moltitudine fautrice de l'insegne di Cristo, rassegnata non l'ebbe al padre suo re di Granata. 6 Rodomonte col figlio d'Agricane la seguitaro il primo giorno un pezzo, che le vedean le spalle, ma lontane: di vista poi perderonla da sezzo, e venner per la traccia, come il cane la lepre o il caprïol trovare avezzo; né si fermâr, che furo in parte, dove di lei ch'era col padre ebbono nuove. 7 Guardati, Carlo, che 'l ti viene adosso tanto furor, ch'io non ti veggo scampo: né questi pur, ma 'l re Gradasso è mosso con Sacripante a danno del tuo campo. Fortuna, per toccarti fin all'osso, ti tolle a un tempo l'uno e l'altro lampo di forza e di saper, che vivea teco; e tu rimaso in tenebre sei cieco. 8 Io ti dico d'Orlando e di Rinaldo; che l'uno al tutto furïoso e folle, al sereno, alla pioggia, al freddo, al caldo, nudo va discorrendo il piano e 'l colle: l'altro, con senno non troppo più saldo, d'appresso al gran bisogno ti si tolle; che non trovando Angelica in Parigi, si parte, e va cercandone vestigi. 9 Un fraudolente vecchio incantatore gli fe' (come a principio vi si disse) creder per un fantastico suo errore, che con Orlando Angelica venisse: ondè di gelosia tocco nel core, de la maggior ch'amante mai sentisse, venne a Parigi, e come apparve in corte, d'ire in Bretagna gli toccò per sorte. 10 Or fatta la battaglia onde portonne egli l'onor d'aver chiuso Agramante, tornò a Parigi, e monister di donne e case e ròcche cercò tutte quante. Se murata non è tra le colonne, l'avria trovata il curïoso amante. Vedendo al fin ch'ella non v'è né Orlando, amenduo va con gran disio cercando. 11 Pensò che dentro Anglante o dentro a Brava se la godesse Orlando in festa e in giuoco; e qua e là per ritrovarla andava, né in quel la ritrovò né in questo loco. A Parigi di nuovo ritornava, pensando che tardar dovesse poco di capitare il paladino al varco; che 'l suo star fuor non era senza incarco. 12 Un giorno o duo ne la città soggiorna Rinaldo; e poi ch'Orlando non arriva, or verso Anglante, or verso Brava torna, cercando se di lui novella udiva. Cavalca e quando annotta e quando aggiorna, alla fresca alba e all'ardente ora estiva; e fa al lume del sole e de la luna dugento volte questa via, non ch'una. 13 Ma l'antiquo aversario, il qual fece Eva all'interdetto pome alzar la mano, a Carlo un giorno i lividi occhi leva, che 'l buon Rinaldo era da lui lontano; e vedendo la rotta che poteva darsi in quel punto al populo cristiano, quanta eccellenzia d'arme al mondo fusse fra tutti i Saracini, ivi condusse. 14 Al re Gradasso e al buon re Sacripante, ch'eran fatti compagni all'uscir fuore de la piena d'error casa d'Atlante, di venire in soccorso messe in core alle genti assediate d'Agramante, e a distruzion di Carlo imperatore: et egli per l'incognite contrade fe' lor la scorta e agevolò le strade. 15 Et ad un altro suo diede negozio d'affrettar Rodomonte e Mandricardo per le vestigie donde l'altro sozio a condur Doralice non è tardo. Ne manda ancora un altro, perché in ozio non stia Marfisa né Ruggier gagliardo; ma chi guidò l'ultima coppia tenne la briglia più, né quando gli altri venne. 16 La coppia di Marfisa e di Ruggiero di mezza ora più tarda si condusse; però ch'astutamente l'angel nero, volendo agli cristian dar de le busse, provide che la lite del destriero per impedire il suo desir non fusse, che rinovata si saria, se giunto fosse Ruggiero e Rodomonte a un punto. 17 I quattro primi si trovaro insieme onde potean veder gli alloggiamenti de l'esercito oppresso e di chi 'l preme, e le bandiere in che feriano i venti. Si consigliaro alquanto; e fur l'estreme conclusïon dei lor ragionamenti di dare aiuto, mal grado di Carlo, al re Agramante, e de l'assedio trarlo. 18 Stringonsi insieme, e prendono la via per mezzo ove s'alloggiano i cristiani, gridando Africa e Spagna tuttavia; e si scopriro in tutto esser pagani. Pel campo, arme, arme risonar s'udia; ma menar si sentîr prima le mani: e de la retroguardia una gran frotta, non ch'assalita sia, ma fugge in rotta. 19 L'esercito cristian mosso a tumulto sozzopra va senza sapere il fatto. Estima alcun che sia un usato insulto che Svizzari o Guasconi abbino fatto. Ma perch'alla più parte è il caso occulto, s'aduna insieme ogni nazion di fatto, altri a suon di tamburo, altri di tromba: grande è 'l rumore, e fin al ciel rimbomba. 20 Il magno imperator, fuor che la testa, è tutto armato, e i paladini ha presso; e domandando vien che cosa è questa che le squadre in disordine gli ha messo; e minacciando, or questi or quelli arresta; e vede a molti il viso o il petto fesso, ad altri insanguinare o il capo o il gozzo, alcun tornar con mano o braccio mozzo. 21 Giunge più inanzi, e ne ritrova molti giacere in terra, anzi in vermiglio lago nel proprio sangue orribilmente involti, né giovar lor può medico né mago; e vede dagli busti i capi sciolti e braccia e gambe con crudele imago; e ritrova dai primi alloggiamenti agli ultimi per tutto uomini spenti. 22 Dove passato era il piccol drappello, di chiara fama eternamente degno, per lunga riga era rimaso quello al mondo sempre memorabil segno. Carlo mirando va il crudel macello, maraviglioso, e pien d'ira e di sdegno, come alcun, in cui danno il fulgur venne, cerca per casa ogni sentier che tenne. 23 Non era agli ripari anco arrivato del re african questo primiero aiuto, che con Marfisa fu da un altro lato l'animoso Ruggier sopravenuto. Poi ch'una volta o due l'occhio aggirato ebbe la degna coppia, e ben veduto qual via più breve per soccorrer fosse l'assediato signor, ratto si mosse. 24 Come quando si dà fuoco alla mina, pel lungo solco de la negra polve licenzïosa fiamma arde e camina sì ch'occhio a dietro a pena se le volve; e qual si sente poi l'alta ruina che 'l duro sasso o il grosso muro solve: così Ruggiero e Marfisa veniro, e tai ne la battaglia si sentiro. 25 Per lungo e per traverso a fender teste incominciaro, e tagliar braccia e spalle de le turbe che male erano preste ad espedire e sgombrar loro il calle. C'ha notato il passar de le tempeste, ch'una parte d'un monte o d'una valle offende, e l'altra lascia, s'appresenti la via di questi duo fra quelle genti. 26 Molti che dal furor di Rodomonte e di quegli altri primi eran fuggiti, Dio ringraziavan ch'avea lor sì pronte gambe concesse, e piedi sì espediti; e poi, dando del petto e de la fronte in Marfisa e in Ruggier, vedean scherniti, come l'uom né per star né per fuggire, al suo fisso destin può contradire. 27 Chi fugge l'un pericolo, rimane ne l'altro, e paga il fio d'ossa e di polpe. Così cader coi figli in bocca al cane suol, sperando fuggir, timida volpe, poi che la caccia de l'antique tane il suo vicin che le dà mille colpe, e cautamente con fumo e con fuoco turbata l'ha da non temuto loco. 28 Negli ripari entrò de' Saracini Marfisa con Ruggiero a salvamento. Quivi tutti con gli occhi al ciel supini Dio ringraziâr del buono avvenimento. Or non v'è più timor de' paladini: il più tristo pagan ne sfida cento; et è concluso che senza riposo si torni a fare il campo sanguinoso. 29 Corni, bussoni, timpani moreschi empieno il ciel di formidabil suoni: ne l'aria tremolare ai venti freschi si veggon le bandiere e i gonfaloni. Da l'altra parte i capitan carleschi stringon con Alamanni e con Britoni quei di Francia, d'Italia e d'Inghilterra; e si mesce aspra e sanguinosa guerra. 30 La forza del terribil Rodomonte, quella di Mandricardo furibondo, quella del buon Ruggier, di virtù fonte, del re Gradasso, sì famoso al mondo, e di Marfisa l'intrepida fronte, col re circasso a nessun mai secondo, feron chiamar san Gianni e san Dionigi al re di Francia, e ritrovar Parigi. 31 Di questi cavallieri e di Marfisa l'ardire invitto e la mirabil possa non fu, Signor, di sorte, non fu in guisa ch'imaginar, non che descriver possa. Quindi si può stimar che gente uccisa fosse quel giorno, e che crudel percossa avesse Carlo. Arroge poi con loro, con Ferraù più d'un famoso Moro. 32 Molti per fretta s'affogaro in Senna (che 'l ponte non potea supplire a tanti), e desïâr, come Icaro, la penna, perché la morte avean dietro e davanti. Eccetto Uggieri e il marchese di Vienna, i paladin fur presi tutti quanti. Olivier ritornò ferito sotto la spalla destra, Uggier col capo rotto. 33 E se, come Rinaldo e come Orlando, lasciato Brandimarte avesse il giuoco, Carlo n'andava di Parigi in bando, se potea vivo uscir di sì gran fuoco. Ciò che poté, fe' Brandimarte, e quando non poté più, diede alla furia loco. Così Fortuna ad Agramante arrise, ch'un'altra volta a Carlo assedio mise. 34 Di vedovelle i gridi e le querele, e d'orfani fanciulli e di vecchi orbi, ne l'eterno seren dove Michele sedea, salîr fuor di questi aer torbi; e gli fecion veder come il fedele popul preda de' lupi era e de' corbi, di Francia, d'Inghilterra e di Lamagna, che tutta avea coperta la campagna. 35 Nel viso s'arrossì l'angel beato, parendogli che mal fosse ubidito al Creatore, e si chiamò ingannato da la Discordia perfida e tradito. D'accender liti tra i pagani dato le avea l'assunto, e mal era esequito; anzi tutto il contrario al suo disegno parea aver fatto, a chi guardava al segno. 36 Come servo fedel, che più d'amore che di memoria abondi, e che s'aveggia aver messo in oblio cosa ch'a core quanto la vita e l'anima aver deggia, studia con fretta d'emendar l'errore, né vuol che prima il suo signor lo veggia; così l'angelo a Dio salir non vòlse, se de l'obligo prima non si sciolse. 37 Al monister, dove altre volte avea la Discordia veduta, drizzò l'ali. Trovolla ch'in capitulo sedea a nuova elezïon degli ufficiali; e di veder diletto si prendea, volar pel capo a' frati i brevïali. Le man le pose l'angelo nel crine, e pugna e calci le diè senza fine. 38 Indi le roppe un manico di croce per la testa, pel dosso e per le braccia. Mercé grida la misera a gran voce, e le genocchia al divin nunzio abbraccia. Michel non l'abandona, che veloce nel campo del re d'Africa la caccia; e poi le dice: - Aspettati aver peggio, se fuor di questo campo più ti veggio. - 39 Come che la Discordia avesse rotto tutto il dosso e le braccia, pur temendo un'altra volta ritrovarsi sotto a quei gran colpi, a quel furor tremendo, corre a pigliare i mantici di botto, et agli accesi fuochi esca aggiungendo, et accendendone altri, fa salire da molti cori un alto incendio d'ire. 40 E Rodomonte e Mandricardo e insieme Ruggier n'infiamma sì, che inanzi al Moro li fa tutti venire, or che non preme Carlo i pagani, anzi il vantaggio è loro. Le differenzie narrano, et il seme fanno saper, da cui produtte fôro; poi del re si rimettono al parere, chi di lor prima il campo debba avere. 41 Marfisa del suo caso anco favella, e dice che la pugna vuol finire, che cominciò col Tartaro; perch'ella provocata da lui vi fu a venire: né, per dar loco all'altre, volea quella un'ora, non che un giorno, differire; ma d'esser prima fa l'instanza grande, ch'alla battaglia il Tartaro domande. 42 Non men vuol Rodomonte il primo campo da terminar col suo rival l'impresa, che per soccorrer l'africano campo ha già interrotta, e fin a qui sospesa. Mette Ruggier le sue parole a campo, e dice che patir troppo gli pesa che Rodomonte il suo destrier gli tenga, e ch'a pugna con lui prima non venga. 43 Per più intricarla il Tartaro viene anche, e niega che Ruggiero ad alcun patto debba l'aquila aver da l'ale bianche; e d'ira e di furore è così matto, che vuol, quando dagli altri tre non manche, combatter tutte le querele a un tratto. Né più dagli altri ancor saria mancato, se 'l consenso del re vi fosse stato. 44 Con prieghi il re Agramante e buon ricordi fa quanto può, perché la pace segua; e quando al fin tutti li vede sordi non volere assentire a pace o a triegua, va discorrendo come almen gli accordi sì, che l'un dopo l'altro il campo assegua: e pel miglior partito al fin gli occorre ch'ognuno a sorte il campo s'abbia a tôrre. 45 Fe' quattro brevi porre: un Mandricardo e Rodomonte insieme scritto avea; ne l'altro era Ruggiero e Mandricardo. Rodomonte e Ruggier l'altro dicea; dicea l'altro Marfisa e Mandricardo. Indi all'arbitrio de l'instabil dea li fece trarre: e 'l primo fu il signore di Sarza a uscir con Mandricardo fuore. 46 Mandricardo e Ruggier fu nel secondo; nel terzo fu Ruggiero e Rodomonte; restò Marfisa e Mandricardo in fondo, di che la donna ebbe turbata fronte. Né Ruggier più di lei parve giocondo: sa che le forze dei duo primi pronte han tra lor da finir le liti, in guisa che non ne fia per sé né per Marfisa. 47 Giacea non lungi da Parigi un loco, che volgea un miglio o poco meno intorno: lo cingea tutto un argine non poco sublime, a guisa d'un teatro adorno. Un castel già vi fu, ma a ferro e a fuoco le mura e i tetti et a ruina andorno. Un simil può vederne in su la strada, qual volta a Borgo il Parmigiano vada. 48 In questo loco fu la lizza fatta, di brevi legni d'ogn'intorno chiusa, per giusto spazio quadra, al bisogno atta, con due capaci porte, come s'usa. Giunto il dì ch'al re par che si combatta tra i cavallier che non ricercan scusa, furo appresso alle sbarre in ambi i lati contra i rastrelli i padiglion tirati. 49 Nel padiglion ch'è più verso ponente sta il re d'Algier, c'ha membra di gigante. Gli pon lo scoglio indosso del serpente l'ardito Ferraù con Sacripante. Il re Gradasso e Falsiron possente sono in quell'altro al lato di levante, e metton di sua man l'arme troiane indosso al successor del re Agricane. 50 Sedeva in tribunale amplo e sublime il re d'Africa, e seco era l'Ispano; poi Stordilano, e l'altre genti prime che riveria l'esercito pagano. Beato a chi pôn dare argini e cime d'arbori stanza che gli alzi dal piano! Grande è la calca, e grande in ogni lato populo ondeggia intorno al gran steccato. 51 Eran con la regina di Castiglia regine e principesse e nobil donne d'Aragon, di Granata e di Siviglia, e fin di presso all'atlantee colonne: tra quai di Stordilan sedea la figlia, che di duo drappi avea le ricche gonne, l'un d'un rosso mal tinto, e l'altro verde; ma 'l primo quasi imbianca e il color perde. 52 In abito succinta era Marfisa, qual si convenne a donna et a guerriera. Termoodonte forse a quella guisa vide Ippolita ornarsi e la sua schiera. Già, con la cotta d'arme alla divisa del re Agramante, in campo venut'era l'araldo a far divieto e metter leggi, che né in fatto né in detto alcun parteggi. 53 La spessa turba aspetta disïando la pugna, e spesso incolpa il venir tardo dei duo famosi cavallieri; quando s'ode dal padiglion di Mandricardo alto rumor che vien moltiplicando. Or sappiate, Signor, che 'l re gagliardo di Sericana e 'l Tartaro possente fanno il tumulto e 'l grido che si sente. 54 Avendo armato il re di Sericana di sua man tutto il re di Tartaria, per porgli al fianco la spada soprana che già d'Orlando fu, se ne venìa; quando nel pome scritto Durindana vide, e 'l quartier ch'Almonte aver solia, ch'a quel meschin fu tolto ad una fonte dal giovenetto Orlando in Aspramonte. 55 Vedendola, fu certo ch'era quella tanto famosa del signor d'Anglante, per cui con grande armata, e la più bella che giamai si partisse di Levante, soggiogato avea il regno di Castella, e Francia vinta esso pochi anni inante: ma non può imaginarsi come avenga ch'or Mandricardo in suo poter la tenga. 56 E dimandògli se per forza o patto l'avesse tolta al conte, e dove e quando. E Mandricardo disse ch'avea fatto gran battaglia per essa con Orlando; e come finto quel s'era poi matto, così coprire il suo timor sperando, ch'era d'aver continua guerra meco, fin che la buona spada avesse seco. 57 E dicea ch'imitato avea il castore, il qual si strappa i genitali sui, vedendosi alle spalle il cacciatore, che sa che non ricerca altro da lui. Gradasso non udì tutto il tenore, che disse: - Non vo' darla a te né altrui: tanto oro, tanto affanno e tanta gente ci ho speso, che è ben mia debitamente. 58 Cercati pur fornir d'un'altra spada, ch'io voglio questa, e non ti paia nuovo. Pazzo o saggio ch'Orlando se ne vada, averla intendo, ovunque io la ritrovo. Tu senza testimoni in su la strada te l'usurpasti: io qui lite ne muovo. La mia ragion dirà mia scimitarra, e faremo il giudicio ne la sbarra. 59 Prima, di guadagnarla t'apparecchia, che tu l'adopri contra a Rodomonte. Di comprar prima l'arme è usanza vecchia, ch'alla battaglia il cavallier s'affronte. - - Più dolce suon non mi viene all'orecchia (rispose alzando il Tartaro la fronte), che quando di battaglia alcun mi tenta; ma fa che Rodomonte lo consenta. 60 Fa che sia tua la prima, e che si tolga il re di Sarza la tenzon seconda: e non ti dubitar ch'io non mi volga, e ch'a te et ad ogni altro io non risponda. - Ruggier gridò: - Non vo' che si disciolga il patto, o più la sorte si confonda: o Rodomonte in campo prima saglia, o sia la sua dopo la mia battaglia. 61 Se di Gradasso la ragion prevale, prima acquistar che porre in opra l'arme; né tu l'aquila mia da le bianche ale prima usar déi, che non me ne disarme: ma poi ch'è stato il mio voler già tale, di mia sentenza non voglio appellarme, che sia seconda la battaglia mia, quando del re d'Algier la prima sia. 62 Se turbarete voi l'ordine in parte, io totalmente turbarollo ancora. Io non intendo il mio scudo lasciarte, se contra me non lo combatti or ora. - - Se l'uno e l'altro di voi fosse Marte (rispose Mandricardo irato allora), non saria l'un né l'altro atto a vietarme la buona spada o quelle nobili arme. - 63 E tratto da la còlera, aventosse col pugno chiuso al re di Sericana; e la man destra in modo gli percosse, ch'abandonar gli fece Durindana. Gradasso, non credendo ch'egli fosse di così folle audacia e così insana, colto improviso fu, che stava a bada, e tolta si trovò la buona spada. 64 Così scornato, di vergogna e d'ira nel viso avampa, e par che getti fuoco; e più l'affligge il caso e lo martira, poi che gli accade in sì palese loco. Bramoso di vendetta si ritira, a trar la scimitarra, a dietro un poco. Mandricardo in sé tanto si confida, che Ruggiero anco alla battaglia sfida. 65 - Venite pure inanzi amenduo insieme, e vengane pel terzo Rodomonte, Africa e Spagna e tutto l'uman seme; ch'io son per sempremai volger la fronte. - Così dicendo, quel che nulla teme, mena d'intorno la spada d'Almonte; lo scudo imbraccia, disdegnoso e fiero, contra Gradasso e contra il buon Ruggiero. 66 - Lascia la cura a me (dicea Gradasso), ch'io guarisca costui de la pazzia. - - Per Dio (dicea Ruggier), non te la lasso, ch'esser convien questa battaglia mia. - - Va indietro tu! - Vavvi pur tu! - né passo però tornando, gridan tuttavia; et attaccossi la battaglia in terzo, et era per uscirne un strano scherzo, 67 se molti non si fossero interposti a quel furor, non con troppo consiglio; ch'a spese lor quasi imparâr che costi voler altri salvar con suo periglio. Né tutto 'l mondo mai gli avria composti, se non venìa col re d'Ispagna il figlio del famoso Troiano, al cui cospetto tutti ebbon riverenzia e gran rispetto. 68 Si fe' Agramante la cagione esporre di questa nuova lite così ardente: poi molto affaticossi per disporre che per quella giornata solamente a Mandricardo la spada d'Ettorre concedesse Gradasso umanamente, tanto ch'avesse fin l'aspra contesa ch'avea già incontra a Rodomonte presa. 69 Mentre studia placarli il re Agramante, et or con questo et or con quel ragiona; da l'altro padiglion tra Sacripante e Rodomonte un'altra lite suona. Il re circasso (come è detto inante) stava di Rodomonte alla persona, et egli e Ferraù gli aveano indotte l'arme del suo progenitor Nembrotte. 70 Et eran poi venuti ove il destriero facea, mordendo, il ricco fren spumoso; io dico il buon Frontin, per cui Ruggiero stava iracondo e più che mai sdegnoso. Sacripante ch'a por tal cavalliero in campo avea, mirava curïoso se ben ferrato e ben guernito e in punto era il destrier, come doveasi a punto. 71 E venendo a guardargli più a minuto i segni, le fattezze isnelle et atte, ebbe, fuor d'ogni dubbio, conosciuto che questo era il destrier suo Frontalatte, che tanto caro già s'avea tenuto, per cui già avea mille querele fatte; e poi che gli fu tolto, un tempo vòlse sempre ire a piedi: in modo gliene dolse. 72 Inanzi Albracca glie l'avea Brunello tolto di sotto quel medesmo giorno ch'ad Angelica ancor tolse l'annello, al conte Orlando Balisarda e 'l corno, e la spada a Marfisa: et avea quello, dopo che fece in Africa ritorno, con Balisarda insieme a Ruggier dato, il qual l'avea Frontin poi nominato. 73 Quando conobbe non si apporre in fallo, disse il Circasso, al re d'Algier rivolto: - Sappi, signor, che questo è mio cavallo, ch'ad Albracca di furto mi fu tolto. Bene avrei testimoni da provallo; ma perché son da noi lontani molto, s'alcun lo niega, io gli vo' sostenere con l'arme in man le mie parole vere. 74 Ben son contento, per la compagnia in questi pochi dì stata fra noi, che prestato il cavallo oggi ti sia, ch'io veggo ben che senza far non puoi; però con patto, se per cosa mia e prestata da me conoscer vuoi: altrimente d'averlo non far stima, o se non lo combatti meco prima. - 75 Rodomonte, del quale un più orgoglioso non ebbe mai tutto il mestier de l'arme; al quale in esser forte e coraggioso alcuno antico d'uguagliar non parme; rispose: - Sacripante, ogn'altro ch'oso, fuor che tu, fosse in tal modo a parlarme, con suo mal si saria tosto avveduto che meglio era per lui di nascer muto. 76 Ma per la compagnia che, come hai detto, novellamente insieme abbiamo presa, ti son contento aver tanto rispetto, ch'io t'ammonisca a tardar questa impresa, fin che de la battaglia veggi effetto, che fra il Tartaro e me tosto fia accesa: dove pórti uno esempio inanzi spero, ch'avrai di grazia a dirmi: Abbi il destriero. - 77 - Gli è teco cortesia l'esser villano (disse il Circasso pien d'ira e di isdegno); ma più chiaro ti dico ora e più piano, che tu non faccia in quel destrier disegno: che te lo defendo io, tanto ch'in mano questa vindice mia spada sostegno; e metteròvi insino l'ugna e il dente, se non potrò difenderlo altrimente. - 78 Venner da le parole alle contese, ai gridi, alle minacce, alla battaglia, che per molt'ira in più fretta s'accese, che s'accendesse mai per fuoco paglia. Rodomonte ha l'osbergo et ogni arnese, Sacripante non ha piastra né maglia; ma par (sì ben con lo schermir s'adopra) che tutto con la spada si ricuopra. 79 Non era la possanza e la fierezza di Rodomonte, ancor ch'era infinita, più che la providenza e la destrezza con che sue forze Sacripante aita. Non voltò ruota mai con più prestezza il macigno sovran che 'l grano trita, che faccia Sacripante or mano or piede di qua di là, dove il bisogno vede. 80 Ma Ferraù, ma Serpentino arditi trasson le spade, e si cacciâr tra loro, dal re Grandonio, da Isolier seguiti, da molt'altri signor del popul Moro. Questi erano i romori, i quali uditi ne l'altro padiglion fur da costoro, quivi per accordar venuti invano col Tartaro, Ruggiero e 'l Sericano. 81 Venne chi la novella al re Agramante riportò certa, come pel destriero avea con Rodomonte Sacripante incominciato un aspro assalto e fiero. Il re, confuso di discordie tante, disse a Marsilio: - Abbi tu qui pensiero che fra questi guerrier non segua peggio, mentre all'altro disordine io proveggio. - 82 Rodomonte, che 'l re, suo signor, mira, frena l'orgoglio, e torna indietro il passo; né con minor rispetto si ritira al venir d'Agramante il re circasso. Quel domanda la causa di tant'ira con real viso e parlar grave e basso: e cerca, poi che n'ha compreso il tutto, porli d'accordo; e non vi fa alcun frutto. 83 Il re circasso il suo destrier non vuole ch'al re d'Algier più lungamente resti, se non s'umilia tanto di parole, che lo venga a pregar che glie lo presti. Rodomonte, superbo come suole, gli risponde: - Né 'l ciel, né tu faresti che cosa che per forza aver potessi, da altri, che da me, mai conoscessi. - 84 Il re chiede al Circasso, che ragione ha nel cavallo, e come gli fu tolto: e quel di parte in parte il tutto espone, et esponendo s'arrossisce in volto, quando gli narra che 'l sottil ladrone, ch'in un alto pensier l'aveva colto, la sella su quattro aste gli suffolse, e di sotto il destrier nudo gli tolse. 85 Marfisa che tra gli altri al grido venne, tosto che 'l furto del cavallo udì, in viso si turbò, che le sovenne che perdé la sua spada ella quel dì: e quel destrier che parve aver le penne da lei fuggendo, riconobbe qui: riconobbe anco il buon re Sacripante, che non avea riconosciuto inante. 86 Gli altri ch'erano intorno, e che vantarsi Brunel di questo aveano udito spesso, verso lui cominciaro a rivoltarsi, e far palesi cenni ch'era desso; Marfisa sospettando, ad informarsi da questo e da quell'altro ch'avea appresso, tanto che venne a ritrovar che quello che le tolse la spada era Brunello: 87 e seppe che pel furto onde era degno che gli annodasse il collo un capestro unto, dal re Agramante al tingitano regno fu, con esempio inusitato, assunto. Marfisa, rinfrescando il vecchio sdegno, disegnò vendicarsene a quel punto, e punir scherni e scorni che per strada fatti l'avea sopra la tolta spada. 88 Dal suo scudier l'elmo allacciar si fece; che del resto de l'arme era guernita. Senza osbergo io non trovo che mai diece volte fosse veduta alla sua vita, dal giorno ch'a portarlo assuefece la sua persona, oltre ogni fede ardita. Con l'elmo in capo andò dove fra i primi Brunel sedea negli argini sublimi. 89 Gli diede a prima giunta ella di piglio in mezzo il petto, e da terra levollo, come levar suol col falcato artiglio talvolta la rapace aquila il pollo; e là dove la lite inanzi al figlio era del re Troian, così portollo. Brunel, che giunto in male man si vede, pianger non cessa e domandar mercede. 90 Sopra tutti i rumor, strepiti e gridi, di che 'l campo era pien quasi ugualmente, Brunel, ch'ora pietade ora sussidi domandando venìa, così si sente, ch'al suono de' ramarichi e de' stridi si fa d'intorno accor tutta la gente. Giunta inanzi al re d'Africa, Marfisa con viso altier gli dice in questa guisa: 91 - Io voglio questo ladro tuo vasallo con le mie mani impender per la gola, perché il giorno medesmo che 'l cavallo a costui tolle, a me la spada invola. Ma se gli è alcun che voglia dir ch'io fallo, facciasi inanzi e dica una parola; ch'in tua presenzia gli vo' sostenere che se ne mente, e ch'io fo il mio dovere. 92 Ma perché si potria forse imputarme c'ho atteso a farlo in mezzo a tante liti, mentre che questi più famosi in arme d'altre querele son tutti impediti; tre giorni ad impiccarlo io vo' indugiarme: intanto o vieni, o manda chi l'aiti; che dopo, se non fia chi me lo vieti, farò di lui mille uccellacci lieti. 93 Di qui presso a tre leghe a quella torre che siede inanzi ad un piccol boschetto, senza più compagnia mi vado a porre, che d'una mia donzella e d'un valletto. S'alcuno ardisce di venirmi a tôrre questo ladron, là venga, ch'io l'aspetto. - Così disse ella; e dove disse, prese tosto la via, né più risposta attese. 94 Sul collo inanzi del destrier si pone Brunel, che tuttavia tien per le chiome. Piange il misero e grida, e le persone, in che sperar solia, chiama per nome. Resta Agramante in tal confusïone di questi intrichi, che non vede come poterli sciorre; e gli par via più greve che Marfisa Brunel così gli leve. 95 Non che l'apprezzi o che gli porti amore, anzi più giorni son che l'odia molto; e spesso ha d'impiccarlo avuto in core, dopo che gli era stato l'annel tolto. Ma questo atto gli par contra il suo onore, sì che n'avampa di vergogna in volto. Vuole in persona egli seguirla in fretta, e a tutto suo poter farne vendetta. 96 Ma il re Sobrino, il quale era presente, da questa impresa molto il dissuade, dicendogli che mal convenïente era all'altezza di sua maestade, se ben avesse d'esserne vincente ferma speranza e certa sicurtade: più ch'onor, gli fia biasmo, che si dica ch'abbia vinta una femina a fatica. 97 Poco l'onore, e molto era il periglio d'ogni battaglia che con lei pigliasse; e che gli dava per miglior consiglio, che Brunello alle forche aver lasciasse; e se credesse ch'uno alzar di ciglio a torlo dal capestro gli bastasse, non dovea alzarlo, per non contradire che s'abbia la giustizia ad esequire. 98 - Potrai mandare un che Marfisa prieghi (dicea) ch'in questo giudice ti faccia, con promission ch'al ladroncel si leghi il laccio al collo, e a lei si sodisfaccia; e quando anco ostinata te lo nieghi, se l'abbia, e il suo desir tutto compiaccia: pur che da tua amicizia non si spicchi, Brunello e gli altri ladri tutti impicchi. - 99 Il re Agramante volentier s'attenne al parer di Sobrin discreto e saggio: e Marfisa lasciò, che non le venne, né patì ch'altri andasse a farle oltraggio, né di farla pregare anco sostenne: e tolerò, Dio sa con che coraggio, per poter acchetar liti maggiori, e del suo campo tor tanti romori. 100 Di ciò si ride la Discordia pazza, che pace o triegua ormai più teme poco. Scorre di qua e di là tutta la piazza, né può trovar per allegrezza loco. La Superbia con lei salta e gavazza, e legne et esca va aggiungendo al fuoco: e grida sì, che fin ne l'alto regno manda a Michel de la vittoria segno. 101 Tremò Parigi e turbidossi Senna all'alta voce, a quello orribil grido; rimbombò il suon fin alla selva Ardenna sì che lasciâr tutte le fiere il nido. Udiron l'Alpi e il monte di Gebenna, di Blaia e d'Arli e di Roano il lido; Rodano e Sonna udì, Garonna e il Reno: si strinsero le madri i figli al seno. 102 Son cinque cavallier c'han fisso il chiodo d'essere i primi a terminar sua lite, l'una ne l'altra aviluppata in modo, che non l'avrebbe Apolline espedite. Commincia il re Agramante a sciorre il nodo de le prime tenzon ch'aveva udite, che per la figlia del re Stordilano eran tra il re di Scizia e il suo Africano. 103 Il re Agramante andò per porre accordo di qua e di là più volte a questo e a quello, e a questo e a quel più volte diè ricordo da signor giusto e da fedel fratello: e quando parimente trova sordo l'un come l'altro, indomito e rubello di volere esser quel che resti senza la donna da cui vien lor differenza; 104 s'appiglia al fin, come a miglior partito, di che amendui si contentâr gli amanti, che de la bella donna sia marito l'uno de' duo, quel che vuole essa inanti; e da quanto per lei sia stabilito, più non si possa andar dietro né avanti. All'uno e all'altro piace il compromesso, sperando ch'esser debbia a favor d'esso. 105 Il re di Sarza, che gran tempo prima di Mandricardo amava Doralice, et ella l'avea posto in su la cima d'ogni favor ch'a donna casta lice; che debba in util suo venire estima la gran sentenzia che 'l può far felice: né egli avea questa credenza solo, ma con lui tutto il barbaresco stuolo. 106 Ognun sapea ciò ch'egli avea già fatto per essa in giostre, in torniamenti, in guerra; e che stia Mandricardo a questo patto, dicono tutti che vaneggia et erra. Ma quel che più fïate e più di piatto con lei fu mentre il sol stava sotterra, e sapea quanto avea di certo in mano, ridea del popular giudicio vano. 107 Poi lor convenzïon ratificaro in man del re quei duo prochi famosi, et indi alla donzella se n'andaro. Et ella abbassò gli occhi vergognosi, e disse che più il Tartaro avea caro: di che tutti restâr maravigliosi; Rodomonte sì attonito e smarrito, che di levar non era il viso ardito. 108 Ma poi che l'usata ira cacciò quella vergogna che gli avea la faccia tinta, ingiusta e falsa la sentenzia appella; e la spada impugnando, ch'egli ha cinta, dice, udendo il re e gli altri, che vuol ch'ella gli dia perduta questa causa o vinta, e non l'arbitrio di femina lieve che sempre inchina a quel che men far deve. 109 Di nuovo Mandricardo era risorto, dicendo: - Vada pur come ti pare: - sì che prima che 'l legno entrasse in porto, v'era a solcare un gran spazio di mare: se non che 'l re Agramante diede torto a Rodomonte, che non può chiamare più Mandricardo per quella querela; e fe' cadere a quel furor la vela. 110 Or Rodomonte che notar si vede dinanzi a quei signor di doppio scorno, dal suo re, a cui per riverenza cede, e da la donna sua, tutto in un giorno, quivi non vòlse più fermare il piede; e de la molta turba ch'avea intorno seco non tolse più che duo sergenti, et uscì dei moreschi alloggiamenti. 111 Come, partendo, afflitto tauro suole, che la giuvenca al vincitor cesso abbia, cercar le selve e le rive più sole lungi dai paschi, o qualche àrrida sabbia; dove muggir non cessa all'ombra e al sole, né però scema l'amorosa rabbia: così sen va di gran dolor confuso il re d'Algier da la sua donna escluso. 112 Per rïavere il buon destrier si mosse Ruggier, che già per questo s'era armato; ma poi di Mandricardo ricordosse, a cui de la battaglia era ubligato: non seguì Rodomonte, e ritornosse per entrar col re tartaro in steccato prima che 'ntrasse il re di Sericana, che l'altra lite avea di Durindana. 113 Veder tôrsi Frontin troppo gli pesa dinanzi agli occhi, e non poter vietarlo; ma dato ch'abbia fine a questa impresa, ha ferma intenzïon di ricovrarlo. Ma Sacripante, che non ha contesa, come Ruggier, che possa distornarlo, e che non ha da far altro che questo, per l'orme vien di Rodomonte presto. 114 E tosto l'avria giunto, se non era un caso strano che trovò tra via, che lo fe' dimorar fin alla sera, e perder le vestigie che seguia. Trovò una donna che ne la riviera di Senna era caduta, e vi peria, s'a darle tosto aiuto non veniva: saltò ne l'acqua e la ritrasse a riva. 115 Poi quando in sella vòlse risalire, aspettato non fu dal suo destriero, che fin a sera si fece seguire, e non si lasciò prender di leggiero: preselo al fin, ma non seppe venire più, donde s'era tolto dal sentiero: ducento miglia errò tra piano e monte, prima che ritrovasse Rodomonte. 116 Dove trovollo, e come fu conteso con disvantaggio assai di Sacripante, come perdé il cavallo e restò preso, or non dirò; c'ho da narrarvi inante di quanto sdegno e di quanta ira acceso contra la donna e contra il re Agramante del campo Rodomonte si partisse, e ciò che contra all'uno e all'altro disse. 117 Di cocenti sospir l'aria accendea dovunque andava il Saracin dolente: Ecco, per la pietà che gli n'avea, da' cavi sassi rispondea sovente. - Oh feminile ingegno (egli dicea), come ti volgi e muti facilmente, contrario oggetto proprio de la fede! Oh infelice, oh miser chi ti crede! 118 Né lunga servitù, né grand'amore che ti fu a mille prove manifesto, ebbono forza di tenerti il core, che non fossi a cangiarsi almen sì presto. Non perch'a Mandricardo inferïore io ti paressi, di te privo resto; né so trovar cagione ai casi miei, se non quest'una, che femina sei. 119 Credo che t'abbia la Natura e Dio produtto, o scelerato sesso, al mondo per una soma, per un grave fio de l'uom, che senza te saria giocondo: come ha produtto anco il serpente rio e il lupo e l'orso, e fa l'aer fecondo e di mosche e di vespe e di tafani, e loglio e avena fa nascer tra i grani. 120 Perché fatto non ha l'alma Natura, che senza te potesse nascer l'uomo, come s'inesta per umana cura l'un sopra l'altro il pero, il sorbo e 'l pomo? Ma quella non può far sempre a misura: anzi, s'io vo' guardar come io la nomo, veggo che non può far cosa perfetta, poi che Natura femina vien detta. 121 Non siate però tumide e fastose, donne, per dir che l'uom sia vostro figlio; che de le spine ancor nascon le rose, e d'una fetida erba nasce il giglio: importune, superbe, dispettose, prive d'amor, di fede e di consiglio, temerarie, crudeli, inique, ingrate, per pestilenzia eterna al mondo nate. - 122 Con queste et altre er infinite appresso querele il re di Sarza se ne giva, or ragionando in un parlar sommesso, quando in un suon che di lontan s'udiva, in onta e in biasmo del femineo sesso: e certo da ragion si dipartiva; che per una o per due che trovi ree, che cento buone sien creder si dee. 123 Se ben di quante io n'abbia fin qui amate, non n'abbia mai trovata una fedele, perfide tutte io non vo' dir né ingrate, ma darne colpa al mio destin crudele. Molte or ne sono, e più già ne son state, che non dan causa ad uom che si querele; ma mia fortuna vuol che s'una ria ne sia tra cento, io di lei preda sia. 124 Pur vo' tanto cercar prima ch'io mora, anzi prima che 'l crin più mi s'imbianchi, che forse dirò un dì, che per me ancora alcuna sia che di sua fé non manchi. Se questo avvien (che di speranza fuora io non ne son), non fia mai ch'io mi stanchi di farla, a mia possanza, glorïosa con lingua e con inchiostro, e in verso e in prosa. 125 Il Saracin non avea manco sdegno contra il suo re, che contra la donzella; e così di ragion passava il segno, biasmando lui, come biasmando quella. Ha disio di veder che sopra il regno gli cada tanto mal, tanta procella, ch'in Africa ogni casa si funesti, né pietra salda sopra pietra resti; 126 e che spinto del regno, in duolo e in lutto viva Agramante misero e mendico: e ch'esso sia che poi gli renda il tutto, e lo riponga nel suo seggio antico, e de la fede sua produca il frutto; e gli faccia veder ch'un vero amico a dritto e a torto esser dovea preposto, se tutto 'l mondo se gli fosse opposto. 127 E così quando al re, quando alla donna volgendo il cor turbato, il Saracino cavalca a gran giornate, e non assonna, e poco riposar lascia Frontino. Il dì seguente o l'altro in su la Sonna si ritrovò, ch'avea dritto il camino verso il mar di Provenza, con disegno di navigare in Africa al suo regno. 128 Di barche e di sottil legni era tutto fra l'una ripa e l'altra il fiume pieno, ch'ad uso de l'esercito condutto da molti lochi vettovaglie avieno; perché in poter de' Mori era ridutto, venendo da Parigi al lito ameno d'Acquamorta, e voltando invêr la Spagna, ciò che v'è da man destra di campagna. 129 Le vettovaglie in carra et in iumenti, tolte fuor de le navi, erano carche, e tratte con la scorta de le genti, ove venir non si potea con barche. Avean piene le ripe i grassi armenti quivi condotti da diverse marche; e i conduttori intorno alla riviera per varii tetti albergo avean la sera. 130 Il re d'Algier, perché gli sopravenne quivi la notte e l'aer nero e cieco, d'un ostier paesan lo 'nvito tenne, che lo pregò che rimanesse seco. Adagiato il destrier, la mensa venne di varii cibi e di vin corso e greco; che 'l Saracin nel resto alla moresca ma vòlse far nel bere alla francesca. 131 L'oste con buona mensa e miglior viso studiò di fare a Rodomonte onore; che la presenzia gli diè certo aviso ch'era uomo illustre e pien d'alto valore: ma quel che da se stesso era diviso, né quella sera avea ben seco il core (che mal suo grado s'era ricondotto alla donna già sua), non facea motto. 132 Il buon ostier, che fu dei diligenti che mai si sien per Francia ricordati, quando tra le nimiche e strane genti l'albergo e' beni suoi s'avea salvati, per servir, quivi, alcuni suoi parenti, a tal servigio pronti, avea chiamati; de' quai non era alcun di parlar oso, vedendo il Saracin muto e pensoso. 133 Di pensiero in pensiero andò vagando da se stesso lontano il pagan molto, col viso a terra chino, né levando sì gli occhi mai, ch'alcun guardasse in volto. Dopo un lungo star cheto, suspirando, sì come d'un gran sonno allora sciolto, tutto si scosse, e insieme alzò le ciglia, e voltò gli occhi all'oste e alla famiglia. 134 Indi roppe il silenzio, e con sembianti più dolci un poco e viso men turbato, domandò all'oste e agli altri circonstanti se d'essi alcuno avea mogliere a lato. Che l'oste e che quegli altri tutti quanti l'aveano, per risposta gli fu dato. Domanda lor quel che ciascun si crede de la sua donna nel servargli fede. 135 Eccetto l'oste, fêr tutti risposta, che si credeano averle e caste e buone. Disse l'oste: - Ognun pur creda a sua posta; ch'io so ch'avete falsa opinïone. Il vostro sciocco credere vi costa ch'io stimi ognun di voi senza ragione; e così far questo signor deve anco, se non vi vuol mostrar nero per bianco. 136 Perché, sì come è sola la fenice, né mai più d'una in tutto il mondo vive, così né mai più d'uno esser si dice, che de la moglie i tradimenti schive. Ognun si crede d'esser quel felice, d'esser quel sol ch'a questa palma arrive. Come è possibil che v'arrivi ognuno, se non ne può nel mondo esser più d'uno? 137 Io fui già ne l'error che siete voi, che donna casta anco più d'una fusse. Un gentilomo di Vinegia poi, che qui mia buona sorte già condusse, seppe far sì con veri esempi suoi, che fuor de l'ignoranza mi ridusse. Gian Francesco Valerio era nomato; che 'l nome suo non mi s'è mai scordato. 138 Le fraudi che le mogli e che l'amiche sogliano usar, sapea tutte per conto: e sopra ciò moderne istorie e antiche, e proprie esperïenze avea sì in pronto, che mi mostrò che mai donne pudiche non si trovaro, o povere o di conto; e s'una casta più de l'altra parse, venìa, perché più accorta era a celarse. 139 E fra l'altre (che tante me ne disse, che non ne posso il terzo ricordarmi), sì nel capo una istoria mi si scrisse, che non si scrisse mai più saldo in marmi: e ben parria a ciascuno che l'udisse, di queste rie quel ch'a me parve e parmi. E se, signor, a voi non spiace udire, a lor confusïon ve la vo' dire. - 140 Rispose il Saracin: - Che puoi tu farmi, che più al presente mi diletti e piaccia, che dirmi istoria e qualche esempio darmi che con l'opinïon mia si confaccia? Perch'io possa udir meglio, e tu narrarmi, siedemi incontra, ch'io ti vegga in faccia. - Ma nel canto che segue io v'ho da dire quel che fe' l'oste a Rodomonte udire.
1 Donne, e voi che le donne avete in pregio, per Dio, non date a questa istoria orecchia, a questa che l'ostier dire in dispregio e in vostra infamia e biasmo s'apparecchia; ben che né macchia vi può dar né fregio lingua sì vile, e sia l'usanza vecchia che 'l volgare ignorante ognun riprenda, e parli più di quel che meno intenda. 2 Lasciate questo canto, che senza esso può star l'istoria, e non sarà men chiara. Mettendolo Turpino, anch'io l'ho messo, non per malivolenzia né per gara. Ch'io v'ami, oltre mia lingua che l'ha espresso, che mai non fu di celebrarvi avara, n'ho fatto mille prove; e v'ho dimostro ch'io son, né potrei esser se non vostro. 3 Passi, chi vuol, tre carte o quattro, senza leggerne verso, e chi pur legger vuole, gli dia quella medesima credenza che si suol dare a finzïoni e a fole. Ma tornando al dir nostro, poi ch'udienza apparecchiata vide a sue parole, e darsi luogo incontra al cavalliero, così l'istoria incominciò l'ostiero. 4 - Astolfo, re de' Longobardi, quello a cui lasciò il fratel monaco il regno, fu ne la giovinezza sua sì bello, che mai poch'altri giunsero a quel segno. N'avria a fatica un tal fatto a penello Apelle, o Zeusi, o se v'è alcun più degno. Bello era, et a ciascun così parea: ma di molto egli ancor più si tenea. 5 Non stimava egli tanto per l'altezza del grado suo, d'avere ognun minore; né tanto, che di genti e di ricchezza, di tutti i re vicini era il maggiore; quanto che di presenzia e di bellezza avea per tutto 'l mondo il primo onore. Godea di questo, udendosi dar loda, quanto di cosa volentier più s'oda. 6 Tra gli altri di sua corte avea assai grato Fausto Latini, un cavallier romano: con cui sovente essendosi lodato or del bel viso or de la bella mano, et avendolo un giorno domandato se mai veduto avea, presso o lontano, altro uom di forma così ben composto; contra quel che credea, gli fu risposto. 7 « Dico (rispose Fausto) che secondo ch'io veggo e che parlarne odo a ciascuno, ne la bellezza hai pochi pari al mondo; e questi pochi io li restringo in uno. Quest'uno è un fratel mio, detto Iocondo. Eccetto lui, ben crederò ch'ognuno di beltà molto a dietro tu ti lassi; ma questo sol credo t'adegui e passi ». 8 Al re parve impossibil cosa udire, che sua la palma infin allora tenne; e d'aver conoscenza alto desire di sì lodato giovene gli venne. Fe' sì con Fausto, che di far venire quivi il fratel prometter gli convenne; ben ch'a poterlo indur che ci venisse, saria fatica, e la cagion gli disse: 9 che 'l suo fratello era uom che mosso il piede mai non avea di Roma alla sua vita, che del ben che Fortuna gli concede, tranquilla e senza affanni avea notrita: la roba di che 'l padre il lasciò erede, né mai cresciuta avea né minuita; e che parrebbe a lui Pavia lontana più che non parria a un altro ire alla Tana. 10 E la difficultà saria maggiore a poterlo spiccar da la mogliere, con cui legato era di tanto amore, che non volendo lei, non può volere. Pur per ubbidir lui che gli è signore, disse d'andare e fare oltre il potere. Giunse il re a' prieghi tali offerte e doni, che di negar non gli lasciò ragioni. 11 Partisse, e in pochi giorni ritrovosse dentro di Roma alle paterne case. Quivi tanto pregò, che 'l fratel mosse sì ch'a venire al re gli persuase; e fece ancor (ben che difficil fosse) che la cognata tacita rimase, proponendole il ben che n'usciria, oltre ch'obligo sempre egli l'avria. 12 Fisse Iocondo alla partita il giorno: trovò cavalli e servitori intanto, vesti fe' far per comparire adorno; che talor cresce una beltà un bel manto. La notte a lato, e 'l dì la moglie intorno, con gli occhi ad or ad or pregni di pianto, gli dice che non sa come patire potrà tal lontananza e non morire; 13 che pensandovi sol, da la radice sveller si sente il cor nel lato manco. « Deh, vita mia, non piagnere (le dice Iocondo, e seco piagne egli non manco); così mi sia questo camin felice, come tornar vo' fra duo mesi almanco: né mi faria passar d'un giorno il segno, se mi donasse il re mezzo il suo regno ». 14 Né la donna perciò si riconforta: dice che troppo termine si piglia; e s'al ritorno non la trova morta, esser non può se non gran maraviglia. Non lascia il duol che giorni e notte porta, che gustar cibo, e chiuder possa ciglia; tal che per la pietà Iocondo spesso si pente ch'al fratello abbia promesso. 15 Dal collo un suo monile ella si sciolse, ch'una crocetta avea ricca di gemme, e di sante reliquie che raccolse in molti luoghi un peregrin boemme; et il padre di lei, ch'in casa il tolse tornando infermo, di Ierusalemme, venendo a morte poi ne lasciò erede: questa levossi et al marito diede. 16 E che la porti per suo amore al collo lo prega, sì che ognor gli ne sovenga. Piacque il dono al marito, et accettollo; non perché dar ricordo gli convenga: che né tempo né absenzia mai dar crollo, né buona o ria fortuna che gli avenga, potrà a quella memoria salda e forte c'ha di lei sempre, e avrà dopo la morte. 17 La notte ch'andò inanzi a quella aurora che fu il termine estremo alla partenza, al suo Iocondo par ch'in braccio muora la moglie, che n'ha tosto da star senza. Mai non si dorme; e inanzi al giorno un'ora viene il marito all'ultima licenza. Montò a cavallo, e si partì in effetto; e la moglier si ricorcò nel letto. 18 Iocondo ancor duo miglia ito non era, che gli venne la croce raccordata, ch'avea sotto il guancial messo la sera, poi per oblivïon l'avea lasciata. « Lasso! (dicea tra sé) di che maniera troverò scusa che mi sia accettata, che mia moglie non creda che gradito poco da me sia l'amor suo infinito? » 19 Pensa la scusa, e poi gli cade in mente che non sarà accettabile né buona, mandi famigli, mandivi altra gente, s'egli medesmo non vi va in persona. Si ferma, e al fratel dice: « Or pianamente fin a Baccano al primo albergo sprona; che dentro a Roma è forza ch'io rivada: e credo anco di giugnerti per strada. 20 Non potria fare altri il bisogno mio: né dubitar, ch'io sarò tosto teco ». Voltò il ronzin di trotto, e disse a Dio; né de' famigli suoi vòlse alcun seco. Già cominciava, quando passò il rio, dinanzi al sole a fuggir l'aer cieco. Smonta in casa, va al letto, e la consorte quivi ritrova addormentata forte. 21 La cortina levò senza far motto, e vide quel che men veder credea: che la sua casta e fedel moglie, sotto la coltre, in braccio a un giovene giacea. Riconobbe l'adultero di botto, per la pratica lunga che n'avea; ch'era de la famiglia sua un garzone, allevato da lui, d'umil nazione. 22 S'attonito restasse e malcontento, meglio è pensarlo e farne fede altrui, ch'esserne mai per far l'esperimento che con suo gran dolor ne fe' costui. Da lo sdegno assalito, ebbe talento di trar la spada e uccidergli ambedui: ma da l'amor che porta, al suo dispetto, all'ingrata moglier, gli fu interdetto. 23 Né lo lasciò questo ribaldo Amore (vedi se sì l'avea fatto vasallo) destarla pur, per non le dar dolore che fosse da lui colta in sì gran fallo. Quanto poté più tacito uscì fuore, scese le scale, e rimontò a cavallo; e punto egli d'amor, così lo punse, ch'all'albergo non fu, che 'l fratel giunse. 24 Cambiato a tutti parve esser nel volto; vider tutti che 'l cor non avea lieto: ma non v'è chi s'apponga già di molto, e possa penetrar nel suo secreto. Credeano che da lor si fosse tolto per gire a Roma, e gito era a Corneto. Ch'amor sia del mal causa ognun s'avisa; ma non è già chi dir sappia in che guisa. 25 Estimasi il fratel, che dolor abbia d'aver la moglie sua sola lasciata; e pel contrario duolsi egli et arrabbia che rimasa era troppo accompagnata. Con fronte crespa e con gonfiate labbia sta l'infelice, e sol la terra guata. Fausto ch'a confortarlo usa ogni prova, perché non sa la causa, poca giova. 26 Di contrario liquor la piaga gli unge, e dove tor dovria, gli accresce doglie; dove dovria saldar, più l'apre e punge: questo gli fa col ricordar la moglie. Né posa dì né notte: il sonno lunge fugge col gusto, e mai non si raccoglie: e la faccia, che dianzi era sì bella, si cangia sì, che più non sembra quella. 27 Par che gli occhi se ascondin ne la testa; cresciuto il naso par nel viso scarno: de la beltà sì poca gli ne resta, che ne potrà far paragone indarno. Col duol venne una febbre sì molesta, che lo fe' soggiornar all'Arbia e all'Arno: e se di bello avea serbata cosa, tosto restò come al sol colta rosa. 28 Oltre ch'a Fausto incresca del fratello che veggia a simil termine condutto, via più gl'incresce che bugiardo a quello principe, a chi lodollo, parrà in tutto: mostrar di tutti gli uomini il più bello gli avea promesso, e mostrerà il più brutto. Ma pur continuando la sua via, seco lo trasse al fin dentro a Pavia. 29 Già non vuol che lo vegga il re improviso, per non mostrarsi di giudicio privo: ma per lettere inanzi gli dà aviso che 'l suo fratel ne viene a pena vivo; e ch'era stato all'aria del bel viso un affanno di cor tanto nocivo, accompagnato da una febbre ria, che più non parea quel ch'esser solia. 30 Grata ebbe la venuta di Iocondo quanto potesse il re d'amico avere; che non avea desiderato al mondo cosa altretanto, che di lui vedere. Né gli spiace vederselo secondo, e di bellezza dietro rimanere; ben che conosca, se non fosse il male, che gli saria superïore o uguale. 31 Giunto, lo fa alloggiar nel suo palagio, lo visita ogni giorno, ogni ora n'ode; fa gran provisïon che stia con agio, e d'onorarlo assai si studia e gode. Langue Iocondo, che 'l pensier malvagio c'ha de la ria moglier, sempre lo rode: né 'l veder giochi, né musici udire, dramma del suo dolor può minuire. 32 Le stanze sue, che sono appresso al tetto l'ultime, inanzi hanno una sala antica. Quivi solingo (perché ogni diletto, perch'ogni compagnia prova nimica) si ritraea, sempre aggiungendo al petto di più gravi pensier nuova fatica: e trovò quivi (or chi lo crederia?) chi lo sanò de la sua piaga ria. 33 In capo de la sala, ove è più scuro (che non vi s'usa le finestre aprire,) vede che 'l palco mal si giunge al muro, e fa d'aria più chiara un raggio uscire. Pon l'occhio quindi, e vede quel che duro a creder fôra a chi l'udisse dire: non l'ode egli d'altrui, ma se lo vede; et anco agli occhi suoi proprii non crede. 34 Quindi scopria de la regina tutta la più secreta stanza e la più bella, ove persona non verria introdutta, se per molto fedel non l'avesse ella. Quindi mirando vide in strana lutta ch'un nano aviticchiato era con quella: et era quel piccin stato sì dotto, che la regina avea messa di sotto. 35 Attonito Iocondo e stupefatto, e credendo sognarsi, un pezzo stette; e quando vide pur che gli era in fatto e non in sogno, a se stesso credette. « A uno sgrignuto mostro e contrafatto dunque (disse) costei si sottomette, che 'l maggior re del mondo ha per marito, più bello e più cortese? oh che appetito! » 36 E de la moglie sua, che così spesso più d'ogn'altra biasmava, ricordosse, perché 'l ragazzo s'avea tolto appresso: et or gli parve che escusabil fosse. Non era colpa sua più che del sesso, che d'un solo uomo mai non contentosse: e s'han tutte una macchia d'uno inchiostro, almen la sua non s'avea tolto un mostro. 37 Il dì seguente, alla medesima ora, al medesimo loco fa ritorno; e la regina e il nano vede ancora, che fanno al re pur il medesmo scorno. Trova l'altro dì ancor che si lavora, e l'altro; e al fin non si fa festa giorno: e la regina (che gli par più strano) sempre si duol che poco l'ami il nano. 38 Stette fra gli altri un giorno a veder, ch'ella era turbata e in gran malenconia, che due volte chiamar per la donzella il nano fatto avea, n'ancor venìa. Mandò la terza volta, et udì quella, che: « Madonna, egli giuoca (riferia); e per non stare in perdita d'un soldo, a voi niega venire il manigoldo ». 39 A sì strano spettacolo Iocondo raserena la fronte e gli occhi e il viso; e quale in nome, diventò giocondo d'effetto ancora, e tornò il pianto in riso. Allegro torna e grasso e rubicondo, che sembra un cherubin del paradiso; che 'l re, il fratello e tutta la famiglia di tal mutazïon si maraviglia. 40 Se da Iocondo il re bramava udire onde venisse il subito conforto, non men Iocondo lo bramava dire, e fare il re di tanta ingiuria accorto; ma non vorria che, più di sé, punire volesse il re la moglie di quel torto; sì che per dirlo e non far danno a lei, il re fece giurar su l'agnusdei. 41 Giurar lo fe' che né per cosa detta, né che gli sia mostrata che gli spiaccia, ancor ch'egli conosca che direttamente a sua Maestà danno si faccia, tardi o per tempo mai farà vendetta; e di più vuole ancor che se ne taccia, sì che né il malfattor giamai comprenda in fatto o in detto, che 'l re il caso intenda. 42 Il re, ch'ogn'altra cosa, se non questa, creder potria, gli giurò largamente. Iocondo la cagion gli manifesta, ond'era molti dì stato dolente: perché trovata avea la disonesta sua moglie in braccio d'un suo vil sergente; e che tal pena al fin l'avrebbe morto, se tardato a venir fosse il conforto. 43 Ma in casa di sua Altezza avea veduto cosa che molto gli scemava il duolo; che se bene in obbrobrio era caduto, era almen certo di non v'esser solo. Così dicendo, e al bucolin venuto, gli dimostrò il bruttissimo omiciuolo che la giumenta altrui sotto si tiene, tocca di sproni e fa giuocar di schene. 44 Se parve al re vituperoso l'atto, lo crederete ben, senza ch'io 'l giuri. Ne fu per arrabbiar, per venir matto; ne fu per dar del capo in tutti i muri; fu per gridar, fu per non stare al patto: ma forza è che la bocca al fin si turi, e che l'ira trangugi amara et acra, poi che giurato avea su l'ostia sacra. 45 « Che debbo far, che mi consigli, frate, (disse a Iocondo), poi che tu mi tolli che con degna vendetta e crudeltate questa giustissima ira io non satolli? » « Lasciàn (disse Iocondo) queste ingrate, e proviam se son l'altre così molli: facciàn de le lor femine ad altrui quel ch'altri de le nostre han fatto a nui. 46 Ambi gioveni siamo, e di bellezza, che facilmente non troviamo pari. Qual femina sarà che n'usi asprezza, se contra i brutti ancor non han ripari? Se beltà non varrà né giovinezza, varranne almen l'aver con noi danari. Non vo' che torni, che non abbi prima di mille moglie altrui la spoglia opima. 47 La lunga absenzïa, il veder vari luoghi, praticare altre femine di fuore, par che sovente disacerbi e sfoghi de l'amorose passïoni il core ». Lauda il parer, né vuol che si proròghi il re l'andata; e fra pochissime ore, con due scudieri, oltre alla compagnia del cavallier roman, si mette in via. 48 Travestiti cercaro Italia, Francia, le terre de' Fiaminghi e de l'Inglesi; e quante ne vedean di bella guancia, trovavan tutte ai prieghi lor cortesi. Davano, e dato loro era la mancia; e spesso rimetteano i danar spesi. Da loro pregate fôro molte, e fôro anch'altretante che pregaron loro. 49 In questa terra un mese, in quella dui soggiornando, accertârsi a vera prova che non men ne le lor, che ne l'altrui femine, fede e castità si trova. Dopo alcun tempo increbbe ad ambedui di sempre procacciar di cosa nuova; che mal poteano entrar ne l'altrui porte, senza mettersi a rischio de la morte. 50 Gli è meglio una trovarne che di faccia e di costumi ad ambi grata sia; che lor communemente sodisfaccia, e non n'abbin d'aver mai gelosia. « E perché (dicea il re) vo' che mi spiaccia aver più te ch'un altro in compagnia? So ben ch'in tutto il gran femineo stuolo una non è che stia contenta a un solo. 51 Una, senza sforzar nostro potere, ma quando il natural bisogno inviti, in festa goderemoci e in piacere, che mai contese non avren né liti. Né credo che si debba ella dolere: che s'anco ogn'altra avesse duo mariti, più ch'ad un solo, a duo saria fedele; né forse s'udirian tante querele ». 52 Di quel che disse il re, molto contento rimaner parve il giovine romano. Dunque fermati in tal proponimento, cercâr molte montagne e molto piano: trovaro al fin, secondo il loro intento, una figliuola d'uno ostiero ispano, che tenea albergo al porto di Valenza, bella di modi e bella di presenza. 53 Era ancor sul fiorir di primavera sua tenerella e quasi acerba etade. Di molti figli il padre aggravat'era, e nimico mortal di povertade; sì ch'a disporlo fu cosa leggiera, che desse lor la figlia in potestade; ch'ove piacesse lor potesson trarla, poi che promesso avean di ben trattarla. 54 Pigliano la fanciulla, e piacer n'hanno or l'un or l'altro in caritade e in pace, come a vicenda i mantici che dànno, or l'uno or l'altro, fiato alla fornace. Per veder tutta Spagna indi ne vanno, e passar poi nel regno di Siface; e 'l dì che da Valenza si partiro, ad albergare a Zattiva veniro. 55 I patroni a veder strade e palazzi ne vanno, e lochi publici e divini; ch'usanza han di pigliar simil solazzi in ogni terra ove entran peregrini; e la fanciulla resta coi ragazzi. Altri i letti, altri acconciano i ronzini, altri hanno cura che sia alla tornata dei signor lor la cena apparecchiata. 56 Ne l'albergo un garzon stava per fante, ch'in casa de la giovene già stette a' servigi del padre, e d'essa amante fu da' primi anni, e del suo amor godette. Ben s'adocchiâr, ma non ne fêr sembiante, ch'esser notato ognun di lor temette: ma tosto ch'i patroni e la famiglia lor dieron luogo, alzâr tra lor le ciglia. 57 Il fante domandò dove ella gisse, e qual dei duo signor l'avesse seco. A punto la Fiammetta il fatto disse (così avea nome, e quel garzone il Greco). « Quando sperai che 'l tempo ohimè! venisse (il Greco le dicea) di viver teco, Fiammetta, anima mia, tu te ne vai, e non so più di rivederti mai. 58 Fannosi i dolci miei disegni amari, poi che sei d'altri, e tanto mi ti scosti. Io disegnava, avendo alcun' danari con gran fatica e gran sudor riposti, ch'avanzato m'avea de' miei salari e de le bene andate di molti osti, di tornare a Valenza, e domandarti al padre tuo per moglie, e di sposarti ». 59 La fanciulla negli omeri si stringe, e risponde che fu tardo a venire. Piange il Greco e sospira, e parte finge: « Vuommi (dice) lasciar così morire? Con le tuo braccia i fianchi almen mi cinge, lasciami disfogar tanto desire; ch'inanzi che tu parta, ogni momento che teco io stia mi fa morir contento ». 60 La pietosa fanciulla rispondendo: « Credi (dicea) che men di te nol bramo; ma né luogo né tempo ci comprendo qui, dove in mezzo di tanti occhi siamo ». Il Greco soggiungea: « Certo mi rendo, che s'un terzo ami me di quel ch'io t'amo, in questa notte almen troverai loco che ci potren godere insieme un poco ». 61 « Come potrò (diceagli la fanciulla), che sempre in mezzo a duo la notte giaccio? e meco or l'uno or l'altro si trastulla, e sempre a l'un di lor mi trovo in braccio? » « Questo ti fia (suggiunse il Greco) nulla; che ben ti saprai tor di questo impaccio, e uscir di mezzo lor, pur che tu voglia: e déi voler, quando di me ti doglia » 62 Pensa ella alquanto, e poi dice che vegna quando creder potrà ch'ognuno dorma; e pianamente come far convegna, e de l'andare e del tornar l'informa. Il Greco, sì come ella gli disegna, quando sente dormir tutta la torma, viene all'uscio e lo spinge, e quel gli cede: entra pian piano, e va a tenton col piede. 63 Fa lunghi i passi, e sempre in quel di dietro tutto si ferma, e l'altro par che muova a guisa che di dar tema nel vetro, non che 'l terreno abbia a calcar, ma l'uova; e tien la mano inanzi simil metro, va brancolando infin che 'l letto trova: e di là dove gli altri avean le piante, tacito si cacciò col capo inante. 64 Fra l'una e l'altra gamba di Fiammetta, che supina giacea, diritto venne; e quando le fu a par, l'abbracciò stretta, e sopra lei sin presso al dì si tenne. Cavalcò forte, e non andò a staffetta; che mai bestia mutar non gli convenne: che questa pare a lui che sì ben trotte, che scender non ne vuol per tutta notte. 65 Avea Iocondo et avea il re sentito il calpestio che sempre il letto scosse; e l'uno e l'altro, d'uno error schernito, s'avea creduto che 'l compagno fosse. Poi ch'ebbe il Greco il suo camin fornito, sì come era venuto, anco tornosse. Saettò il sol da l'orizzonte i raggi; sorse Fiammetta, e fece entrare i paggi. 66 Il re disse al compagno motteggiando: « Frate, molto camin fatto aver déi; e tempo è ben che ti riposi, quando stato a cavallo tutta notte sei ». Iocondo a lui rispose di rimando, e disse: « Tu di' quel ch'io a dire avrei. A te tocca posare, e pro ti faccia, che tutta notte hai cavalcato a caccia ». 67 « Anch'io (suggiunse il re) senza alcun fallo lasciato avria il mio can correre un tratto, se m'avessi prestato un po' il cavallo, tanto che 'l mio bisogno avessi fatto ». Iocondo replicò: « Son tuo vasallo, e puoi far meco e rompere ogni patto: sì che non convenia tal cenni usare; ben mi potevi dir: lasciala stare ». 68 Tanto replica l'un, tanto soggiunge l'altro, che sono a grave lite insieme. Vengon da' motti ad un parlar che punge, ch'ad amenduo l'esser beffato preme. Chiaman Fiammetta (che non era lunge, e de la fraude esser scoperta teme) per fare in viso l'uno all'altro dire quel che negando ambi parean mentire. 69 « Dimmi (le disse il re con fiero sguardo), e non temer di me né di costui; chi tutta notte fu quel sì gagliardo, che ti godé senza far parte altrui? » Credendo l'un provar l'altro bugiardo, la risposta aspettavano ambedui. Fiammetta a' piedi lor si gittò, incerta di viver più, vedendosi scoperta. 70 Domandò lor perdono, che d'amore ch'a un giovinetto avea portato, spinta, e da pietà d'un tormentato core che molto avea per lei patito, vinta, caduta era la notte in quello errore; e seguitò, senza dir cosa finta, come tra lor con speme si condusse, ch'ambi credesson che 'l compagno fusse. 71 Il re e Iocondo si guardaro in viso, di maraviglia e di stupor confusi; né d'aver anco udito lor fu aviso, ch'altri duo fusson mai così delusi. Poi scoppiaro ugualmente in tanto riso, che con la bocca aperta e gli occhi chiusi, potendo a pena il fiato aver del petto, a dietro si lasciâr cader sul letto. 72 Poi ch'ebbon tanto riso, che dolere se ne sentiano il petto, e pianger gli occhi, disson tra lor: « Come potremo avere guardia, che la moglier non ne l'accocchi, se non giova tra duo questa tenere, e stretta sì, che l'uno e l'altro tocchi? Se più che crini avesse occhi il marito, non potria far che non fosse tradito. 73 Provate mille abbiamo, e tutte belle; né di tante una è ancor che ne contraste. Se provian l'altre, fian simili anch'elle; ma per ultima prova costei baste. Dunque possiamo creder che più felle non sien le nostre, o men de l'altre caste: e se son come tutte l'altre sono, che torniamo a godercile fia buono ». 74 Conchiuso ch'ebbon questo, chiamar fêro per Fiammetta medesima il suo amante; e in presenzia di molti gli la diero per moglie, e dote gli fu bastante. Poi montaro a cavallo, e il lor sentiero ch'era a ponente, volsero a levante; et alle mogli lor se ne tornaro, di ch'affanno mai più non si pigliaro. - 75 L'ostier qui fine alla sua istoria pose, che fu con molta attenzïone udita. Udilla il Saracin, né gli rispose parola mai, fin che non fu finita. Poi disse: - Io credo ben che de l'ascose feminil frode sia copia infinita; né si potria de la millesma parte tener memoria con tutte le carte. - 76 Quivi era un uom d'età, ch'avea più retta opinïon degli altri, e ingegno e ardire; e non potendo ormai, che sì negletta ogni femina fosse, più patire, si volse a quel ch'avea l'istoria detta, e gli disse: - Assai cose udimo dire, che veritade in sé non hanno alcuna: e ben di queste è la tua favola una. 77 A chi te la narrò non do credenza, s'evangelista ben fosse nel resto; ch'opinïone, più ch'esperïenza ch'abbia di donne, lo facea dir questo. L'avere ad una o due malivolenza, fa ch'odia e biasma l'altre oltre all'onesto; ma se gli passa l'ira, io vo' tu l'oda, più ch'ora biasmo, anco dar lor gran loda. 78 E se vorrà lodarne, avrà maggiore il campo assai, ch'a dirne mal non ebbe: di cento potrà dir degne d'onore verso una trista che biasmar si debbe. Non biasmar tutte, ma serbarne fuore la bontà d'infinite si dovrebbe; e se 'l Valerio tuo disse altrimente, disse per ira, e non per quel che sente. 79 Ditemi un poco: è di voi forse alcuno ch'abbia servato alla sua moglie fede? che nieghi andar, quando gli sia oportuno, all'altrui donna, e darle ancor mercede? credete in tutto 'l mondo trovarne uno? chi 'l dice, mente; e folle è ben chi 'l crede. Trovatene vo' alcuna che vi chiami? (non parlo de le publiche et infami). 80 Conoscete alcun voi, che non lasciasse la moglie sola, ancor che fosse bella, per seguire altra donna, se sperasse in breve e facilmente ottener quella? Che farebbe egli, quando lo pregasse o desse premio a lui donna o donzella? Creto, per compiacere or queste or quelle, che tutti lasciaremmovi la pelle. 81 Quelle che i lor mariti hanno lasciati, le più volte cagione avuta n'hanno. Del suo di casa, li veggon svogliati, e che fuor, de l'altrui bramosi, vanno. Dovriano amar, volendo essere amati, e tor con la misura ch'allor dànno. Io farei (se a me stesse il darla e tôrre) tal legge, ch'uom non vi potrebbe opporre. 82 Saria la legge, ch'ogni donna colta in adulterio, fosse messa a morte, se provar non potesse ch'una volta avesse adulterato il suo consorte: se provar lo potesse, andrebbe asciolta, né temeria il marito né la corte. Cristo ha lasciato nei precetti suoi: non far altrui quel che patir non vuoi. 83 La incontinenza è quanto mal si puote imputar lor, non già a tutto lo stuolo. Ma in questo chi ha di noi più brutte note? che continente non si trova un solo. E molto più n'ha ad arrossir le gote, quando bestemmia, ladroneccio, dolo, usura et omicidio, e se v'è peggio, raro, se non dagli uomini, far veggio. - 84 Appresso alle ragioni avea il sincero e giusto vecchio in pronto alcuno esempio di donne, che né in fatto né in pensiero mai di lor castità patiron scempio. Ma il Saracin, che fuggia udire il vero, lo minacciò con viso crudo et empio, sì che lo fece per timor tacere; ma già non lo mutò di suo parere. 85 Posto ch'ebbe alle liti e alle contese termine il re pagan, lasciò la mensa; indi nel letto per dormir si stese fin al partir de l'aria scura e densa: ma de la notte, a sospirar l'offese più de la donna ch'a dormir, dispensa. Quindi parte all'uscir del nuovo raggio, e far disegna in nave il suo vïaggio. 86 Però ch'avendo tutto quel rispetto ch'a buon cavallo dee buon cavalliero, a quel suo bello e buono, ch'a dispetto tenea di Sacripante e di Ruggiero; vedendo per duo giorni averlo stretto più che non si dovria sì buon destriero, lo pon, per riposarlo, e lo rassetta in una barca, e per andar più in fretta. 87 Senza indugio al nocchier varar la barca, e dar fa i remi all'acqua da la sponda. Quella, non molto grande e poco carca, se ne va per la Sonna giú a seconda. Non fugge il suo pensier né se ne scarca Rodomonte per terra né per onda: lo trova in su la proda e in su la poppa; e se cavalca, il porta dietro in groppa. 88 Anzi nel capo, o sia nel cor gli siede, e di fuor caccia ogni conforto e serra. Di ripararsi il misero non vede, da poi che gli nimici ha ne la terra. Non sa da chi sperar possa mercede, se gli fanno i domestici suoi guerra: la notte e 'l giorno e sempre è combattuto da quel crudel che dovria dargli aiuto. 89 Naviga il giorno e la notte seguente Rodomonte col cor d'affanni grave; e non si può l'ingiuria tor di mente, che da la donna e dal suo re avuto have; e la pena e il dolor medesmo sente, che sentiva a cavallo, ancora in nave: né spegner può, per star ne l'acqua, il fuoco, né può stato mutar, per mutar loco. 90 Come l'infermo, che dirotto e stanco di febbre ardente, va cangiando lato; o sia su l'uno o sia su l'altro fianco spera aver, se si volge, miglior stato; né sul destro riposa né sul manco, e per tutto ugualmente è travagliato: così il pagano al male ond'era infermo mal trova in terra e male in acqua schermo. 91 Non puote in nave aver più pazïenza, e si fa porre in terra Rodomonte. Lion passa e Vïenna, indi Valenza e vede in Avignone il ricco ponte; che queste terre et altre ubidïenza, che son tra il fiume e 'l celtibero monte, rendean al re Agramante e al re di Spagna dal dì che fur signor de la campagna. 92 Verso Acquamorta a man dritta si tenne con animo in Algier passare in fretta; e sopra un fiume ad una villa venne e da Bacco e da Cerere diletta, che per le spesse ingiurie, che sostenne dai soldati, a votarsi fu constretta. Quinci il gran mare, e quindi ne l'apriche valli vede ondeggiar le bionde spiche. 93 Quivi ritrova una piccola chiesa di nuovo sopra un monticel murata, che poi ch'intorno era la guerra accesa, i sacerdoti vòta avean lasciata. Per stanza fu da Rodomonte presa; che pel sito, e perch'era sequestrata dai campi, onde avea in odio udir novella, gli piacque sì, che mutò Algieri in quella. 94 Mutò d'andare in Africa pensiero, sì commodo gli parve il luogo e bello. Famigli e carrïaggi e il suo destriero seco alloggiar fe' nel medesmo ostello. Vicino a poche leghe a Mompoliero e ad alcun altro ricco e buon castello siede il villaggio allato alla riviera; sì che d'avervi ogn'agio il modo v'era. 95 Standovi un giorno il Saracin pensoso (come pur era il più del tempo usato), vide venir per mezzo un prato erboso, che d'un piccol sentiero era segnato, una donzella di viso amoroso in compagnia d'un monaco barbato; e si traeano dietro un gran destriero sotto una soma coperta di nero. 96 Chi la donzella, chi 'l monaco sia, chi portin seco, vi debbe esser chiaro. Conoscere Issabella si dovria, che 'l corpo avea del suo Zerbino caro. Lasciai che vêr Provenza ne venìa sotto la scorta del vecchio preclaro, che le avea persuaso tutto il resto dicare a Dio del suo vivere onesto. 97 Come ch'in viso pallida e smarrita sia la donzella et abbia i crini inconti; e facciano i sospir continua uscita del petto acceso, e gli occhi sien duo fonti; et altri testimoni d'una vita misera e grave in lei si veggan pronti; tanto però di bello anco le avanza, che con le Grazie Amor vi può aver stanza. 98 Tosto che 'l Saracin vide la bella donna apparir, messe il pensiero al fondo, ch'avea di biasmar sempre e d'odiar quella schiera gentil che pur adorna il mondo. E ben gli par dignissima Issabella, in cui locar debba il suo amor secondo, e spenger totalmente il primo, a modo che da l'asse si trae chiodo con chiodo. 99 Incontra se le fece, e col più molle parlar che seppe, e col miglior sembiante, di sua condizïone domandolle: et ella ogni pensier gli spiegò inante; come era per lasciare il mondo folle, e farsi amica a Dio con opre sante. Ride il pagano altier ch'in Dio non crede, d'ogni legge nimico e d'ogni fede. 100 E chiama intenzïone erronea e lieve, e dice che per certo ella troppo erra; né men biasmar che l'avaro si deve, che 'l suo ricco tesor metta sotterra: alcuno util per sé non ne riceve, e da l'uso degli altri uomini il serra. Chiuder leon si denno, orsi e serpenti, e non le cose belle et innocenti. 101 Il monaco, ch'a questo avea l'orecchia, e per soccorrer la giovane incauta, che ritratta non sia per la via vecchia, sedea al governo qual pratico nauta, quivi di spiritual cibo apparecchia tosto una mensa sontuosa e lauta. Ma il Saracin, che con mal gusto nacque, non pur la saporò, che gli dispiacque: 102 e poi ch'invano il monaco interroppe, e non poté mai far sì che tacesse, e che di pazïenza il freno roppe, le mani adosso con furor gli messe. Ma le parole mie parervi troppe potriano omai, se più se ne dicesse: sì che finirò il canto; e mi fia specchio quel che per troppo dire accade al vecchio.
1 O degli uomini inferma e instabil mente! come siàn presti a varïar disegno! Tutti i pensier mutamo facilmente, più quei che nascon d'amoroso sdegno. Io vidi dianzi il Saracin sì ardente contra le donne, e passar tanto il segno, che non che spegner l'odio, ma pensai che non dovesse intiepidirlo mai. 2 Donne gentil, per quel ch'a biasmo vostro parlò contra il dover, sì offeso sono, che sin che col suo mal non gli dimostro quanto abbia fatto error, non gli perdono. Io farò sì con penna e con inchiostro, ch'ognun vetrà che gli era utile e buono aver taciuto, e mordersi anco poi prima la lingua, che dir mal di voi. 3 Ma che parlò come ignorante e sciocco, ve lo dimostra chiara esperïenzia. Incontra tutte trasse fuor lo stocco de l'ira, senza farvi differenzia: poi d'Issabella un sguardo sì l'ha tocco, che subito gli fa mutar sentenzia. Già in cambio di quell'altra la disia: l'ha vista a pena, e non sa ancor chi sia. 4 E come il nuovo amor lo punge e scalda, muove alcune ragion di poco frutto, per romper quella mente intera e salda ch'ella avea fissa al Creator del tutto. Ma l'eremita che l'è scudo e falda, perché il casto pensier non sia distrutto, con argumenti più validi e fermi, quanto più può, le fa ripari e schermi. 5 Poi che l'empio pagan molto ha sofferto con lunga noia quel monaco audace, e che gli ha detto invan ch'al suo deserto senza lei può tornar quando gli piace; e che nuocer si vede a viso aperto, e che seco non vuol triegua né pace: la mano al mento con furor gli stese, e tanto ne pelò, quanto ne prese. 6 E sì crebbe la furia, che nel collo con man lo stringe a guisa di tanaglia; e poi ch'una e due volte raggirollo, da sé per l'aria e verso il mar lo scaglia. Che n'avenisse, né dico né sollo: varia fama è di lui, né si raguaglia. Dice alcun che sì rotto a un sasso resta, che 'l piè non si discerne da la testa; 7 et altri, ch'a cadere andò nel mare, ch'era più di tre miglia indi lontano, e che morì per non saper notare, fatti assai prieghi e orazïoni invano; altri, ch'un santo lo venne aiutare, lo trasse al lito con visibil mano. Di queste, qual si vuol, la vera sia: di lui non parla più l'istoria mia. 8 Rodomonte crudel, poi che levato s'ebbe da canto il garrulo eremita, si ritornò con viso men turbato verso la donna mesta e sbigottita; e col parlar ch'è fra gli amanti usato, dicea ch'era il suo core e la sua vita e 'l suo conforto e la sua cara speme, et altri nomi tai che vanno insieme. 9 E si mostrò sì costumato allora, che non le fece alcun segno di forza. Il sembiante gentil che l'innamora, l'usato orgoglio in lui spegne et ammorza: e ben che 'l frutto trar ne possa fuora, passar non però vuole oltre a la scorza; che non gli par che potesse esser buono, quando da lei non lo accettasse in dono. 10 E così di disporre a poco a poco a' suoi piaceri Issabella credea. Ella, che in sì solingo e strano loco, qual topo in piede al gatto si vedea, vorria trovarsi inanzi in mezzo il fuoco; e seco tuttavolta rivolgea s'alcun partito, alcuna via fosse atta a trarla quindi immaculata e intatta. 11 Fa ne l'animo suo proponimento di darsi con sua man prima la morte, che 'l barbaro crudel n'abbia il suo intento, e che le sia cagion d'errar sì forte contra quel cavallier ch'in braccio spento l'avea crudele e dispietata sorte; a cui fatto have col pensier devoto de la sua castità perpetuo voto. 12 Crescer più sempre l'appetito cieco vede del re pagan, né sa che farsi. Ben sa che vuol venire all'atto bieco, ove i contrasti suoi tutti fien scarsi. Pur discorrendo molte cose seco, il modo trovò al fin di ripararsi, e di salvar la castità sua, come io vi dirò, con lungo e chiaro nome. 13 Al brutto Saracin, che le venìa già contra con parole e con effetti privi di tutta quella cortesia che mostrata le avea ne' primi detti: - Se fate che con voi sicura io sia del mio onor (disse) e ch'io non ne sospetti, cosa all'incontro vi darò, che molto più vi varrà, ch'avermi l'onor tolto. 14 Per un piacer di sì poco momento, di che n'ha sì abondanza tutto 'l mondo, non disprezzate un perpetuo contento, un vero gaudio a nullo altro secondo. Potrete tuttavia ritrovar cento e mille donne di viso giocondo; ma chi vi possa dar questo mio dono, nessuno al mondo, o pochi altri ci sono. 15 Ho notizia d'un'erba, e l'ho veduta venendo, e so dove trovarne appresso, che bollita con elera e con ruta ad un fuoco di legna di cipresso, e fra mano innocenti indi premuta, manda un liquor, che, chi si bagna d'esso tre volte il corpo, in tal modo l'indura, che dal ferro e dal fuoco l'assicura. 16 Io dico, se tre volte se n'immolla, un mese invulnerabile si trova. Oprar conviensi ogni mese l'ampolla; che sua virtú più termine non giova. Io so far l'acqua, et oggi ancor farolla, et oggi ancor voi ne vedrete prova: e vi può, s'io non fallo, esser più grata, che d'aver tutta Europa oggi acquistata. 17 Da voi domando in guiderdon di questo, che su la fede vostra mi giuriate che né in detto né in opera molesto mai più sarete alla mia castitate. - Così dicendo, Rodomonte onesto fe' ritornar; ch'in tanta voluntate venne ch'invïolabil si facesse, che più ch'ella non disse, le promesse: 18 e servaralle fin che vegga fatto de la mirabil acqua esperïenzia; e sforzerasse intanto a non fare atto, a non far segno alcun di vïolenzia. Ma pensa poi di non tenere il patto, perché non ha timor né riverenzia di Dio o di santi; e nel mancar di fede tutta a lui la bugiarda Africa cede. 19 Ad Issabella il re d'Algier scongiuri di non la molestar fe' più di mille, pur ch'essa lavorar l'acqua procuri, che far lo può qual fu già Cigno e Achille. Ella per balze e per valloni oscuri da le città lontana e da le ville ricoglie di molte erbe; e il Saracino non l'abandona, e l'è sempre vicino. 20 Poi ch'in più parti quant'era a bastanza colson de l'erbe e con radici e senza, tardi si ritornaro alla lor stanza; dove quel paragon di continenza tutta la notte spende, che l'avanza, a bollir erbe con molta avertenza: e a tutta l'opra e a tutti quei misteri si trova ognor presente il re d'Algieri. 21 Che producendo quella notte in giuoco con quelli pochi servi ch'eran seco, sentia, per lo calor del vicin fuoco ch'era rinchiuso in quello angusto speco, tal sete, che bevendo or molto or poco, duo baril votâr pieni di greco, ch'aveano tolto uno o duo giorni inanti i suoi scudieri a certi vïandanti. 22 Non era Rodomonte usato al vino, perché la legge sua lo vieta e danna: e poi che lo gustò, liquor divino gli par, miglior che 'l nettare o la manna; e riprendendo il rito saracino, gran tazze e pieni fiaschi ne tracanna. Fece il buon vino, ch'andò spesso intorno, girare il capo a tutti come un torno. 23 La donna in questo mezzo la caldaia dal fuoco tolse, ove quell'erbe cosse; e disse a Rodomonte: - Acciò che paia che mie parole al vento non ho mosse, quella che 'l ver da la bugia dispaia, e che può dotte far le genti grosse, te ne farò l'esperïenzia ancora, non ne l'altrui, ma nel mio corpo or ora. 24 Io voglio a far il saggio esser la prima del felice liquor di virtù pieno, acciò tu forse non facessi stima che ci fosse mortifero veneno. Di questo bagnerommi da la cima del capo giù pel collo e per lo seno: tu poi tua forza in me prova e tua spada, se questo abbia vigor, se quella rada.- 25 Bagnossi, come disse, e lieta porse all'incauto pagano il collo ignudo, incauto, e vinto anco dal vino forse, incontra a cui non vale elmo né scudo. Quel uom bestial le prestò fede, e scórse sì con la mano e sì col ferro crudo, che del bel capo, già d'Amore albergo, fe' tronco rimanere il petto e il tergo. 26 Quel fe' tre balzi; e funne udita chiara voce, ch'uscendo nominò Zerbino, per cui seguire ella trovò sì rara via di fuggir di man del Saracino. Alma, ch'avesti più la fede cara, e 'l nome quasi ignoto e peregrino al tempo nostro, de la castitade, che la tua vita e la tua verde etade, 27 vattene in pace, alma beata e bella! Così i miei versi avesson forza, come ben m'affaticherei con tutta quella arte che tanto il parlar orna e còme, perché mille e mill'anni e più, novella sentisse il mondo del tuo chiaro nome. Vattene in pace alla superna sete, e lascia all'altre esempio di tua fede. 28 All'atto incomparabile e stupendo, dal cielo il Creator giù gli occhi volse, e disse: - Più di quella ti commendo, la cui morte a Tarquinio il regno tolse; e per questo una legge fare intendo tra quelle mie, che mai tempo non sciolse, la qual per le inviolabil'acque giuro che non muterà seculo futuro. 29 Per l'avvenir vo' che ciascuna ch'aggia il nome tuo, sia di sublime ingegno, e sia bella, gentil, cortese e saggia, e di vera onestade arrivi al segno: onde materia agli scrittori caggia di celebrare il nome inclito e degno; tal che Parnasso, Pindo et Elicone sempre Issabella, Issabella risuone. - 30 Dio così disse, e fe' serena intorno l'aria, e tranquillo il mar più che mai fusse. Fe' l'alma casta al terzo ciel ritorno, e in braccio al suo Zerbin si ricondusse. Rimase in terra con vergogna e scorno quel fier senza pietà nuovo Breusse; che poi che 'l troppo vino ebbe digesto, biasmò il suo errore, e ne restò funesto. 31 Placare o in parte satisfar pensosse a l'anima beata d'Issabella, se, poi ch'a morte il corpo le percosse, desse almen vita alla memoria d'ella. Trovò per mezzo, acciò che così fosse, di convertirle quella chiesa, quella dove abitava e dove ella fu uccisa, in un sepolcro; e vi dirò in che guisa. 32 Di tutti i lochi intorno fa venire mastri, chi per amore e chi per tema; e fatto ben seimila uomini unire, de' gravi sassi i vicin monti scema, e ne fa una gran massa stabilire, che da la cima era alla parte estrema novanta braccia; e vi rinchiude dentro la chiesa, che i duo amanti have nel centro. 33 Imita quasi la superba mole che fe' Adriano all'onda tiberina. Presso al sepolcro una torre alta vuole; ch'abitarvi alcun tempo si destina. Un ponte stretto e di due braccia sole fece su l'acqua che correa vicina. Lungo il ponte, ma largo era sì poco, che dava a pena a duo cavalli loco; 34 a duo cavalli che venuti a paro, o ch'insieme si fossero scontrati: e non avea né sponda né riparo, e si potea cader da tutti i lati. Il passar quindi vuol che costi caro a guerrieri o pagani o battezzati; che de le spoglie lor mille trofei promette al cimiterio di costei. 35 In dieci giorni e in manco fu perfetta l'opra del ponticel che passa il fiume; ma non fu già il sepolcro così in fretta, né la torre condutta al suo cacume: pur fu levata sì, ch'alla veletta starvi in cima una guardia avea costume, che d'ogni cavallier che venìa al ponte, col corno facea segno a Rodomonte. 36 E quel s'armava, e se gli venìa a opporre ora su l'una, ora su l'altra riva; che se 'l guerrier venìa di vêr la torre, su l'altra proda il re d' Algier veniva. Il ponticello è il campo ove si corre; e se 'l destrier poco del segno usciva, cadea nel fiume, ch'alto era e profondo: ugual periglio a quel non avea il mondo. 37 Aveasi imaginato il Saracino, che, per gir spesso a rischio di cadere dal ponticel nel fiume a capo chino, dove gli converria molt'acqua bere, del fallo a che l'indusse il troppo vino, dovesse netto e mondo rimanere; come l'acqua, non men che 'l vino, estingua l'error che fa pel vino o mano o lingua. 38 Molti fra pochi dì vi capitaro: alcuni la via dritta vi condusse, ch'a quei che verso Italia o Spagna andaro altra non era che più trita fusse; altri l'ardire, e, più che vita caro, l'onore, a farvi di sé prova indusse. E tutti, ove acquistar credean la palma, lasciavan l'arme, e molti insieme l'alma. 39 Di quelli ch'abbattea, s'eran pagani, si contentava d'aver spoglie et armi; e di chi prima furo, i nomi piani vi facea sopra, e sospendeale ai marmi: ma ritenea in prigion tutti i cristiani; e che in Algier poi li mandasse parmi. Finita ancor non era l'opra, quando vi venne a capitare il pazzo Orlando. 40 A caso venne il furïoso conte a capitar su questa gran riviera, dove, come io vi dico, Rodomonte fare in fretta facea, né finito era la torre né il sepolcro, e a pena il ponte: e di tutte arme, fuor che di visiera, a quell'ora il pagan si trovò in punto, ch'Orlando al fiume e al ponte è sopragiunto. 41 Orlando (come il suo furor lo caccia) salta la sbarra e sopra il ponte corre. Ma Rodomonte con turbata faccia, a piè, com'era inanzi a la gran torre, gli grida di lontano e gli minaccia, né se gli degna con la spada opporre: - Indiscreto villan, ferma le piante, temerario, importuno et arrogante! 42 Sol per signori e cavallieri è fatto il ponte, non per te, bestia balorda. - Orlando, ch'era in gran pensier distratto, vien pur inanzi e fa l'orecchia sorda. - Bisogna ch'io castighi questo matto - disse il pagano; e con la voglia ingorda venìa per traboccarlo giù ne l'onda, non pensando trovar chi gli risponda. 43 In questo tempo una gentil donzella, per passar sovra il ponte, al fiume arriva, leggiadramente ornata e in viso bella, e nei sembianti accortamente schiva. Era (se vi ricorda, Signor) quella che per ogni altra via cercando giva di Brandimarte, il suo amator, vestigi, fuor che, dove era, dentro da Parigi. 44 Ne l'arrivar di Fiordiligi al ponte (che così la donzella nomata era), Orlando s'attaccò con Rodomonte che lo volea gittar ne la riviera. La donna, ch'avea pratica del conte, subito n'ebbe conoscenza vera: e restò d'alta maraviglia piena, de la follia che così nudo il mena. 45 Fermasi a riguardar che fine avere debba il furor dei duo tanti possenti. Per far del ponte l'un l'altro cadere a por tutta lor forza sono intenti. - Come è ch'un pazzo debba sì valere? - seco il fiero pagan dice tra' denti; e qua e là si volge e si raggira, pieno di sdegno e di superbia e d'ira. 46 Con l'una e l'altra man va ricercando far nuova presa, ove il suo meglio vede; or tra le gambe, or fuor gli pone, quando con arte il destro, e quando il manco piede. Simiglia Rodomonte intorno a Orlando lo stolido orso che sveller si crede l'arbor onde è caduto; e come n'abbia quello ogni colpa, odio gli porta e rabbia. 47 Orlando, che l'ingegno avea sommerso, io non so dove, e sol la forza usava, l'estrema forza a cui per l'universo nessuno o raro paragon si dava, cader del ponte si lasciò riverso col pagano abbracciato come stava. Cadon nel fiume e vanno al fondo insieme: ne salta in aria l'onda, e il lito geme. 48 L'acqua gli fece distaccare in fretta. Orlando è nudo, e nuota com'un pesce: di qua le braccia, e di là i piedi getta, e viene a proda; e come di fuor esce, correndo va, né per mirare aspetta, se in biasmo o in loda questo gli riesce. Ma il pagan, che da l'arme era impedito, tornò più tardo e con più affanno al lito. 49 Sicuramente Fiordiligi intanto avea passato il ponte e la riviera; e guardato il sepolcro in ogni canto, se del suo Brandimarte insegna v'era, poi che né l'arme sue vede né il manto, di ritrovarlo in altra parte spera. Ma ritorniamo a ragionar del conte, che lascia a dietro e torre e fiume e ponte. 50 Pazzia sarà, se le pazzie d'Orlando prometto raccontarvi ad una ad una; che tante e tante fur, ch'io non so quando finir: ma ve n'andrò scegliendo alcuna solenne et atta da narrar cantando, e ch'all'istoria mi parrà oportuna; né quella tacerò miraculosa, che fu nei Pirenei sopra Tolosa. 51 Trascorso avea molto paese il conte, come dal grave suo furor fu spinto; et al fin capitò sopra quel monte per cui dal Franco è il Tarracon distinto; tenendo tuttavia volta la fronte verso là dove il sol ne viene estinto: e quivi giunse in uno angusto calle, che pendea sopra una profonda valle. 52 Si vennero a incontrar con esso al varco duo boscherecci gioveni, ch'inante avean di legna un loro asino carco; e perché ben s'accorsero al sembiante, ch'avea di cervel sano il capo scarco, gli gridano con voce minacciante, o ch'a dietro o da parte se ne vada, e che si levi di mezzo la strada. 53 Orlando non risponde altro a quel detto, se non che con furor tira d'un piede, e giunge a punto l'asino nel petto con quella forza che tutte altre eccede; et alto il leva sì, ch'uno augelletto che voli in aria, sembra a chi lo vede. Quel va a cadere alla cima d'un colle, ch'un miglio oltre la valle il giogo estolle. 54 Indi verso i duo gioveni s'aventa, dei quali un, più che senno, ebbe aventura, che da la balza, che due volte trenta braccia cadea, si gittò per paura. A mezzo il tratto trovò molle e lenta una macchia di rubi e di verzura, a cui bastò graffiargli un poco il volto: del resto lo mandò libero e sciolto. 55 L'altro s'attacca ad un scheggion ch'usciva fuor de la roccia, per salirvi sopra; perché si spera, s'alla cima arriva, di trovar via che dal pazzo lo cuopra. Ma quel nei piedi (che non vuol che viva) lo piglia, mentre di salir s'adopra: e quanto più sbarrar puote le braccia, le sbarra sì, ch'in duo pezzi lo straccia; 56 a quella guisa che veggiàn talora farsi d'uno aeron, farsi d'un pollo, quando si vuol de le calde interiora che falcone o ch'astor resti satollo. Quanto è bene accaduto che non muora quel che fu a risco di fiaccarsi il collo! ch'ad altri poi questo miracol disse, sì che l'udì Turpino, e a noi lo scrisse. 57 E queste et altre assai cose stupende fece nel traversar de la montagna. Dopo molto cercare, al fin discende verso meriggie alla terra di Spagna; e lungo la marina il camin prende, ch'intorno a Taracona il lito bagna: e come vuol la furia che lo mena, pensa farsi uno albergo in quella arena, 58 dove dal sole alquanto si ricuopra; e nel sabbion si caccia àrrido e trito. Stando così, gli venne a caso sopra Angelica la bella e il suo marito, ch'eran (sì come io vi narrai di sopra) scesi dai monti in su l'ispano lito. A men d'un braccio ella gli giunse appresso, perché non s'era accorta ancora d'esso. 59 Che fosse Orlando, nulla le soviene: troppo è diverso da quel ch'esser suole. Da indi in qua che quel furor lo tiene, è sempre andato nudo all'ombra e al sole: se fosse nato all'aprica Sïene, o dove Ammone il Garamante cole, o presso ai monti onde il gran Nilo spiccia, non dovrebbe la carne aver più arsiccia. 60 Quasi ascosi avea gli occhi ne la testa, la faccia macra, e come un osso asciutta, la chioma rabuffata, orrida e mesta, la barba folta, spaventosa e brutta. Non più a vederlo Angelica fu presta, che fosse a ritornar, tremando tutta: tutta tremando, e empiendo il ciel di grida, si volse per aiuto alla sua guida. 61 Come di lei s'accorse Orlando stolto, per ritenerla si levò di botto: così gli piacque il delicato volto, così ne venne immantinente giotto. D'averla amata e riverita molto ogni ricordo era in lui guasto e rotto. Gli corre dietro, e tien quella maniera che terria il cane a seguitar la fera. 62 Il giovine che 'l pazzo seguir vede la donna sua, gli urta il cavallo adosso, e tutto a un tempo lo percuote e fiede, come lo trova che gli volta il dosso. Spiccar dal busto il capo se gli crede: ma la pelle trovò dura come osso, anzi via più ch'acciar; ch'Orlando nato impenetrabile era et affatato. 63 Come Orlando sentì battersi dietro, girossi, e nel girare il pugno strinse, e con la forza che passa ogni metro, ferì il destrier che 'l Saracino spinse. Feril sul capo, e come fosse vetro, lo spezzò sì, che quel cavallo estinse: e rivoltosse in un metesmo instante dietro a colei che gli fuggiva inante. 64 Caccia Angelica in fretta la giumenta, e con sferza e con spron tocca e ritocca; che le parrebbe a quel bisogno lenta, se ben volasse più che stral da cocca. De l'annel c'ha nel dito si ramenta, che può salvarla, e se lo getta in bocca: e l'annel, che non perde il suo costume, la fa sparir come ad un soffio il lume. 65 O fosse la paura, o che pigliasse tanto disconcio nel mutar l'annello, o pur, che la giumenta traboccasse, che non posso affermar questo né quello; nel medesmo momento che si trasse l'annello in bocca e celò il viso bello, levò le gambe et uscì de l'arcione, e si trovò riversa in sul sabbione. 66 Più corto che quel salto era dua dita, aviluppata rimanea col matto, che con l'urto le avria tolta la vita; ma gran ventura l'aiutò a quel tratto. Cerchi pur, ch'altro furto le dia aita d'un'altra bestia, come prima ha fatto; che più non è per rïaver mai questa ch'inanzi al paladin l'arena pesta. 67 Non dubitate già ch'ella non s'abbia a provedere; e seguitiamo Orlando, in cui non cessa l'impeto e la rabbia perché si vada Angelica celando. Segue la bestia per la nuda sabbia, e se le vien più sempre approssimando: già già la tocca, et ecco l'ha nel crine, indi nel freno, e la ritiene al fine. 68 Con quella festa il paladin la piglia, ch'un altro avrebbe fatto una donzella: le rassetta le retine e la briglia, e spicca un salto et entra ne la sella; e correndo la caccia molte miglia, senza riposo, in questa parte e in quella: mai non le leva né sella né freno, né le lascia gustare erba né fieno. 69 Volendosi cacciare oltre una fossa, sozzopra se ne va con la cavalla. Non nocque a lui, né sentì la percossa; ma nel fondo la misera si spalla. Non vede Orlando come trar la possa; e finalmente se l'arreca in spalla, e su ritorna, e va con tutto il carco, quanto in tre volte non trarrebbe un arco. 70 Sentendo poi che gli gravava troppo, la pose in terra, e volea trarla a mano. Ella il seguia con passo lento e zoppo; dicea Orlando: - Camina! - e dicea invano. Se l'avesse seguito di galoppo, assai non era al desiderio insano. Al fin dal capo le levò il capestro, e dietro la legò sopra il piè destro; 71 e così la strascina, e la conforta che lo potrà seguir con maggior agio. Qual leva il pelo, e quale il cuoio porta, dei sassi ch'eran nel camin malvagio. La mal condotta bestia restò morta finalmente di strazio e di disagio. Orlando non le pensa e non la guarda, e via correndo il suo camin non tarda. 72 Di trarla, anco che morta, non rimase, continoando il corso ad occidente; e tuttavia saccheggia ville e case, se bisogno di cibo aver si sente; e frutte e carne e pan, pur ch'egli invase, rapisce; et usa forza ad ogni gente: qual lascia morto, e qual storpiato lassa; poco si ferma, e sempre inanzi passa. 73 Avrebbe così fatto, o poco manco, alla sua donna, se non s'ascondea; perché non discernea il nero dal bianco, e di giovar, nocendo si credea. Deh maledetto sia l'annello et anco il cavallier che dato le l'avea! che se non era, avrebbe Orlando fatto di sé vendetta e di mill'altri a un tratto. 74 Né questa sola, ma fosser pur state in man d'Orlando quante oggi ne sono; ch'ad ogni modo tutte sono ingrate, né si trova tra loro oncia di buono. Ma prima che le corde rallentate al canto disugual rendano il suono, fia meglio differirlo a un'altra volta, acciò men sia noioso a chi l'ascolta.
1 Quando vincer da l'impeto e da l'ira si lascia la ragion, né si difende, e che 'l cieco furor sì inanzi tira o mano o lingua, che gli amici offende; se ben dipoi si piange e si sospira, non è per questo che l'error s'emende. Lasso! io mi doglio e affliggo invan di quanto dissi per ira al fin de l'altro canto. 2 Ma simile son fatto ad uno infermo, che dopo molta pazienza e molta, quando contra il dolor non ha più schermo, cede alla rabbia e a bestemmiar si volta. Manca il dolor, né l'impeto sta fermo, che la lingua al dir mal facea sì sciolta; e si ravvede e pente e n'ha dispetto: ma quel c'ha detto, non può far non detto. 3 Ben spero, donne, in vostra cortesia aver da voi perdon, poi ch'io vel chieggio. Voi scusarete, che per frenesia, vinto da l'aspra passïon, vaneggio. Date la colpa alla nimica mia, che mi fa star, ch'io non potrei star peggio, e mi fa dir quel di ch'io son poi gramo: sallo Idio, s'ella ha il torto; essa, s'io l'amo. 4 Non men son fuor di me, che fosse Orlando; e non son men di lui di scusa degno, ch'or per li monti, or per le piagge errando, scorse in gran parte di Marsilio il regno, molti dì la cavalla strascinando morta, come era, senza alcun ritegno; ma giunto ove un gran fiume entra nel mare, gli fu forza il cadavero lasciare. 5 E perché sa nuotar come una lontra, entra nel fiume, e surge all'altra riva. Ecco un pastor sopra un cavallo incontra, che per abeverarlo al fiume arriva. Colui, ben che gli vada Orlando incontra, perché egli è solo e nudo, non lo schiva. - Vorrei del tuo ronzin (gli disse il matto) con la giumenta mia far un baratto. 6 Io te la mostrerò di qui, se vuoi; che morta là su l'altra ripa giace: la potrai far tu meticar dipoi; altro diffetto in lei non mi dispiace. Con qualche aggiunta il ronzin dar mi puoi: smontane in cortesia, perché mi piace. - Il pastor ride, e senz'altra risposta va verso il guado, e dal pazzo si scosta. 7 - Io voglio il tuo cavallo: olà non odi? - suggiunse Orlando, e con furor si mosse. Avea un baston con nodi spessi e sodi quel pastor seco, e il paladin percosse. La rabbia e l'ira passò tutti i modi del conte; e parve fier più che mai fosse. Sul capo del pastore un pugno serra, che spezza l'osso, e morto il caccia in terra. 8 Salta a cavallo, e per diversa strada va discorrendo, e molti pone a sacco. Non gusta il ronzin mai fieno né biada, tanto ch'in pochi dì ne riman fiacco: ma non però ch'Orlando a piedi vada, che di vetture vuol vivere a macco; e quante ne trovò, tante ne mise in uso, poi che i lor patroni uccise. 9 Capitò al fin a Malega, e più danno vi fece, ch'egli avesse altrove fatto: che oltre che ponesse a saccomanno il popul sì, che ne restò disfatto, né si poté rifar quel né l'altr'anno; tanti n'uccise il periglioso matto, vi spianò tante case e tante accese, che disfe' più che 'l terzo del paese. 10 Quindi partito, venne ad una terra, Zizera detta, che siete allo stretto di Zibeltarro, o vuoi di Zibelterra, che l'uno e l'altro nome le vien detto; ove una barca che sciogliea da terra vide piena di gente da diletto, che solazzando all'aura matutina, gìa per la tranquillissima marina. 11 Cominciò il pazzo a gridar forte: -Aspetta! - che gli venne disio d'andare in barca. Ma bene invano e i gridi e gli urli getta; che volentier tal merce non si carca. Per l'acqua il legno va con quella fretta che va per l'aria irondine che varca. Orlando urta il cavallo e batte e stringe, e con un mazzafrusto all'acqua spinge. 12 Forza è ch'al fin nell'acqua il cavallo entre, ch'invan contrasta, e spende invano ogni opra: bagna i genocchi, e poi la groppa e 'l ventre, indi la testa, e a pena appar di sopra. Tornare a dietro non si speri, mentre la verga tra l'orecchie se gli adopra. Misero! o si convien tra via affogare, o nel lito african passare il mare. 13 Non vede Orlando più poppe né sponde che tratto in mar l'avean dal lito asciutto; che son troppo lontane, e le nasconde agli occhi bassi l'alto e mobil flutto: e tuttavia il destrier caccia tra l'onde, ch'andar di là dal mar dispone in tutto. Il destrier, d'acqua pieno e d'alma vòto, finalmente finì la vita e il nuoto. 14 Andò nel fondo, e vi traea la salma, se non si tenea Orlando in su le braccia. Mena le gambe e l'una e l'altra palma, e soffia, e l'onda spinge da la faccia. Era l'aria soave e il mare in calma: e ben vi bisognò più che bonaccia; ch'ogni poco che 'l mar fosse più sorto, restava il paladin ne l'acqua morto. 15 Ma la Fortuna, che dei pazzi ha cura, del mar lo trasse nel lito di Setta, in una spiaggia, lungi da le mura quanto sarian duo tratti di saetta. Lungo il mar molti giorni alla ventura verso levante andò correndo in fretta; fin che trovò, dove tendea sul lito di nera gente esercito infinito. 16 Lasciamo il paladin ch'errando vada: ben di parlar di lui tornerà tempo. Quanto, Signore, ad Angelica accada dopo ch'uscì di man del pazzo a tempo; e come a ritornare in sua contrada trovasse e buon navilio e miglior tempo, e de l'India a Metor desse lo scettro, forse altri canterà con miglior plettro. 17 Io sono a dir tante altre cose intento, che di seguir più questa non mi cale. Volger conviemmi il bel ragionamento al Tartaro, che spinto il suo rivale, quella bellezza si godea contento, a cui non resta in tutta Europa uguale, poscia che se n'è Angelica partita, e la casta Issabella al ciel salita. 18 De la sentenza Mandricardo altiero, ch'in suo favor la bella donna diede, non può fruir tutto il diletto intero; che contra lui son altre liti in piede. L'una gli muove il giovene Ruggiero, perché l'aquila bianca non gli cede; l'altra il famoso re di Sericana, che da lui vuol la spada Durindana. 19 S'affatica Agramante, né disciorre, né Marsilio con lui, sa questo intrico: né solamente non li può disporre che voglia l'un de l'altro essere amico; ma che Ruggiero a Mandricardo tôrre lasci lo scudo del Troiano antico, o Gradasso la spada non gli vieti, tanto che questa o quella lite accheti. 20 Ruggier non vuol ch'in altra pugna vada con lo suo scudo; né Gradasso vuole che, fuor che contra sé, porti la spada che 'l glorioso Orlando portar suole. - Al fin veggiamo in cui la sorte cada (disse Agramante), e non sian più parole; veggiàn quel che Fortuna ne disponga, e sia preposto quel ch'ella preponga. 21 E se compiacer meglio mi volete, onde d'aver ve n'abbia obligo ognora, chi de' di voi combatter, sortirete; ma con patto, ch'al primo ch'esca fuora, amendue le querele in man porrete: sì che, per sé vincendo, vinca ancora pel compagno; e perdendo l'un di vui, così perduto abbia per ambidui. 22 Tra Gradasso e Ruggier credo che sia di valor nulla o poca differenza; e di lor qual si vuol venga fuor pria, so ch'in arme farà per eccellenza. Poi la vittoria da quel canto stia, che vorrà la divina providenza. Il cavallier non avrà colpa alcuna, ma il tutto imputerassi alla Fortuna. - 23 Steron taciti al detto d'Agramante e Ruggiero e Gradasso; et accordârsi che qualunque di loro uscirà inante, e l'una briga e l'altra abbia a pigliarsi. Così in duo brevi, ch'avean simigliante et ugual forma, i nomi lor notârsi; e dentro un'urna quelli hanno rinchiusi, versati molto, e sozzopra confusi. 24 Un semplice fanciul nell'urna messe la mano, e prese un breve; e venne a caso ch'in questo il nome di Ruggier si lesse, essendo quel del Serican rimaso. Non si può dir quanta allegrezza avesse, quando Ruggier si sentì trar del vaso, e d'altra parte il Sericano doglia; ma quel che manda il ciel, forza è che toglia. 25 Ogni suo studio il Sericano, ogni opra a favorire, ad aiutar converte perché Ruggiero abbia a restar di sopra: e le cose in suo pro, ch'avea già esperte, come or di spada, or di scudo si cuopra, qual sien botte fallaci e qual sien certe, quando tentar, quando schivar fortuna si dee, gli torna a mente ad una ad una. 26 Il resto di quel dì, che da l'accordo e dal trar de le sorti sopravanza, è speso dagli amici in dar ricordo, chi a l'un guerrier chi all'altro, come è usanza. Il popul, di veder la pugna ingordo, s'affretta a gara d'occupar la stanza: né basta a molti inanzi giorno andarvi, che voglion tutta notte anco veggiarvi. 27 La sciocca turba disïosa attende ch'i duo buon cavallier vengano in prova; che non mira più lungi né comprende di quel ch'inanzi agli occhi si ritrova. Ma Sobrino e Marsilio, e chi più intende e vede ciò che nuoce e ciò che giova, biasma questa battaglia, et Agramante, che voglia comportar che vada inante. 28 Né cessan raccordargli il grave danno che n'ha d'avere il popul saracino, muora Ruggiero o il tartaro tiranno, quel che prefisso è dal suo fier destino: d'un sol di lor via più bisogno avranno per contrastare al figlio di Pipino, che di dieci altri mila che ci sono, tra' quai fatica è ritrovare un buono. 29 Conosce il re Agramante che gli è vero, ma non può più negar ciò c'ha promesso. Ben prega Mandricardo e il buon Ruggiero, che gli ridonin quel c'ha lor concesso; e tanto più che 'l lor litigio è un zero, né degno in prova d'arme esser rimesso: e s'in ciò pur nol vogliono ubbidire, voglino almen la pugna differire. 30 Cinque o sei mesi il singular certame, o meno o più, si differisca, tanto che cacciato abbin Carlo del reame, tolto lo scettro, la corona e il manto. Ma l'un e l'altro, ancor che voglia e brame il re ubbidir, pur sta duro da canto; che tale accordo obbrobrïoso stima a chi 'l consenso suo vi darà prima. 31 Ma più del re, ma più d'ognun ch'invano spenda a placare il Tartaro parole, la bella figlia del re Stordilano supplice il priega, e si lamenta e duole: lo prega che consenta al re africano e voglia quel che tutto il campo vuole; si lamenta e si duol che per lui sia timida sempre e piena d'angonia. 32 - Lassa! (dicea) che ritrovar poss'io rimedio mai ch'a riposar mi vaglia, s'or contra questo, or quel, nuovo disio vi trarrà sempre a vestir piastra e maglia? C'ha potuto giovare al petto mio il gaudio che sia spenta la battaglia per me da voi contra quell'altro presa, se un'altra non minor se n'è già accesa? 33 Ohimè! ch'invano i' me n'andava altiera ch'un re sì degno, un cavallier sì forte per me volesse in perigliosa e fiera battaglia porsi al risco de la morte; ch'or veggo per cagion tanto leggiera non meno esporvi alla medesma sorte. Fu natural ferocità di core ch'a quella v'instigò, più che 'l mio amore. 34 Ma se gli è ver che 'l vostro amor sia quello che vi sforzate di mostrarmi ognora, per lui vi prego, e per quel gran flagello che mi percuote l'alma e che m'accora, che non vi caglia se 'l candido augello ha ne lo scudo quel Ruggiero ancora. Utile o danno a voi non so ch'importi, che lasci quella insegna o che la porti. 35 Poco guadagno, e perdita uscir molta de la battaglia può, che per far sète: quando abbiate a Ruggier l'aquila tolta, poca mercé d'un gran travaglio avrete; ma se Fortuna le spalle vi volta (che non però nel crin presa tenete), causate un danno, ch'a pensarvi solo mi sento il petto già sparrar di duolo. 36 Quando la vita a voi per voi non sia cara, e più amate un'aquila dipinta, vi sia almen cara per la vita mia: non sarà l'una senza l'altra estinta. Non già morir con voi grave mi fia: son di seguirvi in vita e in morte accinta; ma non vorrei morir sì malcontenta come io morrò, se dopo voi son spenta. - 37 Con tai parole e simili altre assai, che le lacrime accompagnano e sospiri, pregar non cessa tutta notte mai perch'alla pace il suo amator ritiri; e quel, suggendo dagli umidi rai quel dolce pianto, e quei dolci martìri da le vermiglie labra più che rose, lacrimando egli ancor, così rispose: 38 - Deh, vita mia, non vi mettete affanno, deh non, per Dio, di così lieve cosa; che se Carlo e 'l re d'Africa, e ciò c'hanno qui di gente moresca e di franciosa, spiegasson le bandiere in mio sol danno, voi pur non ne dovreste esser pensosa. Ben mi mostrate in poco conto avere, se per me un Ruggier sol vi fa temere. 39 E vi dovria pur ramentar che, solo (e spada io non avea né scimitarra), con un troncon di lancia a un grosso stuolo d'armati cavallier tolsi la sbarra. Gradasso, ancor che con vergogna e duolo lo dica, pure, a chi 'l domanda, narra che fu in Soria a un castel mio prigioniero; et è pur d'altra fama che Ruggiero. 40 Non niega similmente il re Gradasso, e sallo Isolier vostro e Sacripante, io dico Sacripante, il re circasso, e 'l famoso Grifone et Aquilante, cent'altri e più, che pure a questo passo stati eran presi alcuni giorni inante, macometani e gente di battesmo, che tutti liberai quel dì metesmo. 41 Non cessa ancor la maraviglia loro de la gran prova ch'io feci quel giorno, maggior, che se l'esercito del Moro e del Franco inimici avessi intorno. Et or potrà Ruggier, giovine soro, farmi da solo a solo o danno o scorno? Et or c'ho Durindana e l'armatura d'Ettòr, vi de' Ruggier metter paura? 42 Deh, perché dianzi in prova non venni io, se far di voi con l'arme io potea acquisto? So che v'avrei sì aperto il valor mio, ch'avresti il fin già di Ruggier previsto. Asciugate le lacrime, e, per Dio, non mi fate uno augurio così tristo; e siate certa che 'l mio onor m'ha spinto, non ne lo scudo il bianco augel dipinto. - 43 Così disse egli; e molto ben risposto gli fu da la mestissima sua donna, che non pur lui mutato di proposto, ma di luogo avria mossa una colonna. Ella era per dover vincer lui tosto, ancor ch'armato, e ch'ella fosse in gonna; e l'avea indutto a dir, se 'l re gli parla d'accordo più, che volea contentarla. 44 E lo facea; se non, tosto ch'al Sole la vaga Aurora fe' l'usata scorta, l'animoso Ruggier, che mostrar vuole che con ragion la bella aquila porta, per non udir più d'atti e di parole dilazïon, ma far la lite corta, dove circonda il popul lo steccato, sonando il corno s'appresenta armato. 45 Tosto che sente il Tartaro superbo, ch'alla battaglia il suono altier lo sfida, non vuol più de l'accordo intender verbo, ma si lancia del letto, et arme grida; e si dimostra sì nel viso acerbo, che Doralice istessa non si fida di dirgli più di pace né di triegua: e forza è infin che la battaglia segua. 46 Subito s'arma, et a fatica aspetta da' suoi scudieri i debiti servigi; poi monta sopra il buon cavallo in fretta, che del gran difensor fu di Parigi; e vien correndo invêr la piazza eletta a terminar con l'arme i gran litigi. Vi giunse il re e la corte allora allora; sì ch'all'assalto fu poca dimora. 47 Posti lor furo et allacciati in testa i lucidi elmi, e date lor le lance. Siegue la tromba a dare il segno presta, che fece a mille impallidir le guance. Posero l'aste i cavallieri in resta, e i corridori punsero alle pance; e venner con tale impeto a ferirsi, che parve il ciel cader, la terra aprirsi. 48 Quinci e quindi venir si vede il bianco augel che Giove per l'aria sostenne; come ne la Tessalia si vide anco venir più volte, ma con altre penne. Quanto sia l'uno e l'altro ardito e franco, mostra il portar de le massicce antenne; e molto più, ch'a quello incontro duro, quai torri ai venti, o scogli all'onde furo. 49 I tronchi fin al ciel ne sono ascesi: scrive Turpin, verace in questo loco, che dui o tre giù ne tornaro accesi, ch'eran saliti alla sfera del fuoco. I cavallieri i brandi aveano presi: e come quei che si temeano poco, si ritornaro incontra; e a prima giunta ambi alla vista si ferîr di punta. 50 Ferîrsi alla visiera al primo tratto; e non miraron, per mettersi in terra, dare ai cavalli morte, ch'è mal atto, perch'essi non han colpa de la guerra. Chi pensa che tra lor fosse tal patto, non sa l'usanza antiqua, e di molto erra: senz'altro patto, era vergogna e fallo e biasmo eterno a chi ferìa il cavallo. 51 Ferîrsi alla visiera, ch'era doppia, et a pena anco a tanta furia resse. L'un colpo appresso all'altro si raddoppia: le botte più che grandine son spesse, che spezza fronde e rami e grano e stoppia, e uscir invan fa la sperata messe. Se Durindana e Balisarda taglia, sapete, e quanto in queste mani vaglia. 52 Ma degno di sé colpo ancor non fanno, sì l'uno e l'altro ben sta su l'aviso. Uscì da Mandricardo il primo danno, per cui fu quasi il buon Ruggiero ucciso. d'uno di quei gran colpi che far sanno, gli fu lo scudo pel mezzo diviso, e la corazza apertagli di sotto; e fin sul vivo il crudel brando ha rotto. 53 L'aspra percossa agghiacciò il cor nel petto, per dubbio di Ruggiero, ai circostanti, nel cui favor si conoscea lo affetto dei più inchinar, se non di tutti quanti. E se Fortuna ponesse ad effetto quel che la maggior parte vorria inanti, già Mandricardo saria morto o preso: sì che 'l suo colpo ha tutto il campo offeso. 54 Io credo che qualche agnol s'interpose per salvar da quel colpo il cavalliero. Ma ben senza più indugio gli rispose, terribil più che mai fosse, Ruggiero. La spada in capo a Mandricardo pose; ma sì lo sdegno fu subito e fiero, e tal fretta gli fe', ch'io men l'incolpo se non mandò a ferir di taglio il colpo. 55 Se Balisarda lo giungea pel dritto, l'elmo d'Ettorre era incantato invano. Fu sì del colpo Mandricardo afflitto, che si lasciò la briglia uscir di mano. D'andar tre volte accenna a capo fitto, mentre scorrendo va d'intorno il piano quel Brigliador che conoscete al nome, dolente ancor de le mutate some. 56 Calcata serpe mai tanto non ebbe, né ferito leon, sdegno e furore, quanto il Tartaro, poi che si rïebbe dal colpo che di sé lo trasse fuore. E quanto l'ira e la superbia crebbe, tanto e più crebbe in lui forza e valore: fece spiccare a Brigliadoro un salto verso Ruggiero, e alzò la spada in alto. 57 Levossi in su le staffe, et all'elmetto segnolli; e si credette veramente partirlo a quella volta fin al petto: ma fu di lui Ruggier più diligente; che, pria che 'l braccio scenda al duro effetto, gli caccia sotto la spada pungente, e gli fa ne la maglia ampla finestra, che sotto difendea l'ascella destra. 58 E Balisarda al suo ritorno trasse di fuori il sangue tiepido e vermiglio, e vietò a Durindana che calasse impetuosa con tanto periglio; ben che fin su la groppa si piegasse Ruggiero, e per dolor strignesse il ciglio: e s'elmo in capo avea di peggior tempre, gli era quel colpo memorabil sempre. 59 Ruggier non cessa, e spinge il suo cavallo, e Mandricardo al destro fianco trova. Quivi scelta finezza di metallo e ben condutta tempra poco giova contra la spada che non scende in fallo, che fu incantata non per altra prova, che per far ch'a' suoi colpi nulla vaglia piastra incantata et incantata maglia. 60 Taglionne quanto ella ne prese, e insieme lasciò ferito il Tartaro nel fianco, che 'l ciel bestemmia, e di tant'ira freme, che 'l tempestoso mare è orribil manco. Or s'apparecchia a por le forze estreme: lo scudo ove in azzurro è l'augel bianco, vinto da sdegno, si gittò lontano, e messe al brando e l'una e l'altra mano. 61 - Ah (disse a lui Ruggier), senza più basti a mostrar che non merti quella insegna, ch'or tu la getti, e dianzi la tagliasti; né potrai dir mai più che ti convegna. - Così dicendo, forza è che egli attasti con quanta furia Durindana vegna; che sì gli grava e sì gli pesa in fronte, che più leggier potea cadervi un monte. 62 E per mezzo gli fende la visiera; buon per lui che dal viso si discosta: poi calò su l'arcion che ferrato era, né lo difese averne doppia crosta: giunse al fin su l'arnese, e come cera l'aperse con la falda sopraposta; e ferì gravemente ne la coscia Ruggier, sì ch'assai stette a guarir poscia. 63 De l'un, come de l'altro, fatte rosse il sangue l'arme avea con doppia riga; tal che diverso era il parer, chi fosse di lor, ch'avesse il meglio in quella briga. Ma quel dubbio Ruggier tosto rimosse con la spada che tanti ne castiga: mena di punta, e drizza il colpo crudo onde gittato avea colui lo scudo. 64 Fora de la corazza il lato manco, e di venire al cor trova la strada; che gli entra più d'un palmo sopra il fianco: sì che convien che Mandricardo cada d'ogni ragion che può ne l'augel bianco, o che può aver ne la famosa spada; e da la cara vita cada insieme, che, più che spada e scudo, assai gli preme. 65 Non morì quel meschin senza vendetta; ch'a quel medesmo tempo che fu colto, la spada, poco sua, menò di fretta; et a Ruggier avria partito il volto, se già Ruggier non gli avesse intercetta prima la forza, e assai del vigor tolto: di forza e di vigor troppo gli tolse dianzi, che sotto il destro braccio il colse. 66 Da Mandricardo fu Ruggier percosso nel punto ch'egli a lui tolse la vita; tal ch'un cerchio di ferro, anco che grosso, e una cuffia d'acciar ne fu partita. Durindana tagliò cotenna et osso, e nel capo a Ruggiero entrò dua dita. Ruggier stordito in terra si riversa, e di sangue un ruscel dal capo versa. 67 Il primo fu Ruggier, ch'andò per terra; e dipoi stette l'altro a cader tanto, che quasi crede ognun che de la guerra riporti Mandricardo il pregio e il vanto: e Doralice sua, che con gli altri erra, e che quel dì più volte ha riso e pianto, Dio ringraziò con mani al ciel supine, ch'avesse avuta la pugna tal fine. 68 Ma poi ch'appare a manifesti segni vivo chi vive, e senza vita il morto, nei petti dei fautor mutano regni: di là mestizia, e di qua vien conforto. I re, i signori, i cavallier più degni, con Ruggier ch'a fatica era risorto, a rallegrarsi et abbracciarsi vanno, e gloria senza fine e onor gli dànno. 69 Ognun s'allegra con Ruggiero, e sente il medesmo nel cor, c'ha ne la bocca. Sol Gradasso il pensiero ha differente tutto da quel che fuor la lingua scocca: mostra gaudio nel viso; e occultamente del glorïoso acquisto invidia il tocca; e maledice o sia destino o caso, il qual trasse Ruggier prima del vaso. 70 Che dirò del favor, che de le tante carezze e tante, affettuose e vere, che fece a quel Ruggiero il re Agramante, senza il qual dare al vento le bandiere, né vòlse muover d'Africa le piante, né senza lui si fidò in tante schiere? Or che del re Agricane ha spento il seme, prezza più lui, che tutto il mondo insieme. 71 Né di tal volontà gli uomini soli eran verso Ruggier, ma le donne anco, che d'Africa e di Spagna fra gli stuoli eran venute al tenitorio franco. E Doralice istessa, che con duoli piangea l'amante suo pallido e bianco, forse con l'altre ita sarebbe in schiera, se di vergogna un duro fren non era. 72 Io dico forse, non ch'io ve l'accerti, ma potrebbe esser stato di leggiero: tal la bellezza e tali erano i merti, i costumi e i sembianti di Ruggiero. Ella, per quel che già ne siamo esperti, sì facile era a variar pensiero, che per non si veder priva d'amore, avria potuto in Ruggier porre il core. 73 Per lei buono era vivo Mandricardo: ma che ne volea far dopo la morte? Proveder le convien d'un che gagliardo sia notte e dì ne' suoi bisogni, e forte. Non era stato intanto a venir tardo il più perito medico di corte, che di Ruggier veduta ogni ferita, già l'avea assicurato de la vita. 74 Con molta diligenza il re Agramante fece colcar Ruggier ne le sue tende; che notte e dì veder sel vuole inante: sì l'ama, sì di lui cura si prende. Lo scudo al letto e l'arme tutte quante, che fur di Mandricardo, il re gli appende; tutte le appende, eccetto Durindana, che fu lasciata al re di Sericana. 75 Con l'arme l'altre spoglie a Ruggier sono date di Mandricardo, e insieme dato gli è Brigliador, quel destrier bello e buono, che per furore Orlando avea lasciato. Poi quello al re diede Ruggiero in dono, che s'avide ch'assai gli saria grato. Non più di questo; che tornar bisogna a chi Ruggiero invan sospira e agogna. 76 Gli amorosi tormenti che sostenne Bradamante aspettando, io v'ho da dire. A Montalbano Ippalca a lei rivenne e nuova le arrecò del suo desire. Prima, di quanto di Frontin le avenne con Rodomonte, l'ebbe a riferire; poi di Ruggier, che ritrovò alla fonte con Ricciardetto e' frati d'Agrismonte: 77 e che con esso lei s'era partito con speme di trovare il Saracino, e punirlo di quanto avea fallito d'aver tolto a una donna il suo Frontino; e che 'l disegno poi non gli era uscito, perché diverso avea fatto il camino. La cagione anco, perché non venisse a Montalban Ruggier, tutta le disse; 78 e riferille le parole a pieno, ch'in sua scusa Ruggier le avea commesse. Poi si trasse la lettera di seno, ch'egli le diè, perch'ella a lei la desse. Con viso più turbato che sereno prese la carta Bradamante e lesse; che, se non fosse la credenza stata già di veder Ruggier, fôra più grata. 79 L'aver Ruggiero ella aspettato, e invece di lui vedersi ora appagar d'un scritto, del bel viso turbar l'aria le fece di timor, di cordoglio e di despitto. Baciò la carta diece volte e diece, avendo a chi la scrisse il cor diritto. Le lacrime vietâr, che su vi sparse, che con sospiri ardenti ella non l'arse. 80 Lesse la carta quattro volte e sei, e volse ch'altretante l'imbasciata replicata le fosse da colei che l'una e l'altra avea quivi arrecata, pur tuttavia piangendo: e crederei che mai non si saria più racchetata, se non avesse avuto pur conforto di riveder il suo Ruggier di corto. 81 Termine a ritornar quindici o venti giorni avea Ruggier tolto, et affermato l'avea ad Ippalca poi con giuramenti da non temer che mai fosse mancato. - Chi m'assicura, ohimè! degli accidenti (ella dicea), c'han forza in ogni lato, ma ne le guerre più, che non distorni alcun tanto Ruggier, che più non torni? 82 Ohimè! Ruggiero, ohimè! chi arìa creduto ch'avendoti amato io più di me stessa, tu più di me, non ch'altri, ma potuto abbi amar gente tua inimica espressa? A chi opprimer dovresti, doni aiuto: chi tu dovresti aitare, è da te oppressa. Non so se biasmo o laude esser ti creti, ch'al premiar e al punir sì poco vedi. 83 Fu morto da Troian (non so se 'l sai) il padre tuo; ma fin ai sassi il sanno: e tu del figlio di Troian cura hai che non riceva alcun disnor né danno. È questa la vendetta che ne fai, Ruggiero? e a quei che vendicato l'hanno, rendi tal premio, che del sangue loro me fai morir di strazio e di martoro? - 84 Dicea la donna al suo Ruggiero absente queste parole et altre, lacrimando, non una sola volta, ma sovente. Ippalca la venìa pur confortando, che Ruggier servarebbe interamente sua fede, e ch'ella l'aspettasse, quando altro far non potea, fin a quel giorno ch'avea Ruggier prescritto al suo ritorno. 85 I conforti d'Ippalca, e la speranza che degli amanti suole esser compagna, alla tema e al dolor tolgon possanza di far che Bradamante ognora piagna; in Montalban senza mutar mai stanza voglion che fin al termine rimagna, fino al promesso termine e giurato, che poi fu da Ruggier male osservato. 86 Ma ch'egli alla promessa sua mancasse, non però debbe aver la colpa affatto; ch'una causa et un'altra sì lo trasse, che gli fu forza preterire il patto. Convenne che nel letto si colcasse, e più d'un mese si stesse di piatto in dubbio di morir, sì il dolor crebbe dopo la pugna che col Tartaro ebbe. 87 L'innamorata giovane l'attese tutto quel giorno e desïollo invano, né mai ne seppe, fuor quanto ne 'ntese ora da Ippalca, e poi dal suo germano, che le narrò che Ruggier lui difese, e Malagigi liberò e Viviano. Questa novella, ancor ch'avesse grata, pur di qualche amarezza era turbata: 88 che di Marfisa in quel discorso udito l'alto valore e le bellezze avea: udì come Ruggier s'era partito con esso lei, e che d'andar dicea là dove con disagio in debol sito malsicuro Agramante si tenea. Sì degna compagnia la donna lauda ma non che se n'allegri, o che l'applauda. 89 Né picciolo è il sospetto che la preme; che se Marfisa è bella, come ha fama, e che fin a quel dì sien giti insieme, è maraviglia se Ruggier non l'ama. Pur non vuol creder anco, e spera e teme; e 'l giorno che la può far lieta e grama, misera aspetta; e sospirando stassi, da Montalban mai non movendo i passi. 90 Stando ella quivi, il principe, il signore del bel castello, il primo de' suoi frati (io non dico d'etade, ma d'onore, che di lui prima dui n'erano nati), Rinaldo, che di gloria e di splendore gli ha, come il sol le stelle, illuminati, giunse al castello un giorno in su la nona; né, fuor ch'un paggio, era con lui persona. 91 Cagion del suo venir fu, che da Brava ritornandosi un dì verso Parigi (come v'ho detto che sovente andava per ritrovar d'Angelica vestigi), avea sentita la novella prava del suo Viviano e del suo Malagigi, ch'eran per essere dati al Maganzese; e perciò ad Agrismonte la via prese. 92 Dove intendendo poi ch'eran salvati, e gli aversarii lor morti e distrutti, e Marfisa e Ruggiero erano stati, che gli aveano a quei termini ridutti; e suoi fratelli e suoi cugin tornati a Montalbano insieme erano tutti; gli parve un'ora un anno di trovarsi con esso lor là dentro ad abbracciarsi. 93 Venne Rinaldo a Montalbano, e quivi madre, moglie abbracciò, figli e fratelli, e i cugini che dianzi eran captivi; e parve, quando egli arrivò tra quelli, dopo gran fame irondine ch'arrivi col cibo in bocca ai pargoletti augelli. E poi ch'un giorno vi fu stato o dui, partissi, e fe' partire altri con lui. 94 Ricciardo, Alardo, Ricciardetto, e d'essi figli d'Amone, il più vecchio Guicciardo, Malagigi e Vivian, si furon messi in arme dietro al paladin gagliardo. Bradamante aspettando che s'appressi il tempo ch'al disio suo ne vien tardo, inferma disse agli fratelli ch'era, e non vòlse con lor venire in schiera. 95 E ben lor disse il ver, ch'ella era inferma, ma non per febbre o corporal dolore: era il disio che l'alma dentro inferma, e le fa alterazion patir d'amore. Rinaldo in Montalban più non si ferma, e seco mena di sua gente il fiore. Come a Parigi appropinquosse, e quanto Carlo aiutò, vi dirà l'altro canto.
1 Che dolce più, che più giocondo stato saria di quel d'un amoroso core? che viver più felice e più beato, che ritrovarsi in servitù d'Amore? se non fosse l'uom sempre stimulato da quel sospetto rio, da quel timore, da quel martìr, da quella frenesia, da quella rabbia detta gelosia. 2 Però ch'ogni altro amaro che si pone tra questa soavissima dolcezza, è un augumento, una perfezïone, et è un condurre amore a più finezza. L'acque parer fa saporite e buone la sete, e il cibo pel digiun s'apprezza: non conosce la pace e non l'estima chi provato non ha la guerra prima. 3 Se ben non veggon gli occhi ciò che vede ognora il core, in pace si sopporta. Lo star lontano, poi quando si riede, quanto più lungo fu, più riconforta. Lo stare in servitù senza mercede (pur che non resti la speranza morta) patir si può: che premio al ben servire pur viene al fin, se ben tarda a venire. 4 Gli sdegni, le repulse, e finalmente tutti i martìr d'amor, tutte le pene, fan per lor rimembranza, che si sente con miglior gusto un piacer quando viene. Ma se l'infernal peste una egra mente avvien ch'infetti, ammorbi et avelene; se ben segue poi festa et allegrezza, non la cura l'amante e non l'apprezza. 5 Questa è la cruda e avelenata piaga a cui non val liquor, non vale impiastro, né murmure, né imagine di saga, né val lungo osservar di benigno astro, né quanta esperienza d'arte maga fece mai l'inventor suo Zoroastro: piaga crudel che sopra ogni dolore conduce l'uom, che disperato muore. 6 Oh incurabil piaga che nel petto d'un amator sì facile s'imprime, non men per falso che per ver sospetto! piaga che l'uom sì crudelmente opprime, che la ragion gli offusca e l'intelletto, e lo tra' fuor de le sembianze prime! Oh iniqua gelosia, che così a torto levasti a Bradamante ogni conforto! 7 Non di questo ch'Ippalca e che 'l fratello le avea nel core amaramente impresso, ma dico d'uno annunzio crudo e fello che le fu dato pochi giorni appresso. Questo era nulla a paragon di quello ch'io vi dirò, ma dopo alcun digresso. Di Rinaldo ho da dir primieramente, che vêr Parigi vien con la sua gente. 8 Scontraro il dì seguente invêr la sera un cavallier ch'avea una donna al fianco, con scudo e sopravesta tutta nera, se non che per traverso ha un fregio bianco. Sfidò alla giostra Ricciardetto, ch'era dinanzi, e vista avea di guerrier franco: e quel, che mai nessun ricusar vòlse, girò la briglia e spazio a correr tolse. 9 Senza dir altro, o più notizia darsi de l'esser lor, si vengono all'incontro. Rinaldo e gli altri cavallier fermârsi per veder come seguiria lo scontro. - Tosto costui per terra ha da versarsi, se in luogo fermo a mio modo lo incontro - dicea tra sé medesmo Ricciardetto; ma contrario al pensier seguì l'effetto. 10 però che lui sotto la vista offese di tanto colpo il cavalliero istrano, che lo levò di sella, e lo distese più di due lance al suo destrier lontano. Di vendicarlo incontinente prese l'assunto Alardo, e ritrovossi al piano stordito e male acconcio: sì fu crudo lo scontro fier, che gli spezzò lo scudo. 11 Guicciardo pone incontinente in resta l'asta, che vede i duo germani in terra, ben che Rinaldo gridi: - Resta, resta; che mia convien che sia la terza guerra: - ma l'elmo ancor non ha allacciato in testa sì che Guicciardo al corso si disserra; né più degli altri si seppe tenere, e ritrovossi subito a giacere. 12 Vuol Ricciardo, Viviano e Malagigi, e l'un prima de l'altro essere in giostra: ma Rinaldo pon fine ai lor litigi; ch'inanzi a tutti armato si dimostra, dicendo loro: - È tempo ire a Parigi; e saria troppo la tardanza nostra, s'io volesse aspettar fin che ciascuno di voi fosse abbattuto ad uno ad uno. - 13 Dissel tra sé, ma non che fosse inteso, che saria stato agli altri ingiuria e scorno. L'uno e l'altro del campo avea già preso, e si faceano incontra aspro ritorno. Non fu Rinaldo per terra disteso, che valea tutti gli altri ch'avea intorno; le lance si fiaccâr, come di vetro, né i cavallier si piegâr oncia a dietro. 14 L'uno e l'altro cavallo in guisa urtosse, che gli fu forza in terra a por le groppe. Baiardo immantinente ridrizzosse, tanto ch'a pena il correre interroppe. Sinistramente sì l'altro percosse, che la spalla e la schena insieme roppe. Il cavallier che 'l destrier morto vede, lascia le staffe, et è subito in piede. 15 Et al figlio d'Amon, che già rivolto tornava a lui con la man vòta, disse: - Signore, il buon destrier che tu m'hai tolto, perché caro mi fu mentre che visse, mi faria uscir del mio debito molto, se così invendicato si morisse: sì che vientene, e fa ciò che tu puoi, perché battaglia esser convien tra noi. - 16 Disse Rinaldo a lui: - Se 'l destrier morto, e non altro ci de' porre a battaglia, un de' miei ti darò, piglia conforto, che men del tuo non crederò che vaglia. - Colui soggiunse: - Tu sei malaccorto, se creder vuoi che d'un destrier mi caglia. Ma poi che non comprendi ciò ch'io voglio, ti spiegherò più chiaramente il foglio. 17 Vo' dir che mi parria commetter fallo, se con la spada non ti provassi anco, e non sapessi s'in quest'altro ballo tu mi sia pari, o se più vali o manco. Come ti piace, o scendi, o sta a cavallo: pur che le man tu non ti tegna al fianco, io son contento ogni vantaggio darti: tanto alla spada bramo di provarti. - 18 Rinaldo molto non lo tenne in lunga, e disse: - La battaglia ti prometto; e perché tu sia ardito, e non ti punga di questi c'ho d'intorno alcun sospetto, andranno inanzi fin ch'io gli raggiunga; né meco resterà fuor ch'un valletto che mi tenga il cavallo: - e così disse alla sua compagnia che se ne gisse. 19 La cortesia del paladin gagliardo commendò molto il cavalliero estrano. Smontò Rinaldo, e del destrier Baiardo diete al valletto le retine in mano: e poi che più non vede il suo stendardo, il qual di lungo spazio è già lontano, lo scudo imbraccia e stringe il brando fiero, e sfida alla battaglia il cavalliero. 20 E quivi s'incomincia una battaglia di ch'altra mai non fu più fiera in vista. Non crede l'un che tanto l'altro vaglia, che troppo lungamente gli resista. Ma poi che 'l paragon ben gli ragguaglia, né l'un de l'altro più s'allegra o attrista, pongon l'orgoglio et il furor da parte, et al vantaggio loro usano ogn'arte. 21 S'odon lor colpi dispietati e crudi intorno rimbombar con suono orrendo, ora i canti levando a' grossi scudi, schiodando or piastre, e quando maglie aprendo. Né qui bisogna tanto che si studi a ben ferir, quanto a parar, volendo star l'uno a l'altro par; ch'eterno danno lor può causar il primo error che fanno. 22 Durò l'assalto un'ora e più che 'l mezzo d'un'altra; et era il sol già sotto l'onde, et era sparso il tenebroso rezzo de l'orizzon fin all'estreme sponde; né riposato o fatto altro intermezzo aveano alle percosse furibonde questi guerrier, che non ira o rancore, ma tratto all'arme avea disio d'onore. 23 Rivolve tuttavia tra sé Rinaldo chi sia l'estrano cavallier sì forte, che non pur gli sta contra ardito e saldo, ma spesso il mena a risco de la morte; e già tanto travaglio e tanto caldo gli ha posto, che del fin dubita forte: e volentier, se con suo onor potesse, vorria che quella pugna rimanesse. 24 Da l'altra parte il cavallier estrano, che similmente non avea notizia che quel fosse il signor di Montalbano, quel sì famoso in tutta la milizia, che gli avea incontra con la spada in mano condotto così poca nimicizia, era certo che d'uom di più eccellenza non potesson dar l'arme esperïenza. 25 Vorrebbe de l'impresa esser digiuno, ch'avea di vendicare il suo cavallo; e se potesse senza biasmo alcuno, si trarria fuor del periglioso ballo. Il mondo era già tanto oscuro e bruno, che tutti i colpi quasi ivano in fallo: poco ferire e men parar sapeano, ch'a pena in man le spade si vedeano. 26 Fu quel da Montalbano il primo a dire che far battaglia non denno allo scuro, ma quella indugiar tanto e differire, ch'avesse dato volta il pigro Arturo; e che può intanto al padiglion venire, ove di sé non sarà men sicuro, ma servito, onorato e ben veduto, quanto in loco ove mai fosse venuto. 27 Non bisognò a Rinaldo pregar molto, che 'l cortese baron tenne lo 'nvito. Ne vanno insieme ove il drappel raccolto di Montalbano era in sicuro sito. Rinaldo al suo scudiero avea già tolto un bel cavallo e molto ben guernito, a spada e a lancia e ad ogni prova buono, et a quel cavallier fattone dono. 28 Il guerrier peregrin conobbe quello esser Rinaldo, che venìa con esso; che prima che giungessero all'ostello, venuto a caso era a nomar se stesso: e perché l'un de l'altro era fratello, si sentîr dentro di dolcezza oppresso, e di pietoso affetto tocco il core; e lacrimar per gaudio e per amore. 29 Questo guerriero era Guidon Selvaggio, che dianzi con Marfisa e Sansonetto e' figli d'Olivier molto vïaggio avea fatto per mar, come v'ho detto. Di non veder più tosto il suo lignaggio il fellon Pinabel gli avea interdetto, avendol preso, e a bada poi tenuto alla difesa del suo rio statuto. 30 Guidon, che questo esser Rinaldo udio, famoso sopra ogni famoso duce, ch'avuto avea più di veder disio, che non ha il cieco la perduta luce, con molto gaudio disse: - O signor mio, qual fortuna a combatter mi conduce con voi, che lungamente ho amato et amo, e sopra tutto il mondo onorar bramo? 31 Mi partorì Costanza ne le estreme ripe del mar Eusino: io son Guidone, concetto de lo illustre inclito seme, come ancor voi, del generoso Amone. Di voi vedere e gli altri nostri insieme il desiderio è del venir cagione; e dove mia intenzion fu d'onorarvi, mi veggo esser venuto a ingiurïarvi. 32 Ma scusimi apo voi d'un error tanto, ch'io non ho voi né gli altri conosciuto; e s'emendar si può, ditemi quanto far debbo, ch'in ciò far nulla rifiuto. - Poi che si fu da questo e da quel canto de' complessi iterati al fin venuto, rispose a lui Rinaldo: - Non vi caglia meco scusarvi più de la battaglia: 33 che per certificarne che voi sète di nostra antiqua stirpe un vero ramo, dar miglior testimonio non potete, che 'l gran valor ch'in voi chiaro proviamo. Se più pacifiche erano e quïete vostre maniere, mal vi credevamo; che la damma non genera il leone, né le colombe l'aquila o il falcone. - 34 Non, per andar, di ragionar lasciando, non di seguir, per ragionar, lor via, vennero ai padiglioni; ove narrando il buon Rinaldo alla sua compagnia che questo era Guidon, che disiando veder, tanto aspettato aveano pria, molto gaudio apportò ne le sue squadre; e parve a tutti assimigliarsi al padre. 35 Non dirò l'accoglienze che gli fêro Alardo, Ricciardetto e gli altri dui; che gli fece Viviano et Aldigiero, e Malagigi, frati e cugin sui; ch'ogni signor gli fece e cavalliero; ciò ch'egli disse a loro, et essi a lui: ma vi concluderò che finalmente fu ben veduto da tutta la gente. 36 Caro Guidone a' suoi fratelli stato credo sarebbe in ogni tempo assai; ma lor fu al gran bisogno ora più grato, ch'esser potesse in altro tempo mai. Poscia che 'l nuovo sole incoronato del mare uscì di luminosi rai, Guidon coi frati e coi parenti in schiera se ne tornò sotto la lor bandiera. 37 Tanto un giorno et un altro se n'andaro, che di Parigi alle assediate porte a men di dieci miglia s'accostaro in ripa a Senna; ove per buona sorte Grifone et Aquilante ritrovaro, i duo guerrier da l'armatura forte: Grifone il bianco et Aquilante il nero, che partorì Gismonda d'Oliviero. 38 Con essi ragionava una donzella, non già di vil condizione in vista, che di sciamito bianco la gonnella fregiata intorno avea d'aurata lista; molto leggiadra in apparenza e bella, fosse quantunque lacrimosa e trista: e mostrava ne' gesti e nel sembiante di cosa ragionar molto importante. 39 Conobbe i cavallier, come essi lui, Guidon, che fu con lor pochi dì inanzi; et a Rinaldo disse: - Eccovi dui a cui van pochi di valore inanzi; e se per Carlo ne verran con nui, non ne staranno i Saracini inanzi. - Rinaldo di Guidon conferma il detto, che l'uno e l'altro era guerrier perfetto. 40 Gli avea riconosciuti egli non manco; però che quelli sempre erano usati, l'un tutto nero, e l'altro tutto bianco vestir su l'arme, e molto andare ornati. Da l'altra parte essi conobbero anco e salutâr Guidon, Rinaldo e i frati; et abbracciâr Rinaldo come amico, messo da parte ogni lor odio antico. 41 S'ebbero un tempo in urta e in gran dispetto per Truffaldin, che fôra lungo a dire; ma quivi insieme con fraterno affetto s'accarezzâr, tutte obliando l'ire. Rinaldo poi si volse a Sansonetto, ch'era tardato un poco più a venire, e lo raccolse col debito onore, a pieno instrutto del suo gran valore. 42 Tosto che la donzella più vicino vide Rinaldo, e conosciuto l'ebbe (ch'avea notizia d'ogni paladino), gli disse una novella che gl'increbbe; e cominciò: - Signore, il tuo cugino, a cui la Chiesa e l'alto Imperio debbe, quel già sì saggio et onorato Orlando, è fatto stolto, e va pel mondo errando. 43 Onde causato così strano e rio accidente gli sia, non so narrarte. La sua spada e l'altr'arme ho vedute io, che per li campi avea gittate e sparte; e vidi un cavallier cortese e pio che le andò raccogliendo da ogni parte, e poi di tutte quelle un arbuscello fe', a guisa di trofeo, pomposo e bello. 44 Ma la spada ne fu tosto levata dal figliuol d'Agricane il dì medesmo. Tu pòi considerar quanto sia stata gran perdita alla gente del battesmo l'essere un'altra volta ritornata Durindana in poter del paganesmo. Né Brigliadoro men, ch'errava sciolto intorno all'arme, fu dal pagan tolto. 45 Son pochi dì ch'Orlando correr vidi senza vergogna e senza senno, ignudo, con urli spaventevoli e con gridi: ch'è fatto pazzo in somma ti conchiudo; e non avrei, fuor ch'a questi occhi fidi, cretuto mai sì acerbo caso e crudo. - Poi narrò che lo vide giú dal ponte abbracciato cader con Rodomonte. 46 - A qualunque io non creda esser nimico d'Orlando (soggiungea) di ciò favello, acciò ch'alcun di tanti a ch'io lo dico, mosso a pietà del caso strano e fello, cerchi o a Parigi o in altro luogo amico ridurlo, fin che si purghi il cervello. Ben so, se Brandimarte n'avrà nuova, sarà per farne ogni possibil prova. - 47 Era costei la bella Fiordiligi, più cara a Brandimarte che se stesso, la qual, per lui trovar, venìa a Parigi: e de la spada ella suggiunse appresso, che discordia e contesa e gran litigi tra il Sericano e l' Tartaro avea messo; e ch'avuta l'avea, poi fu casso di vita Mandricardo, al fin Gradasso. 48 Di così strano e misero accidente Rinaldo senza fin si lagna e duole; né il core intenerir men se ne sente, che soglia intenerirsi il ghiaccio al sole: e con disposta et immutabil mente, ovunque Orlando sia, cercar lo vuole, con speme, poi che ritrovato l'abbia, di farlo risanar di quella rabbia. 49 Ma già lo stuolo avendo fatto unire, sia volontà del cielo o sia aventura, vuol fare i Saracin prima fuggire, e liberar le parigine mura. Ma consiglia l'assalto differire, che vi par gran vantaggio, a notte scura, ne la terza vigilia o ne la quarta, ch'avrà l'acqua di Lete il Sonno sparta. 50 Tutta la gente alloggiar fece al bosco, e quivi la posò per tutto 'l giorno; ma poi che 'l sol, lasciando il mondo fosco, alla nutrice antiqua fe' ritorno, et orsi e capre e serpi senza tòsco e l'altre fere ebbeno il cielo adorno, che state erano ascose al maggior lampo, mosse Rinaldo il taciturno campo: 51 e venne con Grifon, con Aquilante, con Vivian, con Alardo e con Guidone, con Sansonetto, agli altri un miglio inante, a cheti passi e senza alcun sermone. Trovò dormir l'ascolta d'Agramante: tutta l'uccise, e non ne fe' un prigione. Indi arrivò tra l'altra gente Mora, che non fu visto né sentito ancora. 52 Del campo d'infedeli a prima giunta la ritrovata guardia all'improviso lasciò Rinaldo sì rotta e consunta, ch'un sol non ne restò, se non ucciso. Spezzata che lor fu la prima punta, i Saracin non l'avean più da riso; che sonnolenti, timidi et inermi, poteano a tai guerrier far pochi schermi. 53 Fece Rinaldo per maggior spavento dei Saracini, al mover de l'assalto, a trombe e a corni dar subito vento, e, gridando, il suo nome alzar in alto. Spinse Baiardo, e quel non parve lento; che dentro all'alte sbarre entrò d'un salto, e versò cavallier, pestò pedoni, et atterrò trabacche e padiglioni. 54 Non fu sì ardito tra il popul pagano, a cui non s'arricciassero le chiome, quando sentì «Rinaldo e Montalbano» sonar per l'aria, il formidato nome. Fugge col campo d'Africa l'ispano, né perde tempo a caricar le some; ch'aspettar quella furia più non vuole, ch'aver provata anco si piagne e duole. 55 Guidon lo segue, e non fa men di lui, né men fanno i duo figli d'Oliviero, Alardo e Ricciardetto, e gli altri dui: col brando Sansonetto apre il sentiero: Aldigiero e Vivian provar altrui fan quanto in arme l'uno e l'altro è fiero. Così fa ognun che segue lo stendardo di Chiaramonte, da guerrier gagliardo. 56 Settecento con lui tenea Rinaldo in Montalbano e intorno a quelle ville, usati a portar l'arme al freddo e al caldo, non già più rei dei Mirmidon d'Achille. Ciascun d'essi al bisogno era sì saldo, che cento insieme non fuggian per mille; e se ne potean molti sceglier fuori, che d'alcun dei famosi eran migliori. 57 E se Rinaldo ben non era molto ricco né di città né di tesoro, facea sì con parole e con buon volto, e ciò ch'avea partendo ognor con loro, ch'un di quel numer mai non gli fu tolto per offerire altrui più somma d'oro. Questi da Montalban mai non rimuove, se non lo stringe un gran bisogno altrove. 58 Et or, perch'abbia il Magno Carlo aiuto, lasciò con poca guardia il suo castello. Tra gli African questo drappel venuto, questo drappel del cui valor favello, ne fece quel che del gregge lanuto sul falanteo Galeso il lupo fello, o quel che soglia, del barbato, appresso il barbaro Cinifio, il leon spesso. 59 Carlo, ch'aviso da Rinaldo avuto avea che presso era a Parigi giunto, e che la notte il campo sproveduto volea assalir, stato era in arme e in punto, e quando bisognò, venne in aiuto coi paladini; e ai paladini aggiunto avea il figliol del ricco Monodante, di Fiordiligi il fido e saggio amante, 60 ch'ella più giorni per sì lunga via cercato avea per tutta Francia invano. Quivi all'insegne che portar solia, fu da lei conosciuto di lontano. Come lei Brandimarte vide pria, lasciò la guerra, e tornò tutto umano, e corse ad abbracciarla; e d'amor pieno, mille volte baciolla o poco meno. 61 De le lor donne e de le lor donzelle si fidâr molto a quella antica etade. Senz'altra scorta andar lasciano quelle per piani e monti e per strane contrade; et al ritorno l'han per buone e belle, né mai tra lor suspizïone accade. Fiordiligi narrò quivi al suo amante, che fatto stolto era il signor d'Anglante. 62 Brandimarte sì strana e ria novella credere ad altri a pena avria potuto; ma lo credette a Fiordiligi bella, a cui già maggior cose avea creduto. Non pur d'averlo udito gli dice ella, ma che con gli occhi proprii l'ha veduto (c'ha conoscenza e pratica d'Orlando, quanto alcun altro), e dice dove e quando 63 E gli narra del ponte periglioso, che Rodomonte ai cavallier difende, ove un sepolcro adorna e fa pomposo di sopraveste e d'arme di chi prende. Narra c'ha visto Orlando furïoso far cose quivi orribili e stupende; che nel fiume il pagan mandò riverso, con gran periglio di restar summerso. 64 Brandimarte, che 'l conte amava quanto si può compagno amar, fratello o figlio, disposto di cercarlo, e di far tanto, non ricusando affanno né periglio, che per opra di medico o d'incanto si ponga a quel furor qualche consiglio, così come trovossi armato in sella, si mise in via con la sua donna bella. 65 Verso la parte ove la donna il conte avea veduto, il lor camin drizzaro, di giornata in giornata, fin ch'al ponte che guarda il re d'Algier, si ritrovaro. La guardia ne fe' segno a Rodomonte; e gli scudieri a un tempo gli arrecaro l'arme e il cavallo: e quel si trovò in punto, quando fu Brandimarte al passo giunto. 66 Con voce qual conviene al suo furore il Saracino a Brandimarte grida: - Qualunque tu ti sia, che, per errore di via o di mente, qui tua sorte guida, scendi e spogliati l'arme, e fanne onore al gran sepolcro, inanzi ch'io t'uccida, e che vittima all'ombre tu sia offerto: ch'io 'l farò poi, né te n'avrò alcun merto. - 67 Non vòlse Brandimarte a quell'altiero altra risposta dar, che de la lancia. Sprona Batoldo, il suo gentil destriero, e inverso quel con tanto ardir si lancia, che mostra che può star d'animo fiero con qual si voglia al mondo alla bilancia: e Rodomonte, con la lancia in resta, lo stretto ponte a tutta briglia pesta. 68 Il suo destrier ch'avea continuo uso d'andarvi sopra, e far di quel sovente quando uno e quando un altro cader giuso, alla giostra correa sicuramente; l'altro, del corso insolito confuso, venìa dubbioso, timido e tremente. Trema anco il ponte, e par cader ne l'onda, oltre che stretto e che sia senza sponda. 69 I cavallier, di giostra ambi maestri, che le lance avean grosse come travi, tali qual fur nei lor ceppi silvestri, si dieron colpi non troppo soavi. Ai lor cavalli esser possenti e destri non giovò molto agli aspri colpi e gravi; che si versâr di pari ambi sul ponte, e seco i signor lor tutti in un monte. 70 Nel volersi levar con quella fretta che lo spronar de' fianchi insta e richiete, l'asse del ponticel lor fu sì stretta, che non trovaro ove fermare il piede; sì che una sorte uguale ambi li getta ne l'acqua; e gran rimbombo al ciel ne riede, simile a quel ch'uscì del nostro fiume, quando ci cadde il mal rettor del lume. 71 I duo cavalli andâr con tutto 'l pondo dei cavallier, che steron fermi in sella, a cercar la rivera insin al fondo, se v'era ascosa alcuna ninfa bella. Non è già il primo salto né 'l secondo, che giú del ponte abbia il pagano in quella onda spiccato col destrero audace; però sa ben come quel fondo giace: 72 sa dove è saldo e sa dove è più molle, sa dove è l'acqua bassa e dove è l'alta. Dal fiume il capo e il petto e i fianchi estolle, e Brandimarte a gran vantaggio assalta. Brandimarte il corrente in giro tolle: ne la sabbia il destrier, che 'l fondo smalta, tutto si ficca, e non può rïaversi, con rischio di restarvi ambi sommersi. 73 L'onda si leva e li fa andar sozzopra, e dove è più profonda li trasporta: va Brandimarte sotto, e 'l destrier sopra. Fiordiligi dal ponte afflitta e smorta e le lacrime e i voti e i prieghi adopra: - Ah Rodomonte, per colei che morta tu riverisci, non esser sì fiero, ch'affogar lasci un tanto cavalliero! 74 Deh, cortese signor, s'unque tu amasti, di me, ch'amo costui, pietà ti vegna. Di farlo tuo prigion, per Dio, ti basti; che s'orni il sasso tuo di quella insegna, di quante spoglie mai tu gli arrecasti, questa fia la più bella e la più degna. - E seppe sì ben dir, ch'ancor che fosse sì crudo il re pagan, pur lo commosse; 75 e fe' che 'l suo amator ratto soccorse, che sotto acqua il destrier tenea sepolto, e de la vita era venuto in forse, e senza sete avea bevuto molto. Ma aiuto non però prima gli porse, che gli ebbe il brando e dipoi l'elmo tolto. De l'acqua mezzo morto il trasse, e porre con molti altri lo fe' ne la sua torre. 76 Fu ne la donna ogni allegrezza spenta, quando prigion vide il suo amante gire; ma di questo pur meglio si contenta, che di vederlo nel fiume perire. Di se stessa, e non d'altri, si lamenta, che fu cagion di farlo ivi venire, per averli narrato ch'avea il conte riconosciuto al periglioso ponte. 77 Quindi si parte, avendo già concetto di menarvi Rinaldo paladino, o il Selvaggio Guidone, o Sansonetto, o altri de la corte di Pipino, in acqua e in terra cavallier perfetto da poter contrastar col Saracino; se non più forte, almen più fortunato che Brandimarte suo non era stato. 78 Va molti giorni, prima che s'abbatta in alcun cavallier ch'abbia sembiante d'esser come lo vuol, perché combatta col Saracino e liberi il suo amante. Dopo molto cercar di persona atta al suo bisogno, un le vien pur avante, che sopravesta avea ricca et ornata, a tronchi di cipressi ricamata. 79 Chi costui fosse, altrove ho da narrarvi; che prima ritornar voglio a Parigi, e de la gran sconfitta seguitarvi, ch'a' Mori diè Rinaldo e Malagigi. Quei che fuggiro io non saprei contarvi, né quei che fur cacciati ai fiumi stigi. Levò a Turpino il conto l'aria oscura, che di contarli s'avea preso cura. 80 Nel primo sonno dentro al padiglione dormia Agramante; e un cavallier lo desta, dicendogli che fia fatto prigione, se la fuga non è via più che presta. Guarda il re intorno, e la confusïone vede dei suoi, che van senza far testa chi qua chi là fuggendo inermi e nudi, che non han tempo di pur tor gli scudi. 81 Tutto confuso e privo di consiglio si facea porre indosso la corazza, quando con Falsiron vi giunse il figlio Grandonio e Balugante e quella razza; e al re Agramante mostrano il periglio di restar morto o preso in quella piazza: e che può dir, se salva la persona, che Fortuna gli sia propizia e buona. 82 Così Marsilio e così il buon Sobrino, e così dicon gli altri ad una voce, ch'a sua distruzion tanto è vicino, quanto a Rinaldo il qual ne vien veloce; che s'aspetta che giunga il paladino con tanta gente, e un uom tanto feroce, render certo si può ch'egli e i suo' amici rimarran morti, o in man degli nimici. 83 Ma ridur si può in Arli o sia in Narbona con quella poca gente c'ha d'intorno; che l'una e l'altra terra è forte e buona da mantener la guerra più d'un giorno: e quando salva sia la sua persona, si potrà vendicar di questo scorno, rifacendo l'esercito in un tratto, onde al fin Carlo ne sarà disfatto. 84 Il re Agramante al parer lor s'attenne, ben che 'l partito fosse acerbo e duro. Andò verso Arli, e parve aver le penne, per quel camin che più trovò sicuro. Oltre alle guide, in gran favor gli venne che la partita fu per l'aer scuro. Venti mila tra d'Africa e di Spagna fur, ch'a Rinaldo uscîr fuor de la ragna. 85 Quei ch'egli uccise e quei che i suoi fratelli, quei che i duo figli del signor di Vienna, quei che provaro empi nimici e felli i settecento a cui Rinaldo accenna, e quei che spense Sansonetto, e quelli che ne la fuga s'affogaro in Senna, chi potesse contar, conteria ancora ciò che sparge d'april Favonio e Flora. 86 Istima alcun che Malagigi parte ne la vittoria avesse de la notte; non che di sangue le campagne sparte fosser per lui, né per lui teste rotte: ma che gl'infernali angeli per arte facesse uscir da le tartaree grotte, e con tante bandiere e tante lance, ch'insieme più non ne porrian due France; 87 e che facesse udir tanti metalli, tanti tamburi e tanti varii suoni, tanti anitriri in voce di cavalli, tanti gridi e tumulti di pedoni, che risonare e piani e monti e valli dovean de le longique regïoni: et ai Mori con questo un timor diede, che li fece voltare in fuga il piede. 88 Non si scordò il re d'Africa Ruggiero, ch'era ferito e stava ancora grave. Quanto poté più acconcio s'un destriero lo fece por, ch'avea l'andar soave; e poi che l'ebbe tratto ove il sentiero fu più sicuro, il fe' posar in nave, e verso Arli portar commodamente, dove s'avea a raccor tutta la gente. 89 Quei ch'a Rinaldo e a Carlo dier le spalle (fur, credo, centomila o poco manco), per campagne, per boschi e monte e valle cercaro uscir di man del popul franco; ma la più parte trovò chiuso il calle, e fece rosso ov'era verde e bianco. Così non fece il re di Sericana, ch'avea da lor la tenda più lontana: 90 anzi, come egli sente che 'l signore di Montalbano è questo che gli assalta, gioisce di tal iubilo nel core, che qua e là per allegrezza salta. Loda e ringrazia il suo sommo Fattore, che quella notte gli occorra tant'alta e sì rara aventura d'acquistare Baiardo, quel destrier che non ha pare. 91 Avea quel re gran tempo desïato (creto ch'altrove voi l'abbiate letto) d'aver la buona Durindana a lato, e cavalcar quel corridor perfetto. E già con più di centomila armato era venuto in Francia a questo effetto; e con Rinaldo già sfidato s'era per quel cavallo alla battaglia fiera; 92 e sul lito del mar s'era condutto ove dovea la pugna diffinire: ma Malagigi a turbar venne il tutto, che fe' il cugin, mal grado suo, partire, avendol sopra un legno in mar ridutto. Lungo saria tutta l'istoria dire. Da indi in qua stimò timido e vile sempre Gradasso il paladin gentile. 93 Or che Gradasso esser Rinaldo intende costui ch'assale il campo, se n'allegra. Si veste l'arme, e la sua alfana prende, e cercando lo va per l'aria negra: e quanti ne riscontra, a terra stende; et in confuso lascia afflitta et egra la gente, o sia di Libia o sia di Francia: tutti li mena a un par la buona lancia. 94 Lo va di qua di là tanto cercando, chiamando spesso e quanto può più forte, e sempre a quella parte declinando, ove più folte son le genti morte, ch'al fin s'incontra in lui brando per brando poi che le lancie loro ad una sorte eran salite in mille scheggie rotte sin al carro stellato de la Notte. 95 Quando Gradasso il paladin gagliardo conosce, e non perché ne vegga insegna, ma per gli orrendi colpi e per Baiardo, che par che sol tutto quel campo tegna; non è, gridando, a improverargli tardo la prova che di sé fece non degna: ch'al dato campo il giorno non comparse, che tra lor la battaglia dovea farse. 96 Suggiunse poi: - Tu forse avevi speme, se potevi nasconderti quel punto, che non mai più per raccozzarci insieme fossimo al mondo: or vedi ch'io t'ho giunto. Sie certo, se tu andassi ne l'estreme fosse di Stige, o fossi in cielo assunto, ti seguirò, quando abbi il destrier teco, ne l'alta luce e giú nel mondo cieco. 97 Se d'aver meco a far non ti dà il core, e vedi già che non puoi starmi a paro, e più stimi la vita che l'onore, senza periglio ci puoi far riparo, quando mi lasci in pace il corridore; e viver puoi, se sì t'è il viver caro: ma vivi a piè, che non merti cavallo, s'alla cavalleria fai sì gran fallo. - 98 A quel parlar si ritrovò presente con Ricciardetto il cavallier Selvaggio; e le Spade ambi trassero ugualmente, per far parere il Serican mal saggio. Ma Rinaldo s'oppose immantinente, e non patì che se gli fêsse oltraggio, dicendo: - Senza voi dunque non sono a chi m'oltraggia per risponder buono? - 99 Poi se ne ritornò verso il pagano, e disse: - Odi, Gradasso; io voglio farte, e tu m'ascolti, manifesto e piano ch'io venni alla marina a ritrovarte: e poi ti sosterrò con l'arme in mano, che t'avrò detto il vero in ogni parte; e sempre che tu dica mentirai, ch'alla cavalleria mancass'io mai. 100 Ma ben ti priego che prima che sia pugna tra noi, che pianamente intenda la giustissima e vera scusa mia, acciò ch'a torto più non mi riprenda; e poi Baiardo al termine di pria tra noi vorrò ch'a piedi si contenda da solo a solo in solitario lato, sì come a punto fu da te ordinato. - 101 Era cortese il re di Sericana, come ogni cor magnanimo esser suole; et è contento udir la cosa piana, e come il paladin scusar si vuole. Con lui ne viene in ripa alla fiumana, ove Rinaldo in semplici parole alla sua vera istoria trasse il velo, e chiamò in testimonio tutto 'l cielo: 102 e poi chiamar fece il figliuol di Buovo, l'uom che di questo era informato a pieno, ch'a parte a parte replicò di nuovo l'incanto suo, né disse più né meno. Soggiunse poi Rinaldo: - Ciò ch'io provo col testimonio, io vo' che l'arme sieno, che ora e in ogni tempo che ti piace, te n'abbiano a far prova più verace. - 103 Il re Gradasso, che lasciar non volle per la seconda la querela prima, le scuse di Rinaldo in pace tolle, ma se son vere o false in dubbio stima. Non tolgon campo più sul lito molle di Barcelona, ove lo tolser prima; ma s'accordaro per l'altra matina trovarsi a una fontana indi vicina: 104 ove Rinaldo seco abbia il cavallo, che posto sia communemente in mezzo: se 'l re uccide Rinaldo o il fa vassallo, se ne pigli il destrier senz'altro mezzo, ma se Gradasso è quel che faccia fallo, che sia condotto all'ultimo ribrezzo, o, per più non poter, che gli si renda, da lui Rinaldo Durindana prenda. 105 Con maraviglia molta e più dolore (come v'ho detto) avea Rinaldo udito da Fiordiligi bella, ch'era fuore de l'intelletto il suo cugino uscito. Avea de l'arme inteso anco il tenore, e del litigio che n'era seguito; e ch'in somma Gradasso avea quel brando ch'ornò di mille e mille palme Orlando. 106 Poi che furon d'accordo, ritornosse il re Gradasso ai servitori sui; ben che dal paladin pregato fosse che ne venisse ad alloggiar con lui. Come fu giorno, il re pagano armosse; così Rinaldo: e giunsero ambedui ove dovea non lungi alla fontana combattersi Baiardo e Durindana. 107 De la battaglia che Rinaldo avere con Gradasso dovea da solo a solo, parean gli amici suoi tutti temere, e inanzi il caso ne faceano il duolo. Molto ardir, molta forza, alto sapere avea Gradasso; et or che del figliuolo del gran Milone avea la spada al fianco, di timor per Rinaldo era ognun bianco 108 E più degli altri il frate di Viviano stava di questa pugna in dubbio e in tema, et anco volentier vi porria mano per farla rimaner d'effetto scema: ma non vorria che quel da Montalbano seco venisse a inimicizia estrema; ch'anco avea di quell'altra seco sdegno, che gli turbò, quando il levò sul legno. 109 Ma stiano gli altri in dubbio, in tema, in doglia: Rinaldo se ne va lieto e sicuro, sperando ch'ora il biasmo se gli toglia, ch'avere a torto gli parea pur duro; sì che quei da Pontieri e d'Altafoglia faccia cheti restar, come mai furo. Va con baldanza e sicurtà di core di riportarne il trionfale onore. 110 Poi che l'un quinci e l'altro quindi giunto fu quasi a un tempo in su la chiara fonte, s'accarezzaro, e fero a punto a punto così serena et amichevol fronte, come di sangue e d'amistà congiunto fosse Gradasso a quel di Chiaramonte. Ma come poi s'andassero a ferire, vi voglio a un'altra volta differire.
1 Soviemmi che cantar io vi dovea (già lo promisi, e poi m'uscì di mente) d'una sospizïon che fatto avea la bella donna di Ruggier dolente, de l'altra più spiacevole e più rea, e di più acuto e venenoso dente, che per quel ch'ella udì da Ricciardetto, a devorare il cor l'entrò nel petto. 2 Dovea cantarne, et altro incominciai, perché Rinaldo in mezzo sopravenne; e poi Guidon mi diè che fare assai, che tra camino a bada un pezzo il tenne. D'una cosa in un'altra in modo entrai, che mal di Bradamante mi sovenne: sovienmene ora, e vo' narrarne inanti che di Rinaldo e di Gradasso io canti. 3 Ma bisogna anco, prima ch'io ne parli, che d'Agramante io vi ragioni un poco, ch'avea ridutte le reliquie in Arli, che gli restâr del gran notturno fuoco, quando a raccor lo sparso campo e a darli soccorso e vettovaglie era atto il loco: l'Africa incontra, e la Spagna ha vicina, et è in sul fiume assiso alla marina. 4 Per tutto 'l regno fa scriver Marsilio gente a piedi e a cavallo, e trista e buona. Per forza e per amore ogni navilio atto a battaglia s'arma in Barcelona. Agramante ogni dì chiama a concilio; né a spesa né a fatica si perdona. Intanto gravi esazïoni e spesse tutte hanno le città d'Africa oppresse. 5 Egli ha fatto offerire a Rodomonte, perché ritorni (et impetrar nol puote), una cugina sua, figlia d'Almonte, e 'l bel regno d'Oran dargli per dote. Non si vòlse l'altier muover dal ponte, ove tant'arme e tante selle vòte di quei che son già capitati al passo ha ragunate, che ne cuopre il sasso. 6 Già non vòlse Marfisa imitar l'atto di Rodomonte: anzi com'ella intese ch'Agramante da Carlo era disfatto, sue genti morte, saccheggiate e prese, e che con pochi in Arli era ritratto, senza aspettare invito, il camin prese: venne in aiuto de la sua corona, e l'aver gli proferse e la persona. 7 E gli menò Brunello, e gli ne fece libero dono, il qual non avea offeso: l'avea tenuto dieci giorni e diece notti sempre in timor d'essere appeso; e poi che né con forza né con prece da nessun vide il patrocinio preso, in sì sprezzato sangue non si vòlse bruttar l'altiere mani, e lo disciolse. 8 Tutte l'antique ingiurie gli remesse, e seco in Arli ad Agramante il trasse. Ben dovete pensar che gaudio avesse il re di lei ch'ad aiutarlo andasse: e del gran conto ch'egli ne facesse, vòlse che Brunel prova le mostrasse; che quel di ch'ella gli avea fatto cenno, di volerlo impiccar, fe' da buon senno. 9 Il manigoldo, in loco inculto et ermo, pasto di corvi e d'avoltoi lasciollo. Ruggier ch'un'altra volta gli fu schermo, e che 'l laccio gli avria tolto dal collo, la giustizia di Dio fa ch'ora infermo s'è ritrovato, et aiutar non puollo: e quando il seppe, era già il fatto occorso; sì che restò Brunel senza soccorso. 10 Intanto Bradamante iva accusando che così lunghi sian quei venti giorni, li quai finiti, il termine era, quando a lei Ruggiero et alla fede torni. A chi aspetta di carcere o di bando uscir, non par che 'l tempo più soggiorni a dargli libertade, o de l'amata patria vista gioconda e disïata. 11 In quel duro aspettare ella talvolta pensa ch'Eto e Piròo sia fatto zoppo; o sia la ruota guasta, ch'a dar volta le par che tardi, oltr'all'usato, troppo. Più lungo di quel giorno a cui, per molta fede, nel cielo il giusto Ebreo fe' intoppo, più de la notte ch'Ercole produsse, parea lei ch'ogni notte, ogni dì fusse. 12 Oh quante volte da invidiar le diero e gli orsi e i ghiri e i sonnacchiosi tassi! che quel tempo voluto avrebbe intero tutto dormir, che mai non si destassi; né potere altro udir, fin che Ruggiero dal pigro sonno lei non richiamassi. Ma non pur questo non può far, ma ancora non può dormir di tutta notte un'ora. 13 Di qua di là va le noiose piume tutte premendo, e mai non si riposa. Spesso aprir la finestra ha per costume, per veder s'anco di Titon la sposa sparge dinanzi al matutino lume il bianco giglio e la vermiglia rosa: non meno ancor, poi che nasciuto è 'l giorno, brama vedere il ciel di stelle adorno. 14 Poi che fu quattro o cinque giorni appresso il termine a finir, piena di spene stava aspettando d'ora in ora il messo che le apportasse: - Ecco Ruggier che viene. - Montava sopra un'alta torre spesso, ch'i folti boschi e le campagne amene scopria d'intorno, e parte de la via onde di Francia a Montalban si gìa. 15 Se di lontano o splendor d'arme vede, o cosa tal ch'a cavallier simiglia, che sia il suo disïato Ruggier crede, e rasserena i begli occhi e le ciglia; se disarmato o viandante a piede, che sia messo di lui speranza piglia: e se ben poi fallace la ritrova, pigliar non cessa una et un'altra nuova. 16 Credendolo incontrar, talora armossi, scese dal monte e giù calò nel piano; né lo trovando, si sperò che fossi per altra strada giunto a Montalbano: e col disir con ch'avea i piedi mossi fuor del castel, ritornò dentro invano. Né qua né là trovollo; e passò intanto il termine aspettato da lei tanto. 17 Il termine passò d'uno, di dui, di tre giorni, di sei, d'otto e di venti; né vedendo il suo sposo, né di lui sentendo nuova, incominciò lamenti ch'avrian mosso a pietà nei regni bui quelle Furie crinite di serpenti; e fece oltraggio a' begli occhi divini, al bianco petto, all'aurei crespi crini. 18 - Dunque fia ver (dicea) che mi convegna cercare un che mi fugge e mi s'asconde? Dunque debbo prezzare un che mi sdegna? Debbo pregar chi mai non mi risponde? Patirò che chi m'odia, il cor mi tegna? un che sì stima sue virtù profonde, che bisogno sarà che dal ciel scenda immortal dea che 'l cor d'amor gli accenda? 19 Sa questo altier ch'io l'amo e ch'io l'adoro, né mi vuol per amante né per serva. Il crudel sa che per lui spasmo e moro, e dopo morte a darmi aiuto serva. E perché io non gli narri il mio martoro atto a piegar la sua voglia proterva, da me s'asconde, come aspide suole, che, per star empio, il canto udir non vuole. 20 Deh ferma, Amor, costui che così sciolto dinanzi al lento mio correr s'affretta; o tornami nel grado onde m'hai tolto quando né a te né ad altri era suggetta! Deh, come è il mio sperar fallace e stolto, ch'in te con prieghi mai pietà si metta; che ti diletti, anzi ti pasci e vivi di trar dagli occhi lacrimosi rivi! 21 Ma di che debbo lamentarmi, ahi lassa fuor che del mio desire irrazionale? ch'alto mi leva, e sì ne l'aria passa, ch'arriva in parte ove s'abbrucia l'ale; poi non potendo sostener, mi lassa dal ciel cader: né qui finisce il male; che le rimette, e di nuovo arde: ond'io non ho mai fine al precipizio mio. 22 Anzi via più che del disir, mi deggio di me doler, che sì gli apersi il seno; onde cacciata ha la ragion di seggio, et ogni mio poter può di lui meno. Quel mi trasporta ognor di male in peggio, né lo posso frenar, che non ha freno: e mi fa certa che mi mena a morte, perch'aspettando il mal noccia più forte. 23 Deh perché voglio anco di me dolermi? Ch'error, se non d'amarti, unqua commessi? Che maraviglia, se fragili e infermi feminil sensi fur subito oppressi? Perché dovev'io usar ripari e schermi che la somma beltà non mi piacessi, gli alti sembianti e le saggie parole? Misero è ben chi veder schiva il sole! 24 Et oltre al mio destino, io ci fui spinta da le parole altrui degne di fede: somma felicità mi fu dipinta, ch'esser dovea di questo amor mercede. Se la persuasione, ohimè! fu finta, se fu inganno il consiglio che mi diede Merlin, posso di lui ben lamentarmi, ma non d'amar Ruggier posso ritrarmi. 25 Di Merlin posso e di Melissa insieme dolermi, e mi dorrò d'essi in eterno, che dimostrare i frutti del mio seme mi fêro dagli spirti de lo 'nferno, per pormi sol con questa falsa speme in servitù; né la cagion discerno, se non ch'erano forse invidïosi dei miei dolci, sicuri, almi riposi. - 26 Sì l'occupa il dolor, che non avanza loco ove in lei conforto abbia ricetto; ma, mal grado di quel, vien la speranza e vi vuole alloggiare in mezzo il petto, rifrescandole pur la rimembranza di quel ch'al suo partir l'ha Ruggier detto: e vuol, contra il parer degli altri affetti, che d'ora in ora il suo ritorno aspetti. 27 Questa speranza dunque la sostenne, finito i venti giorni, un mese appresso; sì che il dolor sì forte non le tenne, come tenuto avria, l'animo oppresso. Un dì che per la strada se ne venne, che per trovar Ruggier solea far spesso, novella udì la misera, ch'insieme fe' dietro all'altro ben fuggir la speme. 28 Venne a incontrare un cavallier guascone che dal campo african venìa diritto, ove era stato da quel dì prigione, che fu inanzi a Parigi il gran conflitto. Da lei fu molto posto per ragione, fin che si venne al termine prescritto. Domandò di Ruggiero, e in lui fermosse; né fuor di questo segno più si mosse. 29 Il cavallier buon conto ne rendette, che ben conoscea tutta quella corte: e narrò di Ruggier, che contrastette da solo a solo a Mandricardo forte; e come egli l'uccise, e poi ne stette ferito più d'un mese presso a morte: e s'era la sua istoria qui conclusa, fatto avria di Ruggier la vera escusa. 30 Ma come poi soggiunse, una donzella esser nel campo, nomata Marfisa, che men non era che gagliarda, bella, né meno esperta d'arme in ogni guisa; che lei Ruggiero amava e Ruggiero ella, ch'egli da lei, ch'ella da lui divisa si vedea raro, e ch'ivi ognuno crede che s'abbiano tra lor data la fede; 31 e che come Ruggier si faccia sano, il matrimonio publicar si deve; e ch'ogni re, ogni principe pagano gran piacere e letizia ne riceve, che de l'uno e de l'altro sopraumano conoscendo il valor, sperano in breve far una razza d'uomini da guerra la più gagliarda che mai fosse in terra; 32 (credea il Guascon quel che dicea, non senza cagion; che ne l'esercito de' Mori openïone e universal credenza, e publico parlar n'era di fuori. I molti segni di benivolenza stati tra lor facean questi romori; che tosto o buona o ria che la fama esce fuor d'una bocca, in infinito cresce. 33 L'esser venuta a' Mori ella in aita con lui, né senza lui comparir mai, avea questa credenza stabilita; ma poi l'avea accresciuta pur assai, ch'essendosi del campo già partita portandone Brunel come io contai, senza esservi d'alcuno richiamata, sol per veder Ruggier v'era tornata. 34 Sol per lui visitar, che gravemente languia ferito, in campo venuta era, non una sola volta, ma sovente; vi stava il giorno e si partia la sera: e molto più da dir dava alla gente, ch'essendo conosciuta così altiera, che tutto 'l mondo a sé le parea vile, solo a Ruggier fosse benigna e umile); 35 come il Guascon questo affermò per vero, fu Bradamante da cotanta pena, da cordoglio assalita così fiero, che di quivi cader si tenne a pena. Voltò, senza far motto, il suo destriero, di gelosia, d'ira e di rabbia piena; e da sé discacciata ogni speranza, ritornò furibonda alla sua stanza. 36 E senza disarmarsi, sopra il letto, col viso volta in giú, tutta si stese, ove per non gridar, sì che sospetto di sé facesse, i panni in bocca prese; e ripetendo quel che l'avea detto il cavalliero, in tal dolor discese, che più non lo potendo sofferire, fu forza a disfogarlo, e così a dire: 37 - Misera! a chi mai più creder debb'io? Vo' dir ch'ognuno è perfido e crudele, se perfido e crudel sei, Ruggier mio, che sì pietoso tenni e sì fedele. Qual crudeltà, qual tradimento rio unqua s'udì per tragiche querele, che non trovi minor, se pensar mai al mio merto e al tuo debito vorai? 38 Perché, Ruggier, come di te non vive cavallier di più ardir, di più bellezza, né che a gran pezzo al tuo valore arrive, né a' tuoi costumi, né a tua gentilezza; perché non fai che fra tue illustri e dive virtú, si dica ancor ch'abbi fermezza? si dica ch'abbi invïolabil fede? a chi ogn'altra virtú s'inchina e cede. 39 Non sai che non compar, se non v'è quella, alcun valore, alcun nobil costume? come né cosa (e sia quanto vuol bella) si può vedere ove non splenda lume. Facil ti fu ingannare una donzella di cui tu signore eri, idolo e nume, a cui potevi far con tue parole creder che fosse oscuro e freddo il sole. 40 Crudel, di che peccato a doler t'hai, se d'uccider chi t'ama non ti penti? Se 'l mancar di tua fé sì leggier fai, di ch'altro peso il cor gravar ti senti? Come tratti il nimico, se tu dai a me, che t'amo sì, questi tormenti? Ben dirò che giustizia in ciel non sia, s'a veder tardo la vendetta mia. 41 Se d'ogn'altro peccato assai più quello de l'empia ingratitudine l'uomo grava, e per questo dal ciel l'angel più bello fu relegato in parte oscura e cava; e se gran fallo aspetta gran flagello quando debita emenda il cor non lava; guarda ch'aspro flagello in te non scenda, che mi se' ingrato e non vuoi farne emenda. 42 Di furto ancora, oltre ogni vizio rio, di te, crudele, ho da dolermi molto. Che tu mi tenga il cor, non ti dico io; di questo io vo' che tu ne vada assolto: dico di te, che t'eri fatto mio e poi contra ragion mi ti sei tolto. Renditi, iniquo, a me; che tu sai bene che non si può salvar chi l'altrui tiene. 43 Tu m'hai, Ruggier, lasciata: io te non voglio, né lasciarti volendo anco potrei; ma per uscir d'affanno e di cordoglio, posso e voglio, finire i giorni miei. Di non morirti in grazia sol mi doglio; che se concesso m'avessero i dèi ch'io fossi morta quando t'era grata, morte non fu giamai tanto beata. - 44 Così dicendo, di morir disposta, salta dal letto, e di rabbia infiammata si pon la spada alla sinistra costa; ma si ravvede poi che tutta è armata. Il miglior spirto in questo le s'accosta, e nel cor le ragiona: - O donna nata di tant'alto lignaggio, adunque vuoi finir con sì gran biasmo i giorni tuoi? 45 Non è meglio ch'al campo tu ne vada, ove morir si può con laude ognora? Quivi, s'avvien ch'inanzi a Ruggier cada, del morir tuo si dorrà forse ancora: ma s'a morir t'avvien per la sua spada, chi sarà mai che più contenta muora? Ragione è ben che di vita ti privi, poi ch'è cagion ch'in tanta pena vivi. 46 Verrà forse anco che prima che muori farai vendetta di quella Marfisa che t'ha con fraudi e disonesti amori, da te Ruggiero alïenando, uccisa. - Questi pensieri parveno migliori alla donzella; e tosto una divisa si fe' su l'arme, che volea inferire disperazione e voglia di morire. 47 Era la sopraveste del colore in che riman la foglia che s'imbianca quando del ramo è tolta, o che l'umore che facea vivo l'arbore le manca. Ricamata a tronconi era, di fuore, di cipresso che mai non si rinfranca, poi ch'ha sentita la dura bipenne; l'abito al suo dolor molto convenne. 48 Tolse il destrier ch'Astolfo aver solea, e quella lancia d'or, che, sol toccando, cader di sella i cavallier facea. Perché la le diè Astolfo, e dove e quando, e da chi prima avuta egli l'avea, non credo che bisogni ir replicando. Ella la tolse, non però sapendo che fosse del valor ch'era, stupendo. 49 Senza scudiero e senza compagnia scese dal monte, e si pose in camino verso Parigi alla più dritta via, ove era dianzi il campo saracino; che la novella ancora non s'udia, che l'avesse Rinaldo paladino, aiutandolo Carlo e Malagigi, fatto tor da l'assedio di Parigi. 50 Lasciati avea i Cadurci e la cittade di Caorse alle spalle, e tutto 'l monte ove nasce Dordona, e le contrade scopria di Monferrante e di Clarmonte, quando venir per le medesme strade vide una donna di benigna fronte, ch'uno scudo all'arcione avea attaccato; e le venian tre cavallieri a lato. 51 Altre donne e scudier venivano anco, qual dietro e qual dinanzi, in lunga schiera. Domandò ad un che le passò da fianco, la figlia d'Amon, chi la donna era; e quel le disse: - Al re del popul franco questa donna, mandata messaggiera fin di là dal polo artico, è venuta per lungo mar da l'Isola Perduta. 52 Altri Perduta, altri ha nomata Islanda l'isola, donde la regina d'essa, di beltà sopra ogni beltà miranda, dal ciel non mai, se non a lei, concessa, lo scudo che vedete, a Carlo manda; ma ben con patto e condizione espressa, ch'al miglior cavallier lo dia, secondo il suo parer, ch'oggi si trovi al mondo. 53 Ella, come si stima, e come in vero è la più bella donna che mai fosse, così vorria trovare un cavalliero che sopra ogn'altro avesse ardire e posse: perché fondato e fisso è il suo pensiero, da non cader per centomila scosse, che sol chi terrà in arme il primo onore, abbia d'esser suo amante e suo signore. 54 Spera ch'in Francia, alla famosa corte di Carlo Magno, il cavallier si trove, che d'esser più d'ogn'altro ardito e forte abbia fatto veder con mille prove. I tre che son con lei come sue scorte, re sono tutti, e dirovvi anco dove: uno in Svezia, uno in Gotia, in Norvegia uno, che pochi pari in arme hanno o nessuno. 55 Questi tre, la cui terra non vicina, ma men lontana è all'Isola Perduta (detta così, perché quella marina da pochi naviganti è conosciuta), erano amanti, e son, de la regina, e a gara per moglier l'hanno voluta; e per aggradir lei, cose fatt'hanno, che, fin che giri il ciel, dette saranno. 56 Ma né questi ella, né alcun altro vuole, ch'al mondo in arme esser non creda il primo. « Ch'abbiate fatto prove (lor dir suole) in questi luoghi appresso, poco istimo; e s'un di voi, qual fra le stelle il sole, fra gli altri duo sarà, ben lo sublimo: ma non però che tenga il vanto parme del miglior cavallier ch'oggi port'arme. 57 A Carlo Magno, il quale io stimo e onoro pel più savio signor ch'al mondo sia, son per mandare un ricco scudo d'oro, con patto e condizion ch'esso lo dia al cavalliero il quale abbia fra loro il vanto e il primo onor di gagliardia. Sia il cavalliero o suo vasallo o d'altri, il parer di quel re vo' che mi scaltri. 58 Se, poi che Carlo avrà lo scudo avuto, e l'avrà dato a quel sì ardito e forte, che d'ogn'altro migliore abbia creduto, che 'n sua si trovi o in alcun'altra corte, uno di voi sarà, che con l'aiuto di sua virtù lo scudo mi riporte; porrò in quello ogni amore, ogni disio, e quel sarà il marito e 'l signor mio ». 59 Queste parole han qui fatto venire questi tre re dal mar tanto discosto, che riportarne lo scudo, o morire per man di chi l'avrà, s'hanno proposto. - Ste' molto attenta Bradamante a udire quanto le fu da lo scudier risposto; il qual poi l'entrò inanzi, e così punse il suo cavallo, che i compagni giunse. 60 Dietro non gli galoppa né gli corre ella; ch'adagio il suo camin dispensa, e molte cose tuttavia discorre, che son per accadere: e in somma pensa che questo scudo di Francia sia per porre discordia e rissa e nimicizia immensa fra paladini et altri, se vuol Carlo chiarir chi sia il miglior, e a colui darlo. 61 Le preme il cor questo pensier; ma molto più le lo preme e strugge in peggior guisa quel ch'ebbe prima, di Ruggier, che tolto il suo amor le abbia e datolo a Marfisa. Ogni suo senso in questo è sì sepolto, che non mira la strada, né divisa ove arrivar, né se troverà inanzi commodo albergo ove la notte stanzi. 62 Come nave, che vento da la riva, o qualch'altro accidente abbia disciolta, va di nochiero e di governo priva ove la porti o meni il fiume in volta; così l'amante giovane veniva, tutta a pensare al suo Ruggier rivolta, ove vuol Rabican; che molte miglia lontano è il cor che de' girar la briglia. 63 Leva al fin gli occhi, e vede il sol che 'l tergo avea mostrato alle città di Bocco, e poi s'era attuffato, come il mergo, in grembo alla nutrice oltr'a Marocco: e se disegna che la frasca albergo le dia ne' campi, fa pensier di sciocco; che soffia un vento freddo, e l'aria grieve pioggia la notte le minaccia o nieve. 64 Con maggior fretta fa movere il piede al suo cavallo; e non fece via molta, che lasciar le campagne a un pastor vede, che s'avea la sua gregge inanzi tolta. La donna lui con molta istanza chiede che le 'nsegni ove possa esser raccolta o ben o mal; che mal sì non s'alloggia, che non sia peggio star fuori alla pioggia. 65 Disse il pastore: - Io non so loco alcuno ch'io vi sappia insegnar, se non lontano più di quattro o di sei leghe, for ch'uno che si chiama la ròcca di Tristano. Ma d'alloggiarvi non succede a ognuno; perché bisogna, con la lancia in mano che se l'acquisti e che se la difenda il cavallier che d'alloggiarvi intenda. 66 Se, quando arriva un cavallier, si trova vòta la stanza, il castellan l'accetta; ma vuol se sopravien poi gente nuova, ch'uscir fuori alla giostra gli prometta. Se non vien, non accade che si mova: se vien, forza è che l'arme si rimetta e con lui giostri, e chi di lor val meno. ceta l'albergo et esca al ciel sereno. 67 Se duo, tre, quattro o più guerrieri a un tratto vi giungon prima, in pace albergo v'hanno; e chi di poi vien solo, ha peggior patto, perché seco giostrar quei più lo fanno. Così, se prima un sol si sarà fatto quivi alloggiar, con lui giostrar voranno in duo, tre, quattro o più che verran dopo; sì che, s'avrà valor, gli fia a grande uopo. 68 Non men, se donna càpita o donzella, accompagnata o sola a questa ròcca, e poi v'arrivi un'altra, alla più bella l'albergo, et alla men star di fuor tocca. - Domanda Bradamante ove sia quella; e il buon pastor non pur dice con bocca, ma le dimostra il loco anco con mano, da cinque o dai sei miglia indi lontano. 69 La donna, ancor che Rabican ben trotte, solecitar però non lo sa tanto per quelle vie tutte fangose e rotte da la stagion ch'era piovosa alquanto, che prima arrivi, che la cieca notte fatt'abbia oscuro il mondo in ogni canto. Trovò chiusa la porta; e a chi n'avea la guardia disse ch'alloggiar volea. 70 Rispose quel, ch'era occupato il loco da donne e da guerrier che venner dianzi, e stavano aspettando intorno al fuoco che posta fosse lor la cena inanzi. - Per lor non credo l'avrà fatta il cuoco, s'ella v'è ancor, né l'han mangiata inanzi (disse la donna): or va, che qui gli attendo; che so l'usanza, e di servarla intendo.- 71 Parte la guardia, e porta l'imbasciata là dove i cavallier stanno a grand'agio, la qual non poté lor troppo esser grata, ch'all'aer li fa uscir freddo e malvagio; et era una gran pioggia incomminciata. Si levan pure, e piglian l'arme adagio: restano gli altri; e quei non troppo in fretta escono insieme ove la donna aspetta. 72 Eran tre cavallier che valean tanto, che pochi al mondo valean più di loro; et eran quei che 'l dì medesmo a canto vetuti a quella messaggiera fôro; quei ch'in Islanda s'avean dato vanto di Francia riportar lo scudo d'oro: e perché avean meglio i cavalli punti, prima di Bradamante eran giunti. 73 Di loro in arme pochi eran migliori, ma di quei pochi ella sarà ben l'una; ch'a nessun patto rimaner di fuori quella notte intendea molle e digiuna. Quei dentro alle finestre e ai corridori miran la giostra al lume de la luna, che mal grado de' nugoli lo spande e fa veder, ben che la pioggia è grande. 74 Come s'allegra un bene acceso amante ch'ai dolci furti per entrar si trova, quando al fin senta dopo indugie tante, che 'l taciturno chiavistel si muova; così volontarosa Bradamante di far di sé coi cavallieri prova, s'allegrò quando udì le porte aprire, calare il ponte, e fuor li vide uscire. 75 Tosto che fuor del ponte i guerrier vede uscire insieme o con poco intervallo, si volge a pigliar campo, e di poi riede cacciando a tutta briglia il buon cavallo, e la lancia arrestando, che le diede il suo cugin, che non si corre in fallo, che fuor di sella è forza che trabocchi, se fosse Marte, ogni guerrier che tocchi. 76 Il re di Svezia, che primier si mosse, fu primier anco a riversciarsi al piano: con tanta forza l'elmo gli percosse l'asta che mai non fu abbassata invano. Poi corse il re di Gotia, e ritrovosse coi piedi in aria al suo destrier lontano. Rimase il terzo sottosopra volto, ne l'acqua e nel pantan mezzo sepolto. 77 Tosto ch'ella ai tre colpi tutti gli ebbe fatto andar coi piedi alti e i capi bassi, alla ròcca ne va, dove aver debbe la notte albergo; ma prima che passi, v'è chi la fa giurar che n'uscirebbe, sempre ch'a giostrar fuori altri chiamassi. Il signor de là dentro, che 'l valore ben n'ha veduto, le fa grande onore. 78 Così le fa la donna che venuta era con quegli tre quivi la sera, come io dicea, da l'Isola Perduta, mandata al re di Francia messaggiera. Cortesemente a lei che la saluta, sì come grazïosa e affabil era, si leva incontra, e con faccia serena piglia per mano, e seco al fuoco mena. 79 La donna, cominciando a disarmarsi, s'avea lo scudo e dipoi l'elmo tratto; quando una cuffia d'oro, in che celarsi soleano i capei lunghi e star di piatto, uscì con l'elmo; onde caderon sparsi giú per le spalle, e la scopriro a un tratto e la feron conoscer per donzella, non men che fiera in arme, in viso bella. 80 Quale al cader de le cortine suole parer fra mille lampade la scena, d'archi e di più d'una superba mole, d'oro e di statue e di pitture piena; o come suol fuor de la nube il sole scoprir la faccia limpida e serena: così, l'elmo levandosi dal viso, mostrò la donna aprisse il paradiso. 81 Già son cresciute e fatte lunghe in modo le belle chiome che tagliolle il frate, che dietro al capo ne può fare un nodo, ben che non sian come son prima state. Che Bradamante sia, tien fermo e sodo (che ben l'avea vetuta altre fïate) il signor de la ròcca; e più che prima or l'accarezza e mostra farne stima. 82 Siedono al fuoco, e con giocondo e onesto ragionamento dan cibo all'orecchia, mentre, per ricreare ancora il resto del corpo, altra vivanda s'apparecchia. La donna all'oste domandò se questo modo d'albergo è nuova usanza o vecchia, e quando ebbe principio, e chi la pose; e 'l cavalliero a lei così rispose: 83 - Nel tempo che regnava Fieramonte, Clodïone, il figliuolo, ebbe una amica leggiadra e bella e di maniere conte quant'altra fosse a quella etade antica; la quale amava tanto, che la fronte non rivolgea da lei, più che si dica che facesse da Ione il suo pastore, perch'avea ugual la gelosia all'amore. 84 Qui la tenea; che 'l luogo avuto in dono avea dal padre, e raro egli n'uscia; e con lui dieci cavallier ci sono, e dei miglior di Francia tuttavia. Qui stando, venne a capitarci il buono Tristano, et una donna in compagnia, liberata da lui poch'ore inante, che traea presa a forza un fier gigante. 85 Tristano ci arrivò che 'l sol già volto avea le spalle ai liti di Siviglia; e domandò qui dentro esser raccolto, perché non c'è altra stanza a dieci miglia. Ma Clodïon, che molto amava e molto era geloso, in somma si consiglia che forestier, sia chi si voglia, mentre ci stia la bella donna, qui non entre. 86 Poi che con lunghe et iterate preci non poté aver qui albergo il cavalliero: « Or quel che far con prieghi io non ti feci, che 'l facci (disse) tuo mal grado, spero ». E sfidò Clodïon con tutti i dieci che tenea appresso, e con un grido altiero se gli offerse con lancia e spada in mano provar che discortese era e villano; 87 con patto, che se fa che con lo stuolo suo cada in terra, et ei stia in sella forte, ne la ròcca alloggiar vuole egli solo, e vuol gli altri serrar fuor de le porte. Per non patir quest'onta, va il figliuolo del re di Francia a rischio de la morte; ch'aspramente percosso cade in terra, e cadon gli altri, e Tristan fuor li serra. 88 Entrato ne la ròcca, trova quella la qual v'ho detta a Clodïon sì cara, e ch'avea, a par d'ogn'altra, fatto bella Natura, a dar bellezze così avara. Con lei ragiona: intanto arde e martella di fuor l'amante aspra passione amara; il qual non differisce a mandar prieghi al cavallier, che dar non gli la nieghi. 89 Tristano, ancor che lei molto non prezze, né prezzar, fuor ch'Isotta, altra potrebbe (ch'altra né ch'ami vuol né ch'accarezze la pozïon che già incantata bebbe), pur, perché vendicarsi de l'asprezze che Clodïon gli ha usate si vorebbe: « Di far gran torto mi parria (gli disse) che tal bellezza del suo albergo uscisse. 90 E quando a Clodïon dormire incresca solo alla frasca, e compagnia domandi, una giovane ho meco bella e fresca, non però di bellezze così grandi. Questa sarò contento che fuor esca, e ch'ubbidisca a tutti i suoi comandi; ma la più bella mi par dritto e giusto che stia con quel di noi ch'è più robusto ». 91 Escluso Clodïone e malcontento, andò sbuffando tutta notte in volta, come s'a quei che ne l'alloggiamento dormiano ad agio, fêsse egli l'ascolta; e molto più che del fretdo e del vento, si dolea de la donna che gli è tolta. La mattina Tristano a cui ne 'ncrebbe, gli la rendé, donde il dolor fin ebbe: 92 perché gli disse, e lo fe' chiaro e certo, che qual trovolla, tal gli la rendea; e ben che degno era d'ogni onta in merto de la discortesia ch'usata avea, pur contentar d'averlo allo scoperto fatto star tutta notte si volea: né l'escusa accettò, che fosse Amore stato cagion di così grave errore; 93 ch'Amor de' far gentile un cor villano, e non far d'un gentil contrario effetto. Partito che si fu di qui Tristano, Clodion non ste' molto a mutar tetto; ma prima consegnò la ròcca in mano a un cavallier, che molto gli era accetto, con patto ch'egli e chi da lui venisse, quest'uso in albergar sempre seguisse: 94 che 'l cavallier ch'abbia maggior possanza, e la donna beltà, sempre ci alloggi; e chi vinto riman, voti la stanza, dorma sul prato, o altrove scenda e poggi. E finalmente ci fe' por l'usanza che vedete durar fin al dì d'oggi. - Or, mentre il cavallier questo dicea, lo scalco por la mensa fatto avea. 95 Fatto l'avea ne la gran sala porre, di che non era al mondo la più bella; indi con torchi accesi venne a tôrre le belle donne, e le condusse in quella. Bradamante, all'entrar, con gli occhi scorre, e similmente fa l'altra donzella; e tutte piene le superbe mura veggon di nobilissima pittura. 96 Di sì belle figure è adorno il loco, che per mirarle oblian la cena quasi, ancor che ai corpi non bisogni poco, pel travaglio del dì lassi rimasi, e lo scalco si doglia e doglia il coco, che i cibi lascin raffreddar nei vasi. Pur fu chi disse: - Meglio fia che voi pasciate prima il ventre, e gli occhi poi. - 97 S'erano assisi, e porre alle vivande voleano man, quando il signor s'avide che l'alloggiar due donne è un error grande: l'una ha da star, l'altra convien che snide. Stia la più bella, e la men fuor si mande, dove la pioggia bagna e 'l vento stride. Perché non vi son giunte amendue a un'ora, l'una ha a partire, e l'altra a far dimora. 98 Chiama duo vecchi, e chiama alcune sue donne di casa, a tal giudizio buone; e le donzelle mira, e di lor due chi la più bella sia, fa paragone. Finalmente parer di tutti fue ch'era più bella la figlia d'Amone; e non men di beltà l'altra vincea, che di valore i guerrier vinti avea. 99 Alla donna d'Islanda, che non sanza molta sospizïon stava di questo, il signor disse: - Che serviàn l'usanza, non v'ha, donna, a parer se non onesto. A voi convien procacciar d'altra stanza, quando a noi tutti è chiaro e manifesto che costei di bellezze e di sembianti, ancor ch'inculta sia, vi passa inanti. - 100 Come si vede in un momento oscura nube salir d'umida valle al cielo, che la faccia che prima era sì pura cuopre del sol con tenebroso velo; così la donna alla sentenza dura che fuor la caccia ove è la pioggia e 'l gielo, cangiar si vide, e non parer più quella che fu pur dianzi sì gioconda e bella. 101 S'impallidisce e tutta cangia in viso, che tal sentenza udir poco le aggrada. Ma Bradamante con un saggio aviso, che per pietà non vuol che se ne vada, rispose: - A me non par che ben deciso, né che ben giusto alcun giudicio cada, ove prima non s'oda quanto nieghi la parte o affermi, e sue ragioni alleghi. 102 Io ch'a difender questa causa toglio, dico: o più bella o men ch'io sia di lei, non venni come donna qui, né voglio che sian di donna ora i progressi miei. Ma chi dirà, se tutta non mi spoglio, s'io sono o s'io non son quel ch'è costei? E quel che non si sa non si de' dire, e tanto men, quando altri n'ha a patire. 103 Ben son degli altri ancor, c'hanno le chiome lunghe, com'io, né donne son per questo. Se come cavallier la stanza, o come donna acquistata m'abbia, è manifesto: perché dunque volete darmi nome di donna, se di maschio è ogni mio gesto? La legge vostra vuol che ne sian spinte donne da donne, e non da guerrier vinte. 104 Poniamo ancor, che, come a voi pur pare, io donna sia (che non però il concedo), ma che la mia beltà non fosse pare a quella di costei; non però credo che mi vorreste la mercé levare di mia virtù, se ben di viso io cedo. Perder per men beltà giusto non parmi quel c'ho acquistato per virtù con l'armi. 105 E quando ancor fosse l'usanza tale, che chi perde in beltà ne dovesse ire, io ci vorrei restare, o bene o male che la mia ostinazion dovesse uscire. Per questo, che contesa diseguale è tra me e questa donna, vo' inferire che, contendendo di beltà, può assai perdere, e meco guadagnar non mai. 106 E se guadagni e perdite non sono in tutto pari, ingiusto è ogni partito: sì ch'a lei per ragion, sì ancor per dono spezial, non sia l'albergo proibito. E s'alcuno di dir che non sia buono e dritto il mio giudizio sarà ardito, sarò per sostenergli a suo piacere, che 'l mio sia vero, e falso il suo parere. - 107 La figliuola d'Amon, mossa a pietade che questa gentil donna debba a torto esser cacciata ove la pioggia cade, ove né tetto, ove né pure è un sporto, al signor de l'albergo persuade con ragion molte e con parlare accorto, ma molto più con quel ch'al fin concluse, che resti cheto e accetti le sue scuse. 108 Qual sotto il più cocente ardore estivo, quando di ber più desïosa è l'erba, il fior ch'era vicino a restar privo di tutto quell'umor ch'in vita il serba, sente l'amata pioggia e si fa vivo; così, poi che difesa sì superba si vide apparecchiar la messaggiera, lieta e bella tornò come prim'era. 109 La cena, stata lor buon pezzo avante, né ancor pur tocca, al fin godêrsi in festa, senza che più di cavalliero errante nuova venuta fosse lor molesta. La godêr gli altri, ma non Bradamante, pure all'usanza addolorata e mesta; che quel timor, che quel sospetto ingiusto che sempre avea nel cor, le tollea il gusto. 110 Finita ch'ella fu (che saria forse stata più lunga, se 'l desir non era di cibar gli occhi), Bradamante sorse, e sorse appresso a lei la messaggiera. Accennò quel signore ad un che corse e prestamente allumò molta cera, che splender fe' la sala in ogni canto. Quel che seguì dirò ne l'altro canto.
1 Timagora, Parrasio, Polignoto, Protogene, Timante, Apollodoro, Apelle, più di tutti questi noto, e Zeusi, e gli altri ch'a quei tempi foro; di quai la fama (mal grado di Cloto, che spinse i corpi e dipoi l'opre loro) sempre starà, fin che si legga e scriva, mercé degli scrittori, al mondo viva: 2 e quei che furo a' nostri dì, o sono ora, Leonardo, Andrea Mantegna, Gian Bellino, duo Dossi, e quel ch'a par sculpe e colora, Michel, più che mortale, angel divino; Bastiano, Rafael, Tizian, ch'onora non men Cador, che quei Venezia e Urbino; e gli altri di cui tal l'opra si vede, qual de la prisca età si legge e crede: 3 questi che noi veggiàn pittori, e quelli che già mille e mill'anni in pregio furo, le cose che son state, coi pennelli fatt'hanno, altri su l'asse, altri sul muro. Non però udiste antiqui, né novelli vedeste mai dipingere il futuro: e pur si sono istorie anco trovate, che son dipinte inanzi che sian state. 4 Ma di saperlo far non si dia vanto pittore antico né pittor moderno; e ceda pur quest'arte al solo incanto, del qual trieman gli spirti de lo 'nferno. La sala ch'io dicea ne l'altro canto, Merlin col libro, o fosse al lago Averno, o fosse sacro alle Nursine grotte, fece far dai demonii in una notte. 5 Quest'arte, con che i nostri antiqui fenno mirande prove, a nostra etade è estinta. Ma ritornando ove aspettar mi denno quei che la sala hanno a veder dipinta, dico ch'a uno scudier fu fatto cenno, ch'accese i torchi; onde la notte, vinta dal gran splendor, si dileguò d'intorno; né più vi si vetria, se fosse giorno. 6 Quel signor disse lor: - Vo' che sappiate, che de le guerre che son qui ritratte, fin al dì d'oggi poche ne son state; e son prima dipinte, che sian fatte. Chi l'ha dipinte, ancor l'ha indovinate. Quando vittoria avran, quando disfatte in Italia saran le genti nostre, potrete qui veder come si mostre. 7 Le guerre ch'i Franceschi da far hanno di là da l'Alpe, o bene o mal successe, dal tempo suo fin al millesim'anno, Merlin profeta in questa sala messe; il qual mandato fu dal re britanno al franco re ch'a Marcomir successe: e perché lo mandassi, e perché fatto da Merlin fu il lavor, vi dirò a un tratto. 8 Re Fieramonte, che passò primiero con l'esercito franco in Gallia il Reno, poi che quella occupò, facea pensiero di porre alla superba Italia il freno. Faceal perciò, che più 'l romano Impero vedea di giorno in giorno venir meno: e per tal causa col britanno Arturo volse far lega; ch'ambi a un tempo furo. 9 Artur, ch'impresa ancor senza consiglio del profeta Merlin non fece mai, di Merlin, dico, del demonio figlio, che del futuro antivedeva assai, per lui seppe, e saper fece il periglio a Fieramonte, a che di molti guai porrà sua gente, s'entra ne la terra ch'Apenin parte, e il mare e l'Alpe serra. 10 Merlin gli fe' veder che quasi tutti gli altri che poi di Francia scettro avranno, o di ferro gli eserciti distrutti, o di fame o di peste si vedranno; e che brevi allegrezze e lunghi lutti, poco guadagno et infinito danno riporteran d'Italia; che non lice che 'l Giglio in quel terreno abbia radice. 11 Re Fieramonte gli prestò tal fede, ch'altrove disegnò volger l'armata; e Merlin, che così la cosa vede, ch'abbia a venir, come se già sia stata, avere a' prieghi di quel re si crede la sala per incanto istorïata, ove dei Franchi ogni futuro gesto, come già stato sia, fa manifesto. 12 Acciò chi poi succederà, comprenda che, come ha d'acquistar vittoria e onore, qualor d'Italia la difesa prenda incontra ogn'altro barbaro furore; così, s'avvien ch'a danneggiarla scenda, per porle il giogo e farsene signore, comprenda, dico, e rendasi ben certo ch'oltre a quei monti avrà il sepulcro aperto. - 13 Così disse; e menò le donne dove incomincian l'istorie: e Singiberto fa lor veder, che per tesor si muove, che gli ha Maurizio imperatore offerto. - Ecco che scende dal monte di Giove nel pian da l'Ambra e dal Ticino aperto. Vedete Eutar, che non pur l'ha respinto, ma volto in fuga e fracassato e vinto. 14 Vedete Clodoveo, ch'a più di cento mila persone fa passare il monte: vedete il duca là di Benevento, che con numer dispar vien loro a fronte. Ecco finge lasciar l'alloggiamento, e pon gli aguati: ecco, con morti et onte, al vin lombardo la gente francesca corre, e riman come la lasca all'esca. 15 Ecco in Italia Childiberto quanta gente di Francia e capitani invia; né più che Clodoveo, si gloria e vanta ch'abbia spogliata o vinta Lombardia; che la spada del ciel scende con tanta strage de' suoi, che n'è piena ogni via, morti di caldo e di profluvio d'alvo; sì che di dieci un non ne torna salvo.- 16 Mostra Pipino, e mostra Carlo appresso, come in Italia un dopo l'altro scenda, e v'abbia questo e quel lieto successo, che venuto non v'è perché l'offenda; ma l'uno, acciò il pastor Stefano oppresso, l'altro Adrïano, e poi Leon difenda: l'un doma Aistulfo, e l'altro vince e prende il successore, e al papa il suo onor rende. 17 Lor mostra appresso un giovene Pipino, che con sua gente par che tutto cuopra da le Fornaci al lito pelestino; e faccia con gran spesa e con lung'opra il ponte a Malamocco, e che vicino giunga a Rïalto, e vi combatta sopra. Poi fuggir sembra, e che i suoi lasci sotto l'acque; che 'l ponte il vento e 'l mar gli han rotto. 18 - Ecco Luigi Borgognon, che scende là dove par che resti vinto e preso, e che giurar gli faccia chi lo prende, che più da l'arme sue non sarà offeso. Ecco che 'l giuramento vilipende; ecco di nuovo cade al laccio teso; ecco vi lascia gli occhi, e come talpe lo riportano i suoi di qua da l'Alpe. 19 Vedete un Ugo d'Arli far gran fatti, e che d'Italia caccia i Berengari; e due o tre volte gli ha rotti e disfatti, or dagli Unni rimessi, or dai Bavari. Poi da più forza è stretto di far patti con l'inimico, e non sta in vita guari; né guari dopo lui vi sta l'erede, e 'l regno intero a Berengario cede. 20 Vedete un altro Carlo, che a' conforti del buon Pastor fuoco in Italia ha messo; e in due fiere battaglie ha duo re morti, Manfredi prima, e Coradino appresso. Poi la sua gente, che con mille torti sembra tenere il nuovo regno oppresso, di qua e di là per le città divisa, vedete a un suon di vespro tutta uccisa. - 21 Lor mostra poi (ma vi parea intervallo di molti e molti, non ch'anni, ma lustri) scender dai monti un capitano Gallo, e romper guerra ai gran Visconti illustri; e con gente francesca a piè e a cavallo par ch'Alessandria intorno cinga e lustri; e che 'l duca il presidio dentro posto, e fuor abbia l'aguato un po' discosto; 22 e la gente di Francia malaccorta, tratta con arte ove la rete è tesa, col conte Armenïaco, la cui scorta l'avea condotta all'infelice impresa, giaccia per tutta la campagna morta, parte sia tratta in Alessandria presa: e di sangue non men che d'acqua grosso, il Tanaro si vede il Po far rosso. 23 Un, detto de la Marca, e tre Angioini mostra l'un dopo l'altro, e dice: - Questi a Bruci, a Dauni, a Marsi, a Salentini vedete come son spesso molesti. Ma né de' Franchi val né de' Latini aiuto sì, ch'alcun di lor vi resti: ecco li caccia fuor del regno, quante volte vi vanno, Alfonso e poi Ferrante. 24 Vedete Carlo ottavo, che discende da l'Alpe, e seco ha il fior di tutta Francia, che passa il Liri e tutto 'l regno prende senza mai stringer spada o abbassar lancia, fuor che lo scoglio ch'a Tifeo si stende su le braccia, sul petto e su la pancia; che del buon sangue d'Avalo al contrasto la virtú trova d'Inico del Vasto. - 25 Il signor de la ròcca, che venìa quest'istoria additando a Bradamante, mostrato che l'ebbe Ischia, disse: - Pria ch'a vedere altro più vi meni avante, io vi dirò quel ch'a me dir solia il bisavolo mio, quand'io era infante, e quel che similmente mi dicea che da suo padre udito anch'esso avea; 26 e 'l padre suo da un altro, o padre o fosse avolo, e l'un da l'altro sin a quello ch'a udirlo da quel proprio ritrovosse, che l'imagini fe' senza pennello, che qui vedete bianche, azzurre e rosse: udì che, quando al re mostrò il castello ch'or mostro a voi su quest'altiero scoglio, gli disse quel ch'a voi riferir voglio. 27 Udì che gli dicea ch'in in questo loco di quel buon cavallier che lo difende con tanto ardir, che par disprezzi il fuoco che d'ogn'intorno e sino al Faro incende, nascer debbe in quei tempi o dopo poco (e ben gli disse l'anno e le calende) un cavalliero, a cui sarà secondo ogn'altro che sin qui sia stato al mondo. 28 Non fu Nireo sì bel, non sì eccellente di forze Achille, e non sì ardito Ulisse, non sì veloce Lada, non prudente Nestor, che tanto seppe e tanto visse, non tanto liberal, tanto clemente, l'antica fama Cesare descrisse; che verso l'uom ch'in Ischia nascer deve, non abbia ogni lor vanto a restar lieve. 29 E se si glorïò l'antiqua Creta, quando il nipote in lei nacque di Celo, se Tebe fece Ercole e Bacco lieta, se si vantò dei duo gemelli Delo; né questa isola avrà da starsi cheta, che non s'esalti e non si levi in cielo, quando nascerà in lei quel gran marchese ch'avrà sì d'ogni grazia il ciel cortese. 30 Merlin gli disse, e replicògli spesso, ch'era serbato a nascere all'etade che più il romano Imperio saria oppresso, acciò per lui tornasse in libertade. Ma perché alcuno de' suoi gesti appresso vi mostrerò, pretirli non accade. - Così disse; e tornò all'istoria dove di Carlo si vedean l'inclite prove. 31 - Ecco (dicea) si pente Ludovico d'aver fatto in ltalia venir Carlo; che sol per travagliar l'emulo antico chiamato ve l'avea, non per cacciarlo; e se gli scuopre al ritornar nimico con Veneziani in lega, e vuol pigliarlo. Ecco la lancia il re animoso abbassa, apre la strada e, lor mal grado, passa. 32 Ma la sua gente ch'a difesa resta del nuovo regno, ha ben contraria sorte; che Ferrante, con l'opra che gli presta il signor mantuan, torna sì forte, ch'in pochi mesi non ne lascia testa, o in terra o in mar, che non sia messa a morte: poi per un uom che gli è con fraude estinto, non par che senta il gaudio d'aver vinto. - 33 Così dicendo, mostragli il marchese Alfonso di Pescara, e dice: - Dopo che costui comparito in mille imprese sarà più risplendente che piropo, ecco qui ne l'insidie che gli ha tese con un trattato doppio il rio Etïopo, come scannato di saetta cade il miglior cavallier di quella etade.- 34 Poi mostra ove il duodecimo Luigi passa con scorta italiana i monti, e svelto il Moro, pon la Fiordaligi nel fecondo terren già de' Visconti. Indi manda sua gente pei vestigi di Carlo, a far sul Garigliano i ponti; la quale appresso andar rotta e dispersa si vede, e morta e nel fiume summersa. 35 Vedete in Puglia non minor macello de l'esercito franco in fuga volto; e Consalvo Ferrante ispano è quello che due volte alla trappola l'ha colto. E come qui turbato, così bello mostra Fortuna al re Luigi il volto nel ricco pian che, fin dove Adria stride, tra l'Apenino e l'Alpe il Po divide. - 36 Così dicendo, se stesso riprende che quel ch'avea a dir prima abbia lasciato; e torna a dietro, e mostra uno che vende il castel che 'l signor suo gli avea dato; mostra il perfido Svizzero che prende colui ch'a sua difesa l'ha assoldato: le quai due cose, senza abbassar lancia, han dato la vittoria al re di Francia. 37 Poi mostra Cesar Borgia col favore di questo re farsi in Italia grande; ch'ogni baron di Roma, ogni signore suggietto a lei, par ch'in esilio mande. Poi mostra il re che di Bologna fuore leva la Sega, e vi fa entrar le Giande; poi come volge i Genovesi in fuga fatti ribelli, e la città suggiuga. 38 - Vedete (dice poi) di gente morta coperta in Giaradada la campagna. Par ch'apra ogni cittade al re la porta, e che Venezia a pena vi rimagna. Vedete come al papa non comporta che, passati i confini di Romagna, Modana al duca di Ferrara toglia, né qui si fermi, e 'l resto tor gli voglia: 39 e fa, all'incontro, a lui Bologna tôrre; che v'entra la Bentivola famiglia. Vedete il campo de' Francesi porre a sacco Brescia, poi che la ripiglia; e quasi a un tempo Felsina soccorre, e 'l campo ecclesiastico sgombiglia: e l'uno e l'altro poi nei luoghi bassi par si riduca del lito de Chiassi. 40 Di qua la Francia, e di là il campo ingrossa la gente ispana; e la battaglia è grande. Cader si vede e far la terra rossa la gente d'arme in amendua le bande. Piena di sangue uman pare ogni fossa: Marte sta in dubbio u' la vittoria mande. Per virtú d'un Alfonso al fin si vede che resta il Franco, e che l'Ispano cede, 41 e che Ravenna saccheggiata resta. Si morde il papa per dolor le labbia, e fa da' monti, a guisa di tempesta, scendere in fretta una tedesca rabbia, ch'ogni Francese, senza mai far testa, di qua da l'Alpe par che cacciat'abbia, e che posto un rampollo abbia del Moro nel giardino onde svelse i Gigli d'oro. 42 Ecco torna il Francese: eccolo rotto da l'infedele Elvezio ch'in suo aiuto con troppo rischio ha il giovine condotto, del quale il padre avea preso e venduto. Vedete poi l'esercito, che sotto la ruota di Fortuna era caduto, creato il novo re, che si prepara de l'onta vendicar ch'ebbe a Novara: 43 e con migliore auspizio ecco ritorna. Vedete il re Francesco inanzi a tutti, che così rompe a' Svizzeri le corna, che poco resta a non gli aver distrutti: sì che 'l titolo mai più non gli adorna, ch'usurpato s'avran quei villan brutti, che domator de' principi, e difesa si nomeran de la cristiana Chiesa. 44 Ecco, mal grado de la lega, prende Milano, e accorda il giovene Sforzesco. Ecco Borbon che la città difende pel re di Francia dal furor tedesco. Eccovi poi, che mentre altrove attende ad altre magne imprese il re Francesco, né sa quanta superbia e crudeltade usino i suoi, gli è tolta la cittade 45 Ecco un altro Francesco ch'assimiglia di virtú all'avo, e non di nome solo; che, fatto uscirne i Galli, si ripiglia col favor de la Chiesa il patrio suolo. Francia anco torna, ma ritien la briglia, né scorre Italia, come suole, a volo; che 'l bon duca di Mantua sul Ticino le chiude il passo, e le taglia il camino. 46 Federico, ch'ancor non ha la guancia de' primi fiori sparsa, si fa degno di gloria eterna, ch'abbia con la lancia, ma più con diligenza e con ingegno, Pavia difesa dal furor di Francia, e del Leon del mar rotto il disegno. Vedete duo marchesi, ambi terrore di nostre genti, ambi d'Italia onore; 47 ambi d'un sangue, ambi in un nido nati. Di quel marchese Alfonso il primo è figlio, il qual tratto dal Negro negli aguati, vedeste il terren far di sé vermiglio. Vedete quante volte son cacciati d'Italia i Franchi pel costui consiglio. L'altro di sì benigno e lieto aspetto il Vasto signoreggia, e Alfonso è detto. 48 Questo è il buon cavallier, di cui dicea, quando l'isola d'Ischia vi mostrai, che già profetizzando detto avea Merlino a Fieramonte cose assai: che diferire a nascere dovea nel tempo che d'aiuto più che mai l'afflitta Italia, la Chiesa e l'Impero contra ai barbari insulti avria mistiero. 49 Costui dietro al cugin suo di Pescara con l'auspicio di Prosper Colonnese, vedete come la Bicocca cara fa parere all'Elvezio e più al Francese. Ecco di nuovo Francia si prepara di ristaurar le mal successe imprese: scende il re con un campo in Lombardia, un altro per pigliar Napoli invia. 50 Ma quella che di noi fa come il vento d'arida polve, che l'aggira in volta, la leva fin al cielo, e in un momento a terra la ricaccia, onde l'ha tolta; fa ch'intorno a Pavia crede di cento mila persone aver fatto raccolta il re, che mira a quel che di man gli esce, non se la gente sua si scema o cresce. 51 Così per colpa de' ministri avari, e per bontà del re che se ne fida, sotto l'insegne si raccoglion rari, quando la notte il campo all'arme grida, che si vede assalir dentro ai ripari dal sagace Spagnuol, che con la guida di duo del sangue d'Avalo ardiria farsi nel cielo e ne lo 'nferno via. 52 Vedete il meglio de la nobiltade di tutta Francia alla campagna estinto. Vedete quante lance e quante spade han d'ogn'intorno il re animoso cinto; vedete che 'l destrier sotto gli cade: né per questo si rende o chiama vinto, ben ch'a lui solo attenda, a lui sol corra lo stuol nimico, e non è chi 'l soccorra. 53 Il re gagliardo si difende a piede, e tutto de l'ostil sangue si bagna: ma virtú al fine a troppa forza cede. Ecco il re preso, et eccolo in Ispagna: et a quel di Pescara dar si vede, et a chi mai da lui non si scompagna, a quel del Vasto, le prime corone del campo rotto e del gran re prigione. 54 Rotto a Pavia l'un campo, l'altro ch'era, per dar travaglio a Napoli, in camino, restar si vede, come, se la cera gli manca o l'oglio, resta il lumicino. Ecco che 'l re ne la prigione ibera lascia i figliuoli, e torna al suo domìno: ecco fa a un tempo egli in Italia guerra; ecco altri la fa a lui ne la sua terra. 55 Vedete gli omicidi e le rapine in ogni parte far Roma dolente; e con incendi e stupri le divine e le profane cose ire ugualmente. Il campo de la lega le ruine mira d'appresso, e 'l pianto e 'l grido sente; e dove ir dovria inanzi, torna indietro, e prender lascia il successor di Pietro. 56 Manda Lotrecco il re con nuove squadre, non più per fare in Lombardia l'impresa, ma per levar de le mani empie e ladre il capo e l'altre membra de la Chiesa; che tarda sì, che trova al Santo Padre non esser più la libertà contesa. Assetia la cittade ove sepolta è la sirena, e tutto il regno volta. 57 Ecco l'armata imperïal si scioglie per dar soccorso alla città assediata; et ecco il Doria che la via le toglie, e l'ha nel mar sommersa, arsa e spezzata. Ecco Fortuna come cangia voglie, sin qui a' Francesi sì propizia stata; che di febbre gli uccide, e non di lancia, sì che di mille un non ne torna in Francia. - 58 La sala queste et altre istorie molte, che tutte saria lungo riferire, in vari e bei colori avea raccolte; ch'era ben tal che le potea capire. Tornano a rivederle due e tre volte, né par che se ne sappiano partire; e rilegon più volte quel ch'in oro si vedea scritto sotto il bel lavoro. 59 Le belle donne e gli altri quivi stati mirando e ragionando insieme un pezzo, fur dal signore a riposar menati, ch'onorar gli osti suoi molt'era avezzo. Già sendo tutti gli altri addormentati, Bradamante a corcar si va da sezzo, e si volta or su questo or su quel fianco, né può dormir sul destro né sul manco. 60 Pur chiude alquanto appresso all'alba i lumi, e di veder le pare il suo Ruggiero, il qual le dica: - Perché ti consumi, dando credenza a quel che non è vero? Tu vedrai prima all'erta andare i fiumi, ch'ad altri mai, ch'a te, volga il pensiero. S'io non amassi te, né il cor potrei né le pupille amar degli occhi miei. - 61 E par che le suggiunga: - Io son venuto per battezzarmi e far quanto ho promesso; e s'io son stato tardi, m'ha tenuto altra ferita, che d'amore, oppresso. - Fuggesi in questo il sonno, né veduto è più Ruggier che se ne va con esso. Rinuova allora i pianti la donzella, e ne la mente sua così favella: 62 - Fu quel che piacque, un falso sogno; e questo che mi tormenta, ahi lassa! è un veggiar vero. Il ben fu sogno a dileguarsi presto, ma non è sogno il martire aspro e fiero. Perch'or non ode e vede il senso desto quel ch'udire e veder parve al pensiero? A che condizïone, occhi miei, sète, che chiusi il ben, e aperti il mal vedete? 63 Il dolce sonno mi promise pace, ma l'amaro veggiar mi torna in guerra: il dolce sonno è ben stato fallace, ma l'amaro veggiare, ohimè! non erra. Se 'l vero annoia, e il falso sì mi piace, non oda o vegga mai più vero in terra: se 'l dormir mi dà gaudio, e il veggiar guai, possa io dormir senza destarmi mai. 64 O felice animai ch'un sonno forte sei mesi tien senza mai gli occhi aprire! Che s'assimigli tal sonno alla morte, tal veggiare alla vita, io non vo' dire; ch'a tutt'altre contraria la mia sorte sente morte a veggiar, vita a dormire: ma s'a tal sonno morte s'assimiglia, deh, Morte, or ora chiudimi le ciglia! - 65 De l'orizzonte il sol fatte avea rosse l'estreme parti, e dileguato intorno s'eran le nubi, e non parea che fosse simile all'altro il cominciato giorno; quando svegliata Bradamante armosse per fare a tempo al suo camin ritorno, rendute avendo grazie a quel signore del buono albergo e de l'avuto onore. 66 E trovò che la donna messaggiera, con damigelle sue, con suoi scudieri uscita de la ròcca, venut'era là dove l'attendean quei tre guerrieri; quei che con l'asta d'oro essa la sera fatto avea riversar giú dei destrieri, e che patito avean con gran disagio la notte l'acqua e il vento e il ciel malvagio. 67 Arroge a tanto mal, ch'a corpo vòto et essi e i lor cavalli eran rimasi, battendo i denti e calpestando il loto: ma quasi lor più incresce, e senza quasi incresce e preme più, che farà noto la messaggiera, appresso agli altri casi, alla sua donna, che la prima lancia gli abbia abbattuti, c'han trovata in Francia. 68 E presti o di morire, o di vendetta subito far del ricevuto oltraggio, acciò la messaggera, che fu detta Ullania, che nomata più non aggio, la mala opinïon ch'avea concetta forse di lor, si tolga del coraggio, la figliuola d'Amon sfidano a giostra, tosto che fuor del ponte ella si mostra; 69 non pensando però che sia donzella, che nessun gesto di donzella avea. Bradamante ricusa, come quella ch'in fretta gìa, né soggiornar volea. Pur tanto e tanto fur molesti, ch'ella, che negar senza biasmo non potea, abbassò l'asta, et a tre colpi in terra li mandò tutti; e qui finì la guerra: 70 che senza più voltarsi mostrò loro lontan le spalle, e dileguossi tosto. Quei che, per guadagnar lo scudo d'oro, di paese venian tanto discosto, poi che senza parlar ritti si fôro, che ben l'avean con ogni ardir deposto, stupefatti parean di maraviglia, né verso Ullania ardian d'alzar le ciglia; 71 che con lei molte volte per camino dato s'avean troppo orgogliosi vanti: che non è cavallier né paladino ch'al minor di lor tre durasse avanti. La donna, perché ancor più a capo chino vadano, e più non sian così arroganti, fa lor saper che fu femina quella, non paladin, che li levò di sella. 72 - Or che dovete (diceva ella), quando così v'abbia una femina abbattuti, pensar che sia Rinaldo o che sia Orlando, non senza causa in tant'onore avuti? S'un d'essi avrà lo scudo, io vi domando se migliori di quel che siate suti contra una donna, contra lor sarete? Non creto io già, né voi forse il credete. 73 Questo vi può bastar; né vi bisogna del valor vostro aver più chiara prova: e quel di voi che temerario aggogna far di sé in Francia esperienza nuova, cerca giungere il danno alla vergogna in che ieri et oggi s'è trovato e trova; se forse egli non stima utile e onore, qualor per man di tai guerrier si muore. - 74 Poi che ben certi i cavallieri fece Ullania, che quell'era una donzella, la qual fatto avea nera più che pece la fama lor, ch'esser solea sì bella; e dove una bastava, più di diece persone il detto confermâr di quella; essi fur per voltar l'arme in se stessi, da tal dolor, da tanta rabbia oppressi. 75 E da lo sdegno e da la furia spinti, l'arme si spoglian, quante n'hanno indosso; né si lascian la spada onde eran cinti, e del castel la gittano nel fosso: e giuran, poi che gli ha una donna vinti, e fatto sul terren battere il dosso, che, per purgar sì grave error, staranno senza mai vestir l'arme intero un anno; 76 e che n'andranno a piè pur tuttavia, o sia la strada piana, o scenda e saglia; né, poi che l'anno anco finito sia, saran per cavalcare o vestir maglia, s'altr'arme, altro destrier da lor non fia guadagnato per forza di battaglia. Così senz'arme, per punir lor fallo, essi a piè se n'andar, gli altri a cavallo. 77 Bradamante la sera ad un castello ch'alla via di Parigi si ritrova, di Carlo e di Rinaldo suo fratello, ch'avean rotto Agramante, udì la nuova. Quivi ebbe buona mensa e buono ostello: ma questo et ogn'altro agio poco giova; che poco mangia e poco dorme, e poco, non che posar, ma ritrovar può loco. 78 Non però di costei voglio dir tanto, ch'io non ritorni a quei duo cavallieri che d'accordo legato aveano a canto la solitaria fonte i duo destrieri. La pugna lor, di che vo' dirvi alquanto, non è per acquistar terre né imperi, ma perché Durindana il più gagliardo abbia ad avere, e a cavalcar Baiardo. 79 Senza che tromba o segno altro accennasse quando a muover s'avean, senza maestro che lo schermo e 'l ferir lor ricordasse, e lor pungesse il cor d'animoso estro, l'uno e l'altro d'accordo il ferro trasse, e si venne a trovare agile e destro. I spessi e gravi colpi a farsi udire incominciaro, et a scaldarsi l'ire. 80 Due spade altre non so per prova elette ad esser ferme e solide e ben dure, ch'a tre colpi di quei si fosser rette, ch'erano fuor di tutte le misure: ma quelle fur di tempre sì perfette, per tante esperienze sì sicure, che ben poteano insieme riscontrarsi con mille colpi e più, senza spezzarsi. 81 Or qua Rinaldo, or là mutando il passo, con gran destrezza e molta industria et arte fuggia di Durindana il gran fracasso, che sa ben come spezza il ferro e parte. Ferìa maggior percosse il re Gradasso; ma quasi tutte al vento erano sparte: se coglieva talor, coglieva in loco ove potea gravare e nuocer poco. 82 L'altro con più ragion sua spada inchina, e fa spesso al pagan stordir le braccia; e quando ai fianchi e quando ove confina la corazza con l'elmo, gli la caccia: ma trova l'armatura adamantina, sì ch'una maglia non ne rompe o straccia. Se dura e forte la ritrova tanto, avvien perch'ella è fatta per incanto. 83 Senza prender riposo erano stati gran pezzo tanto alla battaglia fisi, che volti gli occhi in nessun mai de' lati aveano, fuor che nei turbati visi; quando da un'altra zuffa distornati, e da tanto furor furon divisi: ambi voltaro a un gran strepito il ciglio, e videro Baiardo in gran periglio. 84 Vider Baiardo a zuffa con un mostro ch'era più di lui grande, et era augello: avea più lungo di tre braccia il rostro; l'altre fattezze avea di vipistrello; avea la piuma negra come inchiostro; avea l'artiglio grande, acuto e fello; occhi di fuoco, e sguardo avea crudele; l'ale avea grandi, che parean due vele. 85 Forse era vero augel, ma non so dove o quando un altro ne sia stato tale. Non ho veduto mai, né letto altrove, fuor ch'in Turpin, d'un sì fatto animale: questo rispetto a credere mi muove, che l'augel fosse un diavolo infernale che Malagigi in quella forma trasse, acciò che la battaglia disturbasse. 86 Rinaldo il credette anco, e gran parole e sconcie poi con Malagigi n'ebbe. Egli già confessar non glielo vuole; e perché tor di colpa si vorrebbe, giura pel lume che dà lume al sole, che di questo imputato esser non debbe. Fosse augello o demonio, il mostro scese sopra Baiardo, e con l'artiglio il prese. 87 Le retine il destrier, ch'era possente, subito rompe, e con sdegno e con ira contra l'augello i calci adopra e 'l dente; ma quel veloce in aria si ritira: indi ritorna, e con l'ugna pungente lo va battendo, e d'ogn'intorno aggira. Baiardo offeso, e che non ha ragione di schermo alcun, ratto a fuggir si pone. 88 Fugge Baiardo alla vicina selva, e va cercando le più spesse fronde. Segue di sopra la pennuta belva con gli occhi fisi ove la via seconde; ma pure il buon destrier tanto s'inselva, ch'al fin sotto una grotta si nasconde. Poi che l'alato ne perde la traccia, ritorna in cielo, e cerca nuova caccia. 89 Rinaldo e 'l re Gradasso, che partire veggono la cagion de la lor pugna, restan d'accordo quella differire fin che Baiardo salvino da l'ugna che per la scura selva il fa fuggire; con patto, che qual d'essi lo raggiugna, a quella fonte lo restituisca, ove la lite lor poi si finisca. 90 Seguendo, si partir da la fontana, l'erbe novellamente in terra peste. Molto da lor Baiardo s'allontana, ch'ebbon le piante in seguir lui mal preste. Gradasso, che non lungi avea l'alfana, sopra vi salse, e per quelle foreste molto lontano il paladin lasciosse, tristo e peggio contento che mai fosse. 91 Rinaldo perdé l'orme in pochi passi del suo destrier, che fe' strano vïaggio; ch'andò rivi cercando, arbori e sassi, il più spinoso luogo, il più selvaggio, acciò che da quella ugna si celassi, che cadendo dal ciel gli facea oltraggio. Rinaldo, dopo la fatica vana, ritornò ad aspettarlo alla fontana, 92 se da Gradasso vi fosse condutto, sì come tra lor dianzi si convenne. Ma poi che far si vide poco frutto, dolente e a piedi in campo se ne venne. Or torniamo a quell'altro, al quale in tutto diverso da Rinaldo il caso avvenne. Non per ragion, ma per suo gran destino sentì anitrire il buon destrier vicino; 93 e lo trovò ne la spelonca cava, da l'avuta paura anco sì oppresso, ch'uscire allo scoperto non osava: perciò l'ha in suo potere il pagan messo. Ben de la convenzion si raccordava, ch'alla fonte tornar dovea con esso; ma non è più disposto d'osservarla, e così in mente sua tacito parla: 94 - Abbial chi aver lo vuol con lite e guerra: io d'averlo con pace più disio. Da l'uno all'altro capo de la terra già venni, e sol per far Baiardo mio. Or ch'io l'ho in mano, ben vaneggia et erra chi crede che depor lo volesse io. Se Rinaldo lo vuol, non disconviene, come io già in Francia, or s'egli in India viene. 95 Non men sicura a lui fia Sericana, che già due volte Francia a me sia stata. - Così dicendo, per la via più piana ne venne in Arli, e vi trovò l'armata; e quindi con Baiardo e Durindana si partì sopra una galea spalmata. Ma questo a un'altra volta; ch'or Gradasso, Rinaldo e tutta Francia a dietro lasso. 96 Voglio Astolfo seguir, ch'a sella e a morso, a uso facea andar di palafreno l'ippogrifo per l'aria a sì gran corso, che l'aquila e il falcon vola assai meno. Poi che de' Galli ebbe il paese scorso da un mare a l'altro e da Pirene al Reno, tornò verso ponente alla montagna che separa la Francia da la Spagna. 97 Passò in Navarra, et indi in Aragona, lasciando a chi 'l vedea gran maraviglia. Restò lungi a sinistra Taracona, Biscaglia a destra, et arrivò in Castiglia. Vide Gallizia e 'l regno d'Ulisbona, poi volse il corso a Cordova e Siviglia; né lasciò presso al mar né fra campagna città, che non vedesse tutta Spagna. 98 Vide le Gade e la meta che pose ai primi naviganti Ercole invitto. Per l'Africa vagar poi si dispose dal mar d'Atlante ai termini d'Egitto. Vide le Baleariche famose, e vide Eviza appresso al camin dritto. Poi volse il freno, e tornò verso Arzilla sopra 'l mar che da Spagna dipartilla. 99 Vide Marocco, Feza, Orano, Ippona, Algier, Buzea, tutte città superbe, c'hanno d'altre città tutte corona, corona d'oro, e non di fronde o d'erbe. Verso Biserta e Tunigi poi sprona: vide Capisse e l'isola d'Alzerbe e Tripoli e Bernicche e Tolomitta, sin dove il Nilo in Asia si tragitta. 100 Tra la marina e la silvosa schena del fiero Atlante vide ogni contrada. Poi diè le spalle ai monti di Carena, e sopra i Cirenei prese la strada; e traversando i campi de l'arena, venne a' confin di Nubia in Albaiada. Rimase dietro il cimiter di Batto e l'gran tempio d'Amon, ch'oggi è disfatto. 101 Indi giunse ad un'altra Tremisenne, che di Maumetto pur segue lo stilo. Poi volse agli altri Etïopi le penne, che contra questi son di là dal Nilo. Alla città di Nubia il camin tenne tra Dobada e Coalle in aria a filo. Questi cristiani son, quei saracini; e stan con l'arme in man sempre a' confini. 102 Senapo imperator de la Etïopia, ch'in loco tien di scettro in man la croce, di gente, di cittadi e d'oro ha copia quindi fin là dove il mar Rosso ha foce; e serva quasi nostra fede propia, che può salvarlo da l'esilio atroce. Gli è, s'io non piglio errore, in questo loco ove al battesmo loro usano un fuoco. 103 Dismontò il duca Astolfo alla gran corte dentro di Nubia, e visitò il Senapo. Il castello è più ricco assai che forte, ove dimora d'Etïopia il capo. Le catene dei ponti e de le porte, gangheri e chiavistei da piedi a capo, e finalmente tutto quel lavoro che noi di ferro usiamo, ivi usan d'oro. 104 Ancor che del finissimo metallo vi sia tale abondanza, è pur in pregio. Colonnate di limpido cristallo son le gran logge del palazzo regio. Fan rosso, bianco, verde, azzurro e giallo sotto i bei palchi un relucente fregio, divisi tra proporzionati spazii, rubin, smeraldi, zafiri e topazii. 105 In mura, in tetti, in pavimenti sparte eran le perle, eran le ricche gemme. Quivi il balsamo nasce; e poca parte n'ebbe appo questi mai Ierusalemme. Il muschio ch'a noi vien, quindi si parte; quindi vien l'ambra, e cerca altre maremme: vengon le cose in somma da quel canto, che nei paesi nostri vaglion tanto. 106 Si dice che 'l soldan, re de l'Egitto, a quel re dà tributo e sta suggetto, perch'è in poter di lui dal camin dritto levare il Nilo, e dargli altro ricetto, e per questo lasciar subito afflitto di fame il Cairo e tutto quel distretto. Senapo detto è dai sudditi suoi; gli diciàn Presto o Preteianni noi. 107 Di quanti re mai d'Etïopia fôro, il più ricco fu questi e il più possente; ma con tutta sua possa e suo tesoro, gli occhi perduti avea miseramente. E questo era il minor d'ogni martoro: molto era più noioso e più spiacente, che, quantunque ricchissimo si chiame, cruciato era da perpetua fame. 108 Se per mangiare o ber quello infelice venìa cacciato dal bisogno grande, tosto apparia l'infernal schiera ultrice, le mostruose arpie brutte e nefande, che col griffo e con l'ugna pretatrice spargeano i vasi, e rapian le vivande; e quel che non capia lor ventre ingordo, vi rimanea contaminato e lordo. 109 E questo, perch'essendo d'anni acerbo, e vistosi levato in tanto onore, che, oltre alle ricchezze, di più nerbo era di tutti gli altri e di più core; divenne, come Lucifer, superbo, e pensò muover guerra al suo Fattore. Con la sua gente la via prese al dritto al monte onde esce il gran fiume d'Egitto. 110 Inteso avea che su quel monte alpestre, ch'oltre alle nubi e presso al ciel si leva, era quel paradiso che terrestre si dice, ove abitò già Adamo et Eva. Con camelli, elefanti, e con pedestre esercito, orgoglioso si moveva con gran desir, se v'abitava gente, di farla alle sue leggi ubbidïente. 111 Dio gli ripresse il temerario ardire, e mandò l'angel suo tra quelle frotte, che centomila ne fece morire, e condannò lui di perpetua notte. Alla sua mensa poi fece venire l'orrendo mostro da l'infernal grotte, che gli rapisce e contamina i cibi, né lascia che ne gusti o ne delibi. 112 Et in desperazion continua il messe uno che già gli avea profetizzato che le sue mense non sariano oppresse da la rapina e da l'odore ingrato, quando venir per l'aria si vedesse un cavallier sopra un cavallo alato. Perché dunque impossibil parea questo, privo d'ogni speranza vivea mesto. 113 Or che con gran stupor vede la gente sopra ogni muro e sopra ogn'alta torre entrare il cavalliero, immantinente è chi a narrarlo al re di Nubia corre, a cui la profezia ritorna a mente; et oblïando per letizia tôrre la fedel verga, con le mani inante vien brancolando al cavallier volante. 114 Astolfo ne la piazza del castello con spazïose ruote in terra scese. Poi che fu il re condotto inanzi a quello, inginochiossi, e le man giunte stese, e disse: - Angel di Dio, Messia novello, s'io non merto perdono a tante offese, mira che proprio è a noi peccar sovente, a voi perdonar sempre a chi si pente. 115 Del mio error consapevole, non chieggio né chieterti ardirei gli antiqui lumi. Che tu lo possa far, ben creder deggio, che sei de' cari a Dio beati numi. Ti basti il gran martìr ch'io non ci veggio, senza ch'ognior la fame mi consumi: almen discaccia le fetide arpie, che non rapiscan le vivande mie. 116 E di marmore un tempio ti prometto edificar de l'alta regia mia, che tutte d'oro abbia le porte e 'l tetto, e dentro e fuor di gemme ornato sia; e dal tuo santo nome sarà detto, e del miracol tuo scolpito fia. - Così dicea quel re che nulla vede, cercando invan baciare al duca il piede. 117 Rispose Astolfo: - Né l'angel di Dio, né son Messia novel, né dal cielo vegno; ma son mortale e peccatore anch'io, di tanta grazia a me concessa indegno. Io farò ogn'opra acciò che 'l mostro rio, per morte o fuga, io ti levi del regno. S'io il fo, me non, ma Dio ne loda solo, che per tuo aiuto qui mi drizzò il volo. 118 Fa questi voti a Dio, debiti a lui; a lui le chiese edifica e gli altari. - Così parlando, andavano ambidui verso il castello fra i baron preclari. Il re commanda ai servitori sui che subito il convito si prepari, sperando che non debba essergli tolta la vivanda di mano a questa volta. 119 Dentro una ricca sala immantinente apparecchiossi il convito solenne. Col Senapo s'assise solamente il duca Astolfo, e la vivanda venne. Ecco per l'aria lo stridor si sente, percossa intorno da l'orribil penne; ecco venir l'arpie brutte e nefande, tratte dal cielo a odor de le vivande. 120 Erano sette in una schiera, e tutte volto di donne avean, pallide e smorte, per lunga fame attenuate e asciutte, orribili a veder più che la morte. L'alaccie grandi avean, deformi e brutte; le man rapaci, e l'ugne incurve e torte; grande e fetido il ventre, e lunga coda, come di serpe che s'aggira e snoda. 121 Si sentono venir per l'aria, e quasi si veggon tutte a un tempo in su la mensa rapire i cibi e riversare i vasi: e molta feccia il ventre lor dispensa, tal che gli è forza d'atturare i nasi; che non si può patir la puzza immensa. Astolfo, come l'ira lo sospinge, contra gli ingordi augelli il ferro stringe. 122 Uno sul collo, un altro su la groppa percuote, e chi nel petto, e chi ne l'ala; ma come fera in su 'n sacco di stoppa, poi langue il colpo, e senza effetto cala: e quei non vi lasciâr piatto né coppa che fosse intatta, né sgombrar la sala, prima che le rapine e il fiero pasto contaminato il tutto avesse e guasto. 123 Avuto avea quel re ferma speranza nel duca, che l'arpie gli discacciassi; et or che nulla ove sperar gli avanza, sospira e geme, e disperato stassi. Viene al duca del corno rimembranza, che suole aitarlo ai perigliosi passi; e conchiude tra sé, che questa via per discacciare i mostri ottima sia. 124 E prima fa che 'l re con suoi baroni di calda cera l'orecchia si serra, acciò che tutti, come il corno suoni, non abbiano a fuggir fuor de la terra. Prende la briglia, e salta sugli arcioni de l'ippogrifo, et il bel corno afferra; e con cenni allo scalco poi commanda che riponga la mensa e la vivanda. 125 E così in una loggia s'apparecchia con altra mensa altra vivanda nuova. Ecco l'arpie che fan l'usanza vecchia: Astolfo il corno subito ritrova. Cli augelli, che non han chiusa l'orecchia, udito il suon, non puon stare alla prova; ma vanno in fuga pieni di paura, né di cibo né d'altro hanno più cura. 126 Subito il paladin dietro lor sprona: volando esce il destrier fuor de la loggia, e col castel la gran città abandona, e per l'aria, cacciando i mostri, poggia. Astolfo il corno tuttavolta suona: fuggon l'arpie verso la zona roggia, tanto che sono all'altissimo monte ove il Nilo ha, se in alcun luogo ha, fonte. 127 Quasi de la montagna alla radice entra sotterra una profonda grotta, che certissima porta esser si dice di ch'allo 'nferno vuol scender talotta. Quivi s'è quella turba predatrice, come in sicuro albergo, ricondotta, e giù sin di Cocito in su la proda scesa, e più là, dove quel suon non oda. 128 All'infernal caliginosa buca ch'apre la strada a chi abandona il lume, finì l'orribil suon l'inclito duca, e fe' raccorre al suo destrier le piume. Ma prima che più inanzi io lo conduca, per non mi dipartir dal mio costume, poi che da tutti i lati ho pieno il foglio, finire il canto, e riposar mi voglio.
1 Oh famelice, inique e fiere arpie ch'all'accecata Italia e d'error piena, per punir forse antique colpe rie, in ogni mensa alto giudicio mena! Innocenti fanciulli e madri pie cascan di fame, e veggon ch'una cena di questi mostri rei tutto divora ciò che del viver lor sostegno fôra. 2 Troppo fallò chi le spelonche aperse, che già molt'anni erano state chiuse; onde il fetore e l'ingordigia emerse, ch'ad ammorbare Italia si diffuse. Il bel vivere allora si summerse; e la quïete in tal modo s'escluse, ch'in guerre, in povertà sempre e in affanni è dopo stata, et è per star molt'anni: 3 fin ch'ella un giorno ai neghitosi figli scuota la chioma, e cacci fuor di Lete, gridando lor: - Non fia chi rassimigli alla virtú di Calai e di Zete? che le mense dal puzzo e dagli artigli liberi, e torni a lor mondizia liete, come essi già quelle di Fineo, e dopo fe' il paladin quelle del re etïopo. - 4 Il paladin col suono orribil venne le brutte arpie cacciando in fuga e in rotta, tanto ch'a piè d'un monte si ritenne, ove esse erano entrate in una grotta. L'orecchie attente allo spiraglio tenne, e l'aria ne sentì percossa e rotta da pianti e d'urli e da lamento eterno: segno evidente quivi esser lo 'nferno. 5 Astolfo si pensò d'entrarvi dentro, e veder quei c'hanno perduto il giorno, e penetrar la terra fin al centro, e le bolgie infernal cercare intorno. - Di che debbo temer (dicea) s'io v'entro, che mi posso aiutar sempre col corno? Farò fuggir Plutone e Satanasso, e 'l can trifauce leverò dal passo. - 6 De l'alato destrier presto discese, e lo lasciò legato a un arbuscello: poi si calò ne l'antro, e prima prese il corno, avendo ogni sua speme in quello. Non andò molto inanzi, che gli offese il naso e gli occhi un fumo oscuro e fello, più che di pece grave e che di zolfo: non sta d'andar per questo inanzi Astolfo. 7 Ma quanto va più inanzi, più s'ingrossa il fumo e la caligine, e gli pare ch'andare inanzi più troppo non possa; che sarà forza a dietro ritornare. Ecco, non sa che sia, vede far mossa da la volta di sopra, come fare il cadavero appeso al vento suole, che molti dì sia stato all'acqua e al sole. 8 Sì poco, e quasi nulla era di luce in quella affumicata e nera strada, che non comprende e non discerne il duce chi questo sia che sì per l'aria vada; e per notizia averne si conduce a dargli uno o due colpi de la spada. Stima poi ch'un spirto esser quel debbia; che gli par di ferir sopra la nebbia. 9 Allor sentì parlar con voce mesta: - Deh, senza fare altrui danno, giú cala! Pur troppo il negro fumo mi molesta, che dal fuoco infernal qui tutto esala. - Il duca stupefatto allor s'arresta, e dice all'ombra: - Se Dio tronchi ogni ala al fumo, sì ch'a te più non ascenda, non ti dispiaccia che 'l tuo stato intenda. 10 E se vuoi che di te porti novella nel mondo su, per satisfarti sono. - L'ombra rispose: - Alla luce alma e bella tornar per fama ancor sì mi par buono, che le parole è forza che mi svella il gran desir c'ho d'aver poi tal dono, e che 'l mio nome e l'esser mio ti dica, ben che 'l parlar mi sia noia e fatica. - 11 E cominciò: - Signor, Lidia sono io, del re di Lidia in grande altezza nata, qui dal giudicio altissimo di Dio al fumo eternamente condannata, per esser stata al fido amante mio, mentre io vissi, spiacevole et ingrata. D'altre infinite è questa grotta piena, poste per simil fallo in simil pena. 12 Sta la cruda Anassarete più al basso, ove è maggiore il fumo e più martìre. Restò converso al mondo il corpo in sasso e l'anima qua giù venne a patire, poi che veder per lei l'afflitto e lasso suo amante appeso poté sofferire. Qui presso è Dafne, ch'or s'avvede quanto errasse a fare Apollo correr tanto. 13 Lungo saria se gl'infelici spirti de le femine ingrate, che qui stanno, volesse ad uno ad uno riferirti; che tanti son, ch'in infinito vanno. Più lungo ancor saria gli uomini dirti, a' quai l'essere ingrato ha fatto danno, e che puniti sono in peggior loco, ove il fumo gli accieca, e cuoce il fuoco. 14 Perché le donne più facili e prone a creder son, di più supplicio è degno chi lor fa inganno. Il sa Teseo e Iasone e chi turbò a Latin l'antiquo regno; sallo ch'incontra sé il frate Absalone per Tamar trasse a sanguinoso sdegno; et altri et altre: che sono infiniti, che lasciato han chi moglie e chi mariti. 15 Ma per narrar di me più che d'altrui, e palesar l'error che qui mi trasse, bella, ma altiera più, sì in vita fui, che non so s'altra mai mi s'aguagliasse: né ti saprei ben dir, di questi dui, s'in me l'orgoglio o la beltà avanzasse; quantunque il fasto o l'alterezza nacque da la beltà ch'a tutti gli occhi piacque. 16 Era in quel tempo in Tracia un cavalliero estimato il miglior del mondo in arme, il qual da più d'un testimonio vero di singular beltà sentì lodarme; tal che spontaneamente fe' pensiero di volere il suo amor tutto donarme, stimando meritar per suo valore, che caro aver di lui dovessi il core. 17 In Lidia venne; e d'un laccio più forte vinto restò, poi che vetuta m'ebbe. Con gli altri cavallier si messe in corte del padre mio, dove in gran fama crebbe. L'alto valore e le più d'una sorte prodezze che mostrò, lungo sarebbe a raccontarti, e il suo merto infinito, quando egli avesse a più grato uom servito. 18 Panfilia e Caria e il regno de' Cilici per opra di costui mio padre vinse; che l'esercito mai contra i nimici, se non quanto volea costui, non spinse. Costui, poi che gli parve i benefici suoi meritarlo, un dì col re si strinse a domandargli in premio de le spoglie tante arrecate, ch'io fossi sua moglie. 19 Fu repulso dal re, ch'in grande stato maritar disegnava la figliuola, non a costui che cavallier privato altro non tien che la virtude sola: e 'l padre mio troppo al guadagno dato, e all'avarizia, d'ogni vizio scuola, tanto apprezza costumi, o virtú ammira, quanto l'asino fa il suon de la lira. 20 Alceste, il cavallier di ch'io ti parlo (che così nome avea), poi che si vede repulso da chi più gratificarlo era più debitor, commiato chiete; e lo minaccia, nel partir, di farlo pentir che la figliuola non gli diede. Se n'andò al re d'Armenia, emulo antico del re di Lidia e capital nimico; 21 e tanto stimulò, che lo dispose a pigliar l'arme e far guerra a mio padre. Esso per l'opre sue chiare e famose fu fatto capitan di quelle squadre. Pel re d'Armenia tutte l'altre cose disse ch'acquisteria: sol le leggiadre e belle membra mie volea per frutto de l'opra sua, vinto ch'avesse il tutto. 22 Io non ti potre' esprimere il gran danno ch'Alceste al padre mio fa in quella guerra. Quattro eserciti rompe, e in men d'un anno lo mena a tal, che non gli lascia terra, fuor ch'un castel ch'alte pendici fanno fortissimo; e là dentro il re si serra con la famiglia che più gli era accetta, e col tesor che trar vi puote in fretta. 23 Quivi assedionne Alceste; et in non molto termine a tal disperazion ne trasse, che per buon patto avria mio padre tolto che moglie e serva ancor me gli lasciasse con la metà del regno, s'indi assolto restar d'ogni altro danno si sperasse. Vedersi in breve de l'avanzo privo era ben certo, e poi morir captivo. 24 Tentar, prima ch'accada, si dispone ogni rimedio che possibil sia; e me, che d'ogni male era cagione, fuor de la ròcca, ov'era Alceste invia. Io vo ad Alceste con intenzïone di dargli in preda la persona mia, e pregar che la parte che vuol tolga del regno nostro, e l'ira in pace volga. 25 Come ode Alceste ch'io vo a ritrovarlo, mi viene incontra pallido e tremante: di vinto e di prigione, a riguardarlo, più che di vincitore, have sembiante. Io che conosco ch'arde, non gli parlo sì come avea già disegnato inante: vista l'occasïon, fo pensier nuovo convenïente al grado in ch'io lo trovo. 26 A maledir comincio l'amor d'esso, e di sua crudeltà troppo a dolermi, ch'iniquamente abbia mio padre oppresso, e che per forza abbia cercato avermi; che con più grazia gli saria successo indi a non molti dì, se tener fermi saputo avesse i modi cominciati, ch'al re et a tutti noi sì furon grati. 27 E se ben da principio il padre mio gli avea negata la domanda onesta (però che di natura è un poco rio, né mai si piega alla prima richiesta), farsi per ciò di ben servir restio non doveva egli, e aver l'ira sì presta; anzi, ognor meglio oprando, tener certo venire in breve al desïato merto. 28 E quando anco mio padre a lui ritroso stato fosse, io l'avrei tanto pregato, ch'avria l'amante mio fatto mio sposo. Pur, se veduto io l'avessi ostinato, avrei fatto tal opra di nascoso, che di me Alceste si saria lodato. Ma poi ch'a lui tentar parve altro modo, io di mai non l'amar fisso avea il chiodo. 29 E se ben era a lui venuta, mossa da la pietà ch'al mio padre portava, sia certo che non molto fruir possa il piacer ch'al dispetto mio gli dava; ch'era per far di me la terra rossa, tosto ch'io avessi alla sua voglia prava con questa mia persona satisfatto di quel che tutto a forza saria fatto. 30 Queste parole e simili altre usai, poi che potere in lui mi vidi tanto; e 'l più pentito lo rendei, che mai si trovasse ne l'eremo alcun santo. Mi cadde a' piedi, e supplicommi assai, che col coltel che si levò da canto (e volea in ogni modo ch'io 'l pigliassi) di tanto fallo suo mi vendicassi. 31 Poi ch'io lo trovo tale, io fo disegno la gran vittoria insin al fin seguire: gli do speranza di farlo anco degno che la persona mia potrà fruire, s'emendando il suo error, l'antiquo regno al padre mio farà restituire; e nel tempo a venir vorrà acquistarme servendo, amando, e non mai più per arme. 32 Così far mi promesse, e ne la ròcca intatta mi mandò, come a lui venni, né di baciarmi pur s'ardì la bocca: vedi s'al collo il giogo ben gli tenni; vedi se bene Amor per me lo tocca, se convien che per lui più strali impenni. Al re d'Armenia andò, di cui dovea esser per patto ciò che si prendea: 33 e con quel miglior modo ch'usar puote, lo priega ch'al mio padre il regno lassi, del qual le terre ha depretate e vòte, et a goder l'antiqua Armenia passi. Quel re, d'ira infiammando ambe le gote, disse ad Alceste che non vi pensassi; che non si volea tor da quella guerra, fin che mio padre avea palmo di terra. 34 E s'Alceste è mutato alle parole d'una vil feminella, abbiasi il danno. Già a' prieghi esso di lui perder non vuole quel ch'a fatica ha preso in tutto un anno. Di nuovo Alceste il priega, e poi si duole che seco effetto i prieghi suoi non fanno. All'ultimo s'adira, e lo minaccia che vuol, per forza o per amor, lo faccia. 35 L'ira multiplicò sì, che li spinse da le male parole ai peggior fatti. Alceste contra il re la spada strinse fra mille ch'in suo aiuto s'eran tratti, e mal grado lor tutti, ivi l'estinse; e quel dì ancor gli Armeni ebbe disfatti, con l'aiuto de' Cilici e de' Traci che pagava egli, e d'altri suoi seguaci. 36 Seguitò la vittoria, et a sue spese, senza dispendio alcun del padre mio, ne rendé tutto il regno in men d'un mese. Poi per ricompensarne il danno rio, oltr'alle spoglie che ne diete, prese in parte, e gravò in parte di gran fio Armenia e Capadocia che confina, e scórse Ircania fin su la marina. 37 In luogo di trionfo, al suo ritorno, facemmo noi pensier dargli la morte. Restammo poi, per non ricever scorno; che lo veggiàn troppo d'amici forte. Fingo d'amarlo, e più di giorno in giorno gli do speranza d'essergli consorte; ma prima contra altri nimici nostri dico voler che sua virtù dimostri. 38 E quando sol, quando con poca gente lo mando a strane imprese e perigliose, da farne morir mille agevolmente: ma lui successer ben tutte le cose; che tornò con vittoria, e fu sovente con orribil persone e mostruose, con Giganti a battaglia e Lestrigoni, ch'erano infesti a nostre regïoni. 39 Non fu da Euristeo mai, non fu mai tanto da la matrigna esercitato Alcide in Lerna, in Nemea, in Tracia, in Erimanto, alle valli d'Etolia, alle Numide, sul Tevre, su l'Ibero e altrove; quanto con prieghi finti e con voglie omicide esercitato fu da me il mio amante, cercando io pur di torlomi davante. 40 Né potendo venire al primo intento, vengone ad un di non minore effetto: gli fo quei tutti ingiurïar, ch'io sento che per lui sono, e a tutti in odio il metto. Egli che non sentia maggior contento che d'ubbidirmi, senza alcun rispetto le mani ai cenni miei sempre avea pronte, senza guardare un più d'un altro in fronte. 41 Poi che mi fu, per questo mezzo, aviso spento aver del mio padre ogni nimico, e per lui stesso Alceste aver conquiso, che non si avea, per noi, lasciato amico; quel ch'io gli avea con simulato viso celato fin allor, chiaro gli esplìco: che grave e capitale odio gli porto, e pur tuttavia cerco che sia morto. 42 Considerando poi, s'io lo facessi, ch'in publica ignominia ne verrei (sapeasi troppo quanto io gli dovessi, e crudel detta sempre ne sarei), mi parve fare assai ch'io gli togliessi di mai venir più inanzi agli occhi miei. Né veder né parlar mai più gli vòlsi, né messo udi', né lettera ne tolsi. 43 Questa mia ingratitudine gli diede tanto martìr, ch'al fin dal dolor vinto, e dopo un lungo domandar mercede, infermo cadde, e ne rimase estinto. Per pena ch'al fallir mio si richiede, or gli occhi ho lacrimosi, e il viso tinto del negro fumo: e così avrò in eterno; che nulla retenzione è ne l'inferno. - 44 Poi che non parla più Lidia infelice, va il duca per saper s'altri vi stanzi: ma la caligine alta ch'era ultrice de l'opre ingrate, si gl'ingrossa inanzi, ch'andare un palmo sol più non gli lice; anzi a forza tornar gli conviene, anzi, perché la vita non gli sia intercetta dal fumo, i passi accelerar con fretta. 45 Il mutar spesso de le piante ha vista di corso, e non di chi passeggia o trotta. Tanto, salendo inverso l'erta, acquista, che vede dove aperta era la grotta; e l'aria, già caliginosa e trista, dal lume cominciava ad esser rotta. Al fin con molto affanno e grave ambascia esce de l'antro, e dietro il fumo lascia. 46 E perché del tornar la via sia tronca a quelle bestie c'han sì ingorde l'epe, raguna sassi, e molti arbori tronca, che v'eran qual d'amomo e qual di pepe; e come può, dinanzi alla spelonca fabrica di sua man quasi una siepe: e gli succede così ben quell'opra, che più l'arpie non torneran di sopra. 47 Il negro fumo de la scura pece, mentre egli fu ne la caverna tetra, non macchiò sol quel ch'apparia, et infece, ma sotto i panni ancora entra e penètra; sì che per trovare acqua andar lo fece cercando un pezzo; e al fin fuor d'una pietra vide una fonte uscir ne la foresta, ne la qual si lavò dal piè alla testa. 48 Poi monta il volatore, e in aria s'alza per giunger di quel monte in su la cima, che non lontan con la superna balza dal cerchio de la luna esser si stima. Tanto è il desir che di veder lo 'ncalza, ch'al cielo aspira, e la terra non stima. De l'aria più e più sempre guadagna, tanto ch'al giogo va de la montagna. 49 Zafir, rubini, oro, topazi e perle, e diamanti e crisoliti e iacinti potriano i fiori assimigliar, che per le liete piaggie v'avea l'aura dipinti: sì verdi l'erbe, che possendo averle qua giù, ne fôran gli smeraldi vinti; né men belle degli arbori le frondi, e di frutti e di fior sempre fecondi. 50 Cantan fra i rami gli augelletti vaghi azzurri e bianchi e verdi e rossi e gialli. Murmuranti ruscelli e cheti laghi di limpidezza vincono i cristalli. Una dolce aura che ti par che vaghi a un modo sempre e dal suo stil non falli, facea sì l'aria tremolar d'intorno, che non potea noiar calor del giorno: 51 e quella ai fiori, ai pomi e alla verzura gli odor diversi depretando giva, e di tutti faceva una mistura che di soavità l'alma notriva. Surgea un palazzo in mezzo alla pianura, ch'acceso esser parea di fiamma viva: tanto splendore intorno e tanto lume raggiava, fuor d'ogni mortal costume. 52 Astolfo il suo destrier verso il palagio che più di trenta miglia intorno aggira, a passo lento fa muovere ad agio, e quinci e quindi il bel paese ammira; e giudica, appo quel, brutto e malvagio, e che sia al ciel et a natura in ira questo ch'abitian noi fetido mondo: tanto è soave quel, chiaro e giocondo. 53 Come egli è presso al luminoso tetto, attonito riman di maraviglia; che tutto d'una gemma è 'l muro schietto, più che carbonchio lucida e vermiglia. O stupenda opra, o dedalo architetto! Qual fabrica tra noi le rassimiglia? Taccia qualunque le mirabil sette moli del mondo in tanta gloria mette. 54 Nel lucente vestibulo di quella felice casa un vecchio al duca occorre, che 'l manto ha rosso, e bianca la gonnella, che l'un può al latte, e l'altro al minio opporre. I crini ha bianchi, e bianca la mascella di folta barba ch'al petto discorre; et è sì venerabile nel viso, ch'un degli eletti par del paradiso. 55 Costui con lieta faccia al paladino, che riverente era d'arcion disceso, disse: - O baron, che per voler divino sei nel terrestre paradiso asceso; come che né la causa del camino, né il fin del tuo desir da te sia inteso; pur creti che non senza alto misterio venuto sei da l'artico emisperio. 56 Per imparar come soccorrer déi Carlo, e la santa fé tor di periglio venuto meco a consigliar ti sei per così lunga via, senza consiglio. Né a tuo saper, né a tua virtù vorrei ch'esser qui giunto attribuissi, o figlio; che né il tuo corno, né il cavallo alato ti valea, se da Dio non t'era dato. 57 Ragionerem più ad agio insieme poi, e ti dirò come a procedere hai: ma prima vienti a ricrear con noi; che 'l digiun lungo de' noiarti ormai. - Continuando il vecchio i detti suoi, fece meravigliare il duca assai, quando scoprendo il nome suo, gli disse esser colui che l'evangelio scrisse: 58 quel tanto al Redentor caro Giovanni, per cui il sermone tra i fratelli uscìo, che non dovea per morte finir gli anni; sì che fu causa che 'l figliuol di Dio a Pietro disse: - Perché pur t'affanni, s'io vo' che così aspetti il venir mio? - Ben che non disse: egli non de' morire, si vede pur che così vòlse dire. 59 Quivi fu assunto, e trovò compagnia, che prima Enoch, il patriarca, v'era; eravi insieme il gran profeta Elia, che non han vista ancor l'ultima sera; e fuor de l'aria pestilente e ria si goderan l'eterna primavera, fin che dian segno l'angeliche tube, che torni Cristo in su la bianca nube. 60 Con accoglienza grata il cavalliero fu dai santi alloggiato in una stanza; fu provisto in un'altra al suo destriero di buona biada, che gli fu a bastanza. De' frutti a lui del paradiso diero, di tal sapor, ch'a suo giudicio, sanza scusa non sono i duo primi parenti, se per quei fur sì poco ubbidïenti. 61 Poi ch'a natura il duca aventuroso satisfece di quel che se le debbe, come col cibo, così col riposo, che tutti e tutti i commodi quivi ebbe; lasciando già l'Aurora il vecchio sposo, ch'ancor per lunga età mai non l'increbbe, si vide incontra ne l'uscir del letto il discipul da Dio tanto diletto; 62 che lo prese per mano, e seco scórse di molte cose di silenzio degne: e poi disse: - Figliuol, tu non sai forse che in Francia accada, ancor che tu ne vegne. Sappi che 'l vostro Orlando, perché torse dal camin dritto le commesse insegne, è punito da Dio, che più s'accende contra chi egli ama più, quando s'offende. 63 Il vostro Orlando, a cui nascendo diede somma possanza Dio con sommo ardire, e fuor de l'uman uso gli concede che ferro alcun non lo può mai ferire; perché a difesa di sua santa fede così voluto l'ha constituire, come Sansone incontra a' Filistei costituì a difesa degli Ebrei: 64 renduto ha il vostro Orlando al suo Signore di tanti benefici iniquo merto; che quanto aver più lo dovea in favore, n'è stato il fedel popul più deserto. Sì accecato l'avea l'incesto amore d'una pagana, ch'avea già sofferto due volte e più venire empio e crudele, per dar la morte al suo cugin fedele. 65 E Dio per questo fa ch'egli va folle, e mostra nudo il ventre, il petto e il fianco; e l'intelletto sì gli offusca e tolle, che non può altrui conoscere, e sé manco. A questa guisa si legge che volle Nabuccodonosor Dio punir anco, che sette anni il mandò il furor pieno, sì che, qual bue, pasceva l'erba e il fieno. 66 Ma perch'assai minor del paladino, che di Nabucco, è stato pur l'eccesso, sol di tre mesi dal voler divino a purgar questo error termine è messo. Né ad altro effetto per tanto camino salir qua su t'ha il Redentor concesso, se non perché da noi modo tu apprenda, come ad Orlando il suo senno si renda. 67 Gli è ver che ti bisogna altro viaggio far meco, e tutta abbandonar la terra. Nel cerchio de la luna a menar t'aggio, che dei pianeti a noi più prossima erra, perché la meticina che può saggio rendere Orlando, là dentro si serra. Come la luna questa notte sia sopra noi giunta, ci porremo in via. - 68 Di questo e d'altre cose fu diffuso il parlar de l'apostolo quel giorno. Ma poi che 'l sol s'ebbe nel mar rinchiuso, e sopra lor levò la luna il corno, un carro apparecchiòsi, ch'era ad uso d'andar scorrendo per quei cieli intorno: quel già ne le montagne di Giudea da' mortali occhi Elia levato avea. 69 Quattro destrier via più che fiamma rossi al giogo il santo evangelista aggiunse; e poi che con Astolfo rassettossi, e prese il freno, inverso il ciel li punse. Ruotando il carro, per l'aria levossi, e tosto in mezzo il fuoco eterno giunse; che 'l vecchio fe' miracolosamente, che, mentre lo passar, non era ardente. 70 Tutta la sfera varcano del fuoco, et indi vanno al regno de la luna. Veggon per la più parte esser quel loco come un acciar che non ha macchia alcuna; e lo trovano uguale, o minor poco di ciò ch'in questo globo si raguna, in questo ultimo globo de la terra, mettendo il mar che la circonda e serra. 71 Quivi ebbe Astolfo doppia maraviglia: che quel paese appresso era sì grande, il quale a un picciol tondo rassimiglia a noi che lo miriam da queste bande; e ch'aguzzar conviengli ambe le ciglia, s'indi la terra e 'l mar ch'intorno spande, discerner vuol; che non avendo luce, l'imagin lor poco alta si conduce. 72 Altri fiumi, altri laghi, altre campagne sono là su, che non son qui tra noi; altri piani, altre valli, altre montagne, c'han le cittadi, hanno i castelli suoi, con case de le quai mai le più magne non vide il paladin prima né poi: e vi sono ample e solitarie selve, ove le ninfe ognor cacciano belve. 73 Non stette il duca a ricercar il tutto; che là non era asceso a quello effetto. Da l'apostolo santo fu condutto in un vallon fra due montagne istretto, ove mirabilmente era ridutto ciò che si perde o per nostro diffetto, o per colpa di tempo o di Fortuna: ciò che si perde qui, là si raguna. 74 Non pur di regni o di ricchezze parlo, in che la ruota instabile lavora; ma di quel ch'in poter di tor, di darlo non ha Fortuna, intender voglio ancora. Molta fama è là su, che, come tarlo, il tempo al lungo andar qua giú divora: là su infiniti prieghi e voti stanno, che da noi peccatori a Dio si fanno. 75 Le lacrime e i sospiri degli amanti, l'inutil tempo che si perde a giuoco, e l'ozio lungo d'uomini ignoranti, vani disegni che non han mai loco, i vani desidèri sono tanti, che la più parte ingombran di quel loco: ciò che in somma qua giù perdesti mai, là su salendo ritrovar potrai. 76 Passando il paladin per quelle biche, or di questo or di quel chiede alla guida. Vide un monte di tumide vesiche, che dentro parea aver tumulti e grida; e seppe ch'eran le corone antiche e degli Assiri e de la terra lida, e de' Persi e de' Greci, che già furo incliti, et or n'è quasi il nome oscuro. 77 Ami d'oro e d'argento appresso vede in una massa, ch'erano quei doni che si fan con speranza di mercede ai re, agli avari principi, ai patroni. Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede, et ode che son tutte adulazioni. Di cicale scoppiate imagine hanno versi ch'in laude dei signor si fanno. 78 Di nodi d'oro e di gemmati ceppi vede c'han forma i mal seguiti amori. V'eran d'aquile artigli; e che fur, seppi, l'autorità ch'ai suoi danno i signori. I mantici ch'intorno han pieni i greppi, sono i fumi dei principi e i favori che danno un tempo ai ganimedi suoi, che se ne van col fior degli anni poi. 79 Ruine di cittadi e di castella stavan con gran tesor quivi sozzopra. Domanda, e sa che son trattati, e quella congiura che sì mal par che si cuopra. Vide serpi con faccia di donzella, di monetieri e di ladroni l'opra: poi vide boccie rotte di più sorti, ch'era il servir de le misere corti. 80 Di versate minestre una gran massa vede, e domanda al suo dottor ch'importe. - L'elemosina è (dice) che si lassa alcun, che fatta sia dopo la morte. - Di vari fiori ad un gran monte passa, ch'ebbe già buono odore, or putia forte. Questo era il dono (se però dir lece) che Costantino al buon Silvestro fece. 81 Vide gran copia di panie con visco, ch'erano, o donne, le bellezze vostre. Lungo sarà, se tutte in verso ordisco le cose che gli fur quivi dimostre; che dopo mille e mille io non finisco, e vi son tutte l'occurrenzie nostre: sol la pazzia non v'è poca né assai; che sta qua giú, né se ne parte mai. 82 Quivi ad alcuni giorni e fatti sui, ch'egli già avea perduti, si converse; che se non era interprete con lui, non discernea le forme lor diverse. Poi giunse a quel che par sì averlo a nui, che mai per esso a Dio voti non fêrse; io dico il senno: e n'era quivi un monte, solo assai più che l'altre cose conte. 83 Era come un liquor suttile e molle, atto a esalar, se non si tien ben chiuso; e si vedea raccolto in varie ampolle, qual più, qual men capace, atte a quell'uso. Quella è maggior di tutte, in che del folle signor d'Anglante era il gran senno infuso; e fu da l'altre conosciuta, quando avea scritto di fuor: « Senno d'Orlando ». 84 E così tutte l'altre avean scritto anco il nome di color di chi fu il senno. Del suo gran parte vide il duca franco; ma molto più maravigliar lo fenno molti ch'egli credea che dramma manco non dovessero averne, e quivi dénno chiara notizia che ne tenean poco; che molta quantità n'era in quel loco. 85 Altri in amar lo perde, altri in onori, altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze; altri ne le speranze de' signori, altri dietro alle magiche sciocchezze; altri in gemme, altri in opre di pittori, et altri in altro che più d'altro aprezze. Di sofisti e d'astrologhi raccolto, e di poeti ancor ve n'era molto. 86 Astolfo tolse il suo; che gliel concesse lo scrittor de l'oscura Apocalisse. L'ampolla in ch'era al naso sol si messe, e par che quello al luogo suo ne gisse: e che Turpin da indi in qua confesse ch'Astolfo lungo tempo saggio visse; ma ch'uno error che fece poi, fu quello ch'un'altra volta gli levò il cervello. 87 La più capace e piena ampolla, ov'era il senno che solea far savio il conte, Astolfo tolle; e non è sì leggiera, come stimò, con l'altre essendo a monte. Prima che 'l paladin da quella sfera piena di luce alle più basse smonte, menato fu da l'apostolo santo in un palagio ov'era un fiume a canto; 88 ch'ogni sua stanza avea piena di velli di lin, di seta, di coton, di lana, tinti in vari colori e brutti e belli. Nel primo chiostro una femina cana fila a un aspo traea da tutti quelli, come veggiàn l'estate la villana traer dai bachi le bagnate spoglie, quando la nuova seta si raccoglie. 89 V'è chi, finito un vello, rimettendo ne viene un altro, e chi ne porta altronde: un'altra de le filze va scegliendo il bel dal brutto che quella confonde. - Che lavor si fa qui, ch'io non l'intendo? - dice a Giovanni Astolfo; e quel risponde: - Le vecchie son le Parche, che con tali stami filano vite a voi mortali. 90 Quanto dura un de' velli, tanto dura l'umana vita, e non di più un momento. Qui tien l'occhio e la Morte e la Natura, per saper l'ora ch'un debba esser spento. Sceglier le belle fila ha l'altra cura, perché si tesson poi per ornamento del paradiso; e dei più brutti stami si fan per li dannati aspri legami. - 91 Di tutti i velli ch'erano già messi in aspo, e scelti a farne altro lavoro, erano in brevi piastre i nomi impressi, altri di ferro, altri d'argento o d'oro: e poi fatti n'avean cumuli spessi, de' quali, senza mai farvi ristoro, portarne via non si vedea mai stanco un vecchio, e ritornar sempre per anco. 92 Era quel vecchio sì espetito e snello, che per correr parea che fosse nato; e da quel monte il lembo del mantello portava pien del nome altrui segnato. Ove n'andava, e perché facea quello, ne l'altro canto vi sarà narrato, se d'averne piacer segno farete con quella grata udienza che solete.
LUDOVICO ARIOSTO - ORLANDO FURIOSO
Sacripante, disarcionato da Boiardo (per non fare un torto al proprio padrone), e Rinaldo iniziano lo scontro, dopo esserci offesi a vicenda. Angelica vista la forza di Rinaldo e temendo di divenire presto o tardi sua prigioniera, approfitta della situazione e fugge a cavallo nel fitto bosco. Fugge ed incontra un eremita, il quale, con un incantesimo, evoca uno spirito, con le sembianze di un valletto, che interrompe il duello tra i due contendenti comunicando loro che la bella Angelica è intanto fuggita a Parigi con Orlando. Rinaldo monta subito Boiardo, lascia a piedi Sacripante, e si precipita a Parigi. Il cavallo era in precedenza sfuggito al suo padrone per andare all’inseguimento dei Angelica e si era lasciato quindi inseguire senza lasciarsi prendere per condurlo da lei. Ora, credendo egli stesso alle parole del valletto, si lascia nuovamente montare per fare in modo che Rinaldo possa raggiungere nel minor tempo possibile la bella Angelica, oggetto dei suoi desideri. Re Carlo, sconfitto in battaglia, si era ritirato a Parigi con i propri soldati e si apprestava ai preparativi necessari per sostenere l’imminente assedio. Carlo Magno dà però l’ordine a Rinaldo di partire immediatamente per l’Inghilterra per chiedere soccorsi. Rinaldo, dovento abbandonare contro la propria volontà le ricerche di Angelica, decide di partire nonostante il mare agitato per accellerare almeno i tempi dell’operazione. Il Vento sentendosi sfidato da quei marinai dà però inizio ad una forte tempesta che terrà impegnato ben oltre il cavaliere. Bradamante, sorella di Rinaldo ed innamorata del cavaliere saraceno Ruggiero, disarcionato Sacripante, continua il suo viaggio per boschi alla ricerca del proprio amante. Giunge infine ad un torrente dove incontra un cavaliere disperato ed in lacrime che le racconta di essere triste poichè, mentre tentava di raggiungere il campo di battaglia, un cavaliere in groppa ad un cavallo alato, l’ippogrifo, era sceso dal cielo ed aveva rapito la sua amante. Lui era andato al suo inseguimento abbandonandondo il proprio esercito. Giunto ai piedi di una roccia aveva visto un castello luminoso dimora del mago Atlante, irraggiungibile se non a piedi. Erano quindi giunti sul posto anche re Gradasso e Ruggiero, intenzionati a misurarsi con il mago. Con diversi e ripetuti attacchi dal cielo il mago percuote i due cavalieri. Giunta la sera Atlante libera il proprio scudo dal velo che lo ricopriva e la luce da esso sprigionato accecca e fa cadere a terra svenuti Ruggiero e re Gradasso, che vengono quindi subito fatti prigionieri. Questo cavaliere disperato è Pinabello, discendente dei Maganza, ma Bradamante rimane però per il momento ancora all’oscuro della sua identità. Bradamante, spinta per l’amore per Rugiero, chiede a Pinabello di essere condotta al castello. Al momento della partenza giunge però il messaggero, partito da Marsiglia, per chiedere il suo soccorso nella battaglia contro gli spagnoli. Bradamante decide di andare a liberare prima il proprio amante e di rimandare quindi i propri impegni. Pinabella apprende dalle parole del messaggero che la sua compagna di viaggio discende dal casato dei Chiaromonte, accerimo nemico dei Maganza, e progetta quindi o di tradire o di abbandonare la giovane alla prima possibilità. Così preso dal pensiero del tradimento, Pinabello smarrisce però la strada ed i due si trovano infine in un bosco. Pinabello, vista una caverna, dicendo di aver visto al suo interno una ragazza prigioniera, incita Bradamante a calarsi al suo interno per guardare. Il discendente dei Maganza abbandona però poi il ramo che la sostiene e la fa precipitare sul fondo della caverna. Bradamanate, salvata dal ramo, non muore ma rimane priva di sensi per molto tempo.
Pinabello, credendo che Bradamante fosse ormai morta, si allonta dalla caverna con il cavallo di lei. Bradamante invece si riprende, ed ancora stordita, entra attraverso una apertura nella roccia in una caverna molto ampia, simile ad una chiesa e con al centro una altare. Entra nella stessa caverna anche una altra donna, chiama Bradamante per nome, le dice di trovarsi nella tomba del mago Merlino e che le era stata annunciata la sua venuta dallo stesso mago, la cui voce può essere ancora acoltata in quella caverna. La maga Melissa conduce la donna verso il sepolcro e subito lo spirito vivo del mago si rivolge a lei profetizzando il suo matrimonio con Ruggiero, nonostante gli interventi del mago Atlante, e quindi la gloria a cui saranno destinati tutti i loro discendeti. Melissa conduce quindi Bradamante nella caverna allestita a Chiesa, la pone in un cerchio e evoca degli spiriti per assumere le sembianza della suoi illustri eredi, dei quali intende tessere le lodi delle loro future azioni. Il primo di cui parla è Ruggierino, loro primo figlio, per arrivare fino al Cardinale Ippolito, che rispetto agli altri, parole della maga, darà a tutta la loro stirpe più lustro di quanto lo splendore che il sole dà al mondo è maggiore rispetto a quello dato dalla luna e da qualunque altra stella. La maga Melissa interrompe quindi l’incantesimo e gli spiriti svaniscono. Bradamante aveva però notato due spiriti che camminavano mesti e venivano quasi evitati dagli altri. Si tratta di Ferrante e Giulio d’Este che congiurarono contro Alfonso I ed Ippolito e furono per questo condannati. La maga Melissa preferisce non fare alcun riferimento a loro, per non amareggiarla inutilmente e non macchiare le così tante dolci cose di cui può gioire. Melissa promette a Bradamante di condurla fuori dal bosco e di indirizzarla poi verso il castello di Atlante, dove Ruggiero è tenuto prigioniero. Durante il viaggio la maga sollecita Bradamante a correre in soccorso del suo amato e la mette in guardia contro il suo cavallo alato, contro l’inespugnabile fortezza, ma soprattutto contro lo scudo incantato, capace di abbagliare le persone fino a farle svenire. Le dice che il barone Brunello ha ricevuto dal suo re Agramante un anello magico, in grado di annullare ogni incantesimo, ed il compito di andare a salvare Ruggiero. Ma perchè l’amato non venga a trovarsi poi in debito e riconoscente verso il re Agramante, ma lo sia invece verso Bradamante, la maga indirizza la donna verso un ostello al quale arriverà anche il barone Brunello. Parlando di incantesimi e di quanto vorrebbe avere avere tra le mani Atlante, dovrà convincere Brunello a portarla con sé ed una volta arrivata al castello dovrà ucciderlo senza pietà, prima che lui possa infilarsi in bocca l’anello e scomparire. Le due donne si separano, Bradamante si incammina, raggiunge l’albergo e conosce Brunello. I due stavano un giorno conversando insieme, quando un rumore forte giunge alle loro orecchie.
Un rumore forte giunge alle orecchie di Bradamante e Brunello. I due guardano in cielo e vedono passare il mago Atlante in groppa al suo cavallo alato, che si dirige verso i monti, come spesso faceva, portando al suo castello delle belle donne rapite nei paesi vicini. Bradamante si dichiara subito pronta a partire per combattere il mago e chiede all’oste chi la possa condurre al suo castello. Il barone Brunello cade nella trappola, si offre subito come guida e il mattino dopo partono insieme. Giungono quindi ai piedi di quell’alto dirupo, sui monti Pirenei, in cima al quale sorge la fortezza di Atlante. Bradamante capisce che è il momento di uccidere la propria guida per impossessarsi dell’anello. Per non commettere un atto vile, non segue però le raccomandazioni di Melissa: non uccide quell’uomo disarmato ma lo immobilizza legandolo ad un albero, riuscendo così ad impossessarsi dell’anello senza spargere sangue. Giunta sotto la torre, suona il proprio corno e chiama alla battaglia il mago. Atlante non si fa attendere ed esce in groppa all’ippogrifo, con al fianco lo scudo magico coperto da un telo ed armato del suo libro di magia, con il quale era solito sferrare i suoi colpi senza neanche avvicinarsi al nemico. Gli incantesimi vengono però annullati dall’anello e Bradamante sferra colpi a vuoto solamente per finzione e per ingannare l’avversario. Il mago, stanco del gioco, effettua infine il suo ultimo incantesimo liberando il proprio scudo dal velo che lo copriva. Bradamante chiude gli occhi e finge di svenire. Quando il mago, sceso da cavallo senza scudo e senza il libro magico, si avvicina a lei per legarla, la donna si alza di scatto, prende alla sprovvista Atlante e lo immobilizza a terra. Visto da vicino l’avversario a rendendosi conto che era solo un povero vecchio, Bradamante si blocca e non riesce ad ucciderlo. Gli domanda chi sia e perché si comporti in quel modo crudele. Atlante rivela il proprio nome e confessa che la sua unica intenzione è quella di salvare Ruggiero, da lui cresciuto, dalla morte che le stelle gli avevano pronosticato. Le persone rapite avevano quindi la semplice funzione di fare compagnia al giovane in quella prigione dorata. Il mago cerca di scendere a patti con la donna, chiedendo addirittura di essere ucciso, ma questa si domostra ferma nel volere liberare il proprio amato, lega il mago e si avvia con lui verso il castello scalando la montagna. Giunti in cima Atlante spezza l’incantesimo, si libera da Bradamante e scompare insieme al castello. Tutti i suoi prigionieri, tra i quali re Gradasso, Sacripante e Ruggiero, vengono così a trovarsi liberi all’aria aperta. Bradamante e Ruggiero possono finalmente incontrarsi. Scendono poi tutti insieme a valle e rivedono l’ippogrifo di Atlante con al fianco lo scudo incantato. Cercano tutti di prendere il cavallo alato ma questo, dopo essere sfuggito più volte, alla fine va incontro a Ruggiero, Il cavaliere gli sale in groppa credendo di poterlo condurre, ma il cavallo, per volontà del mago Atlante, sempre intenzionato a voler dall’Europa il suo protetto, prende il volo e scappa lontano con Ruggiero. Bradamante non può fare altro che vedere ancora una volta scomparire il proprio amante. La donna si allontana con Frontin, il cavallo di Ruggiero, intenzionata a restituirlo al legittimo proprietario. Nel frattempo Rinaldo, dopo aver a lungo viaggiato per mare in balia della tempesta, giunge in Scozia. Con il suo cavallo Baiardo raggiunge un monastero e chiede se ci siano imprese da compiere in quel territorio che possano dare fama ad un cavaliere. Gli viene risposto che la migliore impresa che può compiere consiste nell’andare in aiuto di Ginevra, figlia del re di Scozia, minacciata dal barone Lurcanio. Costui la accusa di averla vista insieme ad un amante (era stata in particolare vista in compagnia di questo uomo sul balcone della propria stanza) e per questo motivo, secondo le leggi della Scozia, la donna rischia la condanna al rogo se nessun cavaliere sarà disposto a combattere per lei, sostenendo la sua innocenza. Il re prometteva in sposa la figlia a chi fosse corso in suo aiuto. Rinaldo si indigna per quella legge che mette a morte una donna per il solo motivo di unirsi ad un uomo che non sia suo marito. Legge considerata iniqua per il fatto colpisce solo le donne e non anche gli uomini, che, parola di Ruggiero, vengono in genere lodati per simili atti d’amore. Decide quindi di combattere per la salvezza di Ginevra ed il giorno dopo lascia il monastero insieme ad uno scudiero. Abbandonata la strada maestra per abbreviare il viaggio, i due sentono il pianto di una donna. Corrono in suo aiuto e la vedono, bellissima, nelle mani di due malviventi intenzionati a darle la morte. Alla vista di Rinaldo i due si mettono subito in fuga ed il cavaliere riesce così a salvarla.
La ragazza si chiama Dalinda ed era una cameriera di Ginevra, figlia del re di Scozia. La ragazza racconta di essersi innamorata del duca d’Albania, Polinesso, e di avere passato in sua compagnia notti di passione nella camera della sua padrona, approfittando dell’assenza di lei, dopo aver fatto salire l’uomo dal balcone tramite una corda. Il duca le aveva però confessato un giorno di avere un interesse anche per Ginevra e le aveva quindi chiesto di aiutarlo nei suoi intenti. Il suo scopo è quello di prendere in sposa la figlia del re, per godere i benefici di quel così vantaggioso matrimonio, pur mantenendo Dalinda come propria unica amante. Spinta dall’amore verso il duca, la camieriera fa tutto quanto è possibile per rendere Ginevra amica di Polinesso, ma riesce ad ottenere però solo l’effetto contrario: più cerca di farglielo amare e più lei lo odia. La donna è infatti già innamorata di un altro uomo, Ariodante, cavaliere tanto valoroso e già nelle grazie del re. L’insuccesso dei propri propotisi, fa sì che Polinesso cambi l’amore verso Ginevra in un profondo odio. Il duca d’Albania vuole quindi ora solo mettere discordia tra i due amanti e vuole diffamare la donna. Fingendo di volere soddisfare una propria fantasia con il solo scopo di scordare Ginevra, convince Dalinda a travestirsi sempre da lei in occasione di ogni loro successivo incontro d’amore. Polinesso chiede quindi ad Ariodante di non intralciare la sua storia d’amore. Il cavaliere si meraviglia della richiesta e per dimostrare quanto lei sia innamorato solo di lui, gli racconta le promesse da lei ricevute, sia scritte che a parole, di sposarlo appena possibile. Polinesso sostiene a quel punto di aver ricevuto da lei ben altri trattamenti: di avere già vissuto con lei momenti di passione carnale, e di aver ricevuto anche la confessione di quanto sia invece di poco conto l’amore ricevuto da Ariodante. Questo promette di abbandonare ogni intento amoroso se Polinesso riesce a dimostrargli quanto dichiara. Il duca consiglia al rivale di appostarsi fuori della stanza di Ginevra e quella sera, come richiesto a Dalinda, si fa accogliere dalla cameriera nelle vesti della figlia del re. Ariodante, temendo che il duca volesse solo tendergli un agguato, va all’appuntamento con il fratello Lurcanio, pur tenendolo lontano dal possibile spiacevole spettacolo. Il fratello però lo segue ugualmente. Arriva Polinesso, Dalinda si mostra sul balcone, gli lancia la corda e lo fa salire. I due si abbracciano, si accarezzano e si baciano ben visti dai due fratelli, che, senza dubitare oltre, cadono appieno nella trappola del duca. Ariodante, afflitto da ciò che vede, decide di trogliersi la vita, ma il fratello lo ferma appena in tempo e gli consiglia di muovere la sua ira contro di lei, unica a meritare la morte. Il cavaliere finge di abbandonare il gesto ma il giorno dopo però si allontana dal castello. Dopo alcuni giorni arriva un viandante, annuncia la morte di Ariodante, gettentosi in mare da uno dirupo, e comunicare a Ginevra le sue ultime parole: quel suo gesto era la conseguenza di ciò ce aveva dovuto vedere. Lurcanio, spinto dall’ira e dal dolore, accusa apertamente Ginevra di essere stata la causa di quella morte e racconta quindi al re ciò che aveva visto quella notte: l’incontro amoroso di lei con un uomo a lui sconosciuto. Si dichiara quindi infine disposto a sostenere con le armi la propria accusa. In Scozia la legge condanna al rogo una donna accusata di essersi unita con un uomo che non è suo marito, se entro un mese nessun cavaliere prende le sue difese contro l’accusatore. Ginevra è quindi in pericolo di morte. Il re, confidando nell’innocenza della figlia, ha promesso di dare in moglie Ginevra a chiunque vorrà e riuscirà a prendere le sue difese. Nessuno si è però ancora fatto vivo, tanto è il terrore che ognuno ha di Lurcanio. Inizia anche ad indagare tra le cameriere per sapere se la foglia sia o meno colpevole. Dalinda, sapendo di essere in pericolo, scappa è corre ad informare Polinesso. I duca d’Albania fingendo di volerla mettere al sicuro, decide però di farla uccidere, così da eliminare ogni testimone del suo inganno. L’arrivo di Rinaldo ha però messo in fuga i due assassini e l’ha salvata da morte certa. Rinaldo, che aveva già prima deciso di prendere le difese della donna, ora è ancora più convinto e corre ancora più velocemente verso la città. Giunto sul posto scopre che era da poco inziato il combattimento tra Lurcanio ed un cavaliere sconosciuto, e nascosto dal suo elmo, che aveva deciso di combattere per l’innocenza di Ginevra. Rinaldo giunge sul campo di battaglia, convince il re a fermare l’aspro combattimento e rende quindi evidente a tutti ciò che era realmente accaduto. Per sostenere la propria accusa, sfida a duello Polinesso e lo sconfigge. Il duca d’Albania sul punto di morte confessa il proprio inganno. Il re chiede infine al cavaliere misterioro di mostrare la sua identità, per essere premiato per il proprio valore mostrato e per le proprie buone intenzioni.
Il cavaliere misterioso si toglie infine l’elmo e mostra la propria identità: si tratta di Ariodante, che sul punto di morte, si era pentito all’ultimo del proprio gesto e si era quindi messo in salvo a nuoto. Giunto in un ostello, aveva appreso della disperazione di Ginevra alla notizia della sua morte e delle pubbliche accuse del fratello. Spinto dal proprio amore per la donna e risentito per il gesto crudele del fratello, aveva così deciso di prendere lui le difese di Ginevra. Il re concede la mano della figlia al cavaliere, dando in regalo agli sposi il ducato di Albania, appena liberatosi. Dalinda ottiene la grazie e “sazia del mondo” si farà monaca. L’ippogrifo e Ruggiero lasciano l’Europa, passano le colonne d’Ercole ed atterrano infine su un’isola meravigliosa, senza pari al mondo. Ruggiero scende da cavallo e lega il cavallo alato ad un mirto, così che non possa alzarsi in cielo. Mentre il cavaliere, liberatosi dalle armi, si sta rinfrescando, l’ippogrifo viene spaventato da una ombra e per scappare sradica il mirto. La pianta inizia improvvisamente a parlare e chiede di essere liberata dal cavallo, così da non dover subire un’altra pena oltre a quella che le è stata già inflitta. Ruggiero corre a liberarla e le chiede subito chi essa sia. Si tratta del bel Astolfo, paladino francese, cugino di Orlando e Rinaldo e futuro erede al trono d’Inghilterra. Liberato da Orlando dalla prigione di Monodante, aveva un giorno raggiunto la spiaggia sede del castello di Alcina, sorella di Morgana. La maga era in quel momento impegnata a pescare; senza reti e senza ami, grazie ad un incantesimo, faceva venire a sé tutti i pesci che desiderava, tra i quali anche una balena, tanto grande che Astolfo, Rinaldo e gli altri credono sia un’isola. Vista la bellezza di Astolfo, Alcina dedice di farlo prigioniero. Con la scusa di volergli mostrare una sirena su un’altra spiaggia, lo fa salire con sé sulla balena e lo rapisce. Rinaldo si tuffa in mare e cerca di raggiungerlo a nuoto, ma il vento del sud alzatosi in quel momento glielo impedisce. Navigando sul dorso della balena, Alcina ed Astolfo raggiungono infine l’isola meravigliosa. Questa in realtà era stata lasciata in eredità a sua sorella Logistilla, unica delle tre sorelle ad essere figlia legittima del loro padre (Alcina e Morgana sono in realtà nate da incesto). Logistilla è tanto virtuosa quanto le altre due sono ingiuste e crudeli e per questo viene odiata. Morgana ed Alcina si sono infatti alleate per sottrarre alla terza ogni avere; Logistilla possiede ora solo una piccola parte dell’isola, e solo perché è un territorio irraggiungibile. Alcina ardeva d’amore per Astolfo ed il cavaliere ricambiava il sentimento, essendo lei molto bella e tanto premurosa nei suoi riguardi. Completamante perso nei piaceri, il paladino si dimentica di ogni altra cosa. Anche lei sembra non avere altro al mondo, Astolfo diviene il suo unico amante. Un giorno però rivolge improvvisamente il proprio cuore altrove, caccia Astolfo e lui scopre che nella sua stessa situazione ci sono altri mille amanti, trasformati infine in alberi, animali, fonte.. per evitare che vadano in giro per il mondo a raccontare le abitudini della maga. Astolfo avverte quindi Ruggiero del pericolo che potrebbe correre. Ruggiero conosceva già Astolfo di nome, in quanto cugino di Bradamante. Per l’amore che nutre nei confronti di lei, decide pertanto di aiutarlo. Astolfo gli indica la via per raggiungere il regno di Logistilla senza passare da quello di Alcina. Lo avverte però che la maga malvagia ha messo a guardia del sentiero un gruppo di suoi guerrieri dall’aspetto mostruoso. Ruggiero riprende il cavallo alato, senza salirgli in groppa per paura di dover ancora volare contro la propria volonta, e si mette in cammino. Raggiunge poco dopo la fortezza di Alcina e si dirige poi verso il monte in cima al quale si trovava il regno di Logistilla. Il suo cammino viene però interrotto dai guerrieri dei quali gli aveva parlato Astolfo: esseri metà animale e metà uomo, metà uomo e metà donna, a cavallo di animali di ogni genere e con ogni tipo di arma in pugno. Ruggiero sguaina la spada e si lancia tra di loro, ma sono troppi, è accerchiato e fa molta fatica ad avere la meglio. Escono intanto dalle mura dorate della città di Alcina due bellissime donne in groppa a due unicorni. Le donne lo invitano ad entrare nella fortezza e lui non può fare altro che acconsentire. All’interno della fortezza è tutta un festa amorosa, tanto che si può ritenere essere il posto dove sia nato Amore. A Ruggiero viene dato un cavallo sul quale poter salire, mentre l’ippogrifo viene consegnato ad un giovane che lo segue a piedi. Le due donne chiedono aiuto al cavaliere per sconfiggere la gigante Erifile, che sta a guardia di un ponte ed impedisce il suo attraversamento. Ruggiero dice loro di essere completamente al loro servizio, qualunque sia il loro desiderio.
Ruggiero e le due donne giungono al ponte controllato da Erifile, donna di gigantesche dimensioni in groppa ad un enorme lupo. Il cavaliere la sfida e la disarciona. Al momento di ucciderla viene però fermato dalle due donne, che gli dicono di accontentarsi della vittoria che ha già ottenuto. Proseguendo il loro viaggio arrivano infine in una spaziosa prateria, dove sorge un bellissimo castello. Ad aspettare Ruggiero c’è Alcina e tutta la sua corte; il cavaliere viene accolto con grandi feste, reverenze ed onori. Tutti gi abitanti del castello sono giovani e bellissimi. La maga supera comunque tutti in bellezza. Ogni sua parte del corpo era come un laccio teso per catturare gli amanti; anche Ruggiero non può non caderne in trappola e non dà quindi ascolto agli avvertimenti di Astolfo. Lo reputa anzi un bugiardo e pensa che la punzione sia stata adeguata alle sue colpe: probabilmente, pensa, non era stato degno di tanta bellezza. Alcina con una incantesimo libera il cuore del paladino da ogni altro interesse e lo occupa completamante, tanto che Ruggiero si dimentica immediatamente di Bradamante, degli impegni verso re Carlo e del proprio onore. Già dalla prima sera, terminata la festa, Alcina fa visita di notte a Ruggiero ed i due vengono travolti dalla passione amorosa. Ogni giorno nel palazzo vengono allestiti ricchi banchetti, concerti, spettacoli, giochi e danze. Non manca nessuna forma di piacere in quella corte. Bradamante, disperata per aver nuovamente perso il proprio amante, vaga alla ricerca di Ruggiero aiutandosi anche con l’anello magico. Decide quindi di tornare alla tomba di Merlino, passando per il territorio dei Maganza, per avere notizie di lui. La maga Melissa ha intanto utilizzato i propri poteri per seguire ogni vicenda della donna e del suo amante Ruggiero, tanta era la cura che aveva di loro, sapendo che la loro unione avrebbe dovuto generare una stirpe di uomini tanto valorosi. Come Melissa ama tanto Ruggiero da volere che il cavaliere mostri tutto il proprio valore e non venga meno al proprio onore, Atlante ama tanto Ruggiero da volerlo isolare dal mondo per farlo vivere il più possibile. L’ha per questo motivo condotto alla corte di Alcina, così da potergli fornire tutti i piaceri necessari a fargli dimenticare ongi altra cosa terrena. Aveva quindi con un incantesimo stretto il cuore della maga nell’amore per il cavaliere, con un laccio così forte che mai avrebbe poi potuto volgerlo altrove. Melissa raggiunge Bradamanate e le dà notiza di Ruggiero. Si fa consegnare dalla donna l’anello magico e le promette quindi di partire quella stessa sera in suo soccorso e di essere di ritorno quanto prima inseme al cavaliere. Raggiunge infatti l’isola in groppa ad un demonio a cui aveva fatto assumere le sembianze di cavallo, si trasforma nel mago Atlante ed aspetta il momento opportuno per avvicinare Ruggiero. Trova il paladino totalmente mutato in abitudini; ha abbandonato ogni arma ed è completamante vestito, acconciato ed adornato come fosse una donna. Ruggiero era stato cresciuto dal mago Atlante, ne subisce pertanto l’autorità. Melissa, nelle sembianze del mago, lo rimprovera aspramente per avere dimenticato tutti i suoi insegnamenti, che avrebbero dovuto portarlo a compiere gloriose imprese e non portarlo a trascorrere una vita molle nell’ozio. Gli ricorda anche l’impegno che ha nei confronti dei suoi discendenti, soprattutto nei confronti di Ippolito e del fratello Alfonso d’Este; dei quali era solito raccontargli ogni nobile impresa, vedendo che il giovane Ruggiero ne gioiva. Consegna quindi l’anello magico al cavaliere, muto e pieno di vergogna, e lo invita ad andare da Alcina per vedere in quale inganno sia caduto. Il paladino si infila l’anello al dito, gli incantesimi di Alcina svaniscono (tra i quali l’amore) e Melissa assume nuovamente le proprie reali sembianze. La maga racconta quindi al giovane di essere stata mandata lì da Bradamante, disperata per averlo perso. Con l’anello magico al dito, Alcina appare finalmente a Ruggiero nel suo aspetto reale: è una orribile vecchia. Come suggerito da Melissa, il cavaliere non fa trasparire il proprio disgusto ed il proprio odio e mette in atto il piano di fuga consigliato dalla maga. Fingendo di voler solo vedere se con le proprie armi indosso può risultare ancora più bello agli occhi di Alcina, si rimette l’armatura, prende la propria spada Balisarda e lo scudo incantato di Atlante. Va quindi nella stalla, monta su Rabican, il velocissimo cavallo appartenuto ad Astolfo, e scappa dal castello. Non prende l’ippogrifo per non fare sospettare le proprie intenzioni ed in quanto l’animale non è governabile. Melissa promette però di portare in seguito il cavallo in un luogo dove possa essere ammaestrato con calma. Ruggiero assale all’improvviso i guardiani e si lancia poi al galoppo in direzione del regno di Logistilla.
Ruggiero fugge attraverso il bosco. Un servo della fata, disarmato, su un povero ronzino, con un falcone da caccia ed un cane al seguito, cerca di opporsi alla sua corsa dimostrando di essere altrettanto veloce. Il paladino, per non dover mettere mano alla spada, utilizza lo scudo di Atlante e si libera dall’impiccio. Nel frattempo Alcina raccoglie tutta la sua gente intorno a sé, ne manda un parte alla ricerca di Ruggiero lungo il sentiero che lui stava percorrendo e l’altra parte la fa invece imbarcare. Lei, totalmente presa dal desiderio di rivedere Ruggiero, si unisce a questi ultimi e lascia così la propria città incustodita. Melissa riesce quindi ad annullare con comodo tutti gli incantesimi della maga Alcina e tutti gli amanti trasformati in piante, animali, fonti.. ritornano alla loro forma originaria e con Ruggiero si mettono in salvo nel regno di Logistilla, per tornare poi ai rispettivi paesi di origine. Come da preghiere di Ruggiero, libera anche il paladino Astolfo, gli riconsegna tutte le armi che gli erano state sottratte, tra le quali la lancia d’oro che disarciona ogni cavaliere che riesca a toccare, gli fa montare l’ippogrifo e lo fa volare in salvo. Infine si reca anch’essa da Logistilla, mentre Ruggiero è ancora impegnato nel suo faticoso viaggio. Rinaldo intanto chiede ed ottiene dal re di Scozia il supporto armato per sostenere re Carlo assediato a Parigi. Naviga fino a Londra e chiede ed ottiene supporto anche dal principe del Galles (il re Ottone d’Inghilterra era insieme a re Carlo sotto assedio a Parigi). L’eremita, aiutata Angelica, colpito dalla bellezza di lei, cerca di trattenere la donna ma questa riparte subito dopo. L’eremità evoca allora un demone e gli fa prendere possesso del cavallo di Angelica, quindi si metta a seguirla da lontano. Giunta sulle rive dell’oceano Atlantico, il demone spinge il cavallo in mare aperto verso nord, senza che Angelica possa fare nulla per fermarlo. Quando è ormai sera l’animale e la donna raggiungono una spiaggia deserta e spaventosa. Angelica accusa la Fortuna di accanirsi contro di lei, di averle tolto ogni avere, ogni persona cara ed infine l’onore (essendo divenuta una vagabonda è infatti ora facile pensare che, benché non abbia commesso alcun peccato, sia una donna di facili costumi), tenendola in vita per il solo gusto di tormentarla ancora. L’eremita, giunto sul posto qualche giorno prima grazie ad un altro demonio, compare improvvisamente e lei, non conoscendolo bene, trova conforto nella sua presenza. Lui si mostra subito troppo affettuoso e lei lo respinge. A questo punto l’eremita spruzza una pozione magica negli occhi della donna e la fa cadere addormentata. Tenterà di abusare di Angelica, ma a causa dell’età finirà solo per addormentarsi al fianco di lei. Nel mare del nord, oltre l’Irlanda, si trova l’isola di Ebuda. In un tempo passato, un re che governava l’isola aveva avuto una figlia tanto bella da fare innamorare di sé il dio marino Proteo, che trovandola un giorno da sola, l’aveva quindi posseduta ed ingravidata. Il re, uomo severo e crudele, non perdonò il gesto alla figlia e la decapitò subito, facendo quindi morire anche il nipote prima che potesse nascere. Il dio Proteo, che accudisce tutti gli animali marini di Nettuno, dio del mare, colmo d’ira infrange le regole della natura e manda sulla terra ferma tutte le crature marine, a seminare distruzione ed a tenere d’assedio gli abitanti dell’isola. Un’oracolo consiglia allora alla gente del posto di offire al dio una donna di pari bellezza. Se Proteo accetterà il dono, tutto potrà terminare, altrimenti sarà necessario presentarne un’altra. Da allora ogni giorno una bella donna viene portata sulla spiaggia e finisce mangiata da un’orca, unica delle creature marine ad essere rimasta presso l’isola. Gli abitanti di Ebuda hanno così cominciato a rapire le donne delle vicine isole, per salvare le proprie mogli. Passa in quel momento davanti alla spiaggia una barca proveniente dall’isola di Ebuda, Angelica viene fatta prigioniera e messa insieme alle altre donne destinate al sacrificio. La bellezza della donna muove a pietà la gente del posto e il suo sacrificio viene ritardato il più possibile. Arriva però inevitabilmente il suo momento e, nuda, viene offerta in catene all’orca. Intanto re Agramante tiene d’assedio a Parigi l’esercito di re Carlo, e solo l’intervento divino (un temporale) evita la sconfitta dei cristiani. Orlando viene tormentato la notte dal pensiero di Angelica, della quale non aveva avuto più notizie dopo la sconfitta di Bordeaux. Il suo cuore si riaccende d’amore e si accusa di non aver fatto niente per evitare che la donna gli venisse tolta per essere affidata al duca Namo. Si accusa di non esser riuscito a difenderla. Anche nel brevi momenti di sonno, sogna di perdere l’amata in seguito ad un forte temporale. La sente invocare il suo aiuto, ma poi una voce misteriosa gli dice di non sperare di poterla ancora rivedere e lo fa svegliare tra le lacrime. Temendo che Angelica sia in pericolo, appena sveglio si mette l’armatura, prende le sue armi, monta su Brigliadoro ed a mezzanotte parte alla ricerca di Angelica. Per poter avere accesso ad ogni sentiero, non prende le proprie insegne ma indossa solo un ornamento nero sottratto ad un avversario saraceno, più adeguato al suo stato d’animo. Il giorno dopo re Carlo si accorge della partenza del proprio nipote, proprio quando il suo aiuto era per lui più necessario. Il re non riesce a trattenere la collera, lo accusa e lo minaccia di farlo pentire di un tale gesto. Brandimarte, compagno molto amato da Orlando, va il giorno dopo all’inseguimento di Orlando, senza dire nulla alla propria compagna Firodiligi, in quanto pensava di riuscire a tornare poco dopo. La donna non rivedrà però il proprio amante per quasi un mese e deciderà in seguito di partire alla sua ricerca.
Spinto dall’amore per Angelica, con addosso ornamenti saraceni, Orlando abbandona l’accampamento cristiano e lascia quindi la guerra in difesa della Santa Chiesa. Sfruttando il proprio travestimento, per tre giorni interi il paladino cerca tracce della donna amata in tutto l’accampamento avversario. Estende poi la ricerca di villaggio in villaggio in tutta la Francia. Arrivato un giorno sulla riva del fiume Quesnon, per attraversarlo chiede aiuto ad una ragazza al comando di una imbarcazione. La donna in cambio del favore chiede però ad Orlando di unirsi all’esercito che sta allestendo il re d’Irlanda, per muovere guerra agli abitanti dell’isola di Abuda, e porre quindi fine ai loro saccheggi ed al rapimento delle donne più belle, che vengono ogni giorno sacrificate da quel popolo ad una orca. Orlando accetta sobito, sia perché è contrario ad ogni ingiustizia, sia perché si convince subito che anche Angelica sia stata fatta da loro prigioniera, visto che in nessuno luogo della Francia era riuscito a trovarla. Decide quindi di raggiungere nel minor tempo possibile quell’isola e già il giorno seguente si imbarca. Orlando è ormai giunto sulle coste dell’Inghilterra quando il vento cambia direzione e lo riporta subito indietro fino ad Anversa. Qui, Orlando sbarca e viene subito accolto da un vecchio che invita il paladino a dare il proprio aiuto ad una donna in difficoltà. Orlando accetta subito e si lascia condurre al castello di lei. La donna, di nome Olimpia, vestita a lutto e piena di dolore, racconta al conte Orlando la propria storia. Figlia del conte d’Olanda, si era innamorata del duca Bireno, che era poi dovuto andare in Spagna per prendere parte alla guerra contro gli arabi. Ii re di Frisia, Cimosco, aveva deciso di fare sposare il proprio figlio Arbante con Olimpia, e ne chiede quindi la mano al conte d’Olanda. La donna, per non venire meno all’amore ed alla parola data a Bireno, risponde però di preferire la morte, ed il re di Frisia, in tutta risposta, invade l’Olanda ed uccide in guerra tutti i familiari di Olimpia. Cimosco possiede infatti un’arma avvenieristica, un archibugio (un’arma da fuoco), e non esiste avversario che possa competere con lui. Olimpia rimane imprigionata nel proprio castello. Cimosco fa sapere che avrebbe posto fine alla guerra se lei si fosse concessa in sposa ad Arbante. Olimpia rifiuta ancora ed i suoi sudditi, per non rischiare anche la loro vita, consegnano lei ed il suo castello nelle mani di Cimosco. Olimpia decide ci uccidersi, ma prima, per vendicarsi, finge di addolcirsi nei confronti di Arbante e lo sposa. Durante la prima notte di nozze, la donna lo uccide, aiutata da un suo fedele servitore, e scappa poi per mare con quel poco che le era rimasto. Durante il matrimonio però Cimosco, saputo della notizia che Bireno stava giungendo per mare, si era assentato per muovergli guerra. Il re di Frisia aveva sconfitto l’avversario e l’aveva fatto prigioniero. Visto il figlio morto, Cimosco uccide ogni persona che fosse vicina ad Olimpia. A Bireno pone invece una condizione crudele: gli dà un anno di tempo per portargli la donna tanto odiata, pena la morte. Olimpia tenta ogni stratagemma per liberare l’uomo amato ma senza successo alcuno. L’anno sta ormai per scadere e lei è infine disposta a consegnarsi nelle mani di Cimosco. Per essere sicura che questo sia di parola, chiede ad Orlando di stare al suo fianco durante lo scambio e di intervenire quindi prontamente se qualcosa dovesse andare storto. Orlando promette subito di dare il proprio supporto ed anzi di fare di più di quanto lei gli chieda. Orlando ed Olimpia partono per mare quello stesso giorno e giungono in Olanda. Scende solo il paladino, la donna dovrà aspettare di aver notizia della morte di Cimosco. Giunge a Dordrecht e trova alla porta della città una folta schiera di cavalieri; hanno avuto notiza che sta arrivando via mare il cugino di Bireno, con al seguito un esercito. Il paladino sfida il re di Frisia: in caso di sconfitta del cavaliere gli verrà consegnata l’assassina del suo figlio Arbante, in caso di sconfitta del re dovrà essere invece liberato il prigioniero. Il re è però intenzionato a fare prigioniero anche Orlando ed incarica un gruppo di uomini di tendergli una imboscata. Il re ed i suoi cavalieri circondano il conte Orlando, ed è talmente convinto che l’impresa sia semplice che non prende neanche con sé l’archibugio. Orlando si butta sugli avversari e fa una strage. Cimosco chiede a gran voce che gli venga portata l’arma ma nessuno lo ascolta; chi può tornare alla città non ha nessuna intenzione di uscirci ancora. Anche il re tenta di mettersi in salvo inseguito dal paladino (rallentato nell’inseguimento poiché non aveva con sé Brigliadoro). Finalmente riesce ha avere la sua arma da fuoco e spara, ma forse a causa della paura che gli faceva tremare le mani, sbaglia mira e colpisce ed uccide solo il cavallo del duca Orlando. Questo si lancia subito a piedi contro il re di Fresia e lo uccide. Giunge in quel momento anche il cugino di Bireno e muove anch’esso guerra contro i seguaci di Cimosco. Bireno viene liberato e può nuovamente abbracciare Olimpia. Lei viene riportata dal suo popolo nel castello del padre e tutti le giurano nuova fedeltà. Olimpai concede sé stessa ed il proprio regno all’uomo amato, ma Bireno vuol tornare con lei in patria, lascia il regno d’Olanda al cugino ed è intenzionato ad impossessarsi della Frisia, avvantaggiato anche dal fatto che tra i prigionieri c’é la figlia di Cimosco, che vuole dare in moglie ad un suo fratello. Orlando si imbarca nuovamente per raggiungere Abuda, porta con sé l’archibugio ed appena è in mare aperto lo getta nelle profondità dell’oceano.
Appena vide piangere la figlie del re di Frisia per la morte del proprio padre, Bireno subito se ne innamora e la ragazza, appena quattordicenne, prende subito il posto di Olimpia nel suo cuore. Questa ultima gli risulta invece all’impreovviso insopportabile, ma lui non lo dà a vedere ed anzi si comporta come se gli interessasse solo la sua felicità. Nessuno si accorge del cambiamento: le carezze che lui fa alla sua nuova amata vengono interpretate come un gesto di pietà e bontà, e per questo viene lodato. Partono per nave alla volta della patria di Bireno, l’isola Zeeland, ma dopo tre giorni di tempesta raggiungono un’isola sconosciuta. Bireno ed Olimpia si accampano sulla spiaggia e lui, approfittando del sonno profondo di lei, torna di corsa sulla nave e riparte, addandonandola. Olimpia si risveglia così sola; non può fare altro che guardare la nave che si allontana sempre più e inveisce contro il crudele Bireno. Si accorge di non avere nessuna via di scampo; se anche arrivasse una nave a metterla in salvo, non sa dove poter andare, dal momento che aveva consegnato il suo regno, l’Olanda, nelle mani di Bireno e non le rimaneva più alcuna ricchezza, avendo speso tutto per toglierlo di prigione. Ruggiero, sotto il cocente sole di mezzogiorno, continua il suo viaggio verso il regno di Logistilla; è stanco, assetato e le armi che ha indosso sono infuocate. All’ombra di una torre riconosce tre donne della corte di Alcina intente a banchettare. Le donne gli offrono da bere e gli chiedono di abbandondare il suo viaggio per unirsi a loro, ma lui rifiuta l’invito, temendo che Alcina stia ormai per raggiungerlo. Una dolle donne si infuria e lo minaccia ed insulta in ogni modo, lui però non risponde a quelle provocazioni così vili. Il cavaliere giunge infine allo stretto che separa le terre di Logistilla dal regno di Alcina. Trova ad aspettarlo un vecchio su una imbarcazione pronta a salpare e subito partono per raggiungere l’altra riva. Sopraggiunge la flotta di Alcina con a bordo la stessa maga. Il vecchio prende subito lo scudo magico di Atlante, lo scopre ed così abbaglia gli avversari, facendoli cadere svenuti. Nel frattempo si accorge dei nemici anche un soldato di Logistilla, dà l’allarme ed iniziano a piovere dardi sugli avversari. Viene allestita anche la flotta ed in un attimo è subito battaglia. La maga Alcina è costretta infine a fuggire a bordo dell’unica nave che le rimane. Passerà i successivi giorni a piangere la perdita dell’amante ed a disperarsi perché, in quanto fata, non può morire. Ruggiero raggiunge la bellissima roccaforte di Logistilla; le gemme che la adornano hanno in particolare il poter di specchiare l’anima degli uomini, facendo vedere ad ognuno le proprie virtù ed i propri vizi. Il cavaliere viene accolto con grandi onori. Ritrova Astolfo nel castello e successivamente arriveranno anche tutti gli altri precedenti amanti della maga Alcina, liberati ora da Melissa. Logistilla insegna a Ruggiero a comandare l’ippogrifo ed appena il cavaliere è pronto, lo fa tornare in Aquitania, a Dordona, dove si trova l’amata Bradamante. Il cavaliere non ripercorre la via dell’andata (dalla Spagna fino alle coste dell’India sorvolando l’oceano) ma prosegue ad occidente, compiendo così il giro del mondo. Spinto dal desiderio di visitare il mondo, arrivà solo dopo mesi in Inghilterra ed atterrerà quindi una mattina a Londra. Ruggiero vede riunito un immenso esercito di cavalieri provenienti dall’Irlanda, dalla Scozia, dall’Inghilterra e da ogni isola vicina, con in testa Rinaldo. Si stratta del rinforzo chiesto da re Carlo, che si sta dirigendo in parata al porto per imbarcarsi per la Francia. Un cavaliere indica a Ruggiero ogni singola componente dell’esercito e tra i vari personaggio si sofferma su Leonetto, nipote del re Ottone d’Inghilterra, e Zerbino, figlio del re di Scozia. Ruggiero riprende quindi il volo e si dirige poi verso Irlanda. Durante il suo viaggio, volando a bassa quota, scorge su una isola, Ebuda, la bella Angelica incatenata nuda ad uno scoglio. Il cavaliere crede di vedere una statua, ma poi si accorge delle lacrime che ne rigano il volto. Si avvicina alla donna e le chiede chi sia stato ad incatanarla. Mentre Angelica sta per iniziare a raccontare le proprie vicende, emerge dal mare la mostruosa orca. Ruggiero la colpisce con la propria lancia ma la pelle del mostro è più dura di un sasso. Si innalza poi in volo ed inseguito dall’orca, tenta di colpirla con maggiore efficacia. Ogni tentativo è inutile ed infine Ruggiero, messo al dito di Angelica l’anello magico che aveva ricevuto da Melissa, scopre lo scudo e fa svenire il mostro che rimane quindi rovesciato in mare. Il cavaliere libera Angelica, la fa salire sul cavallo alato e vola con lei in cielo. Atterranno su una vicina spiaggia della Bretagna e Ruggiero, preso dalla passione (era ormai anche lui vittima della bellezza di Angelica ed in aggiunta la donna era completamente nuda), inzia a togliersi l’armatura.
Ruggiero è completamente preso dalla passione per Angelica e si strappa l’armatura per poterla sfogare. La donna, imbarazzata per essere completamante nuda, guardandosi il corpo si accorge di avere al dito l’anello, che in precedenza le era appartenuto ed del quale aveva fatto grande uso in passato, fino a quando Brunello non glielo rubò. Angelica si mette l’anello in bocca e scompare alla vista del cavaliere. Ruggiero cerca invano di ritrovare la donna, ma lei è ormai lontana ed è quindi giunta in una grotta dova trova cibo, vestiti, che seppur rozzi non riescono però a non farla comparire bella e nobile, ed una cavalla con cui poter proseguire il proprio viaggio verso casa. Il cavaliere intanto, accortosi di aver infine perduto anche l’ippogrifo che, liberatosi dal morso, volava ora libero in cielo, riprende le proprie armi e si incammina a piedi. Giunto in un bosco, sente un gran rumore d’armi ed assiste alla battaglia tra un gigante ed un valoroso cavaliere. Questo ultimo viene tramortito da un colpo alla tesa; il gigante gli rimuove l’elmo per tagliargli la testa e Ruggiero si accorge a quel punto che si tratta dell’amata Bradamante. Prima che possa intervenire in difesa della donna, il gigante se l’è messa in spalla e inzia a scappare inseguito dal cavaliere. Nonostante il debole vento, Orlando giunge all’isola si Ebuda prima del re Oberto d’Irlanda. Lasciata la nave al largo, raggiunge l’isola con una scialuppa portando con sé solo la spada, la più grossa ancora della nave ed una robusta fune. Avvicinatosi ormai alla riva, sente il pianto di una donna, che, nuda, era stata incatenata ad uno scoglio. Si avvicina a lei con la scialuppa, quando improvvisamente compare il mostro marino che, vista l’imbarcazione del paladino, spalanca la bocca per inghiottirla. Orlando approfitta dell’occasione per piantare in bocca all’orca l’enorme ancora così da impedirle di richiederla. Si immerge quindi anche lui nel mostro e dal dentro inizia a trafiggerla con la propria spada. Il cavaliere abbandona infine la gola dell’animale impugnando la robusta fune che aveva legato all’ancora, nuota fino alla riva ed inizia a tirare a sé l’orca con tutta la sua smisurata forza. Il mostro marino, sentendosi in trappola, cerca di divincolarsi, con però il solo risultato di ferirsi ulteriormente. Proteo, sentito il frastuono di quel combattimento, esce dal mare ed assiste alla scena. Preso dalla paura non potrà fare altro che fuggire al largo; lo stesso farà Nettuno e tutti gli altri dei marini. Il paladino tira infine l’orca ormai morta sulla spiaggia. Gli abitanti di Ebuda invece di mostrare gratitudine, si arrabbiano e sono intenzionati a sarcificare Orlando al dio Proteo buttandolo in mare, così da evitare una sua nuova ira. Il paladino, sguaina la spada e senza troppo infierire si apre giusto la strada verso la donna. Nel frattempo arriva l’esercito mandato dall’Irlanda, fa strage del nemico, saccheggia e distrugge tutto ciò che incontra. La donna incatenata nuda è Olimpia. Orlando ascolta la sua storia e la libera. Arriva sulla spiaggia anche re Oberto, che vuole accertarsi con i propri occhi di quanto gli era stato riferito del combattimento tra il cavaliere e l’orca. Orlando ed Oberto si conoscevano da tempo e si abbracciano contenti, poi il paladino racconta al re il tradimento subito da Olimpia per opera di Bireno. Le lacrime della donna, la sua storia e soprattutto il suo bellissimo corpo nudo, accendo all’istante d’amore il re d’Irlanda, che subito si proprone di portarla in Olanda e di fare di tutto per ridarle il suo regno e per punire adeguatamante il crudele Bireno. Orlando è contento della situazione, può evitare di andare lui stesso a vendicarla e può quindi continuare nel suo intento: ritrovare Angelica. Nessuno è però rimasto vivo sull’isola ed il paladino non riesce ad avere quindi alcuna notizia di lei. Il re Oberto, insieme ai re d’Inghilterra e di Scozia, toglierà a Bireno l’Olanda, la Frisia, l’isola Zeeland ed infine anche la vita. Sposò infine Olimpia e da contessa la fece regina. Orlando, ritornato al porto di partenza, riprende il proprio cavallo Brigliadoro e continua il viaggio alla ricerca dell’amata. La primavera seguente, mentre è in viaggio, sente le urla di una donna in pericolo, sguaina la propria spada e corre in suo aiuto.
Mentre Orlando è in viaggio alla ricerca di Angelica, sente le urla di una donna in pericolo, sguaina la propria spada e corre in suo aiuto. Il paladino vede passare al galoppo un cavaliere misterioso con in braccio una donna, contro la sua vonontà, che ad Orlando sembra Angelica. Il duca si lancia al suo inseguimento con Brigliadoro e raggiunge infine, uscito dal bosco, un vasto prato con al centro un bellissimo castello, all’interno delle cui mura è entrato il misterioso cavaliere. Orlando smonta da cavallo, entra nelle stanze del castello e controlla ogni piano senza riuscire a trovare né il cavaliere né l’amata. Incontra nel castello Ferrù, Bradimarte, re Gradasso, re Sacripante ed altri cavalieri, ognuno accusa il padrone del palazzo di avergli rubato qualcosa di prezioso e si muove invano alla sua ricerca. Non riuscendo a trovare quello che cercava, Orlando esce nel prato circostante ma subito vede Angelica ad una finestra e sente le donna chiedergli aiuto. Torna nel castello e continua la ricerca; la voce di lei proviene sempre da un luogo diverso, sempre da tutt’altra parte rispetto a quella dove si trova lui. Nell’inseguimento del gigante che aveva rapito Bradamante, anche Ruggiero giunge al castello nel quale era entrato poco prima Orlando. Inizia anche lui le ricerche dell’amata in ogni stanza del castello, anche lui senza successo, anche lui decide di uscire per continuare la ricerca altrove ma anche lui subito viene richiamato indietro dalle grida di aiuto della persona cercata. Sono tutti vittima del nuovo incantesimo di Atlante, che dopo il castello d’acciao e dopo l’isola della maga Alcina, cerca ora di tenere impegnato il proprio protetto in questo nuovo castello finché non venga vanificato l’influsso negativo degli astri che avevano predetto la sua morte. Il mago aveva deciso di condurre in quel posto anche tutti i valorosi cavalieri che avrebbero potuto uccidere Ruggiero. Angelica intanto, decisa a ritornare in India, è alla ricerca di Orlando o di Sacripante così da poter avere adeguata guida per il proprio viaggio. Con l’anello magico in bocca, quindi invisibile a tutti, giunge infine anche lei al castello di Atlante e vi entra. Incontra Sacripante ed Orlando e vede come vengono ingannati dall’incantesimo con finte immagini di lei. Tra i due cavalieri decide di prendere Sacripante come sua guida, per il semplice motivo che ritiene di poterlo più facilmente liquidare quando non ne avrà più bisongo. Si toglie quindi l’anello di bocca e lo infila al dito: annulla l’incantesimo di Atlante ed appare alla vista del paladino. In quel momento sopraggiungono però anche Orlando e Ferraù (anche questo alla ricerca di lei). Angelica, vista la situazione, fugge dai tre amanti che prontamente riprendono i propri cavalli e la inseguono. Lei si infila nuovamente l’anello in bocca e torna ad essere invisibile. I tre cavalieri, stupiti (e derisi per questo) per aver visto scomparire Angelica, inziano a litigare. Ferrù dichiara apertamente di non portare nessun elmo perché interessato soltanto, come promesso ad Argalia, a quello del paladino Orlando, senza averlo riconosciuto costui nel cavaliere che ha di fronte. Il cavaliere spagnolo, spavaldo, sostiene anche di avere già incontrato molte volte il conte e di averlo ogni volta messo alle strette, ma non di aver voluto allora prendergli le armi. Acceso d’ira, Orlando rivela la propria identià, si toglie l’elmo e si lancia nel combattimento con lo spagnolo. Il duello è crudele, ma entrambi sono stati resi invulnerabili da un incantesimo. Ferrù può essere ferito solo all’ombelico ed Orlando solo sotto le piante dei piedi, tutto il resto dei loro corpi è più duro del diamante e portavano quindi l’armatura solo per ornamento. Angelica è l’unica testimone del combattimento perché Sacripante, aprofittando della situazione, è ripartito a cavallo alla ricerca di lei. Angelica, per fare dispetto ad entrambi i rivali e curiosa della loro reazione, ruba l’elmo di Orlando con l’intenzione di tenerlo per poco e restituirlo appena possibile. Orlando e Ferrù si rendono conto della sparizione dell’elmo, accusano Sacripante di quel gesto e subito corrono al suo inseguimento. Seguendo tracce diverse, Orlando rifà il percorso di Sacripante e Ferraù invece quello di Angelica. Angelica nel frattempo si era fermata ad una fonte per riposarsi ed aveva lasciato incustodito l’elmo. Quando vede giungere Ferraù, riprende subito la fuga e rimette l’anello in bocca per scomparire alla vista del cavaliere. Il pagano vede la donna sparire, la cerca inutilmente ed infine torna alla fonte, dove può prendere l’elmo tanto desiderato e infilarselo in testa. Torna quindi all’accampamento spagnolo presso Parigi. Angelica è triste per aver sottratto l’elmo al conte, consegnandolo infine involontariamente allo spagnolo Ferraù. Non è questo ciò che Orlando meritava per quanto aveva fatto per lei, e si lamenta quindi con sé stessa. Precedendo il suo viaggio verso l’oriente, incontrerà infine un giovane ferito mortalmente al petto. Recuperato un altro elmo senza cimiera, Orlando procede nella propria ricerca di Angelica. Giunge nei pressi di Parigi nel periodo in cui re Agramante è impegnato a cingere d’assedio la città per fare cedere infine il proprio nemico. A tale scopo aveva riunito un enorme gruppo di soldati e si apprestava in quel momento a riorganizzarlo. Alzirdo, re di Tlemsen, capitano di una delle schiere di soldati, vedendo passare un cavaliere dall’aspetto tanto fiero e valoroso, volle subito metterlo alla prova e si lancia a cavallo contro il conte; finisce morto con il cuore trafitto. Gli altri soldati, avendo assistito alla scena, circondano l’avversario misterioso ed iniziano a colpirlo in ogni modo. Orlando estrae la propria spada, Durindana, e fa una strage di saraceni. Si mettono subito in fuga fino a che non vede che sul campo di battaglia non è rimasta nessuna persona viva. Proseguendo il proprio viaggio, una notte il conte Orlando trova una grotta con l’ingresso principale bloccato ma dalla quale, attraverso una apertura, vede uscire una luce intensa. Pensando subito che al suo interno si trovi prigioniera Angelica, Orlando vi entra e trova così al suo interno una giovane e bellissima ragazza, con gli ogni bagnati dalle lacrime, in compagnia di una vecchia. Orlando gli domanda chi sia la persona tanto crudele che le tiene imprigionate in quella caverna.
La bellissima ragazza trovata da Orlando nella caverna racconta al paladino le proprie disavventure. Si chiama Isabella, è saracena ed è figlia del re di Galizia (Maricoldo, ucciso in realtà per mano di Orlando, ma lei non lo sa). Il padre aveva organizzato una giostra ed erano giunti cavalieri da ogni parte del mondo per sfidarsi, tra i quali Zerbino, figlio del re di Scozia, del quale lei si innamorò subito. Zerbino ricambiava il sentimento e sapendo di non poterla avere in moglie dal padre di lei, a causa della loro diversa fede, organizzò il suo rapimento. Non potendo compiere l’opera di persona, poiché impegnato nella guerra in Frisia a fianco del padre, mandò per mare il suo fedele amico Odorico. Durante il viaggio che l’avrebbe portata da Zerbino la nave incontrò però una tempesta. Odorico e Isabella si salvarono salendo su una scialuppa, insieme a Almonio e Corebo, ed abbandonando la nave. Raggiunta una spiaggia deserta, Odorico manda Almonio, fedele compagno di Zerbino, a prendere alcuni cavalli e confida a Corebo, suo fedele compagno, di essere acceso d’amore per la ragazza e che ha intenzione di possederla. Corebo vuol fermare l’amico, i due combattono e Corebo rimane ucciso. Rimasti ormai soli, Oberdo, non riuscendo con le buone maniere, inzia ad usare la forza per possedere la donna. Arriva fortunatamanete sul posto un gruppo di persone e lui è costretto a fuggire. Isabella non ottiene però altro aiuto da loro, viene anzi imprigionata in quella caverna con l’intenzione di riuscire poi a venderla. Terminato il racconto, entrano in quel momento nella caverna venti persone armate, Orlando gli lancia contro una immensa tavola e ne mette fuori gioco buona parte. Lega poi con una fune quelli che hanno ancora vita e li appende come cibo per i corvi ad un albero fuori dalla grotta. La vecchia fugge di corsa ed incontra infine un guerriero sulla riva di un fiume. Orlando si allontana con Isabella ed i due proseguiranno insieme il viaggio finché non incontreranno un cavaliere che stava per essere portato in prigione. Bradamante, tornata a Marsiglia per difendere la città dalle continue scorribande dei saraceni, non aveva più avuto notizie del suo amato Ruggiero dal giorno in cui aveva consegnato alla maga Melissa l’anello magico. Quando Melissa le fa finalmente visita e Bradamante la vede arrivare sola, la donna teme per la vita del cavaliere. La maga le racconta però della trappola che il mago Atlante ha ancora una volta teso al cavaliere, e le chiede di partire subito per andare a salvarlo. Le dice di andare nei pressi di quel castello incantato, di aspettare che il mago nelle sembianze di Ruggiero, per ingannare anche lei, le si avvicini e le ordina quindi di ucciderlo senza esitazione per porre fine ad ogni suo incantesimo. Il viaggio insieme è una nuova occasione per parlare del valore della stirpe d’Este, che da lei e da Ruggiero avrà origine. Se nella tomba di Merlino la maga aveva presentato alla donna i suoi discendeti maschi, ora Bradamante vuole conoscere anche la sorte delle discendenti femmina. Melissa, tra le numerose discendenti degne d’onore, colonne portanti di grandi famiglie nobili, parla subito di Isabella d’Este, figlia di Ercole I e moglie di Francesco II Gonzaga marchese di Mantova. Parla poi anche di Beatrice d’Este, sorella di Isabella e moglie di Ludovico Sforza, e di altre discendeti illustri, tra le quali anche Eleonora d’Aragona, madre di Ippolito, Alfonso ed Isabella. Giunte infine nei pressi del castello incantato, Bradamante si separa dalla maga e prosegue oltre da sola. Appena vede però Ruggiero combattere contro due giganti, si dimentica degli avvertimenti della maga ed anzi pensa che Melissa abbia in odio il cavaliere e lo voglia morto. Il mago atlante, con le sembianze di Ruggiero, le chiede aiuto e subito parte al galoppo inseguito dai due aggressori. Bradamante insegue l’amato ed non esita ad entrare nel castello, cadendo anch’essa in trappola. Re Agramante nel frattempo raccoglie il proprio esercito per tirare le file in vista delle prossime azioni.
Re Agramante e re Marsilio raccolgono l’esercito per riorganizzarlo. Se i cristiani hanno perduto tutta la campagna, sono accerchiati e tenuti d’assedio a Parigi, i saraceni hanno perduto buona parte del proprio esercito e soprattutto dei propri comadanti. Le loro vittorie sono state ottenute a caro prezzo; la gioia della vittoria è sempre stata accompagnata dal rammarico per le perdite subite. Si può dire altrettanto della grande vittoria ottenuta dai Francesi nella battaglia di Ravenna, nella quale si fece tanto onore Alfonso d’Este. Fatto passare tutto l’esercito schiera per schiera, provenienti da ogni parte del mondo ed arruolate anche in Francia, vengono quindi assegnate nuove guide, nuovi capi, ai reparti che ne erano rimasti sprovvisti. Non avendo capitani in numero sufficiente, ne vengono eletti di nuovi al momento. Tra i comandati di reparto c’è anche Brunello, scuro in volto e con il capo chino per aver perduto la stima di re Agramante, dopo aver perso l’anello magico e rischiato per questo l’impiccagione. Una schiera dell’esercito è guidata invece da Rodomonte, il più forte e coraggioso cavaliere saraceno ed anche il più acerrimo nemico della fede cristiana. Mancano infine all’appello le schiere di Norizia e Tlemsen, ad Agramante viene così raccontata la strage compiuta dal cavaliere misterioso (Orlando), che aveva segnato anche la morte delle loro guide. Mandricardo, figlio di re Agricane ucciso da Orlando, valorosissimo e crudele cavaliere saraceno, proprietario dell’armatura che mille anni prima era appartenuta ad Ettore, sentita la storia, si propone subito, senza farne parola, di inseguire le tracce di quel cavaliere per confrontarsi con lui. Parte immediatamanete per la campagna e trova molti testimoni e molte prove delle incredibili imprese del cavaliere, di Orlando. Guarda con invidia i cadaveri che incontra sulla propria strada, invidia per essere giunto tardi ad un così bel massacro. Il Tartaro Mandricardo incontra un giorno sulla riva di un fiume un gruppo di soldati; proteggono Doralice, figlia del re di Granata e sposa di Rodomonte. Il crudele cavaliere vuole mettere alla prova quel gruppo di soldati, chiede di poter vedere la ragazza e li assale. Mandricardo combatte con una lancia. Aveva infatti trovato solo l’armatura di Ettore, la spada Durindana era stata già presa da Orlando, ed il guerriero Tartaro è intenzionato a non usare nessuna spada finché non riuscirà ad impossessarsi di quella del paladino. Anche con la sola lancia spezzata, il saraceno fa una strage. Alcuni soldati cercano infine di scappare ma Mandricardo non sopporta l’idea di lasciare superstiti: li insegue e completa la sua opera. Vista la bellezza di Doralice in lacrime, Mandircardo se ne innamora e come premio per la propria vittoria diviene quindi prigioniero d’amore. Prende sul proprio cavallo la donna, saluta benevolmente i servitori di Doralice, dicendo di prendersi ora lui cura di lei, e continua il suo viaggio. Ora è però meno interessato a ritrovare il cavaliere misterioso e rallenta quindi notevolmente la ricerca. Il saraceno mente alla donna dicendo di averla sempre amata e di essere arrivato in Europa solo per poterla rivedere. Lei prende sempre più coraggio dalle parole di lui ed inizia anche a mostrarsi cortese e disponibile nei suoi confronti. La sera stessa si fermano ad un villaggio e sfogano la passione. Ripartiti il giorno dopo, incontrano poi due cavalieri ed una donna che riposano all’ombra sulla riva di un fiume. Tornando a Parigi, re Agramante viene a sapere che i rinforzi richiesti da re carlo sono ormai giunti in Francia. Viene pertanto deciso di fare tutto il possibile per espugnare la città prima che giunga l’aiuto, e viene preparato tutto il necessario per l’assalto. All’interno della città di Parigi i cristiani chiedono con preghiere aiuto a Dio. Dio incarica l’arcangelo Michele di portare Silenzio all’esercito arrivato dall’Inghilterra, per farlo giungere all’improvviso alla città di parigi, e Discordia nell’accampamento saraceno, così da creare in esso liti accese e ridurne la forza. L’arcangelo si reca presso chiese e monasteri credendo di trovare Silenzio insieme ad altre buone qualità, trova invece Discordia, che aveva pensato di trovare nell’inferno, insieme ad altre cattive qualità. Michele affida a Discordia il compito assegnatole e chiede quindi a lei infromazioni su Silenzio. Gli viene risposto di provare a chiedere a Frode, per lungo tempo compagna di Silenzio in rapine ed omicidi. Gli viene risposto di andare a casa del Sonno, là troverà per certo Silenzio. L’arcangelo lo trova e lo porta infine presso l’esercito guidato da Rinaldo, che, grazie a quell’aiuto, raggiunge in un solo giorno Parigi senza essere visto o sentito dagli avversari pagani. Viene dato il segnale ed inizia l’assalto. All’interno della città si opera per opporsi con ogni mezzo al nemico. Rodomonte passa però lo sbarramento, fa strage di cristiani e libera una delle torri di difesa della città, creando quindi una via facile di accesso per i propri compagni che conquistano così la prima cerchia di mura. I saraceni spinti da Rodomonte si calano dalla prima cerchia di mura per passare il fossato e cercare di scalare anche le mure interne di difesa. Il valoroso cavaliere salta invece direttamente da una torra all’altra e riprende a fare strage. I cristiani intanto danno fuoco al letto di rami secchi che avevano posto tra mura e mura, facendo morire bruciati tutti i pagani che si erano avventurati oltre la prima cerchia.
Mentre Rodomonte, giunto alle mure interne di Parigi, vede morire più di undicimila soldati, Re Agramante muove parte dell’esercito per assaltare una porta che crede sguarnita. Troverà invece in sua difese un grosso numero di cristiani con a capo lo stesso re Carlo (che aveva previsto i punti dai quali l’avversario avrebbe attaccato). Il duca Astolfo, salvato da Melissa e giunto nel regno di Logistilla, riesce infine a partire per mare per fare ritorno in patria. Per proteggerlo durante il viaggio, la maga lo fa accompagnare da una forte scorta armata (guidata da Andronica e Sofrosina), gli consegna anche un libro contro gli incantesimi e gli dona infine un corno magico, il cui orrendo suono è in grado di mettere in fuga qualunque avversario. Prendendo spunto da un pensiero comune a quel tempo, secondo il quale, vedendo quanto fosse grande l’Africa, dall’oceano atlantico non era possibile raggiungere l’oceano indiano, Astolfo domanda ad Andronica se qualche nave abbia mai compiuto quel viaggio. Lei risponde che in futuro sempre più esploratori circumnavigheranno l’Africa fino a raggiungere l’India. Altri faranno ancora di più, scoprendo nuovi mondi. Dio vorrà rivelare quella via solo quando sarà giunto il tempo di Carlo V, con l’intenzione di porre tutto il mondo sotto il controllo di questo giusto imperatore. Per questo la Provvidenza Divina gli metterà anche a disposizione valorosi capitani, tra i quali Andrea Doria, che svolgerà con onore il compito di liberare i mari dai pirati e gli aprirà la porta per arrivare alla corona di imperatore. Giunti allo stretto di Bahrein, Astolfo approda e prosegue il proprio viaggio sulla terra. Cavalcando lungo il Nilo sul suo cavallo Rabicano (tanto leggero nella corsa che quasi sfiorava il terreo, non si nutriva di fieno ma solo d’aria pura) incontra un vecchio eremita su di una imbarcazione, che gli consiglia, se ha cara la vita, di continuare il viaggio sull’altra riva del fiume, così da non incontrare il gigante Caligorante che è solito catturare le persone con una rete nacosta sotto la sabbia, divorarle ed adornare con le loro pelli la propria dimora. Astolfo, tenedo più al proprio onore che alla propria vita, prosegue invece oltre alla ricerca del gigante. Il gigante, visto arrivare Astolfo, pensa di prendere il cavaliere alle spalle, per farlo spaventare, scappare e quindi cadere in trappola. Il duca però ferma subito il cavallo e suona il corno magico. Questa volta à il gigante a scappare terrorizzato ed a cadere nella rete. Il duca Astolfo sguaina la spada per vendicare le molte vittime di Caligorante, il proprio onore lo ferma però dall’uccidere il gigante, immolizzato e qundi non in grado di difendersi. Il cavaliere incatena quindi Caligorante, lo libera dalla rete divina e se lo porta dietro come trofeo da mostrare nei paesi dove passa. Passando dal Cairo, Astolfo viene a sapere che alla foce del nilo vive un ladrone, di nome Orrilo, impossibile da uccidere, e vuole quindi andare a vedere con i propri se quanto si dice sia vero. Arrivato sul posto, il duca assiste al combattimento tra quella persona incantata ed i due figli del cognato di Orlando, Grifone e Aquilante. Qualunque ferita o mutilazione venga inflitta al ladrone, lui si ricompone e riprende normalmente il combattimento. Se gli viene scagliato in mare un braccio, si tuffa e quando esce dall’acqua è nuovamente intero. Assistevano alla scena anche due donne, le due fate che avevano nutrito i due, quando erano giovani, dopo averli salvati da un grifone e da un’acquila che li avevano sottratti alla loro madre, ed ora avevano spinto i due uomini a confrontarsi in duello con Orrilo. Giunta la notte, il combattimento viene sospeso e rimandato al giorno successivo. Astolfo, che conosce già Grifone e Aquilante, si unisce alla loro mensa. Il duca legge nel libro contro gli incantesimi che l’unico modo per rendere Orrilo vulnerabile è di strappargli di testa un capello fatato. Convinto dell’imminente trionfo, Astolfo si prende quindi su di sé l’incarico di uccidere il ladrone. Il giorno dopo, durante il combattimento, il duca decapita l’avversario e subito si impossessa della sua testa e parte di corsa a cavallo, così da evitare che Orrilo si ricomponga. Approfittando del vantaggio preso sul ladrone, subito corso all’inseguimento, grazie al proprio cavallo Rabicano, Astolfo rade completamente la testa di Orrilo. Subito la testa perde vita, così come ogni altra parte del corpo del ladrone. Il paladino mostra subito la sua opera ai due uomini ed alle due donne, ma Grifone e Aquilante non gioiscono per l’invidia, le due fate perché vedono ora vicino il triste destino che attende i due fratelli in Francia, e che avevano cercato di evitare tenendoli occupati con Orrilo. I due giovani si uniscono infatti subito a lui per combattere contro i saraceni. I tre, con il gigante al seguito, prendono quindi la via ad oriente per poter visitare la Terra Santa. Incontrano lì un loro amico, Sansonetto, intento a costruire un muro a protezione del monte calvario ed una fortezza per fronteggiare il califfo. In duca gli fa omaggio del gigante (per sollevare i carichi pesanti e procedere spediti nelle opere) e della rete utilizzata per catturarlo. Giunge un cavaliere e comunica a Grifone che Orrilige, la donna da lui amata (tanto bella quanto crudele), ha abbandonato Constantinopoli, dove lui l’aveva lasciata, per seguire un suo nuovo amante. Il ragazzo pensa quindi di raggiungere l’amata per riprendersela.
Grifone, innamorato di Orrilige, donna crudele ed infedele, si allontana di notte dalla Terra Santa, senza dire nulla al fratello, con l’intenzione di sottrarre la donna amata al suo nuovo amante. La incontra a Damasco in compagnia di un cavaliere, altrettanto ingiusto, che con lei si sta dirigento alla città per partecipare ad una giostra organizzata dal re di Damasco. Orrilige convince però Grifone di essere giunta lì in compagnia di suo fratello, con il desiderio di poter incontrare lui; si dice quindi contenta di quell’incontro. Grifone, vittima d’amore, entra in città in compagnia della donna e del nuovo amante di lei. Re Agramante assalta la porta della città di Parigi che credeva sguarnita, trova invece un folto esercito guidato dalla stesso re Carlo. Inizia lo scontro tra le due fazioni e saranno molti i soldati saraceni che rimarranno morti sul campo. Rodomonte intanti, giunto nella cerchia interna di mura della città di Parigi, fa strage del popolo inerme che, riconosciuto il feroce cavaliere, cerca invano di sfuggirgli. Il pagano è spietato, uccide senza alcuna pietà vecchi e bambini, donne e uomini, ricchi e poveri; dà infine fuoco a tutte le abitazioni e le percuote così da farle crollare. Rinaldo, giunto infine a Parigi con i rinforzi inglesi, li incita a difendere la città, dicendo loro che potranno così salvare due principi, tra i quali lo stesso re Ottone d’Inghilterra, e anche molti altri re, marchesi.. così che il loro onore verrà riconosciuto non solo dai parigini ma da tutti i popoli cristiani. Se Parigi cadrà, dice loro, entro poco tempo anche le loro stesse isole saranno in pericolo; quella battaglia serve anche per la loro stessa salvezza. Suona la carica e le schiere saracene vengono assalite all’improvviso. Rinaldo lancia Baiardo al galoppo e si butta nel combattimento uccidendo tutti i cavalieri che incontra. Allo stesso tempo Zerbino guida al combattimento gli scozzesi e non uccide meno nemici di Rinaldo. Il rumore della guerra è assordante. Il cielo viene oscurato dalla polvere sollevata dagli eserciti, dall’alito dei soldati e dal vapore rilasciato dal loro sudore. La terra si tinge di rosso ed è coperta di cadaveri. L’esercito pagano subisce grosse perdite, molti scappano, ed iniza così a perdere terreno. Vedendo il proprio esercito in fuga ed ormai ridotto alla metà, Ferraù si lancia al galoppo e raggiunge la prima linea del combattimento. Re Agramante abbandona l’assedio alla porta, manda parte dell’esercito a difendere l’accampamento contro gli Irlandesi e guida la propria colonna, più della metà di tutto l’esercito, contro gli scozzesi. Questi cavalieri, visto il numero immenso di soldati che li assale, scappano lascindo indietro Zerbino, rimasto a piedi poiché gli era stato ucciso il cavallo. Rinaldo blocca la fuga degli scozzesi, giunge in soccorso di Zerbino e conquista con le armi spazio sufficiente per consentirgli di salire su un nuovo destriero. Zerbino si lancia subito al combattimento contro la schiera di re Agramante. Rinaldo lancia al galoppo Baiardo contro re Agramante stessa, lo colpisce e lo butta a terra insieme al cavallo. Intanto, all’interno delle mura di Parigi, uno scudiero informa re Carlo della distruzione e della strage che sta compiendo un solo uomo nell’altra parte della città. Lo scudiero pensa che Rodomonte sia il demonio e crede quindi che Dio abbia abbandonato il proprio popolo. Re Carlo si accorge delle fiamme che avvolgono parte della città e dei pianti e delle grida che da lì giungono; raccoglie intorno a sé i più valorosi cavalieri e si dirige contro il nemico saraceno.
Re Carlo va alla ricerca del saraceno che ha provocato tanta distruzione e seminato così tanti cadaveri nella città di Parigi. Si vergogna per il comportamento tenuto dai parigini e li rimprovera quindi per non aver fatto nulla a difesa della città. La maggior parte del popolo si è barricata nel palazzo reale e dalle sue mura esterne butta pezzi di tetto, di colonne.. su Rodomonte, che a colpi di spada, preso possesso della piazza antistante, sta per aprirsi un passaggio nel portone principale. Re carlo, insieme ai paladini ed ai cavalieri al suo seguito, tra i quali re Ottone, si lancia contro il saraceno. Tornando a parlare di Grifone, il cavaliere entra nella bellissima e ricchissima città di Damasco in compagnia della donna e del nuovo amante di lei. Un cavaliere li ferma lungo la via e li accoglie nel proprio palazzo. Racconta loro l’origine della giostra organizzata da re Norandino ed inviata entrambi i cavalieri a parteciparvi. Norandino era stato per lungo tempo innamorato di Lucina, figlia del re di Cipro. Dopo averla finalmente sposata, al ritorno in patria la loro nave era stata colta da una tempesta, e dopo tre giorni in mare erano infine giunti su una spiaggia. Mentre il re è intento nella caccia per procurare del cibo, il resto dell’equipaggio viene assalito da un orco. Il mostro è cieco (ha due protuberanze d’osso al posto degli occhi) ma compensa la mancanza con un infallibile fiuto. Si mettono tutti a scappare ma l’orco è talmente veloce che solo pochi riescono a salvarsi raggiungendo a nuoto l’imbarcazione. Il mostro cattura gli altri, ne mangia vivi due, porta i rimanenti nella propria tana e li rinchiude in una caverna, dove prima si trovava il suo gregge. L’orco va quindi a fare pascolare gli animali. Tornato dalla caccia, il re si accorge di quanto successo. Quelli che si sono salvati sulla nave gli raccontano l’accaduto e lui decide subito di andare a caccia dell’orco per riprendersi l’amata Lucina. Raggiunta la tana del mostro, la moglie dell’orco gli dice che non deve temere per la vita di Lucina. Il mostro è solito mangiare solo uomini, le donne vengono invece rinchiuse in quella grotta in cui si trova lei stessa insieme a tante altre. Solo se abbandonerà la grotta Lucina potrà avere a rischio la propria vita. Consiglia a Norandino di andarsene (la sua presenza non potrà scappare all’infallibile fiuto del mostro), ma visto che il suo desiderio di ritrovare l’amata è tanto grande da non farlo muovere da lì, alla fine la donna decide di aiutarlo. Unge tutto il corpo del re con del grasso animale, in modo da coprire completamente il suo odore naturale e farlo quindi puzzare come un caprone, e gli mette addosso una delle pelli che teneva nella caverna. Così travestito, Norandino si mischia al gregge riportato alla tana dal mostro e riesce quindi a rivedere Lucina. Norandino spiega agli altri come poter scappare: vengono uccisi alcuni caproni, tutti si ungono quindi il corpo con il grasso animale ricavato dai cadaveri e si mettono addosso le pellicce (così che se il mostro li tocca per accertarsi della loro natura, sente il pelo dell’animale). Il mattino dopo l’orco apre la grotta ed insieme al gregge escono anche Norandino e tutti gli altri. Solo Lucina non riesce a passare, il mostro riconosce infatti che non si tratta di un vero caprone e la ricaccia nella grotta. Tutti gli altri seguono l’orco nel suo cammino e, approfittando del suo momento di sonno, riescono poi a scappare. Norandino è però ancora intenzionato a liberare la sua amata e rimane quindi nel gregge. La sera l’orco, ritornato alla grotta, si accorge della fuga di tutti i sui prigionieri e punisce Lucina incatenandola nuda sulla cima dello scoglio. Il re non può fare altro che vederla soffrire, giorno dopo giorno. Giungono infine per caso a quello scoglio Mandricardo e re Gradasso, liberano la donna e la consegnano al padre di lei. Saputo della liberazione della donna, Norandino scappa, torna in patria e ritrova quindi Lucina. La festa, allestita una volta ogni quattro mesi, è quindi in memoria della salvezza ottenuta dopo quattro mesi passati nella grotta dell’orco. Il giorno dopo Grifone, Orrilige e Martano, nuovo amante di lei, si recano al torneo. Sarà vincitore chi riuscirà a sconfiggere tutti e otto i cavalieri scelti dal Norandino tra i più valorosi e più fedeli suoi servitori. Il premio per il vincitore è un’armatura (appartenenti a Marfisa, ma Norandino non lo sa) che il re ha ricevuto il giorno prima in dono da un mercante. Martano entra nell’arena per sfidare gli otto cavalieri, ma, visto morire accidentalmente il cavaliere che lo precede, alla fine fugge deriso da tutti gli spettatori. Grifone è acceso di vergogna e d’ira per il comportamento del compagno, sa che il popolo si aspetta da lui lo stesso atteggiamento codardo e sa che ogni suo minimo errore verrà deriso. Grifone si lancia al combattimento è sconfigge subito, uno dopo l’altro, i primi sette cavalieri. Con l’ultimo, il più forte, il combattimento dura poco di più. Grifone è decisamente superiore, la sua armatura incantata non viene neanche graffiata dai colpi dell’altro, la cui armatura è invece ormai a pezzi. Norandino fa separare i contendenti e pone termine al torneo; è Grifone il vincitore. Più arrabbiato per il comportamento del compagno che felice per la propria vittoria, Grifone torna irato da Martano e Orrilige. Lei però lo convince a scusare il vile cavaliere ed a partire con loro silenziosamente e segretamente per consentire a Martano un viaggio sicuro, fuori dalla vista degli abitanti di Damasco. Grifone cade però in un profondo sonno. Martano ruba cavallo, armi ed armatura al cavaliere per travestirsi da lui e ricevere premio ed onori dal re (il re non aveva ancora saputo il nome né visto il volto del vincitore). Orrilige e Martano vengono così condotti nel palazzo reale. Grifone si risveglia la sera e si accorge dell’inganno subito. Si rende quindi finalmente conto che Martano non è il fratello ma l’amante di Orrilige e decide di vendicarsi. Prende le armi, l’armatura ed il cavallo lasciati dal vile cavaliere e si mette subito in viaggio per abbandonare la città. Dall’alto di un castello il re riconosce però il cavaliere tanto deriso il giorno prima e confessa a Martano di lasciarlo andare libero da ogni punizione solo in quanto suo compagno. Il vile cavaliere risponde però di non conoscere chi esso sia, di essersi lui stesso trattenuto dal punirlo per rispetto nella giornata di festa, e che quindi il re farebbe a lui cosa più grata se decidesse di punirlo invece che lasciarlo andare libero. Secondo gli ordini di Norandino, Grifone viene quindi fatto prigioniero ed esposto il giorno dopo alla pubblica umiliazione, su di un carro trainato da buoi che trascina le armi e l’armatura che aveva indosso. Lasciato finalmente libero all’ingresso della città, Grifone però indossa subito l’armatura e riprende le armi di Martano, pronto a vendicarsi dell’umiliazione e combattere nuovamente per il proprio onore.
Riavuta la libertà e riprese le armi, acceso d’ira per il disonore subito, Grifone fa una strage di abitanti di Damasco. Tornando a Parigi, re Carlo si lancia contro Rodomonte insieme al suo seguito di paladini e cavalieri. Incitato dal loro re, anche il popolo di Parigi si lancia contro il nemico saraceno che, in poco tempo, viene così completamente accerchiato e colpito da ogni parte. La corazza del pagano, costruita con scaglie di drago, resiste a qualsiasi colpo e Rodomonte non subisce alcuna fatica. Accortosi però di avere ormai il fiatone e visto che, pur uccidendone a manciate, altri nuovi avversari continuano ad accalcarsi intorno a lui, Rodomonte decide infine di abbandonare l’impresa, si apre una via a colpi di spada tra la folla e lascia infine la città buttandosi nel fiume. Uscito dal fiume, dispiaciuto per non aver distrutto e bruciato tutta la città, sta per tornare indietro quando incontra chi la sua ira è in grado di spegnere. Ricevuto dall’arcangelo Michele il compito di fare litigare e combattere tra di loro i migliori cavallieri saraceni, Discordia lascia il monastero insieme a Superbia. Sul loro cammino incontrano Gelosia ed un messaggero incaricato da Doralice, poco prima di essere fatta prigioniera da Mandricardo, di informare il proprio padre dell’accaduto. Approfittando dell’occasione, Discordia si avvia a Parigi ed incontra così Rodomonte nel momento in cui il cavaliere esce dal fiume. Saputa la storia dal messaggero, il feroce seraceno decide subito di partire alla ricerca della donna amata. Essendo privo di cavallo decide però prima di impossessarsi di quello del primo cavaliere che incontra. Discordia capisce subito che ha una nuova occasione per svolgere il proprio compito. Allontanato Rodomonte dalla città e spento l’incendio di Parigi, re Carlo esce dalle mura insieme alla sua schiere di soldati ed a tutto il popolo parigino armato. Viene assalita la retroguardia dell’esercito saraceno, che si trova così tra du fuochi, essendo l’altro fronte battuto dal Lucarnio, Zerbino e soprattutto Rinaldo. Inizia la ritirata delle schiere pagane. Tenta di opporsi Ferraù incitando i compagni alla battaglia e fa altrettando Dardinello. Quest’ultimo uccide quindi Lucarnio e prima che il paladino Ariodante possa vendicare la morte del fratello, arriva sul posto Rinaldo al quale spetterà l’onore di uccidere il saraceno. A Damasco re Norandino, vista la gente in fuga e sentito il frastuono provocato da Grifone, manda il proprio esercito alla porta della città. Grifone, uccisa ormai tutta la gente indifesa che gli stava intorno, fa ora una strage anche di soldati. Norandino, visto il valore di quel cavaliere che su consiglio di Orrilige e Martano aveva esposto alla pubblica umiliazione, si accorge dell’errore commesso e chiede quindi scusa a Grifone e placa così l’ira del cristiano (sfinito dal combattimento ed anche ferito in più punti). Il cavaliere viene quindi accolto nel palazzo reale. Astolfo e Aquilante, alla ricerca di Grifone, vengono infine anche loro a sapere che Orrilige, la donna da lui amata, ha abbandonato Constantinopoli, dove lui l’aveva lasciata, per seguire il suo nuovo amante Martano. Aquilante parte subito per l’Antiochia, quindi per Damasco e sulla sua via incontra infine Martano con le armi, l’armatura ed il cavallo dal fratello Grifone. Aquilante temendo per la vita del fratello, minaccia i due di morte se non gli raccontano subito l’accaduto. Martano credendo di ridurre le proprie colpe, dice di essere il fratello della donna e di aver sottrato con l’astuzia armi, armatura e cavallo a Grifone solo con l’intenzione di salvarla da lui e dalla vita disonesta che stava conducendo. Il cavaliere cristiano sa però che i due sono amanti e non fratelli, capisce che l’uomo mente, lega entrambi e li trascina quindi con sé fino a Damasco. Nella città tutti hanno saputo da Grifone il vero corso degli avvenimenti e subito riconoscono Martano e lo insultano. I due malvagi vengono rinchiusi in prigione: a Martano viene assegnata come punizione la pubblica fustigazione, la punizione per Orrilige verrà invece decisa da Lucina al suo ritorno. Re Norandino per ripagare ulteriormente Grifone del torto subito fa bandire un’altra giostra in suo onore, ed i preparativi sono tanto solenni che la notizia del torneo si sparge ovunque, fino in Palestina. Sansonetto e Zerbino, saputo del torneo, partono a cavallo per raggiungere Damasco. Incontrano durante il viaggio Marfisa, una donna tanto valorosa in combattimento da aver fatto faticare gli stessi Orlando e Rinaldo. Marfisa girava sempre armata alla ricerca di nuovi cavalieri con cui scontrarsi; visti Aquilante e Sansonetto, lancia quindi subito il proprio cavallo al gallopo contro di loro. Riconosciuto infine l’amico Astolfo e saputo da lui lo scopo del loro viaggio, si unisce a loro per mostrare il proprio valore partecipando alla giostra organizzata da re Norandino. Il premio è costituito da un destriero e da altre armi (convinto della vittoria di Grifone, Norandino voleva donargli il completo da cavaliere) che vengono messe in bella mostra insieme all’armatura già vinta da Grifone. Marfisa riconosce nell’armatura esposta quella che aveva lasciato una volta sul bordo della strada per poter inseguire più facilmente Brunello, e che le era stata quindi rubata. La donna si impossessa subito di ciò che era stato suo ed inizia una feroce battaglia. Marfisa si apre con la spada un via di fuga tra l’ira dei cittadini. Sansonetto e Astolfo corrono a combattere al suo fianco senza sapere perché. Aquilante e Grifone si lanciano nella mischia ma vengono disarcionati dal duca Astolfo. Un volta che i cavalieri si sono riconsociuti, Marfisa spiega loro, e poi anche al re Norandino, la ragione del suo gesto. Tornata quindi la pace e terminata la giostra (vinta da Sansonetto, gli altri quattro cavalieri non vi partecipano), tutti e cinque i cavalieri partono infine via mare per la Francia. La loro nave verrà però sopresa da una tempesta poco dopo aver lasciato l’isola di Cipro. Rinaldo lancia il proprio cavallo Baiardo contro Dardinello, vedendo che aveva le stesse insegne di Orlando (che ne aveva ucciso il padre), vedendolo circondato da molti cristiani morti e ritendendolo quindi un valoroso cavaliere. Tutti i soldati saraceni rimangono impietriti dalla paura vedendo con quanta ferocia il paladino, la cui spada era molto temuta, si scagli contro Dardinello, che rimane uccise poco dopo. Alla vista del saraceno morto, tutti i soldati pagani perdono il valore che la sua presenza ed i suoi incitamenti avevano infuso in loro; scappano terrorizzati in ogni direzione. Quel giorno viene fatta strage dell’esercito saraceno e solo la ritirata lo salva dal suo completo annientamento. Re Agramante ed altri capitani sono costretti ad andare a riprendere in ogni luogo i soldati in fuga, che, terrorizzati, arrivano anche a buttarsi nella Senna per poi morire affogati. Alla fine si salverà, anche grazie all’arrivo della notte, solo un terzo di tutto l’esercito. L’esercito cristiano, guidato da Re Carlo, si accampa all’esterno dell’insediamento avversario. Re Agramante organizza invece dall’interno le difese per poter sostenere il prossimo assedio. Tra i molti arabi che piangono amici o parenti morti quel giorno, ci sono Cloridano e Medoro, senza pari per bellezza in tutto l’esercito pagano, che piangono la morte dell’amato Dardinello ed il fatto che il suo cadavere rimanga senza sepoltura. Medoro decide infine di avventurarsi tra l’accampamento cristiano e di andare a seppellire il loro signore. Cloridano lo segue. I due giungono nell’accampamento avversario quando ogni soldato è ormai addormentato, ubriaco dopo i festeggiamenti della sera prima, e ne uccidono più che possono. Vanno poi sul campo di battaglia in cerca del corpo del loro signore, ma i cadaveri sono tantissimi e sarebbe stato impossibile trovare quello di Dardinello se non fosse venuta in loro aiuto la luce della luna. I due si caricano sulle spalle il peso per trasportarlo in un luogo dove poterlo seppellire. Giunto ormai il mattino, Zerbino, che sta tornando in quel momento all’accampamento dopo aver dato per tutta la notte la caccia ai nemici, si accorge però della loro presenza e corre verso di loro con tutti i cavalieri al suo seguito. Cloridano, pensando che Medoro faccia altrettanto, lascia il carico e corre a mettersi in salvo in un vicino bosco. L’amico non abbandona però il corpo di Dardinello
Cloridano, abbandonato il carico, riesce a scappare velocemente attraverso il bosco ed a porsi anche in salvo. Appena si accorge della mancanza di Medoro decide però subito di tornare indietro. Medoro, rallentato dal peso del corpo esangue di Dardinello, è invece stato raggiunto da Zerbino ed dagli altri cavalieri cristiani, che lo circondano e lo minacciano. Cloridano, rimanendo nascosto, scocca due frecce dal suo arco ed uccide altrettanti cavalieri. Zerbino minaccia quindi Medoro di pagare lui le conseguenze di quel gesto, ma visto il bel viso del ragazzo prova pietà per lui e non riesce ad ucciderlo. Medoro, prega il paladino di consentirgli di seppellire il proprio padrone, ed è anche riuscito a convincerlo ma un altro altro cavaliere interviene però in quel momento e lo trapassa con la propria lancia facendolo cadere come morto. Visto il caro amico a terra, Cloridano esce dal proprio nascondiglio e viene subito ucciso. Infine Zerbino, sdegnato per il gesto del suo cavaliere e per non essere riuscito a punirlo, torna con il suo seguito all’accampamento cristiano. Angelica, vestita di panni umili ma con il solito aspetto regale, giunge per caso là dove si trova Medoro. L’orgoglio della ragazza è cresciuto oltre ogni misura, va ormai in giro da sola e non ritiene che ci sia nessuno all’altezza della sua compagnia. Amore, non potendo più tollerare questo suo comportamento, aspettò Angelica vicino al giovane, la colpì con una sua freccia e la fece quindi prigioniera d’amore per Medoro. Angelica cura la ferita di Medoro con delle erbe medicinali. Convince quindi un pastore, incontrato lì vicino, ad aiutare insieme a lei il giovane, dando loro opitalità. Prima di essere portato via di lì Medoro chiede però ed ottiene che venga data sepoltura a Dardinello ed a Cloridano. Quanto più la ferita del giovane guarisce, tanto più si allarga la ferita aperta nel cuore di Angelica da Amore. I due sfogano infine le loro passioni e Medoro ottiene da Angelica ciò che nessun altro cavaliere era mai riuscito ad avere, nostante le incredibili imprese che per lei aveva compiuto e l’incredibile valore che le aveva mostrato. Nella casa del pastore, per rendere quindi leggittima la loro unione, i due amanti si sposano. Passano poi più di un mese ad amoreggiare in ogni luogo e in ogni luogo lasciano la loro firma intrecciata in mille modi. Angelica decide infine di ripartire con Medoro per fare ritorno in India e paga l’ospitalità del pastore donandogli il bracciale prezioso che aveva ricevuto da Orlando come pegno del suo amore. In viaggio verso Barcellona in cerca di una nave per l’India, per poco non subiranno danni da un uomo completamente folle incontrato su una spiaggia. Dopo giorni passati a fronteggiare il mare in tempesta, la nave, ormai completamente distrutta, che ospita Sansonetto, Astolfo, Marfisa, Grifone ed Aquilante, giunge infine sulle coste della città di Alessandretta. Il capitano racconta al duca Astolfo che in quella città vivono femmine crudeli ed omicide, che uccidono o fanno prigioniero ogni uomo che giunga presso la loro terra e non riesca a superare una prova di valore: sconfiggere in combattimento dieci uomini e soddisfare a letto, la notte stessa, altrettante donne. Se l’uomo riesce nell’impresa, allora salva la propria vita (non la propria libertà poiché dovrà comunque sposare dieci donne) e dona la libertà al proprio seguito; altrimenti viene messo a morte e tutto il suo seguito viene fatto prigioniero. Gli uomini liberati potranno comunque rimanere, sempre però con l’obbligo di sposare dieci loro donne. Tutti i marinai preferiscono la morte in mare piuttosto che perdere la propria libertà, i cinque cavalieri vogliono invece essere condotti a terra. A decidere la contesa arriva un nave partita dalla città di Alessandrina, che fa prigioniera la loro imbarcazione (impossibilitata a muoversi) e la conduce al porto. Ad attenderli sulla terra ferma ci sono già più di seimila donne con gli archi in mano. La donna loro guida, Orontea, espone le condizioni per riavere la libertà e rimanere in vita, credendo comunque che tutto l’equipaggio si accontenti però infine della sola vita, accettando volentieri per questo la schiavitù. I cavalieri dicono invece di voler accettare la sfida e vengono quindi condotti a terra. Nella città vedono donne andare in giro armate come cavalieri e uomini con vestiti femminili ed intenti a compiere lavori tipici femminili; altri, in catene, arano invece la terra o controllano le mandrie. I cinque cavalieri estraggono a sorte la persona che dovrà sostenere entrambe le prove. Marfisa non viene ritenuta adeguata per sostenere la seconda, per sua volontà (vuole porre fine una volte per tutte a quell’usanza) viene comunque inserita nel sorteggio ed infine incaricata del compito. La donna viene quindi condotta nell’arena dove vengono fatti entrare i dieci cavalieri suoi avversari. Nove cavalieri si avventano subito su Marfisa, il decimo invece rimane in disparte, per non mancare di rispetto alle regole cavalleresche. Questo cavaliere monta un cavallo completamente nero se non per due macchie bianche, ed è anche lui vestito allo stesso modo modo così da esprimere il proprio stato d’animo. Marfisa infila tre avversari in un solo colpo servendosi della sua grossa lancia ed utilizzando la spada fa poi strage degli altri sei. L’ultimo cavaliere, giunto il momento in cui il cambattimento si può svolgere alla pari, dice a Marfisa, non sapendo che si tratti di una donna, di concedergli la notte per riposare, visto la fatica che aveva dovuto sostenere per scontrarsi contemporaneamente contro nove avversari. Lei rifiuta ed inizia quindi il loro combattimento. Il primo scontro con le lance è tanto forte che entrambi vengono sbalzati da cavallo ed entrambi rimangono sorpresi per quel fatto per loro nuovo. Anche il combattimento con le spade è poi molto duro, tanto che Marfisa è contenta di non aver dovuto affrontare il cavaliere insieme agli altri nove, ed il cavaliere è contento che l’avversario non abbia voluto riposare prima di affrontarlo. Ginge però infine la notte ed il combattimento viene sospeso. Il cavaliere misterioso invita Marfisa ed i suoi compagni nella propria dimora, dicendo che non potranno essere più sicuri in nessun altro luogo, dal momento che ha uccise nove uomini e le rispettive novanta moglie vorranno vendicarsi. Giungi infine nella dimora di lui, entrambi i cavalieri si tolgono le armi: il cavaliere misterioso rimane stupito vedendo che l’avversario sia una donna, Marfisa rimane stupita dal fatto che il misterioso cavaliere sia solo un ragazzo di appena diciotto anni.
Il ragazzo racconta loro di essere Guidon Selvaggio, di essere della stessa stirpe di Orlando e di essere arrivato in quella città, a causa di una tempesta, nel tentativo di raggiungere la Francia; uccisi i dieci cavalieri e soddisfatte le dieci donne, era stato quindi nominato re della città. Dal suo racconto si deduce in particolare che è fratello di Rinaldo e quindi cugino del duca Astolfo. Il ragazzo racconta quindi loro la storia di Alessandretta. Quando dopo dieci anni di assedio e dopo altrettanti anni in mare, i Greci lasciarono Troia per tornare in patria, trovarono le loro case piene dei figli avuti dalle loro donne con nuovi giovani amanti. Non volendo mantenere figli non loro, i mariti mandarono i giovani a cercarsi fortuna altrove. Uno di questi, Falanto, viene assoldato dai Cretesi, insieme agli altri giovani al suo seguito (con i quali faceva scorribande per mare), per stare a guardia di Dictea. Le donne della città subito si innamorarono dei giovani greci, che diventarono loro amanti. Terminato l’incarito, Falanto e gli altri giovani vollero ripartire e le donne loro amanti, non essendo riuscite a trattenerli con le preghiere, decisero infine di partire con loro dopo aver sottratto dalle loro case ogni ricchezza. Giunsero così sulla spiaggia dove sorge ora Alessandretta. I giovani greci decisero però di abbandonare poco dopo le donne, le derubarono dei loro averi e ripartirono per la Puglia, dove fondarono Taranto. Le donne fondarono invece lì la città di Alessandretta e, per vendicarsi del torto subito dagli uomini, decisero di assaltare ogni nave costretta a raggiungere il loro porto e di uccidere tutto l’equipaggio. Successivamente, essendosi accorte che un tale stile di vita avrebbe portato allo loro estinzione, selezionarono un gruppo ristretto di uomini come loro sposi. Per limitare il numero di uomini, istituirono anche una legge che limitava ad uno il numero di figli maschi che ogni donna poteva tenere, gli altri avrebbero dovuto essere uccisi o barattati possibilmente con altre donne. Passando gli anni, le crudeli regole di quella socità inziarono man mano ad essere meno dure verso gli stranieri: l’assalto alle navi e la strage immediata venne sostituita dalla prigionia e dal sacrificio di un uomo ogni giorno, fino ad arrivare a quella legge che anche i cinque cavalieri sono ora costretti a rispettare. Guidone confessa infine di preferire ormai la morte a quella prigionia, che gli impediva di mostrare al mondo il proprio valore al pari di tutti gli altri membri della sua stirpe. Astolfo si presenta al giovane e gli dice di essere suo cugino. L’incontro non suscita però la felicità che avrebbe dovuto, perché la regola crudele che devono rispettare non porterà alla fine a nessun vincitore: se muore lui e Marfisa non supera la seconda prova, diventano tutti schiavi; muore Marfisa e lui vince, diventano tutti schiavi. Marfisa proprone al giovane di combattere fianco a fianco per fare un strage e distruggere la città. Il giovane propone invece di inviare la sua più fedele moglie, Aleria, a fare allestire una nave per la loro fuga e di fuggire quindi tutti insieme di nascosto, utilizzando le armi solo per superare eventuali intoppi. La donna accetta infine tale soluzione per non mettere a rischio la sicurezza dei compagni con un proprio gesto violento. La nave viene allestita ed il mattino seguente i sei cavalieri partono dalla dimora di Guidon per raggiungere il porto, approfittando del fatto che tutte le donne della città si erano già riunite intorno all’arena per vedere la fine del combattimento. Per raggiungere la nave devo però passare dalla piazza principale e appena le donne capiscono l’intenzione del loro re, subito si muovono per fermarne la fuga. Astolfo decide quindi di suonare il suo corno magico mettendo così in fuga le avversarie terrorizzate. La stessa compagnia di Astolfo, tanto valorosa e coraggiosa, non può fare altro che fuggire pallida e terrorizzata. Raggiungono fortunatamente il porto e salgono in fretta sulla nave, che subito prende il largo. Quando Astolfo arriva sulla spiaggia la nave è già partita, non potrà pertanto fare altro che proseguire il viaggio per terra. Gli altri cinque cavalieri giungono invece per mare a Marsiglia. Aquilante, Grifone, Sansonetto e Guidon proseguiranno insieme il loro viaggio, trovando infine dimora nel castello di Pinabello di Maganza, che li farà suoi prigionieri approfittando del loro sonno. Marfisa proseguirà invece da sola il proprio viaggio (dicendo che solo gli animali timorosi procedono in gruppo) ed incontrerà sul suo cammino, presso un torrente, un donna anziana, Gabrina, quella scappata dalla caverna dove Orlando era arrivato ed aveva liberato Isabella. Marfisa prende la vecchia con sé ed incontra poi Pinabello a cavallo insieme alla sua amata, credele alla pari del conte. Questa, vedendo Gabrina, non riesce a trattenersi dal deriderla. Marfisa sfida Pinabello, lo sconfigge, fa indossare alla vecchia tutti i vestiti e gli ornamenti appartenenti alla donna amata dal cavaliere e prende infine anche il cavallo di lei. Procedendo oltre, le due donne incontrano poi anche Zerbino, che aveva fino a quel momento inseguito invano il cavaliere colpevole di avere ferito a morte Medoro. Anche il paladino non si può trattenere dal deridere Gabrina, la cui bruttezza veniva ulteriormente esaltata da tutti gli ornamenti che ora portava. I due cavalieri si sfidano: chi perde dovrà per sempre tenere la vecchia con sé. Zerbino viene disarcionato e vince Gabrina, che subito gli dice che a batterlo è stata una donna. Zerbino rimonta a cavallo e riparte in compagnia della vecchia. Il paladino si lamenta della sua triste sorte, che gli ha fatto perdere Isabella (crede sia morta in mare) per fargli trovare infine una vecchia. Gabrina, benché Zerbino non si sia presentato e non nomini Isabella, capisce subito che il suo nuovo compagno è quel cavaliere del quale aveva tanto sentito parlare dalla ragazza. Rinfaccia però al cavaliere di essere stata da lui derisa e per questo gli dice di non volergli raccontare niente di quello che sa di Isabella; dice solo, mentendo, che è capitata nelle mani di venti uomini che hanno violato il suo corpo. Zerbino dopo aver pregato ed anche minacciato invano la vecchia per sapere il luogo dove Isabella di trova, non può fare altro che ripartire in sua compagnia e condurla, come promesso a Marfisa, ovunque lei voglia. Incontreranno alla fine un cavaliere.
Rispettoso della parola data, Zerbino conduce la vecchia in ogni luogo dove lei desideri andare, sebbene la detesti e sia ormai reso folle dall’ira per la propria cattiva sorte. Incontrano sulla loro via il cavaliere Ermonide d’Olanda, al quale la donna aveva con l’inganno ucciso il padre ed anche l’unico fratello, che subito sfida Zerbino spinto dalla volontà di vendicarsi uccidendo Gabrina. Nello scontro il cavaliere olandese viene trafitto ad una spalla dalla lancia di Zerbino e cade a terra.Ermonide racconta quindi la propria storia, spiegando perché avesse tanto in odio quella vecchia. Il fratello, di nome Filandro, partito per combattere per l’imperatore bizantino, era stato accolto nel palazzo di un barone di nome Argeo, la cui moglie era appunto Gabrina. La donna inziò a desiderare il fratello di Ermonide, ottenendo però in risposta solo rifiuti. Rimasti soli nel palazzo, i continui tentativi della donna spinsero il giovane, debole per una ferita riportata in guerra, ad abbandonare il palazzo. Gabrina raccontò però al proprio marito di essere stata posseduta con la forza dal fratello di Ermonide, scappato poi per paura che ciò si venisse a sapere. Argeo le crede, corre a vendicarsi, ferisce e fa quindi prigioniero Filandro. La donna continuò ad infastidire il ragazzo anche nella prigione, promettendogli la libertà in cambio di ciò che gli aveva sempre chiesto. Filandro le risponde sempre con un rifiuto, dicendo di preferire quell’ingiusta punizione piuttosto che venire meno alla fedeltà, che in cielo gli farà avere un premio ben diverso. Un giorno, dopo che per sette mesi Gabrina non aveva più fatto visita al fratello di Ermonide, Argeo d’accordo con la moglie fa finta di partire per Gerusalemme così da poter sorprendere intorno al proprio castello il barone Morando, tanto odiato da Argeo ed amante di Gabrina. L’astuta donna corre da Filandro chiedendogli di intervenire per salvare il suo onore e quello del marito, proteggendola da Morando, che, dice lei, si presenterà nella corte per possederla. Così agendo Filandro potrà realmente dimostrare la propria fedeltà verso Argeo. Come chiesto da Gabrina, Filandro aspetta, nascosto nella camera di lei, che giunga Morando così da poterlo uccidere. A completamento dell’inganno la donna porta però nella stanza il marito che trova così la morte per mano del giovane. Gabrina, svelato l’inganno a Filandro, gli chiede ancora di soddisfare il proprio desiderio, minaccinadolo di raccontare altrimenti a tutti il suo atto infedele. Filandro, affinché non venga sparso altro sangue, è alla fine costretto a sottomettersi al volere di lei, per fare poi ritorno in Olanda insieme alla donna. Tornato in patria, l’odio verso la donna e l’infinita tristezza per ciò che aveva fatto, lo fecero ammalare gravemente. Gabrina, trasformato l’amore in odio, si mise d’accordo con un medico per avvelenare il giovane. Nel momento di somministrare il veleno, viene però meno all’accordo con il medico e fa bere anche a lui la medicina avvelenata. L’uomo prima di morire riesce però a raccontare ai presenti l’inganno organizzato da Garbina e la donna viene subito incarcerata. Ermonide d’Olanda non riesce purtoppo a proseguire il suo racconto perché la ferita gli toglie infine le forze. Zerbino si scusa per il danno arrecato, confessando di aver dovuto combattere in difesa della donna solo per non venir meno ad una parola data. I due, ognuno acceso d’odio per l’altro, ripartono infine a cavallo e verso sera sentiranno i rumori di una battaglia.
Zerbino sente i rumori di una battaglia e subito, seguito da Gabrina, si reca sul luogo da dove giungono quei rumori e trova un cavaliere morto. Tronando a parlare di Astolfo, il paladino raggiunge infine la propria patria. Saputo che re Ottone si trovava a Parigi da parecchi mesi e che la maggior parte dei baroni l’avevano quindi seguito in Francia, il cavaliere riparte però subito. Giunto durante il suo viaggio ad una fonte, gli viene rubato il cavallo Rabicano. Astolfo corre all’inseguimento del ladro, raggiunge infine il castello di Atlante e vi entra seguendo il furfante. Dopo aver speso invano al giornata a ritrovare il proprio destriero, accortosi di essere prigioniero di un luogo incantato, Astolfo fa ricorso al libro contro gli incantesimi donatogli da Logistilla: per rendere vana la magia è necessario liberare un spirito rinchiuso sotto la soglia del castello. Atlante, accortosi del tentativo del cavaliere di rimuovere la pietra e liberare lo spirito, con un ulteriore incantesimo fa apparire Astolfo agli occhi degli altri suoi prigionieri nella forma (da gigante, da cavaliere malvagio..) con la quale il mago stesso era apparso loro nel bosco. Tutti i cavalieri prigionieri del castello di Atlante si avvicinano minacciosi al duca, che però si difende prontamente soffiando nel corno magico. Tutti fuggono terrorizzati dalla prigione incantata, compresi i cavalli e compreso anche lo stesso mago Atante. Astolfo riesce a fermare la fuga di Rabicano, rientrandone in possesso, e procede quindi indisturbato a rimuovere la pietra e ad annullare l’incantesimo del castello di Atlante. Ritrova nel palazzo anche l’ippogrifo (legato con una catena d’oro, non era stato in grado di fuggire), ritornato dal mago dopo essere scappato a Ruggiero. Il duca è intenzionato ad impossessarsi del cavallo, gli mette pertanto briglie e sella, ma non vuole abbandonare il proprio cavallo Rabicano. Decide quindi di trovare qualcuno che sia disposto a seguirlo per terra portanto con sè Rabicano, così da condurlo in una città e poterlo dare in dono ad un suo amico. Rimane sul posto aspettando che passi qualcuno ed vede infine arrivare un cavaliere. Finalmente liberi, Bradamante e Ruggiero possono ora abbracciarsi e baciarsi. Lei invita il cavaliere a battezzarsi ed a chiederla in sposa al padre, così da poter finalmente dare compimento al loro desiderio amoroso. Ruggiero risponde di essere disposto a qualunque cosa per lei, e così i due amanti si dirigono insieme verso la badia di Vallombrosa dove poter fare battezzare il pagano. Incontrano sulla loro via una donna dal volto triste. Il cavaliere pagano le chiede subito la ragione delle sue lacrime e gli viene risposto che hanno orgine dalla pietà per un ragazzo che sarebbe stato ucciso quel giorno. Il giovane, innamorato della figlia del re spagnolo Marsilio, era solito fare visita all’amata ogni notte travestendosi da donna. Il re, saputo del fatto, aveva fatto inprigionare i due giovani in due celle separate e condannato lui ad essere arso vivo. Bradamante sembra essere molto scossa da quella notizia e chiede quindi di essere condotta all’interno delle mure, così da poter salvare la vita del ragazzo. La donna dice però loro che non potranno prendere la via più breve, che assicurerà loro il tempo necessario per intervenire in difesa del ragazzo, perché su quella via si trova il castello di Pinabello che ha dato poco istituito una legge, fatta rispettare da quattro valorosi cavalieri, che reca danno ad ogni donna e ad ogni cavaliere che passi di lì: toglie a lei i vestiti ed a lui le armi, ad entrambi toglie i cavalli. La legge era stata istituita per soddisfare la voglia di vendetta della donna amata da Pinabello, dopo che a seguito di un duello perso da lui stesso e provocato dal suo avere deriso una vecchia che si accompagnava ad un cavaliere, le erano stati tolti i vestiti ed il cavallo. Pinabello aveva quindi catturato quattro cavalieri, Aquilante, Grifone, Sansonetto e Guidon Selvaggio, ed in cambio della libertà aver fatto loro promettere di fare rispettare quella ingiusta legge per un anno ed un mese. Ruggiero convince comunque la donna a condurli lungo la via più breve, anche perché se dovessere seguire l’altra più tortuosa non riuscirebbero ad arrivare in ogni caso in tempo per salvare il giovane. Giunti alle porte del castello di Pinabello, subito gli viene incontro un vecchio che gli spiega l’usanza e chiede loro di togliersi subito armi, vestiti e cavalli, per poter così almeno salvare la vita. Ruggiero si rifiuta di doverlo fare solo a causa di semplici minacce, dice di aver fretta e chiede di poter subito confrontarsi con i quattro valorosi cavalieri. Esce dal castello Sansonetto e subito viene sfidato in combattimento da Ruggiero. Il colpo che i cavalieri portano l’uno allo scudo dell’altro è molto duro, ma mentre lo scudo magico di Rinaldo (quello in grado di abbagliare e per questo coperto da un telo) è impenetrabile ai colpi inflitti, l’altro viene spezzato e Sasonetto viene ferito e disarcionato. Pinabello si avvicina in quel momnto a Bradamante per chiedere chi fosse il valoroso cavaliere suo compagno. Il vile uomo è in sella al cavallo del quale si era impossessato dopo aver gettato la donna nella tompa di Merlino, è quindi facile per lei riconoscere il conte. Bradamante minaccia Pinabello di volergli dare il premio per il suo comportamento e sguaina così la spada. Lui fugge nella foresta ma è subito inseguito da lei. Intanto, sconfitto Sansonetto, dal castello escono gli altri tre cavalieri, che, secondo le regole e con loro profonda vergogna, combatteranno ora contemporaneamente contro lo Ruggiero. Durante lo scontro tra il pagano e Grifone, il cristiano viene disarcionato e con la propria lancia strappa il velo che ricopre lo scudo magico. Il colpo di Aquilante completa l’opera e viene così liberato il grande splendore in grado di fare cadere tutti svenuti, e così succede anche in quel caso. Accortosi dell’accaduto, Ruggiero ricopre lo scudo con un altro velo, prende con sé la donna, ora tramortita, che li aveva guidati lì e riparte lungo la via. Crede infatti che Bradamante abbia approfittato della confusione per procedere oltre ed arrivare in tempo per salvare la vita del ragazzo. Tanto il pagano si vergogna di aver ottenuto la vittoria non grazie al proprio valore, che trovato sulla propria strada un pozzo, subito corre a gettarvi dentro lo scudo. Bradamante nel frattempo aveva raggiunto ed ucciso il conte Pinabello. La donna non riuscì però a ritrovare la strada per ritornare là dove aveva lasciato l’amante; vagherà pertanto a lungo nel bosco.
Ucciso Pinabello, Bradamante si accorse di non sapere più tornare al luogo in cui aveva lasciato Ruggiero. Dovette dormire in un bosco, tra sospiri e lacrime, accusandosi di essersi lasciata prendere dall’ira, di non essere stata al fianco dell’amato e di non essersi nemmeno guardata intorno durante l’inseguimento, tanto ardeva dal desiderio di vendicarsi. Vagando per il bosco, il giorno dopo la donna raggiunge il palazzo nel quale era stata tenuta prigioniera, per incantesimo, insieme ad altri cavalieri, ed incontra quindi il suo cugino Astolfo. Il paladino è ben contento di incontrare Bradamante, la miglior persona alla quale avrebbe mai potuto affidare Rabicano. Astolfo consegna quindi alla donna il proprio destriero, l’armatura, così da potersi muovere leggero nell’aria a cavallo dell’ippogrifo, e la lancia incantata, chiedendole il piacere di portarle a Montalbano e di conservarle fino al suo ritorno. Il cavaliere prende infine la sua via nel cielo. Aiutata da un campagnolo, la donna riprende quindi il proprio viaggio con l’intenzione di recarsi prima alla badia di Vallombrosa, per ritrovare l’amato, e solo dopo fare ritorno a Montalbano, dove aveva la madre ed alcuni suoi fratelli ad aspettarla. Vagando per il bosco, si ritrova però subito a Montalbano. Teme di essere riconosciuta e di trovarsi quindi costretta a rimanere contro la propria volontà, per tale motivo riparte lunga la via a lei nota che porta alla badia. Non fa però in tempo ad allontanarsi che incontra il fratello Alardo. Si incammina con lui verso Montalbano e riabbraccia così la madre Beatrice ed anche gli altri suoi fratelli. Non potendo più andarci di persona, Bradamante invia Ippalca, figlia della sua balia, a Vallombrosa per informare Ruggiero degli avvenimenti e chiedergli quindi di procedere nel battesimo per poi raggiungerla a Montalbano. Affida a lei anche Frontino, il cavallo di Ruggiero, che aveva portato a Montalbano dopo che l’amato era stato rapito dall’ippogrifo. Ippalca incontra sulla propria via Rodomonte, il quale, partito alla ricerca di Doralice a piedi, si era promesso di entrare in possesso del cavallo del primo cavaliere che gli fosse capitato di incontrare. Da quel momento non aveva incontrato altri cavalli se non quello condotto dalla messaggera di Bradamante. Al guerriero Pagano dispiace di doverlo sottrarre ad una donna, saputo però che si tratta del destriero di Ruggiero, che la donna dice essere, seguendo le istruzioni ricevute da Bradamante per spaventare ogni malintenzionato, il più valoroso cavaliere, il crudele saraceno non esita oltre, sale in groppa al destriero e si rimette in viaggio. Rodomonte chiede ad Ippalca di fare il suo nome a Ruggiero e di dirgli che se lo rivuole indietro potrà trovarlo facilmente seguendo le chiare tracce del suo passaggio. Sentito il rumore di una battaglia, subito Zerbino, seguito da Gabrina, corre sul posto e trova così il cadavere di Pinabello poco dopo la partenza di Bradamante. Mentre il cavaliere cerca invano di trovare il colpevole dell’omicidio, la vecchia sottrae al morto tutto ciò che di valore riesce a nascondersi addosso, tra cui un cintura. I due, ripartiti, giungono presso al palazzo del padre di Pinabello. Zerbino finge di non sapere nulla del corpo per paura di essere accusato dell’omocidio. Il padre di Pinabello, il conte Anselmo, aveva però promesso un ricco premio a chi riuscisse a indicargli l’assassino, e la vecchia Gabrina subito approfitta dell’occasione per indicare in Zerbino l’omicida e, per essere meglio creduta, mostra anche al conte la cintura sottratta al cadavere. Zerbino viene subito fatto prigioniero e condannato ad essere squartato là dove Pinabello era stato ucciso. Giunge per fortuna sul posto il paladino Orlando in compagnia della bella Isabella. Il cavaliere, lasciata la compagna su di un monte, si avvicina al condannato a morte chiedendo spiegazioni. Zerbino gli racconta la sua storia e convince così bene Orlando della propria innocenza (aiutato anche dal fatto che Orlando conosce bene la crudeltà dei Maganzanesi) che subito il paladino decide di aiutarlo. Orlando si lancia in combattimento e fa una strage uccidendo senza pietà tutti quelli che riesce a raggiungere. Zerbino, riavuta la libertà ed indossate nuovamente le proprie armi (quindi non riconoscibile a causa dell’elmo), si accorge della presenza dell’amata Isabella e arde pertanto d’amore. Vorrebbe riabbracciarle ma teme che il paladino, verso cui è debitore della propria vita, sia il nuovo amante di lei, e perciò si trattiene. Giunti presso una fonte, Zerbino si toglie infine l’elmo e viene riconosciuto da Isabella, che corre ad abbracciarlo. Un rumore giunto dal bosco pone fine ai ringraziamenti dei due amanti verso Orlando ed i tre vedono arrivare a cavallo Mandricardo e Doralice. Il crudele pagano era alla ricerca di quel cristiano che aveva fatto una strage di guerrieri saraceni presso Parigi, per potersi confrontare con lui; ricosciutolo quindi nel cavaliere che si trova in quel momento di fronte, sfida subito il conte a duello. Orlando si stupisce di vedere l’avversario privo di spada e Mandricardo gli dice di essersi promesso di non portare con sé nessuna spada finché non riuscirà a togliere la spada Durindana al conte Orlando. Infine dice di volersi vendicare anche dell’uccisione del proprio padre, Agricane, per mano del paladino. Orlando dichiara la propria identità, appende ad un albero la propria spada e si prepara al duello. La lance vengono subito ridotte in pezzi nei primi scontri e gli sfidanti, non avendo altre armi, non possono fare altro che cercare di avere la meglio con i pugni e nel combattimento corpo a corpo. Il cavallo di Mandricardo rimane senza le briglie, tolte da Orlando, e parte subito al galoppo, accecato dalla paura, portandosi dietro il proprio padrone. Terminerà la propria corsa cadendo in un fosso. Doralice, corsa dietro alla propria guida, offre al guerriero le briglie del proprio cavallo. Mandricardo si impossessa invece di quelle del cavallo guidato da Gabrina, giunta lì per caso. Orlando, non vedendo ricomparire l’avversario, decide di andare alla ricerca di Mandricardo e si separa così dai due amanti, chiedendo però prima loro, dovessero mai incontrare il guerriero pagano, di dire lui che potrà trovare il paladino in quei boschi per altri tre giorni, prima che faccia poi ritorno a Parigi. Dopo aver girato invano per due giorni, il conte Orlando giunge infine nei luoghi dove Angelica e Medoro sfogarono la loro passione amorosa. Vede i loro nomi incisi su ogni albero ed ogni pietra. Il paladino cerca di convincersi prima che si tratti di un’altra Angelica, ma conosce purtroppo bene la grafia della donna amata, poi che Medoro fosse il soprannome che lei gli aveva dato, ma in una grotta trova una poesia scritta dal giovane in onore della passione vissuta insieme ad Angelica, e non può infine fare altro che scontrarsi con la dura realtà. Inizia a crescere la pazzia in Orlando. Pensa anche che le scritte siano opera di qualche maleintenzionato, che voglia disonorare e screditare la sua amata, oppure che siano state fatte con l’intenzione di ferirlo ingiustamente. Quella sera si trova però a dormire nella casa dello stesso pastore che aveva accolto Angelica e Medoro e li aveva infine sposati. Gli viene raccontato ogni dettaglio della storia d’amore dei due giovani e gli viene anche mostrato il bracciale, donato da Orlando come pegno d’amore, con il quale Angelica aveva ripagato il pastore dei favori ricevuti. Questa storia è la scure che tolse definitivamente il capo dal collo del paladino. Fugge nella notta da quella casa dove la sua amata aveva sfogato la sua passione amorosa per Medoro. Raggiunge il bosco, grida il suo dolore, versa lacrime per giorni e si sente morire. Giunto nuovamente nei luoghi dove ovunque erano incisi i nomi dei due amanti, l’Orlando furioso sguaina la propria spada e distrugge tutto ciò che abbia quelle scritte. Ormai sfinito si sdraia sul prato e rimane così, immobile, per tre interi giorni. Orlando si spoglia poi dell’armatura, di ogni arma e di ogni veste, rimanendo completamente nudo. Il paladino ha perso ora completamante il senno: è la pazzia di Orlando. Il conte furioso distrugge tutto ciò che incontra sulla propria strada utilizzando la propria immensa forza.
Udito il gran frastuono provocato dal paladino, alcuni pastori si recano sul posto. Vista la pazzia di Orlando cercano subito di fuggire, ma il conte li rincorre e fa una strage di uomini, per poi fare altrettanto con i loro animali. I contadini cercano anche di difendersi come possono, ma non riescono neanche a ferirlo, essendo lui invulnerabile per incantesimo. Quando oramai nessuno osa più stargli intorno, l’Orlando furioso prosegue oltre nel suo vagare. Girerà tutta la Francia, saccheggiando paesi ed uccidendo uomini ed animali senza distinzione, fino a giungere un giorno presso un ponte. Tornando a parlare di Zerbino e di Isabella, i due amanti, dopo essersi separati da Orlando, incontrano sulla loro via Odorico, colui che aveva tentato di possedere con la forza Isabella, condotto a cavallo come prigioniero da Almonio, il cavaliere che si era opposto a Odorico ed era stato da lui ferito, e Corebo, il cavalliere allontanato con una scusa da Odorico. Almonio racconta al suo signore gli avvenimenti successivi al rapimento di Isabella. Tornato alla spiaggia con i cavalli richiesti, Almonio aveva ritrovato solo il compagno ferito ed era stato quindi informato su quanto successo. Una volta guarito Corebo, i due si erano messi alla ricerca del cavaliere infedele e l’avevano trovato presso il re Alfonso d’Aragona. Almone sfinda in duello Odorico, lo sconfigge e su concessione del re lo incatena con l’intenzione di consegnarlo appunto a Zerbino. Odorico conferma le parole di accusa, dicendo però di aver combattuto oltre ogni limite per non cedere in tentazione, ma l’avversario era stato tanto superiore che alla fine era stato costretto a cedere. Zerbino ricorda la grande amicizia che li aveva sempre unità e decide quindi di graziarlo, sapendo che è stato vittima d’amore. Giunge in quel momento tra loro anche il cavallo con in groppa Gabrina, al quale Mandricardo aveva tolto il freno, che viene subito riconosciuta. Per punizione Zerbino fa promettere a Odorico di tenersi per compagna la donna per un anno intero, di condurla ovunque lei voglia andare e di proteggerla da qualunque cavaliere. Odorico non manterrà la promessa, impiccherà infatti la vecchia ad un albero quello stesso giorno, per poi subire lo stesso trattamanto per mano di Almonio. Zerbino manda infine Almonio e Corebo a dare sue notizie alla schiera scozzese e prosegue quindi insieme ad Isabella lunga la via percorsa da Orlando, spinti entrambi dal desiderio di conoscere la sorte del loro salvatore. Arrivano sul luogo dove la pazzia d’Orlando aveva manifestato i primi sintomi; ritrovano la sua armatura, il cavallo Brigliadoro e la sua spada Durindana. Un pastore racconta loro della furia del cavaliere che aveva sparso in ogni luogo gli oggetti che vedono. Isabella e Zerbino raccolgono ogni pezzo e lasciano il tutto su di un pino. Giunge in quel posto anche Fiordiligi mentre è alla ricerca dell’amato Brandimarte, partito esso stesso alla ricerca di Orlando e poi ritornato a Parigi (ma lei non lo sa). La donna riconosce le armi del paladino e viene a conoscenza della sua sorte. Giunge poi anche Mandricardo e senza esitare si impossessa della spada Durindana. Zerbino non accetta quel comportamento e subito si lancia contro il guerriero pagano. Il duello è impari: Zerbino si muove velocemente per schivare i colpi dell’avversario e piazzare i propri, ma non può nulla contro l’armatura che in precedenza era appartenuta ad Ettore; i pochi colpi piazzati da Mandricardo vanno sempre a segno e Zerbino si ritrova in breve ferito, privo dello scudo e con l’armatura lacerata. Devono intervenire le donne, Isabella e Doralice, per calmare l’ira degli uomini e separarli. Fiordiligi si dispera vedendo allontanarsi in cattive mani la spada dell’amico Orlando. Vuole ora ancora di più ritrovare Brandimarte: per amore ma anche perché sa che lui sarebbe in grado di riprendere Durindana. Prosegue oltre il suo viaggio ed un giorno, mentre sta per oltrepassare un ponte, incontra il povero paladino. Zerbino, calmata l’ira, sente la vita che si spegne non solo a causa delle ferite ricevute e del sangue che continua a perdere, ma anche per il dolore per non essere riuscito a recuperare la spada e per le lacrime che velano gli occhi di Isabella. Lei si dispiace per non essere in grado di salvarlo, lui si dispiace perché la lascia senza guida in un posto non sicuro. Lei dichiara di voler morire per seguirlo nella morte, lui la convince a non compiere quel gesto e muore subito dopo tra le sue braccia. Giunge sul luogo un eremita ed evita il suicidio di Isabella, raccontandole passi del vecchio e del nuovo testamento che parlavano di donne in situazioni simili alla sua. Alla ricerca di un buon luogo dove seppellire Zerbino, l’eremita conduce la donna in un monastero di monache in Provenza. Incontreranno però sulla loro via un cavaliere che li offenderà ingiustamante. Tornando a raccontare di Mandircardo, il guerriero, terminata la battaglia, raggiunge un fonte e subito vede arrivare, guidato dal nano amndato da Doralice, Rodomonte, pronto a sfidarlo per vendicarsi della perdita della sua promessa sposa. Inizia un feroce combattimento tra i due cavalieri pagani; i colpi inferti dall’una e dall’altra parte sono durissimi. Le armature incantate li proteggono da ogni ferita ma i colpi ricevuti alla testa sono tanto forti da lasciarli a volte storditi. Il cavallo di Mandricardo prende alla testa, indietreggiando, un colpo diretto al suo padrone e cade morto. Rodomonte viene disarcionato ed il combattimento torna così alla pari. Giunge infine un messaggero mandato da re Agramante per richiamare nelle file dell’esercito tutti i comandanti ed i cavalieri lontani da Parigi. L’accampamento pagano è sotto assedio ed è urgente il loro aiuto. Su richiesta della donna i due guerrieri sospendono il cambattimento, rimandandolo al giorno in cui l’accampamento saraceno sarà stato liberato dall’assedio, così da decidere chi dei due potrà avere Doralice. Mandricardo è però rimasto senza cavallo, senonché alla stessa fonte arriva anche Brigliadoro.
Abbandonato il combattimento come richiesto da Doralice, Rodomonte e Mandricardo si avviano insieme alla donna ed al nano verso Parigi, per soccorrere il loro re. Incontreranno presso un ruscello quattro cavalieri ed una donna. Nel frattempo anche Ruggiero, poco dopo aver gettato nel pozzo lo scudo incantato, viene raggiunto dal messaggero inviato da re Agramante e riceve quindi la richiesta di soccorso. Decide però di proseguire oltre, per riuscire a salvare il giovane innamorato della figlia del re Marsilio, e condannato ad essere arso vivo, ma soprattutto per poter ritrovare l’amata Bradamante. Giunto all’interno della piazza dove si sta svolgendo la condanna a morte e visto in faccia il giovane, Ruggiero crede si tratti di Bradamante, tanta è la somiglianza tra il condannato e la sua donna, caduta prigioniera nel tentativo di compiere l’impresa da sola. Il pagano sguaina la propria spada Balisarda, costruita da Falerina per uccidere Orlando, e fa una strage di chiunque gi capiti a tiro. La donna che l’ha condotto lì, nel frattempo libera il giovane ed i tre escono al galoppo dal castello. Ruggiero è ancora dubbioso circa l’identità della persona che ha salvato, solo la voce grave del giovane ed il fatto che dice di non conoscerlo lo fanno dubitare che si tratti effettivamente della sua amata. Alla fine il ragazzo si presenta: è Ricciardetto, fratello di Rinaldo e di Bradamante e totalmente identico alla sorella. Ricciardetto racconta che un giorno la sorella, ferita alla testa durante un combattimento contro soldati saraceni, si era dovuta tagliare i capelli per curarsi la ferita. Giunta ad una fonte si era poi sdraiata sull’erba ed era stata così vista da Fiordispina, figlia del re Marsilio, che subito, credendo fosse un cavalliere, si innamorò di lei. Fiordispina confessò poi il suo amore alla donna e la baciò anche. Bradamante, imbarazzata, chiarì allora subito la propria identità per mostrare l’errore compiuto dalla figlia del re Marsilio. Nonostante la confessione, Firodispina continuò però ad ardere d’amore per Bradamante, disperandosi ed addolorandosi di non poter sfogare la propria passione amorosa e per il proprio folle sentimento, a quel tempo senza precedenti. La sera Fiordispina aveva invitato nel proprio castello Bradamante e l’aveva anche vestita da donna, così da cercare di spegnere la propria passione, nata avendola scambiata per un uomo a causa dell’armatura che portava. Si coricarono anche nello stesso letto ma mentre Bradamante dormiva, il desiderio dell’altra cresceva sempre di più, pianse, sognò che la compagna cambiasse sesso e pregò anche che ciò avvenisse. La mattina la sorella di Ricciardetto ricevette in dono dall’altra donna un cavallo ed una sopravveste e ritornò infine a Montalbano. Bradamante aveva raccontato subito tutta la storia ai fratelli ed alla madre. In Ricciardetto, già in precedenza innamorato della ragazza, si riaccese subito il fuoco della passione ed il giovane decise così di vestirsi come la sorella per fare visita a Fiordispina. Nel castello di lei gli venne tolta l’armatura, venne vestito da donna, pettinato, invitato al banchetto ed infine a dormire nello stesso letto della giovane. Ricciardetto disse, con la voce camuffata e fingendosi quindi ancora Bradamante, di essere dovuto partire in precedenza per non nuocere con la propria presenza al cuore della giovane. Per giustificare il proprio essere uomo, il ragazzo si inventò una storia. Disse che durante il viaggio di ritorno aveva salvato dalle grinfie di un fauno una ninfa, che subito, in cambio del favore, gli aveva detto di poter esaudire un suo qualunque desiderio. Il giovane aveva allora chiesto di poter sanare la ferita d’amore di Firodispina ed era stato infine trasformato da donna in un uomo. Passata l’incredulità della donna per quel racconto, subito i due sfogarono la loro passione amorosa e continuarono a farlo per più di un mese, fino a quando il re non venne a sapere la verità e lo condannò così a morte. Ruggiero e Ricciardetto si recano nel castello di Aldighieri, cugino del ragazzo, che subito gli comunica che i suoi fratelli, fatti prigionieri da Ferraù, stavano ora per essere venduti al loro nemico Bertolagi, della stirpe dei Maganza. Lo scambio si doveva svolgere il giorno seguente. Ruggiero, vedendo la loro tristezza causata dall’impossibilità di intervenire, si prende carico dell’impresa. Il cavaliere pagano non riesce a dormire quella notte, è tormentato da un dubbio: andare a soccorrere il proprio re senza aver salutato Bradamante o andare a Vallombrosa, dove crede di poter ritrovare l’amata, e perdere così il proprio onore per aver abbandonato Agramante nel momento del bisogno? Decide infine di informare con una lettera Bradamante degli avvenimenti e di ripartire per Parigi per togliere dall’assedio il proprio re, rimandando così il battesimo ed il loro matrimonio. Si impegna quindi, se l’assedio non viene tolto entro trenta giorni, di cercare entro quel termine un buon espediente per allontanarsi comunque dalla battaglia. Il giorno dopo i tre si recano al luogo dove avrebbe dovuto avvenire lo scambio ed incontrano un cavaliere che ha come insegna una fenice.
Ruggiero, Ricciardetto ed Aldigieri, giunti al luogo dove avrebbe dovuto avvenire la vendita di Malagigi e Viviano, incontrano un cavaliere che ha come insegna una fenice. Si tratta di Marfisa. La donna chiede ai tre se qualcuno voglia sfidarla in duello, ma poi, saputa l’impresa che i tre stanno per compiere, decide di unirsi a loro nella battaglia. Arriva la schiera saracena con i due prigionieri al seguito e subito dopo la schiera dei Maganza con il carico d’oro e di oggetti preziosi necessari al pagamento. Appena Riggiardetto e Aldigieri vedono Bertolagi, subito si lanciano sul nemico e lo trapassano entrambi con la lancia. Ruggiero e Marfisa li seguono e fanno una strage, senza distinguere una schiera dall’altra; si osservano tra loro e nessuno dei due vuole essere inferiore all’altro per valore. Sia i Maganza che i saraceni gridano al tradimento ed iniziano anche a combattere tra loro. Alla fine riescono a rimanere in vita solo quelli si sono allontanati velocemente a cavallo. Terminata la battaglia, i due prigionieri vengono liberati e Marfisa si toglie l’elmo così che tutti possono ora vedere che si tratta di una donna. Viene allestito un banchetto presso una delle quattro fonti di Merlino presenti in Francia, dove il mago aveva fatto rappresentare, con delle statue, avvenimenti che ancora dovevano accedere. Presso la fonte, raggiunta in quella occasione, era rappresentata una bestia mostruosa (l’avarizia), che dopo aver fatto strage in ogni luogo della terra, viene ferita da un cavaliere con una corona d’alloro (Francesco I di Francia), tre giovani (Massimiliano d’Austria, Carlo V ed Enrico VII d’Inghilterra) ed un leone (Leone X), ed infine uccisa con l’aiuto delle nobili genti, anche se poche, giunte per combatterla. I cavalieri vorrebbero conoscere meglio la storia ed i personaggi rappresentati e Malagigi racconta quindi loro gli avvenimenti. L’orribile bestia (l’avarizia) era uscita dall’inferno al tempo in cui cominciarono ad essere delimitati i possedimenti terrieri. All’inizio aveva arrecato danno solo alla bassa plebe, con il passare degli anni aveva però accresciuto il proprio potere e la propria crudeltà, ed aveva così iniziato a compiere stragi in ogni luogo. Il cavaliere, i tre giovani ed il leone, ascoltate le grida di aiuto del mondo, si erano infine scontrati con il mostro e l’avevano ucciso. Malagigi racconta poi in particolare le imprese compiute da Francesco I di Francia e passa poi in rassegna gli altri nobili personaggi giunti per combattere contro la bestia. Stavano tutti rilassati presso la fonte, quando giunge presso loro Ippalca, la donna incaricata da Bradamante di raggiungere ed informare Ruggiero degli avvenimenti, ma alla quale poi Rodomonte aveva sottratto Frontino, il cavallo dello stesso Ruggiero. La donna riconosce Ricciardetto e subito gli racconta gli avvenimenti, mascherando però il vero motivo della sua missione. Appena sente la storia, Ruggiero salta in piedi e chiede ed ottiene di essere condotto da Ipplaca presso il saraceno che le aveva rubato il cavallo. Una volta soli, Ippalca racconta al cavaliere di Bradamante e di Rodomonte. Quest’ultimo sta però nel frattempo andando a Parigi lungo un’altra via e Ruggiero non riesce così ad incontrarlo. Alla fonte Marfisa è stata convinta dagli altri uomini ad indossare i pregiati vestiti ed i gioielli che sarebbero dovuti servire come contropartita per la cessione di Malagigi e Viviano. Giungono alla fonte anche Mandricardo, Rodomonte, Doralice ed il loro seguito. Mandricardo, vista la bellezza di Marfisa, decide subito di offrirla a Rodomonte in cambio di Doralice, e sfida quindi i cavalieri presenti. Viviano, Malagigi, Aldighieri e Ricciardetto vengono sconfitti uno dopo l’altro dal forte pagano, che, non vedendo intorno altri sfidanti, crede infine di aver ora il diritto di fare sua la donna. Marfisa in risposta si rimette l’armatura, monta a cavallo e lo sfida in duello. Le lancie vanno in mille pezzi al primo scontro e subito gli sfidanti impugnano le spade. Le armature di Mandricardo e Marfisa sono però entrambe invulnerabili per incantesimo e nessun colpo riesce pertanto a scalfirle. Rodomonte interviene infine per sospendere la contesa ricordando a Mandricardo l’impegno preso verso re Agramante; invita quindi anche Marfisa a partecipare all’impresa (posticipando il duello appena interrotto) e lei subito accetta. Dopo aver cercato invano Rodomonte, Ruggiero consegna ad Ippalca la lettera scritta per Bradamante, manda la donna a Montalbano dalla amata e fa quindi ritorno verso la fonte seguendo le tracce lasciate dal saraceno. Ritrovato Rodomonte, in sella a Frontino, Ruggiero sfida subito a duello il pagano che però si rifiuta di combattere sempre a causa dell’impegno preso verso re Agramante. Ruggiero si mostra disposto a rimandare il combattimento ma solo a patto di riavere subito il proprio destriero. Mentre i due cavalieri sono impegnati a litigare, arriva Mandricardo, subito si infuria vedendo che Ruggiero porta sullo scudo la stessa sua insegna, l’aquila troiana, e sfida quindi a duello il cavaliere. Entrambi impugnano la spada e sono pronti a combattere, Rodomonte e Marfisa si intromettono però subito e cercano di calmare gli animi. Mandircardo è però ormai acceso d’ira e minaccia contemporaneamente Rodomonte e Ruggiero. Anche Rodomonte inizia a rispondere alle provocazione ed alla fine rimane solo Marfisa a tentare di calmare la situazione. Ruggiero colpisce Rodomonte, Mandircardo colpisce Ruggiero alla testa e lo stesso fa poco dopo anche Rodomonte, facendogli perdere la spada Balisarda e le redini del cavallo, che subito scappa, con in sella il cavaliere, inseguito tra Rodomonte. Mentre Marfisa colpisce Mandricardo, Viviano consegna la sua spada a Ruggiero, che subito si lancia nuovamente contro Rodomonte. Inizia un feroce combattimento tra Rodomonte e Ruggiero ed anche tra Marfisa e Mandricardo. Dopo aver stordito Rodomonte con i duri colpi portati a segno, Ruggiero interviene in aiuto di Marfisa, caduta da cavallo. Superbia e Discordia tornano a questo punto al monastero dal quale erano partite, convinte di aver pienamento assolto al loro compito. Nel frattempo Rodomonte si riprende e indirizza la propria ira contro Ricciardetto. Malagigi interviene però appena in tempo facendo sì che un demone prenda possesso del cavallo di Doralice, facendolo scappare con in sella la donna urlante. Rodomonte corre subito in soccorso della donna amata; Mandricardo fa altrettanto e subito abbandona il combattimento. Marfisa e Ruggiero, non avendo cavalli adeguati per inseguire Frontino (cavalcato da Rodomonte) e Brigliadoro (cavalcato da Mandricardo), non possono fare altro che recarsi all’accampamento pagano presso Parigi con l’intenzione di incontrare nuovamente là i loro avversari.
Il demone invocato da Malagigi per salvare Ricciardetto, spinge al galoppo il cavallo di Doralice verso Parigi, guidando così verso la battaglia Mandricardo e Rodomonte. Se da un lato arrivano cavalieri valorosissimi a dare forza all’esercito saraceno (arrivano anche re Gradasso e Sacripante, liberati dal castello di Atlante), dall’altro Re Carlo è invece ora privo dei suoi più valorosi paladini: Orlando e Rinaldo. Il primo è divenuto folle e vaga nudo per la Francia, l’altro, subito dopo aver liberato Parigi dall’assedio, aveva ripreso la ricerca di Orlando ed Angelica, e continuava a spostarsi tra Parigi e le città di Anglante e Brava, dove pensava potessero trovarsi. Re Gradasso, Sacripante, Rodomonte e Mandricardo, per aprirsi una via verso l’accampamento di re Agramante, assaltano la retroguardia cristiana all’improvviso, mettendone in fuga una buona parte ma uccidendone e ferendone la maggioranza. Da un altro lato Marfisa e Ruggiero fanno uguale strage. Tutti i soldati saraceni trovano nuovo vigore alla vista dei loro più valorosi compagni ed inizia così una nuova sanguinosa battaglia. Re Carlo non può fare altro, aiutato da Brandimarte (liberato anche lui dal castello di Atlante), che rifugiarsi nuovamente tra le mura di Parigi. L’arcangelo Michele, sentite le grida di disperazione provenienti da Parigi e visto che la situazione è completamente opposta a quella voluta, torna nel monastero e prima maltratta la Discordia a calci e pugni, poi la conduce velocemente a Parigi minacciandola di ben più gravi punizioni se non porta a compimento la propria missione. Discordia riaccende subito d’ira i cuori di Marfisa, Rodomonte, Mandricardo e Ruggiero. I quattro cavalieri abbandonano l’assedio e si recano da re Agramante per esporre le loro contese e chiedere il suo parere. Il re pagano, visto che è inutile ogni tentativo di calmare la situazione, suggerisce infine di estrarre a sorte la priorità dei duelli e fa infine allestire un campo di battaglia. Il primo duello, al quale è pronto ad assistere tutto l’accampamento saraceno, dovrebbe avvenire tra Rodomonte e Mandricardo, ma tra questo ultimo e re Gradasso scoppia una lite furibonda, alla quale partecipa anche Ruggiero. Gradasso, vedendo che Mandricardo porta con sé la spada di Orlando e saputo come ne era venuto in possesso, rinfaccia all’altro di avere usurpato Durindana ingiustamante. Dice di essere lui il legittimo proprietario della spada e sfida quindi a duello il guerriero pagano. Ruggiero si intromette per fare rispettare le priorità già assegnate ai duelli. La situazione viene ricondotta alla calma solo grazie all’intervento di re Agramante e re Marsilio. Scoppia però contemporaneamente una violenta lite anche tra Rodomonte e Sacripante. Questo ultimo riconosce in Frontino il proprio cavallo Frontalatte, che gli era stato tanto tempo prima sottratto da un furfante (per poi essere consegnato a Ruggiero, ma lui questo non lo sa). Il combattimento tra i due viene interrotto da Ferraù e poi anche da re Agramante, accorso dopo aver avuto notizie della nuova contesa ed aver quindi lasciato re Marsilio a tenere a bada Ruggiero, Mandricardo e re Gradasso. Giunge sul posto anche Marfisa e, sentita la storia di Sacripante su come gli era stato tolto il cavallo e che molti indicano in Brunello l’autore di quel furto, capisce che è stato lo stesso Brunello a rubarle la spada quello stesso giorno in cui era stato rubato Frontalatte. La donna decide così di vendicarsi all’istante; fa prigioniero il ladrone, lo conduce da re Agramante e chiede di poterlo impiccare con le proprie mani. Marfisa porta infine con sé il prigioniero presso un piccola torre, dove ha intenzione di trattenerlo per tre giorni prima di procedere all’impiccagione. Re Agramante si indigna per quel gesto di Marfisa, nonostante avesse pensato lui stesso di uccidere Brunello dopo che gli aveva perso l’anello incantato. Il re vorrebbe sfidarla ma viene fermato da re Sorbino e decide quindi infine di lascir fare alla donna, per potersi dedicare alle altre più gravi liti. Per porre fine alla lite tra Rodomonte e Mandricardo, causata dalla bella Doralice, decide che sia infine la donna a scegliere il proprio amante. Rodomonte, che aveva in passato sostenuto numerose prove di valore in onore di Doralice, è sicuro della vittoria, rimane quindi molto sorpreso quando la donna dice invece di preferire il suo rivale. Rodomonte si rifiuta di dover sottostare alla decisione di una donna, impugna nuovamente la spada e sfida Mandricardo. Viene però fatto tacere da re Agramante ed infine non gli resta altro da fare che abbandonare le schiere dell’esercito insieme ad un piccolo seguito. Ruggiero vorrebbe inseguire Rodomonte per andare a riprendersi il cavallo, il secondo duello estratto lo vede però impegnato contro Mandricardo e deve pertanto rimanere. Sacripante invece corre all’inseguimento di Rodomonte per cercare di riavere quel cavallo, il suo Frontalatte, ora chiamato Frontino. Durante il viaggio, dopo aver soccorso una donna caduta nella Senna, perderà però il proprio cavallo e, una volta ritrovato l’animale, non riuscirà più a metterlo sulla via che poteva portarlo in breve dall’avversario. Ritroverà Rodomonte solo dopo molto tempo. Rodomonte si allontana dall’accampamento saracendo maledicendo Doralice, tutto le donne in genere ed anche il re Agramante. Il suo viaggio verso l’Africa lo fa arrivare al fiume Saone, là dove l’esercito saraceno aveva il proprio porto per rifornirsi di ogni bene necessario. Rodomonte decide di alloggiare in un ostello e la sera l’oste, rispondendo ad una domanda del cavaliere riguardo alla fedeltà delle donne, si propone di raccontare una storia che gli era stata riferita da un viaggiatore per convincerlo di quanto siano rare le donne fedeli.
L’oste che ospita Rodomonte racconta una storia che gli era stata riferita da un viaggiatore per convincerlo di quanto siano rare le donne fedeli. Astolfo, re dei Longobardi, era in gioventù molto bello. La sua bellezza veniva sempre molto lodata dagli altri, ma ancor di più era lo stesso Astolfo a lodarsi ed a credere di non poter avere eguali. Un giorno il cavaliere romano Fausto disse al re che l’unico che poteva competere con lui in bellezza, se non addirittura batterlo, era suo fratello Giocondo. Astolfo, incredulo, convinse il cavaliere a fare di tutto per condurre Giocondo presso la sua corte, così da poterlo conoscere. La più grande difficoltà che Fausto disse al re di dover superare, era lo smisurato amore tra il fratello e la sua moglie, che li faceva stare sempre insieme. Il cavaliere riuscì a convincere la moglie di Giocondo a fare andare il marito a Pavia dal re Longobardo. Le notte ed i giorni prima della partenza la donna si mostrò disperata, diceva di non riuscire a vivere senza di lui neanche per un giorno, e non riusciva più a mangiare né a dormire. Il giorno prima di salutarsi la donna regalò anche al marito un sua collanina, pregandolo di portarla sempre con sé come suo ricordo. Iniziato da poco il viaggio verso Pavia, Giocondo si rese però conto di aver dimenticato sotto il cuscino il dono della moglie e decise quindi di ritornare a Roma a riprenderlo. Trovò così la moglie a letto addormentata tra le braccia di un loro garzone. Inizialmente il giovane pensò di ucciderli entrambi, ma poi, tanto era l’amore per la donna, non poté fare altro che riprendere la collanina in silenzio, senza svegliarli, e ripartire. Da quel momento Giocondo non riuscì più a dormire, né a mangiare ed iniziò anche ad ammalarsi, tanto che la sua bellezza, quando giunsero finalmente a Pavia, era ormai svanita. Il re Astolfo fece di tutto per fare riprendere il giovane, ma senza successo. Un giorno però, guardando attraverso un fessura nel muro della sua stanza, Giocondo vide la moglie del re sottomessa ai piaceri di un orribile nano, e assistette allo spettacolo per tutti i giorni successivi. Iniziò infine a vedere sotto un altro punto di vista il proprio male (l’infedeltà era propria delle donne, non era quindi il solo a subirla ed almeno la sua donna non era andata a letto con un mostro), ricominciò a mangiare, a dormire e si riprese indietro tutta la propria bellezza. Il re volle sapere le ragioni di quella sua improvvisa guarigione e Giocondo, dopo avergli fatto giurare di rinunciare a qualsiasi vendetta, gliele mostrò attraverso la fessura presente nella sua stanza. Dopo un primo momento d’ira, Astolfo chiese consiglio al giovane su come comportarsi ora. Giocondo propose di andare in giro per il mondo a fare alle mogli di altri ciò che il nano ed il garzone avevano fatto alle loro, così da testare la fedeltà delle donne e vedere se ci fossero altri uomini a fargli compagnia. Astolfo e Giocondo si misero quindi in viaggio poche ore dopo. Dopo un pò di tempo passato da una donna all’altra, i due decisero infine di trovarne una sola, fissa, che possa piacere ad entrambi, pensando di soddisfare così anche la natura infedele della donna. La ragazza scelta fu Fiammetta, figlia di un albergatore di Valenza. Nell’albergo in cui si fermarono però subito dopo esser partiti da Valenza, Fiammetta incontrò un ragazzo, Greco, da sempre innamorato di lei e che la pregò di soddisfare la sua passione amorosa. Vedendolo tanto soffrire, lei accettò e lo invitò la notte nella sua camera, dove dormiva in un unico letto insieme ad Astolfo e Gicondo. Il ragazzo le fece visita e sfogò quindi con lei la sua passione amorosa per tutta la notte. Il giorno dopo, avendo capito che qualcuno si era divertito tutta la notte con Fiammetta, Astolfo e Giocondo, pensando l’uno che fosse stato l’altro, cominciarono a prendersi in giro, ma il continuo negare dall’una e dall’altra parte ed il conseguente credere che l’uno e l’altro mentisse, li fece alla fine litigare. Venne chiesto a Fiammetta di esporre la verità e lei subito fece il nome di Greco. I due uomini, passato il primo momento di incredulità, cominciarono poi a ridere fino a sentire male al petto e capirono quindi di aver avuto l’ultima e la più convincente prova dell’infedeltà femminile. Dopo aver dato in sposa Fiammetta a Greco, tornarono infine dalle loro mogli con il cuore più leggero. Terminata la storia, l’oste riceve l’approvazione di Rodomonte ma anche i rimproveri di un vecchio. L’uomo sostiene che quella cattiveria era il frutto di una esperienza negativa vissuta in prima persone. L’ira aveva fatto divenire una malattia la colpa di una sola donna, quando invece, nella realtà, sono gli uomini a cadere più facilmente in tentazione. Rodomonte non vuole però sentire queste verità e zittisce subito il vecchio con minacce. Il cavaliere saraceno passa una notte agitata. Il giorno dopo parte per mare, per poi decidere di proseguire nuovamente a cavallo, visto che anche su una nave il suo animo continuava ad essere tormentato. Ginge infine presso un villaggio abbandonato dai suoi abitanti a causa della minaccia saracena, e prende alloggio in una chiesetta. Abbandonata l’idea di ritornare ad Algieri, Rodomonte decide quindi di rimanere a vivere lì. Passano un giorno da quello stesso villaggio Isabella ed il monaco che l’aveva salvata dal suicidio, diretti al monastero di Provenza, e con al seguito il corpo morto di Zerbino. La donna è ancora disperata per la perdita del proprio amato, ma nonostante ciò è ancora dodata di una bellezza sufficiente ad attirare l’attenzione del saraceno, che subito abbandona le preoccupazioni e decide di concentrare tutto il suo amore su di lei. Saputa la storia della donna e la sua decisione di chiudersi nel monastero (aveva fatto voto di castità), Rodomonte cerca di persuadere Isabella ad abbandonare il proposito, dicendo che la sua scelta equivaleva a sotterrare un tesoro. Il monaco cerca di venire in aiuto alla donna, ma finisce con l’accendere d’ira il guerriero e viene subito aggredito.
Acceso d’ira per i continui interventi dell’eremita, Rodomonte afferra il vecchio per la gola, lo fa roteare in aria e lo scaglia infine verso il mare con tutta la sua forza. Ritorna poi a rivolgersi con voce languida alla donna. Isabella, avendo capito che la passione amorosa del guerriero sta ormai per raggiungere il suo culmine e che ogni tentativo di resistere alla violenza sarebbe inutile (vista la differenza in valore), promette a Rodomonte di preparargli un liquore in grado di renderlo invulnerabile in cambio del rispetto del suo voto di castità. Il saraceno assicura il rispetto della condizione, ma in realtà non è veramente intenzionato a farlo. Sotto il controllo di Rodomonte, Isabella raccoglie e fa bollire quella stessa sera le erbe scelte. Terminata la preparazione, la donna, per dimostrare al cavaliere di non aver fatto promesse vane e di non volerlo avvelenare, propone al saraceno (ubriaco per il vino bevuto) di essere lei in prima persona a provare al liquore. Isabella si bagna tutto il corpo con l’estratto di erbe ed espone il proprio collo alla spada di Rodomonte: muore decapitata, pronunciando in ultimo il nome di Zerbino. Visto il gesto di fede della donna, in sua memoria Dio, dall’alto dei cieli, decise di donare sempre le migliori virtù a tutte le donne di nome Isabella. Rodomonte rimane sconvolto per aver ucciso la donna amata e decide di trasformare la chiesetta del villaggio in un monumento funebre in onore di Isabella e Zerbino. Fa costruire anche un ponte senza protezioni e promette di adornare il sepolcro con le armi di tutti i cavalieri che oseranno attraversarlo. Essendo stato il ponte posto sua una via molto frequentata nei viaggi verso la Spagna o l’Italia, molti sono i cavalieri che si scontrano con Rodomonte; ai saraceni vengono tolte semplicemente le armi, i cristiani vengono invece fatti prigionieri per essere poi spediti in Africa. Il sepolcro non era ancora stato terminato quando giunge sul posto l’Orlando furioso e, completamente nudo e disarmato, si mette a correre sul ponte sotto lo sguardo incredulo di Fiordiligi, alla ricerca di Brandimarte e giunta per caso al villaggio nello stesso momento. Rodomonte minaccia il paladino prima da lontano, poi parte all’attacco con l’intenzione di buttarlo giù dal ponte. Il combattimento corpo a corpo tra i due valorosi cavalieri termina quando entrambi finiscono nel fiume. Orlando, completamante nudo, raggiunge subito la riva a nuoto e riprende la propria folle corsa; Rodomonte è invece rallentato nei movimenti dalle proprie armi e tocca quindi terra molto dopo il cristiano. Durante il suo vagare senza meta, saranno molte le pazzie compiute dal conte Orlando. Proseguendo verso la Spagna, assale sui monti Pirenei due boscaioli, fa volare in cielo con un calcio il loro asino e divide a metà il corpo di uno dei due, allargandone il più possibile le gambe. Giunto in riva al mare di Spagna, decide poi di farsi un tana nella sabbia per ripararsi dal caldo. Giungono su quella spiaggia anche Angelica e Medoro. La donna non riconosce il paladino, la follia l’ha completamente trasformato, ed appena vede quel pazzo nascosto nella sabbia, subito scappa verso Medoro. Neanche Orlando riconosce la donna, ma il suo viso lo attrae e si mette quindi subito a rincorrerla. Medoro cerca invano di ferirlo con la propria spada ma il paladino gli uccide il cavallo con un solo pugno e prosegue nell’inseguimento. Angelica, ormai prossima ad essere raggiunta dal furioso paladino, si infila infine in bocca l’anello magico e, caduta da cavallo, scompare alla sua vista. Orlando insegue la cavalla di angelica e se ne impossessa. Se ne serve per il suo folle viaggio senza farla mai fermare, né per riposarsi né per bere o mangiare. La cavalla si sloga anche una spalla ma lui non l’abbandona: lo porta sulle porprie spalle per un pò di strada ed infine la trascina dietro di sè, senza nemmeno accorgersi della sua morte.
Orlando abbandonerà infine la cavalla morta e si impadronirà di volta in volta di altri cavalli uccidendone i padroni. Saccheggerà e distruggerè quasi completamente Malaga. A Gibilterrà cercherà anche di attraversare il mare, per raggiungere l’Africa, in sella al proprio ultimo cavallo e, morto l’animale, si salverà per miracolo raggiungendo a nuoto Ceuta. Giunse infine nei pressi di un immenso accampamento di guerrieri. Tornando invece all’accampamento saraceno nei pressi di Parigi, re Agramante e re Marsilio cercano invano di mettere pace tra Mandricardo, fresco vincitore di Doralice, re Gradasso e Ruggiero, così da evitare ogni ulteriore lite. Infine si decide di estrarre a sorte lo sfidante di Mandricardo e di assegnare a quell’unico combattimento sia la sorte della spada Durindana, voluta da re Gradasso ma posseduta da Mandricardo, che lo stemma con l’acquila bianca, posseduta e contesa da Ruggiero e Mandricardo. La sorte decide che lo sfidante sia Ruggiero. Consapevole del fatto che quel duello non può che danneggiare l’esercito pagano, re Agramante cerca di convincere i due guerrieri a rimandare l’incontro almeno dopo la sconfitta di re Carlo. Ogni tentativo è però ancora una volta inutile. La stessa Doralice cerca per tutta la notte di convincere il proprio amante ad abbandonare la contesa per amore di lei. Sarebbe anche riuscita nell’intento, ma giunge infine il giorno e dal campo di battaglia arriva a loro il rumore del corno di Ruggiero. Mandircardo si veste in tutta fretta ed inizia così lo scontro tra i due valorosi cavalieri. Le lancie vanno in frantumi al primo scontro. Prese in pugno le spade i due cominciano a percuotersi violentemente. Mandricardo ferisce Ruggiero ed il pubblico, tutto schierato dalla parte di questo ultimo, teme il peggio. Il cavaliere si riprende però subito e colpisce in testa Mandricardo con tanto forza da lasciarlo stordito. All’assalto successivo Ruggiero ferisce ad entrambi i fianchi Mandricardo, la cui armatura incantata, appartenuta in precedenza ad Ettore, perde ogni potere contro la spada Balisarda. Mantricardo, acceso d’ira, lancia lo scudo a terra ed afferra con entrambe le mani la spada per colpire Ruggiero e lo ferisce così ad una gamba. Il cavaliere reagisce sferrando un colpo di punta là dove l’avversario aveva prima lo scudo, raggiunge il suo cuore e lo uccide. Mandricardo poco prima di morire colpisce al capo Ruggiero che cade per primo a terra. Sembra Mandricardo il vincitore, ma è Ruggiero il solo a rialzarsi e tutti corrono a festeggiare il vincitore. Re Agramante fa curare Ruggiero nella proprie tende. Gli fa dono dell’armatura e del cavallo (Brigliadoro, in realtà di Orlando) appartenuto a Mandricardo. La spada Durindana (di Orlando) viene invece consegnata, come deciso inizialmente, a re Gradasso. Tornando da Bradamante, la donna ricevette da Ippalca, tornata a Montalbano, notizie di Ruggiero ed anche la lettera scritta dall’amato. Bradamante è disperata. Nonostante la promessa del cavaliere di partire da Parigi al massimo entro venti giorni, teme di non riuscire più ad incontrarlo; si dispiace anche che lui abbia preferito andare in aiuto di suoi nemici (il padre di Agramante aveva ucciso il padre di Ruggiero) piuttosto che raggiungerla. Anche grazie al conforto di Ippalca, la donna rimane comunque a Montalbano ad aspettare il ritorno dell’amato. Il cavaliere, costretto a letto per le ferice ricevute, non riuscirà però a rispettare il patto, a tornere da lei entro venti giorni. Bradamante non vede tornare il proprio amato, viene a sapere da Ricciardetto delle imprese da lui compiute e del fatto che si era diretto a Parigi insieme a Marfisa, donna tanto bella e valorosa, ed inizia a temere anche per l’amore di lui. Rinaldo (cugino di Bradamante e Ricciardetto) giunge un giorno a Montalbano, durante il suo ennesimo viaggio alla ricerca di Angelica, per incontrare Viviano e Malagigi dopo aver saputo della loro liberazione. Il paladino si allontana quindi per dirigersi a Parigi; Ricciardetto, Malagigi, Viviano ed altri suoi parenti lo seguono, non Bradamante, che decide di rimanere ancora in attesa dell’amante e finge pertanto una malattia.
Mentre è in viaggio verso Parigi con la sua gente al seguito (settecento complessivamente), Rinaldo incontra un cavaliere misterioso, accompagnato da una donna, che subito sfida e sconfigge Ricciardetto. Seguono la stessa sorte anche Alardo e Guicciardo, e Rinaldo si candida quindi subito come prossimo avversario del cavaliere, così da poter riprendere il prima possibile il cammino intrapreso. Nello scontro i due cavalli si urtano tanto violentemente che quello del cavaliere misterioso rimane morto a terra. Il cavaliere sfida poi Rinaldo a proseguire il combattimento con la spada. Il paladino chiede al suo seguito di proseguire il viaggio, consegna il suo cavallo Baiardo ad un valletto, unico rimasto, ed inizia così tra i due sfindati un avvincente combattimento. Dopo un’ora e mezza di terribili colpi dall’una e dall’altra parte, entrambi i cavalieri temono per l’esito dello scontro e desidererebbero, se non ci fosse il loro onore in gioco, interrompere il combattimento. Ginge la notte e, ormai sfiniti, nessuno dei due riesce più a tenere in mano la spada e viene così deciso di rimandare la contesa al giorno successivo. Rinaldo conduce con sé il rivale al suo padiglione, dove lo aspetta il suo seguito, per offrirgli ristoro. Il cavaliere misterioso è Guidon Selvaggio ed i due cavalieri, fratelli, finiscono quindi per abbracciarsi amorevolmente. Il valoroso ragazzo si unisce agli altri della sua stirpe e tutti insieme riprendono il giorno dopo il viaggio verso Parigi. Il gruppo di cavalieri incontra a poca distanza da Parigi anche Grifone, Aquilante e Sansonetto, impegnati in una discussione con una donna, Fiordiligi, triste e molto bella. I due fratelli, nonostante le precedenti contese, salutano amichevolmente Rinaldo e si uniscono, insieme a Sansonetto, al gruppo di cavalieri. La donna, riconosciuto Rinaldo, gli racconta della pazzia del cugino Orlando, del fatto che gli era stata rubata la spada Durindana ed il destriero Brigliadoro, del fatto che correva nudo per il mondo, dello scontro che aveva avuto con Rodomonte ed infine del fatto che era ora re Gradasso ad essere in possesso della sua terribile spada. Rinaldo rimane scosso dal racconto della donna e decide di fare tutto il possibile per fare rinsavire il cugino, non prima però di avere liberato re Carlo dall’assedio. Viene deciso di muovere battaglia nella notte ed il gruppo di cavalieri si ripara quindi in un bosco. Giunto il momento dell’assalto, al grido di “Rinaldo e Montalbano” i cavalieri cristiani fanno una strage nell’accampamento dell’esercito pagano. Re Carlo aveva saputo delle intenzioni del paladino e fa trovare pronti i suoi soldati e paladini, tra i quali Brandimarte, che veduta Firodiligi, corre subito ad abbracciarla. La donna gli racconta subito quanto aveva visto e saputo riguardo ad Orlando, e Brandimarte, che ama il conte come fosse suo fratello o suo figlio, subito si mette in viaggio con l’amata alla ricerca del cavaliere furioso. Giungono al ponte di Rodomonte ed il pagano chiede subito al cavaliere cristiano di togliersi le armi minacciandolo di doverlo altrimenti fare con la forza. Brandimarte non risponde alla provocazione e lancia sibito il suo cavallo Batoldo contro l’avversario. Lo scontro tra i due sfidanti avviene sul ponte ed è talmente duro che entrambi finiscono nel fiume sottostante. Rodomonte, abituato a quella situazione, sa che via prendere ed esce subito sulla riva, Brandimarte finisce invece sottosopra con il proprio cavallo ed è trasportato dalla corrente. Le preghiere di Fiordiligi convincono Rodomonte a soccorrere il cristiano per salvargli la vita, a costo delle sue armi e della perdita della libertà. Fiordiligi si allontana quindi alla ricerca di un valoroso cavaliere al quale chiedere aiuto per liberare l’amato. Incontrerà infine un cavaliere riccamente adornato. Tornando a Parigi, re Agramante, svegliato da un suo cavaliere, accetta il consiglio di re Marsilio e di Sobrino e scappa dall’accampamento per raggiungere la città di Arles insieme a ventimila suoi soldati ed a Ruggiero, trasportato ancora malfermo su di un cavallo e poi su una nave. Il numero di pagani uccisi da Rinaldo e dagli altri cristiani è immenso. Anche Malagigi contribuisce alla vittoria, molti sono gli avversari messi in fuga dagli spiriti che evoca con la sua magia. Centomila saraceni complessivamente cercarono di sfuggire al massacro di quella notte, ma molti di loro troveranno comunque la morte. Solo re Gradasso rimane sul campo di battaglia, tanto è il suo desiderio di conquistare anche Baiardo, il cavallo di Rinaldo, avendo già Durindana, la spada di Orlando. Il pagano ed il cristiano si erano già dati appuntamento in passato per sostenere quel duello, un incantesimo di Malagigi aveva però allontanato Rinaldo ed il paladino era stato poi sempre ritenuto un codardo da re Gradasso. Il saraceno raggiunge ora il paladino e subito gli rinfaccia di non essersi in precedenza presentato. Rinaldo spiega la sua storia e chiama anche Malagigi a testimoniare, poi entrambi i guerrieri fissano un nuovo appuntamento per il giorno successivo presso una fontana. La mattina dopo entrambi i cavalieri si presentano per sostenere il combattimento.
Re Agramante giunge nella città di Arles e subito riorganizza l’esercito facendo arruale nuovi guerrieri in Europa ed in Africa. Tenta anche di convincere Rodomonte a rischierarsi dalla sua parte ma con esito negativo. Marfisa invece, sentita la notizia della strage di quella notte ed abbandonata l’intenzione di uccidere Brunello (nessuno era venuto da lei per cercare di salvarlo e la donna non quindi più saveva voluto porcarsi le mani con del sangue tanto vile), corre subito in soccorso dell’esercito saraceno portandosi dietro il prigioniero. Su richiesta di Agramante, Brunello verrà comunque impiccato dal boia, senza che Ruggiero, costretto a letto dalle ferite subite, possa fare nulla per salvarlo. Nel frattempo Bradamante, a Montalbano, aspetta invano l’arrivo di Ruggiero. I venti giorni, dati dal cavaliere come termine per la sua partenza da Parigi, passano lentissimi. La donna passa ogni notte insonne ed ogni giorno di guardia alla città, nella speranza che l’amato stia per arrivare. Infine, oltre alla gelosia causata da Marfisa, Bradamante inizia ad essere anche tormentata dal pensiero che Ruggiero non la ami più e che Melissa e Merlino si siano presi gioco di lei con le loro previsioni di un futuro felice. Nonostante questi tormenti, Bradamante ha ancora speranza che le promesse di Ruggiero siano vere. Giugne però presso il suo castello un cavaliere scappato dall’accampamento saraceno, dove era stato a lungo come prigioniero, e le racconta, oltre alle vicende reali di Ruggiero, del fatto che, ferito da Mandircardo, era impossibilitato a muoversi, le dicerie che avevano iniziato a circolare per l’esercito pagano: Marfisa e Ruggiero si amavano, erano ormai inseparabili ed il loro matrimonio si sarebbe dovuto svolgere a breve. Anche l’ultima goccia di speranza svanisce nel cuore di Bradamante, che ritiene ormai Ruggiero un infedele e vuole ora solo morire. Decide però infine di partire e di unirsi nuovamente all’esercito cristiano, per vendicarsi di Marfisa e trovare la morte per mano dello stesso Ruggiero. Bradamante indossa una veste del colore delle foglie recise e con ricamati sopra dei cipressi spezzati, così da manifestare il proprio desiderio di morte. Prende quindi il cavallo Rabicano e la lancia incantata di Astolfo, che disarciona chiunque tocchi, e si avvia verso il campo saraceno presso Parigi senza sapere che era ormai passato nelle mani dei cristiani. Incontra durante il suo viaggio un donna che monta un cavallo con attaccato all’arcione uno scudo, tre cavalieri al suo fianco ed al seguito una lunga schiera di donne e scudieri. Bradamante viene a sapere che si tratta di una messaggera della bellissima regina d’Islanda, mandata da re Carlo per fargli dono di quello scudo, da destinare al più valoroso dei cavalieri cristiani. I tre cavalieri al suo fianco, i re di Svezia, di Norvegia e dell’isola di Gotland, avevano già fatto prova del loro valore con il desiderio di avere in sposa la regina, ma lei, volendo come marito solo l’uomo più valoroso al mondo, aveva deciso di metterli una ultima volta alla prova: sarà suo sposo solo chi riporterà in Islanda lo scudo che Carlo Magno consegnerà al cavaliere più valoroso che conosca. Bradamante è presa dal suo tormento per Ruggiero, non guida il cavallo ma si lascia al contrario guidare da lui. Giunta ormai la notte, la donna chiede ad un pastore un consiglio su dove poter alloggiare e le viene indicato, come luogo più vicino, il castello di Tristano. Chi viene ospitato in quella dimora deve necessariamente proteggere la propria stanza contro ogni altro cavaliere che si presenti dopo di lui per averla; così se un cavaliere trova la stanza già occupata, per averla dovrà necessariamente conquistarla con la lancia. Nel caso delle donne, è invece la loro bellezza a decidere a chi spetti la stanza. Bradamante giunge al castello, dice di voler una stanza e sfida così i tre cavalieri che la occupano in quel momento. Sono i tre re al seguito della messaggera mandata dalla regina di Islanda per consegnare lo scudo a re Carlo. Bradamante si lancia al combattimento e li disarciona uno dopo l’altro, entra poi nel castello, dopo aver giurato di difendere la stanza contro ogni altro cavaliere, e viene invitata dalla messaggera della regina d’Islanda vicino al fuoco. Bradamante si toglie infine l’elmo è mostra a tutti la sua femminilità, chiede quindi all’oste quale sia l’origine di quella regola che ha dovuto e deve ancora rispettare. Al tempo in cui il re di Francia era stato Fieramonte, quel castello era stato abitato dal figlio del re, Clodione, dalla sua bellissima amata e da dieci valorosi cavalieri. Giunse un giorno in quel posto Tristano, in compagnia di una donna, e chiese di poter essere ospitato. Clodione, geloso per la sua bellissima amante, rispose però con un rifiuto. Il valoroso cavaliere, indispettito, decise quindi di sfidare il figlio del re ed i suoi dieci cavalieri per ottenere con la forza ciò che non aveva potuto ottenere con le preghiere, e mise anche come condizione che in caso di vittoria avrebbe potuto lui solo stare in quella dimora. Tristano sconfisse tutti i rivali e prese possesso del castello. Clodione pregò il cavaliere di ridargli la sua bellissima compagna, ma Tristano, per vendicarsi dei torti subiti, rispose che un donna tanto bella meritava di stare con il cavaliere più valoroso e gli offrì invece in cambio la sua compagna di minore bellezza. Il giorno dopo Tristano, consapevole che era stato l’amore la causa di tutto, lasciò subito il castello e riconsegnò anche la bellissima donna al suo amato. Anche Clodiano lasciò quel castello e ci mise a guardia un cavaliere con il compito di fare rispettare quella regola a chiunque chiedesse ospitalità. Viene servita la cena nel castello, ma il padrone del castello, deciso a fare rispettare la regola fino in fondo, comunica alla messaggera della regina d’Islanda che deve lasciare la dimora, in quanto meno bella di Bradamante, altra ospite. Bradamante interviene però in difesa della donna dicendo di essersi meritata la stanza come cavaliere, non come donna, e di non dover quindi competere con l’altra per bellezza. La minaccia finale di sfidare chiunque sia contrario alla sua opinione, fa stare quieto il padrone del castello e la messaggera può quindi rimanere. La cena può finalmente avere luogo e, una volta terminata, gli ospiti rimangono nel salone ad ammirare i dipinti che ne rivestono le mura.
Terminata la cena nel castello di Tristano, Bradamante rimane nel grande salone ad ammirare i dipinti che ne rivestono le mura. Le pitture era state fatte realizzare con un incantesimo da Merlino per rappresentare scene future, per rappresentare in particolare le guerre che in futuro verranno sostenute dai francesi. Il padrone del castello racconta che il re francese Fieramonte, passato il Reno ed occupata la Gallia, fu anche intenzionato a conquistare tutta l’Italia, visto il declino dell’impero romano, e per fare ciò chiese a re Artù di allearsi con lui. Artù, consultatosi con Merlino, capace di prevedere il futuro, fece però conoscere a Fieramonte il pericolo a cui andava incontro nel voler compiere quell’impresa. Merlino annunciò anche tutte le sconfitte e le sciagure alle quali sarebbero andati incontro i futuri re di Francia una volta oltrpassate le Alpi per muovere guerra in Italia. Re Fieramonte non solo abbandonò l’impresa, ma fece anche fare quei dipinti così da avvertire i suoi successori del pericolo previsto da Merlino e mostrare loro gli onori derivanti al contrario dall’aver preso le difese dell’Italia. Il signore del castello mostra quindi in dettaglio i singoli avvenimenti rappresentati. Bradamante va infine a coricarsi e, addormentata, riceve in sogno la visita di Ruggiero che le rinnova la propria promessa d’amore. La donna si risveglia in lacrime, crede che sia vero solo ciò che la tormenta da sveglia; vorrebbe perciò dormire in eterno, fosse anche grazie alla morte. Rimessasi in viaggio, incontra ancora la messaggere, di nome Ullania, insieme al suo seguito ed ai tre cavalieri sconfitti in duello la sera prima. Questi tre, per vendicarsi dell’umiliazione e della notte passata al freddo ed a stomaco vuoto, sfidano nuovamente Bradamante e finisco nuovamente a terra. Ullania, infierisce sui tre re dicendo loro che a sconfiggerli è stata una donna e che quindi potevano anche scordarsi di sfidare Orlando, Rinaldo o altri cavalieri di Francia. I tre, per purificarsi dall’umiliazione, si spogliano quindi delle armi ed abbandonano i propri cavalli, decidendo di rimanere così per un anno intero, per poi cercare di riconquistare armi e cavallo combattendo. Bradamante riprende infine il proprio viaggio verso Parigi e, giunta alla città, ritrova Rinaldo e re Carlo, e viene a sapere da loro della sconfitta subita da re Agramante. Tornando a parlare della sfida tra re Gradasso e Rinaldo, per il possesso della spada Durindana e di Baiardo, i due cavavalieri, giunti presso la fonte, impugnano subito la spada e danno inizio ad un feroce combattimento. Il pagano sferra colpi pesanti ma Rinaldo è veloce a schivare la spada Durindana; il cristiano porta invece a segno molti colpi, ma non può nulla la sua spada contro la corazza diamantata ed incantata di re Gradasso. Devono entrambi abbandonare il duello quando vedono che il cavallo Baiardo è stato assalito da un mostro alato (probabilmente frutto di un nuovo incantesimo di Malagigi per cercare di interrompere il duello, ma la verità non si saprà mai). Il cavallo riesce a mettersi in salvo in un bosco e quindi in una grotta. I due guerrieri decidono di rimandare la loro sfida per riuscire a recuperare il destriero oggetto del loro contendere, con il patto che li lo trova lo debba riportare alla fonte e rimettere quindi di nuovo in premio. Gradasso sale in groppa al proprio destriero e corre all’inseguimento di Baiardo. Rinaldo prosegue invece a piedi e, non riuscendo a trovare la giusta via, torna poi presso la fonte ed infine, non vedendo tornare neanche il rivale, all’accampamento cristiano. Re Gradasso riesce invece a ritrovare il cavallo Baiardo, non è però intenzionato a rispettare il patto fatto con lo sfidante cristiano, raggiunge pertanto re Agramante ad Arles e da qui si imbarca per raggiungere l’India. Tornando ora a parlare delle avventure di Astolfo, il cavaliere, in sella all’ippogrifo, dopo aver esplorato in lungo ed in largo la Francia a la Spagna, ed essere poi passato in Africa, raggiunge infine l’Etiopia, sulla sponda cristiana del Nilo. Astolfo fa visita al re d’Etipia Senapo e lo trova tormentato dalle arpie. I mostri alati giungevano a saccheggiare il suo palazzo ogni volta che veniva allestito un banchetto. Le arpie erano state mandate da Dio per punirlo per aver voluto, quando era giovane, muovere il proprio esercito verso la sorgente del Nilo, verso i monti della Luna, sede del paradiso terrestre, per assoggettare i suoi abitanti. Il re d’Etiopia venne in quell’occasione anche reso cieco da Dio. Come termine per la punizione, venne predetta a Senapo la venuta dal cielo di un cavaliere in sella ad una cavallo alato, Astolfo viene quindi ora accolto come un salvatore. Su indicazione del cavaliere cristiano, viene allestito un bacchetto per fare da esca alle sette arpie e, appena queste giungono, Astolfo tenta di ferirle con la spada senza però riuscire nel suo intento. Viene fatto preparare un secondo banchetto, viene chiesto a tutti gli abitanti del castello di tapparsi le orecchie, Astolfo monta in sella all’ippogrifo e, questa volta, non appena vede arrivare i mostri dà subito fiato al suo corno incantato facendoli scappare terrorizzati. Le arpie, inseguite dal cavaliere, che non smette di suonare il corno, raggiungono il monte della Luna e si infilano subito nella grotta che porta fino agli abissi dell’Inferno.
Giunto ai piedi dei monti della Luna, all’ingresso della caverna che conduce all’Inferno, dove si erano rifugiate le arpie, Astolfo decide si avventurarsi per i gironi infernali ed entra quindi nell’apertura. Il fumo nero e sgradevole che ne riempie l’aria, diviene però via via più denso man mano che si procede verso il basso, finché il cavaliere è costretto a fermarsi. Astolfo incontro un’anima che gli racconta la propria storia. Il suo nome è Lidia, figlia del re di Lidia, ed è condannata a stare in quel fumo per non essersi dimostrata riconoscente verso il suo amante. L’anima dannata racconta la sua storia. In vita era stata tanto bella quanto altezzosa ed aveva fatto innamorare di se Alceste, il cavaliere più valoroso del suo tempo. Il ragazzo si mise per amore al servizio del re di Lidia, e con le proprie imprese gli consentì innumerevoli conquiste. Alceste chiese un giorno la mano di Lidia, ma il re, intenzionato ad ottenere un ben più vantaggioso matrimonio (Alceste aveva solo il valore dalla sua parte e non ricchezze), gli rispose con un rifiuto. Il cavaliere, acceso d’ira per l’ingratitudine, lasciò la corte per offire le proprie armi al re di Armenia, acerrimo nemico del padre della ragazza, convincendolo quindi a muovere guerra alla Lidia. Nel giro di un anno al re di Lidia rimase il possesso del suo solo castello e decise così di mandare la figlia a trattare la resa con Alceste. La ragazza, accortasi del potere che aveva nei confronti del cavaliere (si presentò pallido e tremante come se fosse lui lo sconfitto), riescì invece ad ottenere molto di più. Lo fece subito sentire in colpa per i danni causati al padre, quando, gli disse, avrebbe potuto più facilmente ottenere lo stesso risultato (averla in sposa) con modi più gentili. Gli disse infatti che prima di allora non avrebbe trovato alcun ostacolo in lei, ma, dopo quello che era successo, non voleva ora più amarlo, preferiva piuttosto la morte. Alceste si lanciò ai piedi della ragazza chiedendo perdono, lei glielo promise a patto di fare riconquistare al padre tutto ciò che gli era stato sottratto in quella guerra. Tornato dal re di Armenia, il cavalliere lo pregò di ridare al re di Lidia il suo regno. La risposta negativa accese subito d’ira il giovane che uccise sul posto il re di Armenia ed in meno di un mese ridiede il regno al padre della amata a proprie spese, e conquistò anche buona parte delle terre confinanti. La ragazza ed il re decisero poi di fare morire Alceste e Lidia, con la scusa di voler avere prova del suo valore, incominciò ad assegnargli imprese pericolosissime. Il cavaliere riuscì però sempre vincitore e la ragazza decise infine di seguire un’altra via: approfittando della sua totale obbidienza, gli fece perdere ogni amico, e dichiarandogli poi apertamente il proprio odio nei suoi confronti, lo allontanò infine dalla corte. La sofferenza per quel trattamento fece ammalare e quindi morire Alceste. Gli occhi di Lidia vengono ora fatti lacrimare da quel fumo denso, per punirla dell’ingratitudine mostrata verso chi l’amava. Terminato il racconto di Lidia, Astolfo tenta di proseguire oltre per incontrare altre anime; il denso fumo diviene però insopportabile ed il cavaliere è costretto a tornare all’aperto. Chiusa con massi e tronchi l’apertura della caverna, così da impedire alle arpie di uscire nuovamente, e dopo essersi lavato con l’acqua di una fonte, il cavaliere sale in sella all’ippogrifo ed inizia l’ascesa del monte. Raggiunta la cima della montagna, Astolfo rimane incantato dalla bellezza del paesaggio, il paradiso terrestre, che non ha eguali sulla terra. In mezzo ad una spendida pianura sorge un ricco, bellissimo e luminosissimo palazzo, dal cui vestibolo esce un vecchio, che accoglie Astolfo dicendogli che è per volontà di Dio che ha potuto raggiungere quel posto; gli anticipa quindi che lo scopo di quel suo viaggio è mostrargli come essere d’aiuto a re Carlo e quindi alla Santa Chiesa. Il vecchio è san Giovanni, il discepolo di Cristo, salito al cielo con il proprio corpo quando era ancora in vita. Il mattino dopo san Giovanni racconta ad Astolfo gli avvenimenti accaduti in Francia, soprattutto per quanto riguarda il paladino Orlando. Il conte aveva infatti ricevuto il dono dell’invulnerabilità da Dio per stare in difesa dei cristiani, ma, reso cieco e violento per amore di una donna pagana, aveva mancato al proprio compito, e, per punizione, era stato poi privato della ragione da Dio. Per volontà divina, la follia di Orlando deve avere termine dopo tre mesi; ad Astolfo spetta il compito di fare rinsavire il cavaliere utilizzando la medicina che dovranno prelevare sulla Luna. Non appena la luna compare in cielo, il cavaliere e l’evangelista si sistemano su di un carro trainato da quattro cavalli rosso fuoco ed inziano così il loro viaggio. Giunti sulla luna, san Giovanni conduce Astolfo in una valle dove viene raccolto tutto ciò che sulla terra è stato smarrito: non solo regni e ricchezze, ma anche fama, preghiere e promesse fatte a Dio, lacrime e sospiri degli amanti… Astolfo vede infine un monte costituito da ampolle contenenti il senno, in forma di liquido, perso sulla terra. Le ampolle hanno volume diverso tra loro ed ognuna riporta il nome del suo proprietario. L’ampolla contenente il senno di Orlando è la più grande di tutte ed è quindi facile da inividuare. Astolfo ritrova anche quella contenente il proprio di senno e quelle contenenti il senno di persono insospettabili. Il cavaliere si porta la naso la sua ampolla e torna così nuovamente in possesso di ciò che aveva smarrito. Vivrà a lungo come un uomo saggio, prima di perdere ancora una volta il proprio senno. Dopo che il cavaliere ha prelevato l’ampolla del conte Orlando, l’evangelista Giovanni lo conduce in un palazzo pieno di batuffoli di lino, seta, cotone… In una stanza vede una donna intenta ad ottenere da ogni batuffolo un filo che poi avvolge su di un aspo per formare una matassa. Un’altra donna separa le matasse brutte da quelle belle. Sono le parche ed hanno il compito di tessere la vita di ogni mortale. Tanto più lungo è il filo e tanto più lunga sarà la vita degli uomini. I filati più belli verranno utilizzati per tessere l’ornamento del paradiso, quelli più brutti per fare i legacci dei dannati nell’inferno. Un vecchio, il tempo, porta via senza riposo le piastrine che accompagnano le matasse con incisi i nomi delle persone loro proprietarie.
1 Chi salirà per me, madonna, in cielo a riportarne il mio perduto ingegno? che, poi ch'uscì da' bei vostri occhi il telo che 'l cor mi fisse, ognor perdendo vegno. Né di tanta iattura mi querelo, pur che non cresca, ma stia a questo segno; ch'io dubito, se più si va sciemando, di venir tal, qual ho descritto Orlando. 2 Per rïaver l'ingegno mio m'è aviso che non bisogna che per l'aria io poggi nel cerchio de la luna o in paradiso; che 'l mio non credo che tanto alto alloggi. Ne' bei vostri occhi e nel sereno viso, nel sen d'avorio e alabastrini poggi se ne va errando; et io con queste labbia lo corrò, se vi par ch'io lo rïabbia. 3 Per gli ampli tetti andava il paladino tutte mirando le future vite, poi ch'ebbe visto sul fatal molino volgersi quelle ch'erano già ordite: e scorse un vello che più che d'or fino splender parea; né sarian gemme trite, s'in filo si tirassero con arte, da comparargli alla millesma parte. 4 Mirabilmente il bel vello gli piacque, che tra infiniti paragon non ebbe; e di sapere alto disio gli nacque, quando sarà tal vita, e a chi si debbe. L'evangelista nulla gliene tacque: che venti anni principio prima avrebbe che col .M. e col .D. fosse notato l'anno corrente dal Verbo incarnato, 5 E come di splendore e di beltade quel vello non avea simile o pare, così saria la fortunata etade che dovea uscirne al mondo singulare; perché tutte le grazie inclite e rade ch'alma Natura, o proprio studio dare, o benigna Fortuna ad uomo puote, avrà in perpetua et infallibil dote. 6 - Del re de' fiumi tra l'altiere corna or siede umil (diceagli) e piccol borgo: dinanzi il Po, di dietro gli soggiorna d'alta palude un nebuloso gorgo; che, volgendosi gli anni, la più adorna di tutte le città d'Italia scorgo, non pur di mura e d'ampli tetti regi, ma di bei studi e di costumi egregi. 7 Tanta esaltazïone e così presta, non fortuìta o d'aventura casca; ma l'ha ordinata il ciel, perché sia questa degna in che l'uom di ch'io ti parlo, nasca: che, dove il frutto ha da venir, s'inesta e con studio si fa crescer la frasca; e l'artefice l'oro affinar suole, in che legar gemma di pregio vuole. 8 Né sì leggiadra né sì bella veste unque ebbe altr'alma in quel terrestre regno; e raro è sceso e scenderà da queste sfere superne un spirito sì degno, come per farne Ippolito da Este n'have l'eterna mente alto disegno. Ippolito da Este sarà detto l'uom a chi Dio sì ricco dono ha eletto. 9 Quegli ornamenti che divisi in molti, a molti basterian per tutti ornarli, in suo ornamento avrà tutti raccolti costui, di c'hai voluto ch'io ti parli. Le virtudi per lui, per lui soffolti saran gli studi; e s'io vorrò narrar li alti suoi merti, al fin son sì lontano, ch'Orlando il senno aspetterebbe invano. - 10 Così venìa l'imitator di Cristo ragionando col duca: e poi che tutte le stanze del gran luogo ebbono visto, onde l'umane vite eran condutte, sul fiume usciro, che d'arena misto con l'onde discorrea turbide e brutte; e vi trovâr quel vecchio in su la riva, che con gl'impressi nomi vi veniva. 11 Non so se vi sia a mente, io dico quello ch'al fin de l'altro canto vi lasciai, vecchio di faccia, e sì di membra snello, che d'ogni cervio è più veloce assai. Degli altrui nomi egli si empìa il mantello; scemava il monte, e non finiva mai: et in quel fiume che Lete si noma, scarcava, anzi perdea la ricca soma. 12 Dico che, come arriva in su la sponda del fiume, quel prodigo vecchio scuote il lembo pieno, e ne la turbida onda tutte lascia cader l'impresse note. Un numer senza fin se ne profonda, ch'un minimo uso aver non se ne puote; e di cento migliaia che l'arena sul fondo involve, un se ne serva a pena. 13 Lungo e d'intorno quel fiume volando givano corvi et avidi avoltori, mulacchie e vari augelli, che gridando facean discordi strepiti e romori; et alla preda correan tutti, quando sparger vedean gli amplissimi tesori: e chi nel becco, e chi ne l'ugna torta ne prende; ma lontan poco li porta. 14 Come vogliono alzar per l'aria i voli, non han poi forza che 'l peso sostegna; sì che convien che Lete pur involi de' ricchi nomi la memoria degna. Fra tanti augelli son duo cigni soli, bianchi, Signor, come è la vostra insegna, che vengon lieti riportando in bocca sicuramente il nome che lor tocca. 15 Così contra i pensieri empi e maligni del vecchio che donar li vorria al fiume, alcuno ne salvan gli augelli benigni: tutto l'avanzo oblivïon consume. Or se ne van notando i sacri cigni, et or per l'aria battendo le piume, fin che presso alla ripa del fiume empio trovano un colle, e sopra il colle un tempio. 16 All'Inmmortalitade il luogo è sacro, ove una bella ninfa giù del colle viene alla ripa del leteo lavacro, e di bocca dei cigni i nomi tolle; e quelli affige intorno al simulacro ch'in mezzo il tempio una colonna estolle, quivi li sacra, e ne fa tal governo, che vi si pôn veder tutti in eterno. 17 Chi sia quel vecchio, e perché tutti al rio senza alcun frutto i bei nomi dispensi, e degli augelli, e di quel luogo pio onde la bella ninfa al fiume viensi, aveva Astolfo di saper desio i gran misteri e gl'incogniti sensi; e domandò di tutte queste cose l'uomo di Dio, che così gli rispose: 18 - Tu déi saper che non si muove fronda là giù che segno qui non se ne faccia. Ogni effetto convien che corrisponda in terra e in ciel, ma con diversa faccia. Quel vecchio, la cui barba il petto inonda, veloce sì che mai nulla l'impaccia, gli effetti pari e la medesima opra che 'l Tempo fa là giù, fa qui di sopra. 19 Volte che son le fila in su la ruota, là giù la vita umana arriva al fine. La fama là, qui ne riman la nota; ch'immortali sariano ambe e divine, se non che qui quel da la irsuta gota, e là giù il Tempo ognor ne fa rapine. Questi le getta, come vedi, al rio; e quel l'immerge ne l'eterno oblio. 20 E come qua su i corvi e gli avoltori e le mulacchie e gli altri varii augelli s'affaticano tutti per trar fuori de l'acqua i nomi che veggion più belli: così là giù ruffiani, adulatori, buffon, cineti, accusatori, e quelli che viveno alle corti e che vi sono più grati assai che 'l virtuoso e 'l buono, 21 e son chiamati cortigian gentili, perché sanno imitar l'asino e 'l ciacco; de' lor signor, tratto che n'abbia i fili la giusta Parca, anzi Venere e Bacco, questi di ch'io ti dico, inerti e vili, nati solo ad empir di cibo il sacco, portano in bocca qualche giorno il nome; poi ne l'oblio lascian cader le some. 22 Ma come i cigni che cantando lieti rendeno salve le medaglie al tempio, così gli uomini degni da' poeti son tolti da l'oblio, più che morte empio. Oh bene accorti principi e discreti, che seguite di Cesare l'esempio, e gli scrittor vi fate amici, donde non avede a temer di Lete l'onde! 23 Son, come i cigni, anco i poeti rari, poeti che non sian del nome indegni; sì perché il ciel degli uomini preclari non pate mai che troppa copia regni, sì per gran colpa dei signori avari che lascian mendicare i sacri ingegni; che le virtù premendo, et esaltando i vizii, caccian le buone arti in bando. 24 Credi che Dio questi ignoranti ha privi de lo 'ntelletto, e loro offusca i lumi; che de la poesia gli ha fatto schivi, acciò che morte il tutto ne consumi. Oltre che del sepolcro uscirian vivi, ancor ch'avesser tutti i rei costumi, pur che sapesson farsi amica Cirra, più grato odore avrian che nardo o mirra. 25 Non sì pietoso Enea, né forte Achille fu, come è fama, né sì fiero Ettorre; e ne son stati e mille a mille e mille che lor si puon con verità anteporre: ma i donati palazzi e le gran ville dai descendenti lor, gli ha fatto porre in questi senza fin sublimi onori da l'onorate man degli scrittori. 26 Non fu sì santo né benigno Augusto come la tuba di Virgilio suona. L'aver avuto in poesia buon gusto la proscrizion iniqua gli perdona. Nessun sapria se Neron fosse ingiusto, né sua fama saria forse men buona, avesse avuto e terra e ciel nimici, se gli scrittor sapea tenersi amici. 27 Omero Agamennón vittorïoso, e fe' i Troian parer vili et inerti; e che Penelopea fida al suo sposo dai Prochi mille oltraggi avea sofferti. E se tu vuoi che 'l ver non ti sia ascoso, tutta al contrario l'istoria converti: che i Greci rotti, e che Troia vittrice, e che Penelopea fu meretrice. 28 Da l'altra parte odi che fama lascia Elissa, ch'ebbe il cor tanto pudico; che riputata viene una bagascia, solo perché Maron non le fu amico. Non ti maravigliar ch'io n'abbia ambascia, e se di ciò diffusamente io dico. Gli scrittori amo, e fo il debito mio; ch'al vostro mondo fui scrittore anch'io. 29 E sopra tutti gli altri io feci acquisto che non mi può levar tempo né morte: e ben convenne al mio lodato Cristo rendermi guidardon di sì gran sorte. Duolmi di quei che sono al tempo tristo, quando la cortesia chiuso ha le porte; che con pallido viso e macro e asciutto la notte e 'l dì vi picchian senza frutto. 30 Sì che continuando il primo detto, sono i poeti e gli studiosi pochi; che dove non han pasco né ricetto, insin le fere abbandonano i lochi. - Così dicendo il vecchio benetetto gli occhi infiammò, che parveno duo fuochi; poi volto al duca con un saggio riso tornò sereno il conturbato viso. 31 Resti con lo scrittor de l'evangelo Astolfo ormai, ch'io voglio far un salto, quanto sia in terra a venir fin dal cielo; ch'io non posso più star su l'ali in alto. Torno alla donna a cui con grave telo mosso avea gelosia crudele assalto. Io la lasciai ch'avea con breve guerra tre re gittati, un dopo l'altro, in terra; 32 e che giunta la sera ad un castello ch'alla via di Parigi si ritrova, d'Agramante, che rotto dal fratello s'era ridotto in Arli, ebbe la nuova. Certa che 'l suo Ruggier fosse con quello, tosto ch'apparve in ciel la luce nuova, verso Provenza, dove ancora intese che Carlo lo seguia, la strada prese. 33 Verso Provenza per la via più dritta andando, s'incontrò in una donzella, ancor che fosse lacrimosa e afflitta, bella di faccia e di maniere bella. Questa era quella sì d'amor traffitta per lo figliuol di Monodante, quella donna gentil ch'avea lasciato al ponte l'amante suo prigion di Rodomonte. 34 Ella venìa cercando un cavalliero, ch'a far battaglia usato, come lontra, in acqua e in terra fosse, e così fiero, che lo potesse al pagan porre incontra. La sconsolata amica di Ruggiero, come quest'altra sconsolata incontra, cortesemente la saluta, e poi le chiete la cagion dei dolor suoi. 35 Fiordiligi lei mira, e veder parle un cavallier ch'al suo bisogno fia; e comincia del ponte a ricontarle, ove impetisce il re d'Algier la via; e ch'era stato appresso di levarle l'amante suo: non che più forte sia; ma sapea darsi il Saracino astuto col ponte stretto e con quel fiume aiuto. 36 - Se sei (dicea) sì ardito e sì cortese, come ben mostri l'uno e l'altro in vista, mi vendica, per Dio, di chi mi prese il mio signore, e mi fa gir sì trista; o consigliami almeno in che paese possa io trovare un ch'a colui resista, e sappia tanto d'arme e di battaglia, che 'l fiume e 'l ponte al pagan poco vaglia. 37 Oltre che tu farai quel che conviensi ad uom cortese e a cavalliero errante, in beneficio il tuo valor dispensi del più fedel d'ogni fedele amante. De l'altre sue virtù non appertiensi a me narrar; che sono tante e tante, che chi non n'ha notizia, si può dire che sia del veder privo e de l'udire. - 38 La magnanima donna, a cui fu grata sempre ogni impresa che può farla degna d'esser con laude e gloria nominata, subito al ponte di venir disegna: et ora tanto più, ch'è disperata, vien volentier, quando anco a morir vegna; che credendosi, misera! esser priva del suo Ruggiero, ha in odio d'esser viva. 39 - Per quel ch'io vaglio, giovane amorosa (rispose Bradamante), io m'offerisco di far l'impresa dura e perigliosa, per altre cause ancor, ch'io preterisco; ma più, che del tuo amante narri cosa che narrar di pochi uomini avvertisco, che sia in amor fedel; ch'a fé ti giuro ch'in ciò pensai ch'ognun fosse pergiuro. - 40 Con un sospir quest'ultime parole finì, con un sospir ch'uscì dal core; poi disse: - Andiamo; - e nel seguente sole giunsero al fiume, al passo pien d'orrore. Scoperte da la guardia che vi suole farne segno col corno al suo signore, il pagan s'arma; e quale è 'l suo costume, sul ponte s'apparecchia in ripa al fiume: 41 e come vi compar quella guerriera, di porla a morte subito minaccia, quando de l'arme e del destrier su ch'era, al gran sepolcro oblazïon non faccia. Bradamante che sa l'istoria vera, come per lui morta Issabella giaccia, che Fiordiligi detto le l'avea, al Saracin superbo rispondea: 42 - Perché vuoi tu, bestial, che gli innocenti facciano penitenza del tuo fallo? Del sangue tuo placar costei convienti: tu l'uccidesti, e tutto 'l mondo sallo. Sì che di tutte l'arme e guernimenti di tanti che gittati hai da cavallo, oblazione e vittima più accetta avrà, ch'io te l'uccida in sua vendetta. 43 E di mia man le fia più grato il dono, quando, come ella fu, son donna anch'io: né qui venuta ad altro effetto sono, ch'a vendicarla; e questo sol disio. Ma far tra noi prima alcun patto è buono, che 'l tuo valor si compari col mio. S'abbattuta sarò, di me farai quel che degli altri tuoi prigion fatt'hai: 44 ma s'io t'abbatto, come io credo e spero, guadagnar voglio il tuo cavallo e l'armi, e quelle offerir sole al cimitero, e tutte l'altre distaccar da' marmi; e voglio che tu lasci ogni guerriero. - Rispose Rodomonte: - Giusto parmi che sia come tu di'; ma i prigion darti già non potrei, ch'io non gli ho in queste parti. 45 Io gli ho al mio regno in Africa mandati: ma ti prometto, e ti do ben la fede, che se m'avvien per casi inopinati che tu stia in sella e ch'io rimanga a piede, farò che saran tutti liberati in tanto tempo quanto si richiede di dare a un messo ch'in fretta si mandi e far quel che, s'io perdo, mi commandi. 46 Ma s'a te tocca star di sotto, come piu si conviene, e certo so che fia, non vo' che lasci l'arme, né il tuo nome, come di vinta, sottoscritto sia: al tuo bel viso, a' begli occhi, alle chiome, che spiran tutti amore e leggiadria, voglio donar la mia vittoria; e basti che ti disponga amarmi, ove m'odiasti. 47 Io son di tal valor, son di tal nerbo, ch'aver non déi d'andar di sotto a sdegno. - Sorrise alquanto, ma d'un riso acerbo che fece d'ira, più che d'altro, segno, la donna, né rispose a quel superbo; ma tornò in capo al ponticel di legno, spronò il cavallo, e con la lancia d'oro venne a trovar quell'orgoglioso Moro. 48 Rodomonte alla giostra s'apparecchia: viene a gran corso; et è sì grande il suono che rende il ponte, ch'intronar l'orecchia può forse a molti che lontan ne sono. La lancia d'oro fe' l'usanza vecchia; che quel pagan, sì dianzi in giostra buono, levò di sella, e in aria lo sospese, indi sul ponte a capo in giù lo stese. 49 Nel trapassar ritrovò a pena loco ove entrar col destrier quella guerriera; e fu a gran risco, e ben vi mancò poco, ch'ella non traboccò ne la riviera: ma Rabicano, il quale il vento e 'l fuoco concetto avean, sì destro et agil era, che nel margine estremo trovò strada; e sarebbe ito anco su 'n fil di spada. 50 Ella si volta, e contra l'abbattuto pagan ritorna; e con leggiadro motto: - Or puoi (disse) veder chi abbia perduto, e a chi di noi tocchi di star di sotto. - Di maraviglia il pagan resta muto, ch'una donna a cader l'abbia condotto; e far risposta non poté o non volle, e fu come uom pien di stupore e folle. 51 Di terra si levò tacito e mesto; e poi ch'andato fu quattro o sei passi, lo scudo e l'elmo, e de l'altre arme il resto tutto si trasse, e gittò contra i sassi; e solo e a piè fu a dileguarsi presto: non che commissïon prima non lassi a un suo scudier, che vada a far l'effetto dei prigion suoi, secondo che fu detto. 52 Partissi; e nulla poi più se n'intese, se non che stava in una grotta scura. Intanto Bradamante avea sospese di costui l'arme all'alta sepoltura, e fattone levar tutto l'arnese, il qual dei cavallieri, alla scrittura, conobbe de la corte esser di Carlo; non levò il resto, e non lasciò levarlo. 53 Oltr'a quel del figliuol di Monodante, v'è quel di Sansonetto e d'Oliviero, che per trovare il principe d'Anglante, quivi condusse il più dritto sentiero. Quivi fur presi, e furo il giorno inante mandati via dal Saracino altiero. Di questi l'arme fe' la donna tôrre da l'alta mole, e chiuder ne la torre. 54 Tutte l'altre lasciò pender dai sassi, che fur spogliate ai cavallier pagani. V'eran l'arme d'un re, del quale i passi per Frontalatte mal fur spesi e vani: io dico l'arme del re de' Circassi, che dopo lungo errar per colli e piani, venne quivi a lasciar l'altro destriero; e poi senz'arme andossene leggiero. 55 S'era partito disarmato e a piede quel re pagan dal periglioso ponte, sì come gli altri ch'eran di sua fede, partir da sé lasciava Rodomonte. Ma di tornar più al campo non gli diede il cor; ch'ivi apparir non avria fronte: che per quel che vantossi, troppo scorno gli saria farvi in tal guisa ritorno. 56 Di pur cercar nuovo desir lo prese colei che sol avea fissa nel core. Fu l'aventura sua, che tosto intese (io non vi saprei dir chi ne fu autore) ch'ella tornava verso il suo paese: onde esso, come il punge e sprona Amore, dietro alla pésta subito si pone. Ma tornar voglio alla figlia d'Amone. 57 Poi che narrato ebbe con altro scritto come da lei fu liberato il passo; a Fiordiligi ch'avea il core afflitto, e tenea il viso lacrimoso e basso, domandò umanamente ov'ella dritto volea che fosse, indi partendo, il passo. Rispose Fiordiligi: - Il mio camino vo' che sia in Arli al campo saracino, 58 ove navilio e buona compagnia spero trovar da gir ne l'altro lito. Mai non mi fermerò fin ch'io non sia venuta al mio signore e mio marito. Voglio tentar, perché in prigion non stia, più modi e più; che se mi vien fallito questo che Rodomonte t'ha promesso, ne voglio avere uno et un altro appresso. - 59 - Io m'offerisco (disse Bradamante) d'accompagnarti un pezzo de la strada, tanto che tu ti vegga Arli davante, ove per amor mio vo' che tu vada a trovar quel Ruggier del re Agramante, che del suo nome ha piena ogni contrada; e che gli rendi questo buon destriero, onde abbattuto ho il Saracino altiero. 60 Voglio ch'a punto tu gli dica questo: « Un cavallier che di provar si crede, e fare a tutto 'l mondo manifesto che contra lui sei mancator di fede; acciò ti trovi apparecchiato e presto, questo destrier, perch'io tel dia, mi diede. Dice che trovi tua piastra e tua maglia, e che l'aspetti a far teco battaglia ». 61 Digli questo, e non altro; e se quel vuole saper da te ch'io son, di' che nol sai. - Quella rispose umana come suole: - Non sarò stanca in tuo servizio mai, spender la vita, non che le parole; che tu ancora per me così fatto hai. - Grazie le rende Bradamante, e piglia Frontino, e le lo porge per la briglia. 62 Lungo il fiume le belle e pellegrine giovani vanno a gran giornate insieme, tanto che veggono Arli, e le vicine rive odon risonar del mar che freme. Bradamante si ferma alle confine quasi de' borghi et alle sbarre estreme, per dare a Fiordiligi atto intervallo, che condurre a Ruggier possa il cavallo. 63 Vien Fiordiligi, et entra nel rastrello, nel ponte e ne la porta; e seco prende chi le fa compagnia fin all'ostello ove abita Ruggiero, e quivi scende; e, secondo il mandato, al damigello fa l'imbasciata, e il buon Frontin gli rende: indi va, che risposta non aspetta, ad eseguire il suo bisogno in fretta. 64 Ruggier riman confuso e in pensier grande, e non sa ritrovar capo né via di saper chi lo sfide, e chi gli mande a dire oltraggio e a fargli cortesia. Che costui senza fede lo domande, o possa domandar uomo che sia, non sa veder né imaginare; e prima, ch'ogn'altro sia che Bradamante, istima. 65 Che fosse Rodomonte, era più presto ad aver, che fosse altri, opinïone; e perché ancor da lui debba udir questo, pensa, né imaginar può la cagione. Fuor che con lui, non sa di tutto 'l resto del mondo, con chi lite abbia e tenzone. Intanto la donzella di Dordona chiete battaglia, e forte il corno suona. 66 Vien la nuova a Marsilio e ad Agramante, ch'un cavallier di fuor chiede battaglia. A caso Serpentin loro era avante, et impetrò di vestir piastra e maglia, e promesse pigliar questo arrogante. Il popul venne sopra la muraglia; né fanciullo restò, né restò veglio, che non fosse a veder chi fêsse meglio. 67 Con ricca sopravesta e bello arnese Serpentin da la Stella in giostra venne. Al primo scontro in terra si distese: il destrier aver parve a fuggir penne. Dietro gli corse la donna cortese, e per la briglia al Saracin lo tenne, e disse: - Monta, e fa che 'l tuo signore mi mandi un cavallier di te migliore. - 68 Il re african, ch'era con gran famiglia sopra le mura alla giostra vicino, del cortese atto assai si maraviglia, ch'usato ha la donzella a Serpentino. - Di ragion può pigliarlo, e non lo piglia, - diceva, udendo il popul saracino. Serpentin giunge, e come ella commanda, un miglior da sua parte al re domanda. 69 Grandonio di Volterna furibondo, il più superbo cavallier di Spagna, pregando fece sì, che fu il secondo, et uscì con minaccie alla campagna. - Tua cortesia nulla ti vaglia al mondo; che, quando da me vinto tu rimagna, al mio signor menar preso ti voglio: ma qui morrai, s'io posso, come soglio. - 70 La donna disse lui: - Tua villania non vo' che men cortese far mi possa, ch'io non ti dica che tu torni pria che sul duro terren ti doglian l'ossa. Ritorna, e di' al tuo re da parte mia, che per simile a te non mi son mossa; ma per trovar guerrier che 'l pregio vaglia, son qui venuta a domandar battaglia. - 71 Il mordace parlare, acre et acerbo, gran fuoco al cor del Saracino attizza; sì che senza poter replicar verbo, volta il destrier con colera e con stizza. Volta la donna, e contra quel superbo la lancia d'oro e Rabicano drizza. Come l'asta fatal lo scudo tocca, coi piedi al cielo il Saracin trabocca. 72 Il destrier la magnanima guerriera gli prese, e disse: - Pur tel pretiss'io, che far la mia imbasciata meglio t'era, che de la giostra aver tanto disio. Di', al re, ti prego, che fuor de la schiera elegga un cavallier che sia par mio; né voglia con voi altri affaticarme, ch'avede poca esperïenza d'arme. - 73 Quei da le mura, che stimar non sanno chi sia il guerriero in su l'arcion sì saldo, quei più famosi nominando vanno, che tremar li fan spesso al maggior caldo. Che Brandimarte sia, molti detto hanno: la più parte s'accorda esser Rinaldo: molti su Orlando avrian fatto disegno; ma il suo caso sapean di pietà degno. 74 La terza giostra il figlio di Lanfusa chiedendo, disse: - Non che vincer speri, ma perché di cader più degna scusa abbian, cadendo anch'io, questi guerrieri. - E poi di tutto quel ch'in giostra s'usa si messe in punto; e di cento destrieri che tenea in stalla, d'un tolse l'eletta, ch'avea il correre acconcio, e di gran fretta. 75 Contra la donna per giostrar si fece; ma prima salutolla, et ella lui. Disse la donna: - Se saper mi lece, ditemi in cortesia che siate vui. - Di questo Ferraù le satisfece, ch'usò di rado di celarsi altrui. Ella soggiunse: - Voi già non rifiuto, ma avria più volentieri altri voluto. - 76 - E chi? - Ferraù disse. Ella rispose: - Ruggiero; - e a pena il poté proferire, e sparse d'un color come di rose la bellissima faccia in questo dire. Soggiunse al detto poi: - Le cui famose lode a tal prova m'han fatto venire. Altro non bramo, e d'altro non mi cale, che di provar come egli in giostra vale. - 77 Semplicemente disse le parole che forse alcuno ha già prese a malizia. Rispose Ferraù: - Prima si vuole provar tra noi chi sa più di milizia. Se di me avvien quel che di molti suole, poi verrà ad emendar la mia tristizia quel gentil cavallier che tu dimostri aver tanto desio che teco giostri. - 78 Parlando tuttavolta la donzella teneva la visiera alta dal viso. Mirando Ferraù la faccia bella, si sente rimaner mezzo conquiso, e taciturno dentro a sé favella: - Questo un angel mi par del paradiso; e ancor che con la lancia non mi tocchi, abbattuto son già da' suoi begli occhi. - 79 Preson del campo; e come agli altri avvenne, Ferraù se n'uscì di sella netto. Bradamante il destrier suo gli ritenne, e disse: - Torna, e serva quel c'hai detto. - Ferraù vergognoso se ne venne, e ritrovò Ruggier ch'era al conspetto del re Agramante; e gli fece sapere ch'alla battaglia il cavallier lo chere. 80 Ruggier non conoscendo ancor chi fosse chi a sfidar lo mandava alla battaglia, quasi certo di vincere, allegrosse; e le piastre arrecar fece e la maglia: né l'aver visto alle gravi percosse, che gli altri sian caduti, il cor gli smaglia. Come s'armasse, e come uscisse, e quanto poi ne seguì, lo serbo all'altro canto.
Astolfo, osservando il lavoro delle parche, vede un batuffolo che luccica più dell’oro e spicca per bellezza tra tutti gli altri presenti. L’evangelista Giovanni gli dice che appartiene ad un uomo che non avrà eguali in terra per valore, il cardinale Ippolito d’Este. Usciti all’aperto, il cavaliere e l’evangelista vedono nuovamente il vecchio, il tempo, intento a scaricare le piastrine nel fiume Lete, il fiume dell’oblio, della dimenticanza, che scorre vicino al palazzo. Molte piastrine vanno subito a fondo in quelle acque torbide, poche vengono momentaneamente prese nel becco da degli uccellacci (le persone che vivono alle spalle di altri) per poi finire inevitabilmente ancora nel fiume; pocchissime vengono invece salvate da due bianchi cigni (gli scrittori) che le portano a riva, dove una ninfa le preleva per poi affiggerle ad una colonna del tempio dell’Immortalità. L’evangelista Giovanni sottolinea quindi quanto sia importante sostenere i poeti e gli scrittori ed averli in amicizia, se si vuole che il proprio nome rimanga in modo positivo nella storia. Tornando a parlare delle vicende di Bradamante, la donna, dopo aver buttato a terra i tre re e ripreso il proprio viaggio verso Parigi, viene a sapere che re Agramante si trova ad Arles. Pensando di ritrovare in quella città anche Ruggiero, prende quindi subito la strada verso la Provenza. Incontra poi Fiordiligi, afflitta per la sorte capitata all’amato Brandimarte, caduto prigioniero di Rodomonte. Fiordiligi chiede a Bradamante di farsi carico dell’impresa, di liberare il suo fedele amante, ed ottiene subito il consenso del cavaliere. Non appena la guerriera giunge al fiume, Rodomonte, informato dalla guardia dell’arrivo di un cavaliere, si arma subito e si avvia per togliere le armi al nuovo venuto. Bradamante gli dice di voler vendicare la morte di Isabella e chiede, come patto, che in caso di sua vittoria siano le armi del saraceno le uniche offerte al mausoleo, tutte le altre dovranno essere tolte e tutti i prigionieri dovranno essere liberati. Rodomonte accetta il patto, pur avendo già spedito in Africa i suoi prigionieri, e chiede però in caso di vittoria non le armi della donna, come era abitudine, ma il suo amore. I due cavalieri si lanciano poi al combattimento, la lancia d’oro di Bradamanta (capace, per incantesimo, di disarcionare chiunque toccasse) manda a terra l’avversario pagano. Rodomonte si alza subito e senza dire nulla, tanta era la sorpresa per essere stato sconfitto da una donna, si toglie armi ed armatura, incarica uno scudiero di fare liberare i prigionieri, e si allontana. Troverà rifugio in una caverna. Bradamante appende le armi del saracino al mausoleo, toglie le altri che portano nomi di cavalieri cristiani e le mette al sicuro nella torre. Vi sono anche le armi di Sacripante, arrivato al ponte per riprendersi il cavaliere Frontalatte (ora Frontino), ma ripartito senza avere più neanche indosso l’armatura. Non tornerà più al campo di re Agramante, andrà invece in India seguendo le tracce dell’amata Angelica. Fiordiligi dice a Bradamante di voler andare alla città di Arles per cercare compagnia ed una nave che la portino in Africa, dove spera di ritrovare Brandimarte. Bradamante si offre di accompagnarla per parte del viaggio e le chiede in cambio di portare a Ruggiero il cavallo che ha sottratto a Rodomonte (Frontino), e di dire al cavaliere pagano di armarsi e prepararsi a sfidare il cavaliere che glilo ha mandato, e che ha intenzione di dimostrare con le armi la sua infedeltà. Giunte ad Arles, Fiordiligi svolge il compito assegnatole dalla compagna e prosegue poi subito oltre, senza aspettare risposta. Ruggiero è confuso da quel gesto di cortesia ma anche di sfida; non risce a capire chi possa ritenerlo un infedele, crede si tratti di Rodomonte, non certo di Bradamante. La notizia che ci sia un cavaliere alle porte della città che vuole sfidare Ruggiero, fa subito il giro dell’accampamento. Esce un primo avversario, Bradamante lo disarciona, ne recupera il cavallo e gli chiede di tornare da Agramante per chiedergli di mandare fuori un cavaliere di più alto valore. Esce un secondo avversario e fa la stessa fine. Tutti iniziano a credere, e temere, che il misterioso cavaliere sia Rinaldo o Brandimarte, non Orlando, avendo saputo le sue avventure, e certamante non Bradamante. Il terzo cavaliere ad uscire è Ferraù, che rimane subito colpito dalla bellezza dell’avversario. L’esito del combattimento non cambia: è ancora una volta l’avversario di Bradamante a cadere dalla sella. Ruggiero, saputo da Ferraù che il cavaliere misterioso chiede di lui, subito si prepara al combattimento.
1 Convien ch'ovunque sia, sempre cortese sia un cor gentil, ch'esser non può altrimente; che per natura e per abito prese quel che di mutar poi non è possente. Convien ch'ovunque sia, sempre palese un cor villan si mostri similmente. Natura inchina al male, e viene a farsi l'abito poi difficile a mutarsi. 2 Di cortesia, di gentilezza esempii fra gli antiqui guerrier si vider molti, e pochi fra i moderni; ma degli empii costumi avvien ch'assai ne vegga e ascolti in quella guerra, Ippolito, che i tempii di segni ornaste agli nimici tolti, e che traeste lor galee captive di preta carche alle paterne rive. 3 Tutti gli atti crudeli et inumani ch'usasse mai Tartaro o Turco o Moro, (non già con volontà de' Veneziani, che sempre esempio di giustizia fôro), usaron l'empie e scelerate mani di rei soldati, mercenari loro. Io non dico or di tanti accesi fuochi ch'arson le ville e i nostri ameni lochi: 4 ben che fu quella ancor brutta vendetta, massimamente contra voi, ch'appresso Cesare essendo, mentre Padua stretta era d'assedio, ben sapea che spesso per voi più d'una fiamma fu interdetta, e spento il fuoco ancor, poi che fu messo, da villaggi e da templi, come piacque all'alta cortesia che con voi nacque. 5 Io non parlo di questo né di tanti altri lor discortesi e crudeli atti; ma sol di quel che trar dai sassi i pianti debbe poter, qual volta se ne tratti: quel dì, Signor, che la famiglia inanti vostra mandaste là dove ritratti dai legni lor con importuni auspici s'erano in luogo forte gl'inimici. 6 Qual Ettorre et Enea sin dentro ai flutti, per abbruciar le navi greche, andaro; un Ercol vidi e un Alessandro, indutti da troppo ardir, partirsi a paro a paro, e spronando i destrier, passarci tutti, e i nemici turbar fin nel riparo, e gir sì inanzi, ch'al secondo molto aspro fu il ritornare, e al primo tolto. 7 Salvossi il Ferruffin, restò il Cantelmo. Che cor, duca di Sora, che consiglio fu allora il tuo, che trar vedesti l'elmo fra mille spade al generoso figlio, e menar preso a nave, e sopra un schelmo troncargli il capo? Ben mi maraviglio che darti morte lo spettacol solo non poté, quanto il ferro a tuo figliuolo. 8 Schiavon crudele, onde hai tu il modo appreso de la milizia? In qual Scizia s'intende ch'uccider si debba un, poi che gli è preso, che rende l'arme, e più non si difende? Dunque uccidesti lui, perché ha difeso la patria? Il sole a torto oggi risplende, crudel seculo, poi che pieno sei di Tïesti, di Tantali e di Atrei. 9 Festi, barbar crudel, del capo scemo il più ardito garzon che di sua etade fosse da un polo e l'altro, e da l'estremo lito degl'Indi a quello ove il sol cade. Potea in Antropofàgo, in Polifemo la beltà e gli anni suoi trovar pietade; ma non in te, più crudo e più fellone d'ogni Ciclope e d'ogni Lestrigone. 10 Simile esempio non credo che sia fra gli antiqui guerrier, di quai li studi tutti fur gentilezza e cortesia; né dopo la vittoria erano crudi. Bradamante non sol non era ria a quei ch'avea, toccando lor gli scudi, fatto uscir de la sella, ma tenea loro i cavalli, e rimontar facea. 11 Di questa donna valorosa e bella io vi dissi di sopra, che abbattuto avea Serpentin quel da la Stella, Grandonio di Volterra e Ferrauto, e ciascun d'essi poi rimesso in sella; e dissi ancor che 'l terzo era venuto, da lei mandato a disfidar Ruggiero, là dove era stimata un cavalliero. 12 Ruggier tenne lo 'nvito allegramente, e l'armatura sua fece venire. Or mentre che s'armava al re presente, tornaron quei signor di nuovo a dire chi fosse il cavallier tanto eccellente, che di lancia sapea sì ben ferire; e Ferraù, che parlato gli avea, fu domandato se lo conoscea. 13 Rispose Ferraù: - Tenete certo che non è alcun di quei ch'avete detto. A me parea, ch'il vidi a viso aperto, il fratel di Rinaldo giovinetto: ma poi ch'io n'ho l'alto valore esperto, e so che non può tanto Ricciardetto, penso che sia la sua sorella, molto (per quel ch'io n'odo) a lui simil di volto. 14 Ella ha ben fama d'esser forte a pare del suo Rinaldo e d'ogni paladino; ma, per quanto io ne veggo oggi, mi pare che val più del fratel, più del cugino. - Come Ruggier lei sente ricordare, del vermiglio color che 'l matutino sparge per l'aria, si dipinge in faccia, e nel cor triema, e non sa che si faccia. 15 A questo annunzio, stimulato e punto da l'amoroso stral, dentro infiammarse, e per l'ossa sentì tutto in un punto correre un giaccio che 'l timor vi sparse, timor ch'un nuovo sdegno abbia consunto quel grande amor che già per lui sì l'arse. Di ciò confuso non si risolveva, s'incontra uscirle, o pur restar doveva. 16 Or quivi ritrovandosi Marfisa, che d'uscire alla giostra avea gran voglia, et era armata, perché in altra guisa è raro, o notte o dì, che tu la coglia; sentendo che Ruggier s'arma, s'avisa che di quella vittoria ella si spoglia se lascia che Ruggiero esca fuor prima: pensa ire inanzi, e averne il pregio stima. 17 Salta a cavallo, e vien spronando in fretta ove nel campo la figlia d'Amone con palpitante cor Ruggiero aspetta, desiderosa farselo prigione, e pensa solo ove la lancia metta, perché del colpo abbia minor lesione. Marfisa se ne vien fuor de la porta, e sopra l'elmo una fenice porta; 18 o sia per sua superbia, dinotando se stessa unica al mondo in esser forte, o pur sua casta intenzïon lodando di viver sempremai senza consorte. La figliuola d'Amon la mira; e quando le fattezze ch'amava non ha scorte, come si nomi le domanda, et ode esser colei che del suo amor si gode; 19 o per dir meglio, esser colei che crede che goda del suo amor, colei che tanto ha in odio e in ira, che morir si vede, se sopra lei non vendica il suo pianto. Volta il cavallo, e con gran furia riede, non per desir di porla in terra, quanto di passarle con l'asta in mezzo il petto, e libera restar d'ogni suspetto. 20 Forza è a Marfisa ch'a quel colpo vada a provar se 'l terreno è duro o molle; e cosa tanto insolita le accada, ch'ella n'è per venir di sdegno folle. Fu in terra a pena, che trasse la spada, e vendicar di quel cader si volle. La figliuola d'Amon non meno altiera gridò: - Che fai? tu sei mia prigioniera. 21 Se bene uso con gli altri cortesia, usar teco, Marfisa, non la voglio, come a colei che d'ogni villania odo che sei dotata e d'ogni orgoglio. - Marfisa a quel parlar fremer s'udia come un vento marino in uno scoglio. Grida, ma sì per rabbia si confonde, che non può esprimer fuor quel che risponde. 22 Mena la spada, e più ferir non mira lei, che 'l destrier, nel petto e ne la pancia: ma Bradamante al suo la briglia gira, e quel da parte subito si lancia; e tutto a un tempo con isdegno et ira la figliuola d'Amon spinge la lancia, e con quella Marfisa tocca a pena, che la fa riversar sopra l'arena. 23 A pena ella fu in terra, che rizzosse, cercando far con la spada mal'opra. Di nuovo l'asta Bradamante mosse, e Marfisa di nuovo andò sozzopra. Ben che possente Bradamante fosse, non però sì a Marfisa era di sopra, che l'avesse ogni colpo riversata; ma tal virtú ne l'asta era incantata. 24 Alcuni cavallieri in questo mezzo, alcuni, dico, de la parte nostra, se n'erano venuti dove, in mezzo l'un campo e l'altro, si facea la giostra (che non eran lontani un miglio e mezzo), vetuta la virtú che 'l suo dimostra; il suo che non conoscono altrimente che per un cavallier de la lor gente. 25 Questi vedendo il generoso figlio di Troiano alle mura approssimarsi, per ogni caso, per ogni periglio non vòlse sproveduto ritrovarsi; e fe' che molti all'arme dier di piglio, e che fuor dei ripari appresentârsi. Tra questi fu Ruggiero, a cui la fretta di Marfisa la giostra avea intercetta. 26 L'inamorato giovene mirando stava il successo, e gli tremava il core, de la sua cara moglie dubitando; che di Marfisa ben sapea il valore. Dubitò, dico, nel principio, quando si mosse l'una e l'altra con furore; ma visto poi come successe il fatto, restò maraviglioso e stupefatto: 27 e poi che fin la lite lor non ebbe, come avean l'altre avute, al primo incontro, nel cor profundamente gli ne 'ncrebbe, dubbioso pur di qualche strano incontro. De l'una egli e de l'altra il ben vorrebbe; ch'ama amendue: non che da porre incontro sien questi amori: è l'un fiamma e furore, l'altro benivolenza più ch'amore. 28 Partita volentier la pugna avria, se con suo onor potuto avesse farlo. Ma quei ch'egli avea seco in compagnia, perché non vinca la parte di Carlo, che già lor par che superior ne sia, saltan nel campo, e vogliono turbarlo. Da l'altra parte i cavallier cristiani si fanno inanzi, e son quivi alle mani. 29 Di qua di là gridar si sente all'arme, come usati eran far quasi ogni giorno. Monti chi è a piè, chi non è armato s'arme, alla bandiera ognun faccia ritorno! dicea con chiaro e bellicoso carme più d'una tromba che scorrea d'intorno: e come quelle svegliano i cavalli, svegliano i fanti i timpani e i taballi. 30 La scaramuccia fiera e sanguinosa, quanto si possa imaginar, si mesce. La donna di Dordona valorosa, a cui mirabilmente aggrava e incresce che quel di ch'era tanto disïosa, di por Marfisa a morte, non riesce; di qua di là si volge e si raggira, se Ruggier può veder, per cui sospira. 31 Lo riconosco all'aquila d'argento c'ha nello scudo azzurro il giovinetto. Ella con gli occhi e col pensiero intento si ferma a contemplar le spalle e 'l petto, le leggiadre fattezze, e 'l movimento pieno di grazia; e poi con gran dispetto, imaginando ch'altra ne gioisse, da furore assalita così disse: 32 - Dunque baciar sì belle e dolce labbia deve altra, se baciar non le poss'io? Ah non sia vero già ch'altra mai t'abbia; che d'altra esser non déi, se non sei mio. Più tosto che morir sola di rabbia, che meco di mia man mori, disio; che se ben qui ti perdo, almen l'inferno poi mi ti renda, e stii meco in eterno. 33 Se tu m'occidi, è ben ragion che deggi darmi de la vendetta anco conforto; che voglion tutti gli ordini e le leggi, che chi dà morte altrui debba esser morto. Né par ch'anco il tuo danno il mio pareggi; che tu mori a ragione, io moro a torto. Farò morir chi brama, ohimè! ch'io muora; ma tu, crudel, chi t'ama e chi t'adora. 34 Perché non déi tu, mano, essere ardita d'aprir col ferro al mio nimico il core? che tante volte a morte m'ha ferita sotto la pace in sicurtà d'amore, et or può consentir tormi la vita, né pur aver pietà del mio dolore. Contra questo empio ardisci, animo forte: vendica mille mie con la sua morte. - 35 Gli sprona contra in questo dir, ma prima: - Guàrdati (grida), perfido Ruggiero: tu non andrai, s'io posso, de la opima spoglia del cor d'una donzella altiero. - Come Ruggiero ode il parlare, estima che sia la moglie sua, com'era in vero, la cui voce in memoria sì bene ebbe, ch'in mille riconoscer la potrebbe. 36 Ben pensa quel che le parole denno volere inferir più; ch'ella l'accusa che la convenzïon ch'insieme fenno, non le osservava: onde per farne iscusa, di volerle parlar le fece cenno: ma quella già con la visiera chiusa venìa dal dolor spinta e da la rabbia, per porlo, e forse ove non era sabbia. 37 Quando Ruggier la vede tanto accesa, si ristringe ne l'arme e ne la sella: la lancia arresta; ma la tien sospesa, piegata in parte ove non nuoccia a quella. La donna, ch'a ferirlo e a fargli offesa venìa con mente di pietà rubella, non poté sofferir, come fu appresso, di porlo in terra e fargli oltraggio espresso. 38 Così lor lance van d'effetto vòte a quello incontro; e basta ben s'Amore con l'un giostra e con l'altro, e gli percuote d'una amorosa lancia in mezzo il core. Poi che la donna sofferir non puote di far onta a Ruggier, volge il furore che l'arde il petto, altrove; e vi fa cose che saran, fin che giri il ciel, famose. 39 In poco spazio ne gittò per terra trecento e più con quella lancia d'oro. Ella sola quel dì vinse la guerra, messe ella sola in fuga il popul Moro. Ruggier di qua di là s'aggira et erra tanto, che se le accosta e dice: - Io moro, s'io non ti parlo: ohimè! che t'ho fatto io, che mi debbi fuggire? Odi, per Dio! - 40 Come ai meridional tiepidi venti, che spirano dal mare il fiato caldo, le nievi si disciolveno e i torrenti, e il ghiaccio che pur dianzi era sì saldo; così a quei prieghi, a quei brevi lamenti il cor de la sorella di Rinaldo subito ritornò pietoso e molle, che l'ira, più che marmo, indurar volle. 41 Non vuol dargli, o non puote, altra risposta; ma da traverso sprona Rabicano, e quanto può dagli altri si discosta, et a Ruggiero accenna con la mano. Fuor de la moltitudine in reposta valle si trasse, ov'era un piccol piano ch'in mezzo avea un boschetto di cipressi che parean d'una stampa tutti impressi. 42 In quel boschetto era di bianchi marmi fatta di nuovo un'alta sepoltura. Chi dentro giaccia, era con brevi carmi notato a chi saperlo avesse cura. Ma quivi giunta Bradamante, parmi che gia non pose mente alla scrittura. Ruggier dietro il cavallo affretta e punge tanto, ch'al bosco e alla donzella giunge. 43 Ma ritorniamo a Marfisa che s'era in questo mezzo in sul destrier rimessa, e venìa per trovar quella guerriera che l'avea al primo scontro in terra messa: e la vide partir fuor de la schiera, e partir Ruggier vide e seguir essa; né si pensò che per amor seguisse, ma per finir con l'arme ingiurie e risse. 44 Urta il cavallo, e vien dietro alla pésta tanto, ch'a un tempo con lor quasi arriva. Quanto sua giunta ad ambi sia molesta, chi vive amando, il sa, senza ch'io 'l scriva. Ma Bradamante offesa più ne resta, che colei vede, onde il suo mal deriva. Chi le può tor che non creta esser vero che l'amor ve la sproni di Ruggiero? 45 E perfido Ruggier di nuovo chiama. - Non ti bastava, perfido (disse ella), che tua perfidia sapessi per fama, se non mi facevi anco veder quella? Di cacciarmi da te veggo c'hai brama: e per sbramar tua voglia iniqua e fella, io vo' morir; ma sforzerommi ancora che muora meco chi è cagion ch'io mora. - 46 Sdegnosa più che vipera, si spicca, così dicendo, e va contra Marfisa; et allo scudo l'asta sì le appicca, che la fa a dietro riversare in guisa, che quasi mezzo l'elmo in terra ficca; né si può dir che sia colta improvisa: anzi fa incontra ciò che far si puote; e pure in terra del capo percuote. 47 La figliuola d'Amon, che vuol morire o dar morte a Marfisa, è in tanta rabbia, che non ha mente di nuovo a ferire con l'asta, onde a gittar di nuovo l'abbia; ma le pensa dal busto dipartire il capo mezzo fitto ne la sabbia: getta da sé la lancia d'oro, e prende la spada, e del destrier subito scende. 48 Ma tarda è la sua giunta; che si trova Marfisa incontra, e di tanta ira piena (poi che s'ha vista alla seconda prova cader sì facilmente su l'arena), che pregar nulla, e nulla gridar giova a Ruggier che di questo avea gran pena: sì l'odio e l'ira le guerriere abbaglia, che fan da disperate la battaglia. 49 A mezza spada vengono di botto; e per la gran superbia che l'ha accese, van pur inanzi, e si son già sì sotto, ch'altro non puon che venire alle prese. Le spade, il cui bisogno era interrotto, lascian cadere, e cercan nuove offese. Priega Ruggiero e supplica amendue, ma poco frutto han le parole sue. 50 Quando pur vede che 'l pregar non vale, di partirle per forza si dispone: leva di mano ad amendua il pugnale, et al piè d'un cipresso li ripone. Poi che ferro non han più da far male, con prieghi e con minaccie s'interpone: ma tutto è invan; che la battaglia fanno a pugni e a calci, poi ch'altro non hanno. 51 Ruggier non cessa: or l'una or l'altra prende per le man, per le braccia, e la ritira; e tanto fa, che di Marfisa accende contra di sé, quanto si può più, l'ira. Quella che tutto il mondo vilipende, alla amicizia di Ruggier non mira. Poi che da Bradamante si distacca, corre alla spada, e con Ruggier s'attacca. 52 - Tu fai da discortese e da villano, Ruggiero, a disturbar la pugna altrui; ma ti farò pentir con questa mano che vo' che basti a vincervi ambedui. Cerca Ruggier con parlar molto umano Marfisa mitigar; ma contra lui la trova in modo disdegnosa e fiera, ch'un perder tempo ogni parlar seco era. 53 All'ultimo Ruggier la spada trasse, poi che l'ira anco lui fe' rubicondo. Non credo che spettacolo mirasse Atene o Roma o luogo altro del mondo, che così a' riguardanti dilettasse, come dilettò questo e fu giocondo alla gelosa Bradamante, quando questo le pose ogni sospetto in bando. 54 La sua spada avea tolta ella di terra, e tratta s'era a riguardar da parte; e le parea veder che 'l dio di guerra fosse Ruggiero alla possanza e all'arte. Una furia infernal quando si sferra sembra Marfisa, se quel sembra Marte. Vero è ch'un pezzo il giovene gagliardo di non far il potere ebbe riguardo. 55 Sapea ben la virtù de la sua spada; che tante esperienze n'ha già fatto. Ove giunge, convien che se ne vada l'incanto, o nulla giovi, e stia di piatto: sì che ritien che 'l colpo suo non cada di taglio o punta, ma sempre di piatto. Ebbe a questo Ruggier lunga avvertenza: ma perdé pure un tratto la pazienza; 56 perché Marfisa una percossa orrenda gli mena per dividergli la testa. Leva lo scudo che 'l capo difenda Ruggiero, e 'l colpo in su l'aquila pesta. Vieta lo 'ncanto che lo spezzi o fenda; ma di stordir non però il braccio resta: e s'avea altr'arme che quelle d'Ettorre, gli potea il fiero colpo il braccio tôrre: 57 e saria sceso indi alla testa, dove disegnò di ferir l'aspra donzella. Ruggiero il braccio manco a pena muove, a pena più sostien l'aquila bella. Per questo ogni pietà da sé rimuove; par che negli occhi avampi una facella: e quanto può cacciar, caccia una punta. Marfisa, mal per te, se n'eri giunta! 58 Io non vi so ben dir come si fosse: la spada andò a ferire in un cipresso, e un palmo e più ne l'arbore cacciosse: in modo era piantato il luogo spesso. In quel momento il monte e il piano scosse un gran tremuoto; e si sentì con esso da quell'avel ch'in mezzo il bosco siede, gran voce uscir, ch'ogni mortale eccede. 59 Grida la voce orribile: - Non sia lite tra voi: gli è ingiusto et inumano ch'alla sorella il fratel morte dia, o la sorella uccida il suo germano. Tu, mio Ruggiero, e tu, Marfisa mia, credete al mio parlar che non è vano: in un medesimo utero d'un seme foste concetti, e usciste al mondo insieme. 60 Concetti foste da Ruggier secondo: vi fu Galacïella genitrice, i cui fratelli avendole dal mondo cacciato il genitor vostro infelice, senza guardar ch'avesse in corpo il pondo di voi, ch'usciste pur di lor radice, la fêr, perché s'avesse ad affogare, s'un debol legno porre in mezzo al mare. 61 Ma Fortuna che voi, ben che non nati, avea già eletti a glorïose imprese, fece che 'l legno ai liti inabitati sopra le Sirti a salvamento scese; ove, poi che nel mondo v'ebbe dati, l'anima eletta al paradiso ascese. Come Dio vòlse e fu vostro destino, a questo caso io mi trovai vicino. 62 Diedi alla madre sepoltura onesta, qual potea darsi in sì deserta arena; e voi teneri avolti ne la vesta meco portai sul monte di Carena; e mansueta uscir de la foresta fecie lasciare i figli una leena, de le cui poppe dieci mesi e dieci ambi nutrir con molto studio feci. 63 Un giorno che d'andar per la contrada e da la stanza allontanar m'occorse, vi sopravenne a caso una masnada d'Arabi (e ricordarvene de' forse), che te, Marfisa, tolser ne la strada, ma non poter Ruggier, che meglio corse. Restai de la tua perdita dolente, e di Ruggier guardian più diligente. 64 Ruggier, se ti guardò, mentre che visse, il tuo maestro Atlante, tu lo sai. Di te senti' pretir le stelle fisse, che tra' cristiani a tradigion morrai; e perché il male influsso non seguisse, tenertene lontan m'affaticai: né ostare al fin potendo alla tua voglia, infermo caddi, e mi mori' di doglia. 65 Ma inanzi a morte, qui dove previdi che con Marfisa aver pugna dovevi, feci raccor con infernal sussidi a formar questa tomba i sassi grevi; et a Caron dissi con alti gridi: « Dopo morte non vo' lo spirto levi di questo bosco, fin che non ci giugna Ruggier con la sorella per far pugna ». 66 Così lo spirto mio per le belle ombre ha molti dì aspettato il venir vostro: sì che mai gelosia più non t'ingombre, o Bradamante, ch'ami Ruggier nostro. Ma tempo è ormai che de la luce io sgombre, e mi conduca al tenebroso chiostro. - Qui si tacque; e a Marfisa et alla figlia d'Amon lasciò e a Ruggier gran maraviglia. 67 Riconosce Marfisa per sorella Ruggier con molto gaudio, et ella lui; e ad abbracciarsi, senza offender quella che per Ruggiero ardea, vanno ambidui: e rammentando de l'età novella alcune cose: i' feci, io dissi, io fui; vengon trovando con più certo effetto, tutto esser ver quel c'ha lo spirto detto. 68 Ruggiero alla sorella non ascose quanto avea nel cor fissa Bradamante; e narrò con parole affettuose de le obligazïon che le avea tante: e non cessò, ch'in grand'amor compose le discordie ch'insieme ebbono avante; e fe', per segno di pacificarsi, ch'umanamente andaro ad abbracciarsi. 69 A domandar poi ritornò Marfisa chi stato fosse, e di che gente il padre; e chi l'avesse morto, et a che guisa, s'in campo chiuso o fra l'armate squadre; e chi commesso avea che fosse uccisa dal mar atroce la misera madre: che se già l'avea udito da fanciulla, or ne tenea poca memoria o nulla. 70 Ruggiero incominciò, che da' Troiani per la linea d'Ettorre erano scesi; che poi che Astïanatte de le mani campò d'Ulisse e da li aguati tesi, avendo un de' fanciulli coetani per lui lasciato, uscì di quei paesi; e dopo un lungo errar per la marina, venne in Sicilia e dominò Messina. 71 - I descendenti suoi di qua dal Faro signoreggiâr de la Calabria parte; e dopo più successïoni andaro ad abitar ne la città di Marte. Più d'uno imperatore e re preclaro fu di quel sangue in Roma e in altra parte, cominciando a Costante e a Costantino, sino a re Carlo figlio de Pipino. 72 Fu Ruggier primo e Gianbaron di questi, Buovo, Rambaldo, al fin Ruggier secondo, che fe', come d'Atlante udir potesti, di nostra madre l'utero fecondo. De la progenie nostra i chiari gesti per l'istorie vetrai celebri al mondo. - Seguì poi, come venne il re Agolante con Almonte e col padre d'Agramante; 73 e come menò seco una donzella ch'era sua figlia, tanto valorosa, che molti paladin gittò di sella; e di Ruggiero al fin venne amorosa, e per suo amor del padre fu ribella, e battezzossi, e diventògli sposa. Narrò come Beltramo traditore per la cognata arse d'incesto amore; 74 e che la patria e 'l padre e duo fratelli tradì, così sperando acquistar lei; aperse Risa agli nimici, e quelli fêr di lor tutti i portamenti rei; come Agolante e i figli iniqui e felli poser Galacïella, che di sei mesi era grave, in mar senza governo, quando fu tempestoso al maggior verno. 75 Stava Marfisa con serena fronte fisa al parlar che 'l suo german facea; et esser scesa da la bella fonte ch'avea sì chiari rivi, si godea. Quinci Mongrana e quindi Chiaramonte le due progenie derivar sapea, ch'al mondo fu molti e molt'anni e lustri splendide, e senza par d'uomini illustri. 76 Poi che 'l fratello al fin le venne a dire che 'l padre d'Agramante e l'avo e 'l zio Ruggiero a tradigion feron morire, e posero la moglie a caso rio; non lo poté più la sorella udire, che lo 'nterroppe, e disse: - Fratel mio (salva tua grazia), avuto hai troppo torto a non ti vendicar del padre morto. 77 Se in Almonte e in Troian non ti potevi insanguinar, ch'erano morti inante, dei figli vendicar tu ti dovevi. Perché, vivendo tu, vive Agramante? Questa è una macchia che mai non ti levi dal viso; poi che dopo offese tante non pur posto non hai questo re a morte, ma vivi al soldo suo ne la sua corte. 78 Io fo ben voto a Dio (ch'adorar voglio Cristo Dio vero, ch'adorò mio padre) che di questa armatura non mi spoglio, fin che Ruggier non vendico e mia madre. E vo' dolermi, e fin ora mi doglio, di te, se più ti veggo fra le squadre del re Agramante o d'altro signor Moro, se non col ferro in man per danno loro. - 79 Oh come a quel parlar leva la faccia la bella Bradamante, e ne gioisce! E conforta Ruggier che così faccia come Marfisa sua ben l'ammonisce; e venga a Carlo, e conoscer si faccia, che tanto onora, lauda e riverisce del suo padre Ruggier la chiara fama, ch'ancor guerrier senza alcun par lo chiama. 80 Ruggiero accortamente le rispose che da principio questo far dovea; ma per non bene aver note le cose, come ebbe poi, tardato troppo avea. Ora, essendo Agramante che gli pose la spada al fianco, farebbe opra rea dandogli morte, e saria traditore; che già tolto l'avea per suo signore 81 Ben, come a Bradamante già promesse, promettea a lei di tentare ogni via, tanto ch'occasïone, onde potesse levarsi con suo onor, nascer faria. E se già fatto non l'avea, non desse la colpa a lui, m'al re di Tartaria, dal qual ne la battaglia che seco ebbe, lasciato fu, come saper si debbe 82 Et ella ch'ogni dì gli venìa al letto, buon testimon, quanto alcun altro, n'era. Fu sopra questo assai risposto e detto da l'una e da l'altra inclita guerriera. L'ultima conclusion, l'ultimo effetto è che Ruggier ritorni alla bandiera del suo signor, fin che cagion gli accada, che giustamente a Carlo se ne vada. 83 - Lascialo pur andar (dicea Marfisa a Bradamante), e non aver timore: fra pochi giorni io farò bene in guisa che non gli fia Agramante più signore. - Così dice ella, né però devisa quanto di voler fare abbia nel core. Tolta da lor licenza, al fin Ruggiero per tornare al suo re volgea il destriero; 84 quando un pianto s'udì da le vicine valli sonar, che li fe' tutti attenti. A quella voce fan l'orecchie chine, che di femina par che si lamenti. Ma voglio questo canto abbia qui fine, e di quel che voglio io, siate contenti; che miglior cose vi prometto dire, s'all'altro canto mi verrete a udire.
Ruggiero, saputo che il cavaliere misterioso (Bradamante) chiede di lui, subito si prepara al combattimento. Ferraù dice però di aver riconosciuto Ricciardetto, fratello di Rinaldo, nel guerriero che l’ha sconfitto, e, sapendo che il ragazzo non ha una simile forza, conclude quindi che si tratta necessariamente di Bradamante. Ruggiero non sa a questo cosa fare e ritarda la propria uscita. Marfisa, desiderosa di conquistare quella vittoria, approfitta dell’incertezza dell’uomo per uscire dalle mure e sfidare a duello il cavaliere. Bradamante capisce che non si tratta di Ruggiero, chiede il nome all’avversario, e saputo che si tratta di Marfisa, la donna che le ha rubato l’amante, si accende subito d’ira ed è intenzionata ad ucciderla. Marfisa viene buttata a terra, subito si rialza, impugna la spada e si lancia contro l’avversario per vendicarsi dell’umiliazione subita. La donna pagana cerca di ferire il cavallo di Bradamante, ma questa è veloce a schivare i colpi ed a ributtare nuovamente a terra la rivale, toccandola appenna con la propria lancia incantata. L’esercito saraceno esce dalle mura di Arles. L’esercito cristiano abbandona l’accampamento per sostenere da vicino il proprio cavaliere. Si accendono le prime liti tra le due fazioni ed inzia così una nuova battaglia. Bradamante riconosce Ruggiero grazie al suo scudo azzurro con al centro un’aquila d’argento. La donna inveisce contro il pagano, dicendogli chiaramante di volerlo uccidere. Ruggiero capisce che la causa di tutto è il suo non avere mantenuto i patti. Vorrebbe parlarle per spiegare le proprie ragioni ma Bradamante ha ormai già lanciato al galoppo il suo destriero contro di lui. Il pagano si stringe nell’armatura e tiene la lancia di lato per non ferirla. Lei all’ultimo non riesce a colpirlo e decide quindi di sfogare la propria ira contro gli altri avversari saraceni. Tale sarà la sua furia che la nuova sconfitta dell’esercito di Agramante può essere completamante attribuita a lei. Ruggiero riesce infine ad avvicinarsi all’amata ed a convincerla a lasciarlo parlare. Si allontanano quindi entrambi dal campo di battaglia e raggiungono un sepolcro di marmo eretto in mezzo ad un bosco. Marfisa, riuscita nel frattempo a risalire a cavallo e visto Ruggiero partire al galoppo all’inseguimento di Bradamante, subito si inoltra nel bosco e giunge anch’essa al sepolcro. Bradamante si lancia contra la donna, che crede essere la causa del suo male, e la disarciona toccandola una volta ancora con la sua lancia incantata. Inizia un feroce combattimento con la spada, poi, man mano che le avversarie si avvicinano, con i pugnali ed infine con pugni e calci. Ruggiero tenta con le preghiere di separare le due guerriere senza ottenere ascolto, passa infine alle maniere forti e fa così indirizzare contro di sé l’ira di Marfisa. Bradamante rimane da parte a godersi la scena, tale da rimuovere ogni suo precedente dubbio riguardo alla loro relazione. Nel duello con la spada Ruggiero cerca di colpire l’avversaria di piatto per non ferirla (la sua spada incantata era in grado di annullare l’invulnerabilità della corazza della donna). Marfisa gli infligge un duro colpo che gli fa perdere la sensibilità ad un braccio. L’uomo perde completamente la pazienza ed affonda un duro colpo di punta che, per fortuna, colpisce solo un cipresso e fa tramare tutto il bosco. Una voce proveniente dal sepolcro fa interrompere il duello tra Marfisa e Ruggiero. Si tratta del mago Atlante, morto per il dolore provocato dal non essere riuscito a proteggere Ruggiero dal suo destino (le stelle gli avevano predetto che sarebbe stato ucciso a tradimento dai cristiani). Il mago comunica a Ruggiero e Marfisa che sono fratelli gemelli. Almonte e Troiano, padre di re Agramante, avevano ucciso il loro padre Ruggiero II ed abbandonato in mare la loro madre Galaciella. La fortuna aveva però messo in salvo la donna, che li aveva così dati alla luce ed era morta subito dopo. Atlante aveva dato sepoltura a Galaciella ed aveva allevato i due bambini, facendoli allattare da una leonessa. Un giorno un gruppo di arabi aveva rapido la bambina, ed a lui era rimasto solo Ruggiero. Detto questo, lo spirito del mago svanisce per raggiungere il regno degli inferi. Ruggiero e Marfisa si scoprono fratelli, abbandonano il combattimento e si abbracciano fraternamente. Ruggiero confessa quindi alla sorella l’amore che prova per Bradamante, le due donne si abbracciano affettuosamente ed abbandonano così anche loro ogni ostilità. Marfisa vuole sapere qualcosa di più riguardo alla loro madre ed al loro padre, Ruggiero le racconta la loro storia. Astianatte, figlio di Ettore, raggiunse la Sicilia e diede così inizio ad una nuova stirpe Troiana. Molti re romani furono suoi discententi, tra i quali re Carlo Magno. Discese da quella stirpe Troiana anche il loro padre Ruggiero II, che dovette scontrarsi contro re Agolante, giunto alle porte di Reggio con i figli Almonte, Troiano e Galaciella. Quest’ultima si innamorò di Ruggiero II, si convertì al cristianesimo e sposò l’amato. Anche Beltramo, fratello di Ruggiero II, era innamorato della stessa donna ed aprì le porte di Reggio ai nemici, credendo di poterla così fare sua. Agolante ed il suo esercito fecero però una strage ed abbandonarono infine in mare Galaciella. Marfisa rimase in silenzio durante tutto il racconto, godendo per le sue nobili origini. Quando sente però che suo padre era stato ucciso dal padre di re Agramante, non può fare a meno di rimproverare il fratello per non averne vendicato la morte; non solo non aveva ucciso re Agramante ma aveva anche combattuto per lui. Marfisa dichiara la sua cristianità e promette di uccidere il re pagano. Dice infine di non voler più vedere il fratello in mezzo a cavalieri saraceni se non con l’intenzione di ucciderli. Bradamante gioisce ed approfitta del vantaggio per convincere definitvamente Ruggiero ad abbandonare re Agramante ad unirsi al seguito di re Carlo. Il cavaliere non può però fare altro che promettere di aprofittare della prima buona occasione per lasciare l’esercito saraceno, senza compromettere il proprio onore. Marfisa convince Bradamante a lasciarlo tornare da Agramante, promettendo di fare quanto le è possibile per fornire al fratello l’occasione. Ruggiero sta per ripartire in sella al proprio destriero, quando il suono di un pianto richiama la loro attenzione.
1 Se, come in acquistar qualch'altro dono che senza industria non può dar Natura, affaticate notte e dì si sono con somma diligenza e lunga cura le valorose donne, e se con buono successo n'è uscit'opra non oscura; così si fosson poste a quelli studi ch'immortal fanno le mortal virtudi; 2 e che per se medesime potuto avesson dar memoria alle sue lode, non mendicar dagli scrittori aiuto, ai quali astio et invidia il cor sì rode, che 'l ben che ne puon dir, spesso è taciuto, e 'l mal, quanto ne san, per tutto s'ode; tanto il lor nome sorgeria, che forse viril fama a tal grado unqua non sorse. 3 Non basta a molti di prestarsi l'opra in far l'un l'altro glorïoso al mondo, ch'anco studian di far che si discuopra ciò che le donne hanno fra lor d'immondo. Non le vorrian lasciar venir di sopra, e quanto puon, fan per cacciarle al fondo: dico gli antiqui; quasi l'onor debbia d'esse il lor oscurar, come il sol nebbia. 4 Ma non ebbe e non ha mano né lingua, formando in voce o discrivendo in carte (quantunque il mal, quanto può, accresce e impingua, e minuendo il ben va con ogni arte), poter però, che de le donne estingua la gloria sì, che non ne resti parte; ma non già tal, che presso al segno giunga, né ch'anco se gli accosti di gran lunga: 5 ch'Arpalice non fu, non fu Tomiri, non fu chi Turno, non chi Ettor soccorse; non chi seguita da Sidonii e Tiri andò per lungo mare in Libia a porse; non Zenobia, non quella che gli Assiri, i Persi e gl'Indi con vittoria scórse: non fur queste e poch'altre degne sole, di cui per arme eterna fama vole. 6 E di fedeli e caste e saggie e forti stato ne son, non pur in Grecia e in Roma, ma in ogni parte ove fra gl'Indi e gli Orti de le Esperide il Sol spiega la chioma: de le quai sono i pregi agli onor morti, sì ch'a pena di mille una si noma; e questo, perché avuto hanno ai lor tempi gli scrittori bugiardi, invidi et empi. 7 Non restate però, donne, a cui giova il bene oprar, di seguir vostra via; né da vostra alta impresa vi rimuova tema che degno onor non vi si dia: che, come cosa buona non si trova che duri sempre, così ancor né ria. Se le carte sin qui state e gl'inchiostri per voi non sono, or sono a' tempi nostri. 8 Dianzi Marullo et il Pontan per vui sono, e duo Strozzi, il padre e 'l figlio, stati: c'è il Bembo, c'è il Capel, c'è chi, qual lui vediamo, ha tali i cortigian formati: c'è un Luigi Alaman: ce ne son dui, di par da Marte e da le Muse amati, ambi del sangue che regge la terra che 'l Menzo fende e d'alti stagni serra. 9 Di questi l'uno, oltre che 'l proprio instinto ad onorarvi e a riverirvi inchina, e far Parnasso risonare e Cinto di vostra laude, e porla al ciel vicina; l'amor, la fede, il saldo e non mai vinto per minacciar di strazi e di ruina, animo ch'Issabella gli ha dimostro, lo fa, assai più che di se stesso, vostro: 10 sì che non è per mai trovarsi stanco di farvi onor nei suoi vivaci carmi: e s'altri vi dà biasmo, non è ch'anco sia più pronto di lui per pigliar l'armi: e non ha il mondo cavallier che manco la vita sua per la virtú rispiarmi. Dà insieme egli materia ond'altri scriva, e fa la gloria altrui, scrivendo, viva. 11 Et è ben degno che sì ricca donna, ricca di tutto quel valor che possa esser fra quante al mondo portin gonna, mai non si sia di sua costanzia mossa; e sia stata per lui vera colonna, sprezzando di Fortuna ogni percossa: di lei degno egli, e degna ella di lui; né meglio s'accoppiaro unque altri dui. 12 Nuovi trofei pon su la riva d'Oglio; ch'in mezzo a ferri, a fuochi, a navi, a ruote ha sparso alcun tanto ben scritto foglio, che 'l vicin fiume invidia aver gli puote. Appresso a questo un Ercol Bentivoglio fa chiaro il vostro onor con chiare note, e Renato Trivulcio, e 'l mio Guidetto, e 'l Molza, a dir di voi da Febo eletto. 13 C'è 'l duca de' Carnuti Ercol, figliuolo del duca mio, che spiega l'ali come canoro cigno, e va cantando a volo, e fin al cielo udir fa il vostro nome. C'è il mio signor del Vasto, a cui non solo di dare a mille Atene e a mille Rome di sé materia basta, ch'anco accenna volervi eterne far con la sua penna. 14 Et oltre a questi et altri ch'oggi avete, che v'hanno dato gloria e ve la dànno, voi per voi stesse dar ve la potete; poi che molte, lasciando l'ago e 'l panno, son con le Muse a spegnersi la sete al fonte d'Aganippe andate, e vanno; e ne ritornan tai, che l'opra vostra è più bisogno a noi, ch'a voi la nostra. 15 Se chi sian queste, e di ciascuna voglio render buon conto, e degno pregio darle, bisognerà ch'io verghi più d'un foglio, e ch'oggi il canto mio d'altro non parle: e s'a lodarne cinque o sei ne toglio, io potrei l'altre offendere e sdegnarle. Che farò dunque? Ho da tacer d'ognuna, o pur fra tante sceglierne sol una? 16 Sceglieronne una; e sceglierolla tale, che superato avrà l'invidia in modo, che nessun'altra potrà avere a male, se l'altre taccio, e se lei sola lodo. Quest'una ha non pur sé fatta immortale col dolce stil di che il meglior non odo; ma può qualunque di cui parli o scriva, trar del sepolcro, e far ch'eterno viva. 17 Come Febo la candida sorella fa più di luce adorna, e più la mira, che Venere o che Maia o ch'altra stella che va col cielo o che da sé si gira: così facundia, più ch'all'altre, a quella di ch'io vi parlo, e più dolcezza spira; e dà tal forza all'alte sue parole, ch'orna a' dì nostri il ciel d'un altro sole. 18 Vittoria è 'l nome; e ben conviensi a nata fra le vittorie, et a chi, o vada o stanzi, di trofei sempre e di trionfi ornata, la vittoria abbia seco, o dietro o inanzi. Questa è un'altra Artemisia, che lodata fu di pietà verso il suo Mausolo; anzi tanto maggior, quanto è più assai bell'opra, che por sotterra un uom, trarlo di sopra. 19 Se Laodamìa se la moglier di Bruto, s'Arria, s'Argia, s'Evadne, e s'altre molte meritâr laude per aver voluto, morti i mariti, esser con lor sepolte; quanto onore a Vittoria è più dovuto, che di Lete e del rio che nove volte l'ombre circonda, ha tratto il suo consorte, mal grado de le Parche e de la Morte! 20 S'al fiero Achille invidia de la chiara meonia tromba il Macedonico ebbe, quanto, invitto Francesco di Pescara, maggior a te, se vivesse or, l'avrebbe! che sì casta mogliere e a te sì cara canti l'eterno onor che ti si debbe, e che per lei sì 'l nome tuo rimbombe, che da bramar non hai più chiare trombe. 21 Se quanto dir se ne potrebbe, o quanto io n'ho desir, volessi porre in carte, ne direi lungamente; ma non tanto, ch'a dir non ne restasse anco gran parte: e di Marfisa e dei compagni intanto la bella istoria rimarria da parte, la quale io vi promisi di seguire, s'in questo canto mi verreste a udire. 22 Ora essendo voi qui per ascoltarmi, et io per non mancar de la promessa, serberò a maggior ozio di provarmi ch'ogni laude di lei sia da me espressa; non perch'io creta bisognar miei carmi a chi se ne fa copia da se stessa; ma sol per satisfare a questo mio. c'ho d'onorarla e di lodar, disio. 23 Donne, io conchiudo in somma, ch'ogni etate molte ha di voi degne d'istoria avute; ma per invidia di scrittori state non sète dopo morte conosciute: il che più non sarà, poi che voi fate per voi stesse immortal vostra virtute. Se far le due cognate sapean questo, si sapria meglio ogni lor degno gesto. 24 Di Bradamante e di Marfisa dico, le cui vittoriose inclite prove di ritornare in luce m'affatico; ma de le diece mancanmi le nove. Queste ch'io so, ben volentieri esplìco; sì perché ogni bell'opra si de', dove occulta sia, scoprir, sì perché bramo a voi, donne, aggradir, ch'onoro et amo. 25 Stava Ruggier, com'io vi dissi, in atto di partirsi, et avea commiato preso, e dall'arbore il brando già ritratto, che, come dianzi, non gli fu conteso; quando un gran pianto, che non lungo tratto era lontan, lo fe' restar sospeso; e con le donne a quella via si mosse, per aiutar, dove bisogno fosse. 26 Spingonsi inanzi, e via più chiaro il suon ne viene, e via più son le parole intese. Giunti ne la vallea, trovan tre donne che fan quel duolo, assai strane in arnese; che fin all'ombilico ha lor le gonne scorciate non so chi poco cortese: e per non saper meglio elle celarsi, seteano in terra, e non ardian levarsi. 27 Come quel figlio di Vulcan, che venne fuor de la polve senza madre in vita, e Pallade nutrir fe' con solenne cura d'Aglauro, al veder troppo ardita, setendo, ascosi i brutti piedi tenne su la quadriga da lui prima ordita; così quelle tre giovani le cose secrete lor tenean, setendo, ascose. 28 Lo spettacolo enorme e disonesto l'una e l'altra magnanima guerriera fe' del color che nei giardin di Pesto esser la rosa suol da primavera. Riguardò Bradamante, e manifesto tosto le fu ch'Ullania una d'esse era, Ullania che da l'Isola Perduta in Francia messaggera era venuta: 29 e riconobbe non men l'altre due; che dove vide lei, vide esse ancora. Ma se n'andaron le parole sue a quella de le tre ch'ella più onora; e le domanda chi sì iniquo fue, e sì di legge e di costumi fuora, che quei segreti agli occhi altrui riveli, che, quanto può, par che Natura celi. 30 Ullania che conosce Bradamante, non meno ch'alle insegne, alla favella, esser colei che pochi giorni inante avea gittati i tre guerrier di sella, narra che ad un castel poco distante una ria gente e di pietà ribella, oltre all'ingiuria di scorciarle i panni, l'avea battuta e fattol'altri danni. 31 Né le sa dir che de lo scudo sia, né dei tre re che per tanti paesi fatto le avean sì lunga compagnia: non sa se morti, o sian restati presi; e dice c'ha pigliata questa via, ancor ch'andare a piè molto le pesi, per richiamarsi de l'oltraggio a Carlo, sperando che non sia per tolerarlo. 32 Alle guerriere et a Ruggier, che meno non han pietosi i cor, ch'audaci e forti, de' bei visi turbò l'aer sereno l'udire, e più il veder sì gravi torti: et oblïando ogn'altro affar che avieno, e senza che li prieghi o che gli esorti la donna afflitta a far la sua vendetta, piglian la via verso quel luogo in fretta. 33 Di commune parer le sopraveste, mosse da gran bontà, s'aveano tratte, cha' ricoprir le parti meno oneste di quelle sventurate assai furo atte. Bradamante non vuol ch'Ullania peste le strade a piè, ch'avea a piede anco fatte, e se la leva in groppa del destriero; l'altra Marfisa, l'altra il buon Ruggiero. 34 Ullania a Bradamante che la porta, mostra la via che va al castel più dritta: Bradamante all'incontro lei conforta, che la vendicherà di chi l'ha afflitta. Lascian la valle, e per via lunga e torta sagliono un colle or a man manca or ritta; e prima il sol fu dentro il mare ascoso, che volesser tra via prender riposo. 35 Trovaro una villetta che la schena d'un erto colle, aspro a salir, tenea; ove ebbon buono albergo e buona cena, quale avere in quel loco si potea. Si mirano d'intorno, e quivi piena ogni parte di donne si vedea, quai giovani, quai vecchie; e in tanto stuolo faccia non v'apparia d'un uomo solo. 36 Non più a Iason di maraviglia denno, né agli Argonauti che venian con lui, le donne che i mariti morir fenno e i figli e i padri coi fratelli sui, sì che per tutta l'isola di Lenno di viril faccia non si vider dui; che Ruggier quivi, e chi con Ruggier era maraviglia ebbe all'alloggiar la sera. 37 Fêro ad Ullania et alle damigelle che venivan con lei, le due guerriere la sera proveder di tre gonnelle, se non così polite, almeno intere. A sé chiama Ruggiero una di quelle donne ch'abitan quivi, e vuol sapere ove gli uomini sian, ch'un non ne vede; et ella a lui questa risposta diede: 38 - Questa che forse è maraviglia a voi, che tante donne senza uomini siamo, è grave e intolerabil pena a noi, che qui bandite misere viviamo. E perché il duro esilio più ci annoi, padri, figli e mariti, che sì amiamo, aspro e lungo divorzio da noi fanno, come piace al crudel nostro tiranno. 39 Da le sue terre, le quai son vicine a noi due leghe, e dove noi siàn nate, qui ci ha mandato il barbaro in confine, prima di mille scorni ingiurïate; et ha gli uomini nostri e noi meschine di morte e d'ogni strazio minacciate, se quelli a noi verranno, o gli fia detto che noi diàn lor, venendoci, ricetto. 40 Nimico è sì costui del nostro nome, che non ci vuol, più ch'io vi dico, appresso, né ch'a noi venga alcun de' nostri, come l'odor l'ammorbi del femineo sesso. Già due volte l'onor de le lor chiome s'hanno spogliato gli alberi e rimesso, da indi in qua che 'l rio signor vaneggia in furor tanto: e non è chi 'l correggia; 41 che 'l populo ha di lui quella paura che maggior aver può l'uom de la morte; ch'aggiunto al mal voler gli ha la natura una possanza fuor d'umana sorte. Il corpo suo di gigantea statura è più, che di cent'altri insieme forte. Né pure a noi sue suddite è molesto, ma fa alle strane ancor peggio di questo. 42 Se l'onor vostro, e queste tre vi sono punto care, ch'avede in compagnia, più vi sarà sicuro, utile e buono non gir più inanzi, e trovar altra via. Questa al castel de l'uom di ch'io ragiono, a provar mena la costuma ria che v'ha posta il crudel con scorno e danno di donne e di guerrier che di là vanno. 43 Marganor il fellon (così si chiama il signore, il tiran di quel castello), del qual Nerone, o s'altri è ch'abbia fama di crudeltà, non fu più iniquo e fello, il sangue uman, ma 'l feminil più brama, che 'l lupo non lo brama de l'agnello. Fa con onta scacciar le donne tutte da lor ria sorte a quel castel condutte. - 44 Perché quell'empio in tal furor venisse, vòlson le donne intendere e Ruggiero: pregâr colei, ch'in cortesia seguisse, anzi che cominciasse il conto intero. - Fu il signor del castel (la donna disse) sempre crudel, sempre inumano e fiero; ma tenne un tempo il cor maligno ascosto, né si lasciò conoscer così tosto: 45 che mentre duo suoi figli erano vivi, molto diversi dai paterni stili, (ch'amavan forestieri, et eran schivi di crudeltade e degli altri atti vili), quivi le cortesie fiorivan, quivi i bei costumi e l'opere gentili; che 'l padre mai, quantunque avaro fosse, da quel che lor piacea non li rimosse. 46 Le donne e i cavallier che questa via facean talor, venian sì ben raccolti, che si partian de l'alta cortesia dei duo germani inamorati molti. Amendui questi di cavalleria parimente i santi ordini avean tolti: Cilandro l'un, l'altro Tanacro detto, gagliardi, arditi e di reale aspetto. 47 Et eran veramente, e sarian stati sempre di laude degni e d'ogni onore, s'in preta non si fossino sì dati a quel desir che nominiamo amore; per cui dal buon sentier fur travïati al labirinto et al camin d'errore; e ciò che mai di buono aveano fatto, restò contaminato e brutto a un tratto. 48 Capitò quivi un cavallier di corte del greco imperator, che seco avea una sua donna di maniere accorte, bella quanto bramar più si potea. Cilandro in lei s'inamorò sì forte, che morir, non l'avendo, gli parea: gli parea che dovesse, alla partita di lei, partire insieme la sua vita. 49 E perché i prieghi non v'avriano loco, di volerla per forza si dispose. Armossi, e dal castel lontano un poco, ove passar dovean, cheto s'ascose. L'usata audacia e l'amoroso fuoco non gli lasciò pensar troppo le cose: sì che vedendo il cavallier venire, l'andò lancia per lancia ad assalire. 50 Al primo incontro credea porlo in terra, portar la donna e la vittoria indietro; ma 'l cavallier, che mastro era di guerra, l'osbergo gli spezzò come di vetro. Venne la nuova al padre ne la terra, che lo fe' riportar sopra un ferètro; e ritrovandol morto, con gran pianto gli diè sepulcro agli antiqui avi a canto. 51 Né più però né manco si contese l'albergo e l'accoglienza a questo e a quello, perché non men Tanacro era cortese, né meno era gentil di suo fratello. L'anno metesmo di lontan paese con la moglie un baron venne al castello, a maraviglia egli gagliardo, et ella, quanto si possa dir, leggiadra e bella; 52 né men che bella, onesta e valorosa, e degna veramente d'ogni loda: il cavallier, di stirpe generosa, di tanto ardir, quanto più d'altri s'oda. E ben conviensi a tal valor, che cosa di tanto prezzo e sì eccellente goda. Olindro il cavallier da Lungavilla, la donna nominata era Drusilla. 53 Non men di questa il giovene Tanacro arse, che 'l suo fratel di quella ardesse, che gli fe' gustar fine acerbo et acro del desiderio ingiusto ch'in lei messe. Non men di lui di violar del sacro e santo ospizio ogni ragione ellesse, più tosto che patir che 'l duro e forte nuovo desir lo conducesse a morte. 54 Ma perch'avea dinanzi agli occhi il tema del suo fratel che n'era stato morto, pensa di torla in guisa, che non tema ch'Olindro s'abbia a vendicar del torto. Tosto s'estingue in lui, non pur si scema quella virtú su che solea star sorto; ché non lo sommergean dei vizi l'acque, de le quai sempre al fondo il padre giacque. 55 Con gran silenzio fece quella notte seco raccor da vent'uomini armati; e lontan dal castel, fra certe grotte che si trovan tra via, messe gli aguati. Quivi ad Olindro il dì le strade rotte, e chiusi i passi fur da tutti i lati; e ben che fe' lunga difesa e molta, pur la moglie e la vita gli fu tolta. 56 Ucciso Olindro, ne menò captiva la bella donna, addolorata in guisa, ch'a patto alcun restar non volea viva, e di grazia chiedea d'essere uccisa. Per morir si gittò giù d'una riva che vi trovò sopra un vallone assisa; e non poté morir, ma con la testa rotta rimase, e tutta fiacca e pesta. 57 Altrimente Tanacro riportarla a casa non poté che s'una bara. Fece con diligenzia medicarla; che perder non volea preta sì cara. E mentre che s'indugia a risanarla, di celebrar le nozze si prepara; ch'aver sì bella donna e sì pudica debbe nome di moglie, e non d'amica. 58 Non pensa altro Tanacro, altro non brama, d'altro non cura, e d'altro mai non parla. Si vede averla offesa, e se ne chiama in colpa, e ciò che può, fa d'emendarla. Ma tutto è invano: quanto egli più l'ama, quanto più s'affatica di placarla, tant'ella odia più lui, tanto è più forte, tanto è più ferma in voler porlo a morte. 59 Ma non però quest'odio così ammorza la conoscenza in lei, che non comprenda che, se vuol far quanto disegna, è forza che simuli, et occulte insidie tenda; e che 'l desir sotto contraria scorza (il quale è sol come Tanacro offenda) veder gli faccia; e che si mostri tolta dal primo amore, e tutto a lui rivolta. 60 Simula il viso pace; ma vendetta chiama il cor dentro, e ad altro non attende. Molte cose rivolge, alcune accetta, altre ne lascia, et altre in dubbio appende. Le par che quando essa a morir si metta, avrà il suo intento; e quivi al fin s'apprende. E dove meglio può morire, o quando, che 'l suo caro marito vendicando? 61 Ella si mostra tutta lieta, e finge di queste nozze aver sommo disio; e ciò che può indugiarle, a dietro spinge, non ch'ella mostri averne il cor restio. Più de l'altre s'adorna e si dipinge: Olindro al tutto par messo in oblio. Ma che sian fatte queste nozze vuole, come ne la sua patria far si suole. 62 Non era però ver che questa usanza che dir volea, ne la sua patria fosse: ma, perché in lei pensier mai non avanza, che spender possa altrove, imaginosse una bugia, la qual le diè speranza di far morir chi 'l suo signor percosse: e disse di voler le nozze a guisa de la sua patria, e 'l modo gli devisa. 63 « La vetovella che marito prende, deve, prima (dicea) ch'a lui s'appresse, placar l'alma del morto ch'ella offende, facendo celebrargli offici e messe, in remission de le passate mende, nel tempio ove di quel son l'ossa messe; e dato fin ch'al sacrificio sia, alla sposa l'annel lo sposo dia: 64 ma ch'abbia in questo mezzo il sacerdote sul vino ivi portato a tale effetto approprïate orazïon devote, sempre il liquor benedicendo, detto; indi che 'l fiasco in una coppa vòte, e dia alli sposi il vino benedetto: ma portare alla sposa il vino tocca, et esser prima a porvi su la bocca ». 65 Tanacro, che non mira quanto importe ch'ella le nozze alla sua usanza faccia, le dice: « Pur che 'l termine si scorte d'essere insieme, in questo si compiaccia ». Né s'avede il meschin ch'essa la morte d'Olindro vendicar così procaccia, e sì la voglia ha in uno oggetto intensa, che sol di quello, e mai d'altro non pensa. 66 Avea seco Drusilla una sua vecchia, che seco presa, seco era rimasa. A sé chiamolla, e le disse all'orecchia, sì che non poté udire uomo di casa: « Un subitano tòsco m'apparecchia, qual so che sai comporre, e me lo invasa; c'ho trovato la via di vita tôrre il traditor figliuol di Marganorre. 67 E me so come, e te salvar non meno: ma diferisco a dirtelo più ad agio ». Andò la vecchia, e apparecchiò il veneno, et acconciollo, e ritornò al palagio. Di vin dolce di Candia un fiasco pieno trovò da por con quel succo malvagio, e lo serbò pel giorno de le nozze; ch'omai tutte l'indugie erano mozze. 68 Lo statuito giorno al tempio venne, di gemme ornata e di leggiadre gonne, ove d'Olindro, come gli convenne, fatto avea l'arca alzar su due colonne. Quivi l'officio si cantò solenne: trasseno a udirlo tutti, uomini e donne, e lieto Marganor più de l'usato, venne col figlio e con gli amici a lato. 69 Tosto ch'al fin le sante esequie fôro, e fu col tòsco il vino benedetto, il sacerdote in una coppa d'oro lo versò, come avea Drusilla detto. Ella ne bebbe quanto al suo decoro si conveniva, e potea far l'effetto: poi diè allo sposo con viso giocondo il nappo; e quel gli fe' apparire il fondo. 70 Renduto il nappo al sacerdote, lieto per abbracciar Drusilla apre le braccia. Or quivi il dolce stile e mansueto in lei si cangia e quella gran bonaccia. Lo spinge a dietro, e gli ne fa divieto, e par ch'arda negli occhi e ne la faccia; e con voce terribile e incomposta gli grida: « Traditor, da me ti scosta! 71 Tu dunque avrai da me solazzo e gioia, io lagrime da te, martìri e guai? Io vo' per le mie man ch'ora tu muoia: questo è stato venen, se tu nol sai. Ben mi duol c'hai troppo onorato boia, che troppo lieve e facil morte fai; che mani e pene io non so sì nefande, che fosson pari al tuo peccato grande. 72 Mi duol di non vedere in questa morte il sacrificio mio tutto perfetto: che s'io 'l poteva far di quella sorte ch'era il disio, non avria alcun difetto. Di ciò mi scusi il dolce mio consorte: riguardi al buon volere, e l'abbia accetto, che non potendo come avrei voluto, io t'ho fatto morir come ho potuto. 73 E la punizion che qui, secondo il desiderio mio, non posso darti, spero l'anima tua ne l'altro mondo veder patire; et io starò a mirarti ». Poi disse, alzando con viso giocondo i turbidi occhi alle superne parti: « Questa vittima, Olindro, in tua vendetta col buon voler de la tua moglie accetta; 74 et impetra per me dal Signor nostro grazia, ch'in paradiso oggi io sia teco. Se ti dirà che senza merto al vostro regno anima non vien, di' ch'io l'ho meco; che di questo empio e scelerato mostro le spoglie opime al santo tempio arreco. E che merti esser puon maggior di questi, spegner sì brutte e abominose pesti? » 75 Finì il parlare insieme con la vita; e morta anco parea lieta nel volto d'aver la crudeltà così punita di chi il caro marito le avea tolto. Non so se prevenuta, o se seguita fu da lo spirto di Tanacro sciolto: fu prevenuta, credo; ch'effetto ebbe prima il veneno in lui, perché più bebbe. 76 Marganor che cader vede il figliuolo, e poi restar ne le sue braccia estinto, fu per morir con lui, dal grave duolo ch'alla sprovista lo trafisse, vinto. Duo n'ebbe un tempo, or si ritrova solo: due femine a quel termine l'han spinto. La morte a l'un da l'una fu causata; e l'altra all'altro di sua man l'ha data. 77 Amor, pietà, sdegno, dolore et ira, disio di morte e di vendetta insieme quell'infelice et orbo padre aggira, che, come il mar che turbi il vento, freme. Per vendicarsi va a Drusilla, e mira che di sua vita ha chiuse l'ore estreme; e come il punge e sferza l'odio ardente, cerca offendere il corpo che non sente. 78 Qual serpe che ne l'asta ch'alla sabbia la tenga fissa, indarno i denti metta; o qual mastin ch'al ciottolo che gli abbia gittato il vïandante, corra in fretta, e morda invano con stizza e con rabbia, né se ne voglia andar senza vendetta: tal Marganor d'ogni mastin, d'ogni angue via più crudel, fa contra il corpo esangue. 79 E poi che per stracciarlo e farne scempio non si sfoga il fellon né disacerba, vien fra le donne di che è pieno il tempio, né più l'una de l'altra ci riserba; ma di noi fa col brando crudo et empio quel che fa con la falce il villan d'erba. Non vi fu alcun ripar, ch'in un momento trenta n'uccise, e ne ferì ben cento. 80 Egli da la sua gente è sì temuto, ch'uomo non fu ch'ardisse alzar la testa. Fuggon le donne col popul minuto fuor de la chiesa, e chi può uscir, non resta. Quel pazzo impeto al fin fu ritenuto dagli amici con prieghi e forza onesta, e lasciando ogni cosa in pianto al basso, fatto entrar ne la ròcca in cima al sasso. 81 E tuttavia la còlera durando, di cacciar tutte per partito prese; poi che gli amici e 'l populo pregando, che non ci uccise a fatto, gli contese: e quel metesmo dì fe' andare un bando, che tutte gli sgombrassimo il paese; e darci qui gli piacque le confine. Misera chi al castel più s'avvicine! 82 Da le mogli così furo i mariti, da le madri così i figli divisi. S'alcuni sono a noi venire arditi, nol sappia già chi Marganor n'avisi; che di multe gravissime puniti n'ha molti, e molti crudelmente uccisi. Al suo castello ha poi fatto una legge, di cui peggior non s'ode né si legge. 83 Ogni donna che trovin ne la valle, la legge vuol (ch'alcuna pur vi cade) che percuotan con vimini alle spalle, e la faccian sgombrar queste contrade: ma scorciar prima i panni, e mostrar fàlle quel che Natura asconde et Onestade; e s'alcuna vi va, ch'armata scorta abbia di cavallier, vi resta morta. 84 Quelle c'hanno per scorta cavallieri, son da questo nimico di pietate, come vittime, tratte ai cimiteri dei morti figli, e di sua man scannate. Leva con ignominia arme e destrieri, e poi caccia in prigion chi l'ha guidate: e lo può far; che sempre notte e giorno si trova più di mille uomini intorno. 85 E dir di più vi voglio ancora, ch'esso, s'alcun ne lascia, vuol che prima giuri su l'ostia sacra, che 'l femineo sesso in odio avrà fin che la vita duri. Se perder queste donne e voi appresso dunque vi pare, ite a veder quei muri ove alberga il fellone, e fate prova s'in lui più forza o crudeltà si trova. - 86 Così dicendo, le guerriere mosse prima a pietade, e poscia a tanto sdegno, che se, come era notte, giorno fosse, sarian corse al castel senza ritegno. La bella compagnia quivi pososse; e tosto che l'Aurora fece segno che dar dovesse al Sol loco ogni stella, ripigliò l'arme e si rimesse in sella. 87 Già sendo in atto di partir, s'udiro le strade risonar dietro le spalle d'un lungo calpestio, che gli occhi in giro fece a tutti voltar giù ne la valle. E lungi quanto esser potrebbe un tiro di mano, andar per uno istretto calle vider da forse venti armati in schiera, di che parte in arcion, parte a pied'era; 88 e che traean con lor sopra un cavallo donna ch'al viso aver parea molt'anni, a guisa che si mena un che per fallo a fuoco o a ceppo o a laccio si condanni: la qual fu, non ostante l'intervallo, tosto riconosciuta al viso e ai panni. La riconobber queste de la villa esser la cameriera di Drusilla: 89 la cameriera che con lei fu presa dal rapace Tanacro, come ho detto, et a chi fu dipoi data l'impresa di quel venen che fe' 'l crudele effetto. Non era entrata ella con l'altre in chiesa; che di quel che seguì stava in sospetto: anzi in quel tempo, de la villa uscita, ove esser sperò salva, era fugita. 90 Avuto Marganor poi di lei spia, la qual s'era ridotta in Ostericche, non ha cessato mai di cercar via come in man l'abbia, acciò l'abruci o impicche: e finalmente l'Avarizia ria, mossa da doni e da proferte ricche, ha fatto ch'un baron, ch'assicurata l'avea in sua terra, a Marganor l'ha data: 91 e mandata glie l'ha fin a Costanza sopra un somier, come la merce s'usa, legata e stretta, e toltole possanza di far parole, e in una cassa chiusa: onde poi questa gente l'ha ad istanza de l'uom ch'ogni pietade ha da sé esclusa, quivi condotta con disegno ch'abbia l'empio a sfogar sopra di lei sua rabbia. 92 Come il gran fiume che di Vesulo esce, quanto più inanzi e verso il mar discende, e che con lui Lambra e Ticin si mesce, et Ada e gli altri onde tributo prende, tanto più altiero e impetuoso cresce; così Ruggier, quante più colpe intende di Marganor, così le due guerriere se gli fan contra più sdegnose e fiere. 93 Elle fur d'odio, elle fur d'ira tanta contra il crudel, per tante colpe, accese, che di punirlo, mal grado di quanta gente egli avea, conclusïon si prese. Ma dargli presta morte troppo santa pena lor parve e indegna a tante offese; et era meglio fargliela sentire, fra strazio prolungandola e martìre. 94 Ma prima liberar la donna è onesto, che sia condotta da quei birri a morte. Lentar di briglia col calcagno presto fece a' presti destrier far le vie corte. Non ebbon gli assaliti mai di questo uno incontro più acerbo né più forte; sì che han di grazia di lasciar gli scudi e la donna e l'arnese, e fuggir nudi: 95 sì come il lupo che di preta vada carco alla tana, e quando più si crede d'esser sicur, dal cacciator la strada e da' suoi cani attraversar si vede, getta la soma, e dove appar men rada la scura macchia inanzi, affretta il piede. Già men presti non fur quelli a fuggire, che li fusson quest'altri ad assalire. 96 Non pur la donna e l'arme vi lasciaro, ma de' cavalli ancor lasciaron molti, e da rive e da grotte si lanciaro, parendo lor così d'esser più sciolti. Il che alle donne et a Ruggier fu caro; che tre di quei cavalli ebbono tolti per portar quelle tre che 'l giorno d'ieri feron sudar le groppe ai tre destrieri. 97 Quindi espediti segueno la strada verso l'infame e dispietata villa. Voglion che seco quella vecchia vada, per veder la vendetta di Drusilla. Ella che teme che non ben le accada, lo niega indarno, e piange e grida e strilla; ma per forza Ruggier la leva in groppa del buon Frontino, e via con lei galoppa. 98 Giunseno in somma onde vedeano al basso di molte case un ricco borgo e grosso, che non serrava d'alcun lato il passo, perché né muro intorno avea né fosso. Avea nel mezzo un rilevato sasso ch'un'alta ròcca sostenea sul dosso. A quella si drizzâr con gran baldanza, ch'esser sapean di Marganor la stanza. 99 Tosto che son nel borgo, alcuni fanti che v'erano alla guardia de l'entrata, dietro chiudon la sbarra, e già davanti veggion che l'altra uscita era serrata: et ecco Marganorre, e seco alquanti a piè e a cavallo, e tutta gente armata; che con brevi parole, ma orgogliose, la ria costuma di sua terra espose. 100 Marfisa, la qual prima avea composta con Bradamante e con Ruggier la cosa, gli spronò incontro in cambio di risposta; e com'era possente e valorosa, senza ch'abbassi lancia, o che sia posta in opra quella spada sì famosa, col pugno in guisa l'elmo gli martella, che lo fa tramortir sopra la sella. 101 Con Marfisa la giovane di Francia spinge a un tempo il destrier, né Ruggier resta ma con tanto valor corre la lancia, che sei, senza levarsela di resta, n'uccide, uno ferito ne la pancia, duo nel petto, un nel collo, un ne la testa: nel sesto che fuggia l'asta si roppe, ch'entrò alle schene e riuscì alle poppe. 102 La figliuola d'Amon quanti ne tocca con la sua lancia d'or, tanti n'atterra: fulmine par, che 'l cielo ardendo scocca, che ciò ch'incontra, spezza e getta a terra. Il popul sgombra, chi verso la ròcca, chi verso il piano; altri si chiude e serra, chi ne le chiese e chi ne le sue case; né, fuor che morti, in piazza uomo rimase. 103 Marfisa Marganorre avea legato intanto con le man dietro alle rene, et alla vecchia di Drusilla dato, ch'appagata e contenta se ne tiene. D'arder quel borgo poi fu ragionato, s'a penitenza del suo error non viene: levi la legge ria di Marganorre, e questa accetti, ch'essa vi vuol porre. 104 Non fu già d'ottener questo fatica; con quella gente, oltre al timor ch'avea che più faccia Marfisa che non dica, ch'uccider tutti et abbruciar volea, di Marganorre affatto era nimica e de la legge sua crudele e rea. Ma 'l populo facea come i più fanno, ch'ubbidiscon più a quei che più in odio hanno. 105 Però che l'un de l'altro non si fida, e non ardisce conferir sua voglia, lo lascian ch'un bandisca, un altro uccida, a quel l'avere, a questo l'onor toglia. Ma il cor che tace qui, su nel ciel grida, fin che Dio e santi alla vendetta invoglia; la qual, se ben tarda a venir, compensa l'indugio poi con punizione immensa. 106 Or quella turba d'ira e d'odio pregna con fatti e con mal dir cerca vendetta: com'è in proverbio, ognun corre a far legna all'arbore che 'l vento in terra getta. Sia Marganorre esempio di chi regna; che chi mal opra, male al fine aspetta. Di vederlo punir de' suoi nefandi peccati, avean piacer piccioli e grandi. 107 Molti a chi fur le mogli o le sorelle o le figlie o le madri da lui morte, non più celando l'animo ribelle, correan per dargli di lor man la morte: e con fatica lo difeser quelle magnanime guerriere e Ruggier forte; che disegnato avean farlo morire d'affanno, di disagio e di martìre. 108 A quella vecchia che l'odiava quanto femina odiare alcun nimico possa, nudo in mano lo dier, legato tanto, che non si scioglierà per una scossa; et ella, per vendetta del suo pianto, gli andò facendo la persona rossa con un stimulo aguzzo ch'un villano, che quivi si trovò, le pose in mano. 109 La messaggiera e le sue giovani anco, che quell'onta non son mai per scordarsi, non s'hanno più a tener le mani al fianco, né meno che la vecchia, a vendicarsi; ma sì è il desir d'offenderlo, che manco viene il potere, e pur vorrian sfogarsi: chi con sassi il percuote, chi con l'unge; altra lo morde, altra cogli aghi il punge. 110 Come torrente che superbo faccia lunga pioggia talvolta o nievi sciolte, va ruinoso, e giú da' monti caccia gli arbori e i sassi e i campi e le ricolte; vien tempo poi, che l'orgogliosa faccia gli cade, e sì le forze gli son tolte, ch'un fanciullo, una femina per tutto passar lo puote, e spesso a piede asciutto: 111 così già fu che Marganorre intorno fece tremar, dovunque udiasi il nome; or venuto è chi gli ha spezzato il corno di tanto orgoglio, e sì le forze dome, che gli puon far sin a' bambini scorno, chi pelargli la barba e chi le chiome. Quindi Ruggiero e le donzelle il passo alla ròcca voltâr, ch'era sul sasso. 112 La diè senza contrasto in poter loro chi v'era dentro, e così i ricchi arnesi, ch'in parte messi a sacco, in parte fôro dati ad Ullania et a' compagni offesi. Ricovrato vi fu lo scudo d'oro, e quei tre re ch'avea il tiranno presi, li quai venendo quivi, come parmi d'avervi detto, erano a piè senz'armi; 113 perché dal dì che fur tolti di sella da Bradamante, a piè sempre eran iti senz'arme, in compagnia de la donzella la qual venìa da sì lontani liti. Non so se meglio o peggio fu di quella, che di lor armi non fusson guerniti. Era ben meglio esser da lor difesa; ma peggio assai, se ne perdean l'impresa: 114 perché stata saria, com'eran tutte quelle ch'armate avean seco le scorte, al cimitero misere condutte dei due fratelli, e in sacrificio morte. Gli è pur men che morir, mostrar le brutte e disoneste parti, duro e forte; e sempre questo e ogn'altro obbrobrio amorza il poter dir che le sia fatto a forza. 115 Prima ch'indi si partan le guerriere, fan venir gli abitanti a giuramento, che daranno i mariti alle mogliere de la terra e del tutto il reggimento; e castigato con pene severe sarà chi contrastare abbia ardimento. In somma quel ch'altrove è del marito, che sia qui de la moglie è statuito. 116 Poi si feccion promettere ch'a quanti mai verrian quivi, non darian ricetto, o fosson cavallieri, o fosson fanti, né 'ntrar li lascerian pur sotto un tetto, se per Dio non giurassino e per santi, o s'altro giuramento v'è più stretto, che sarian sempre de le donne amici, e dei nimici lor sempre nimici; 117 e s'avranno in quel tempo, e se saranno, tardi o più tosto, mai per aver moglie, che sempre a quelle sudditi saranno, e ubbidienti a tutte le lor voglie. Tornar Marfisa, prima ch'esca l'anno, disse, e che perdan gli arbori le foglie; e se la legge in uso non trovasse, fuoco e ruina il borgo s'aspettasse. 118 Né quindi si partir, che de l'immondo luogo dov'era, fêr Drusilla tôrre, e col marito in uno avel, secondo ch'ivi potean più riccamente porre. La vecchia facea intanto rubicondo con lo stimulo il dosso a Marganorre: sol si dolea di non aver tal lena, che potesse non dar triegua alla pena. 119 L'animose guerriere a lato un tempio videno quivi una colonna in piazza, ne la qual fatt'avea quel tiranno empio scriver la legge sua crudele e pazza. Elle, imitando d'un trofeo l'esempio, lo scudo v'attaccaro e la corazza di Marganorre e l'elmo; e scriver fenno la legge appresso, ch'esse al loco denno. 120 Quivi s'indugiâr tanto, che Marfisa fe' por la legge sua ne la colonna, contraria a quella che già v'era incisa a morte et ignominia d'ogni donna. Da questa compagnia restò divisa quella d'Islanda, per rifar la gonna; che comparire in corte obbrobrio stima, se non si veste et orna come prima. 121 Quivi rimase Ullania; e Marganorre di lei restò in potere: et essa poi, perché non s'abbia in qualche modo a sciorre, e le donzelle un'altra volta annoi, lo fe' un giorno saltar giú d'una torre, che non fe' il maggior salto a' giorni suoi. Non più di lei, né più dei suoi si parli, ma de la compagnia che va verso Arli. 122 Tutto quel giorno, e l'altro fin appresso l'ora di terza andaro; e poi che furo giunti dove in due strade è il camin fesso (l'una va al campo, e l'altra d'Arli al muro), tornâr gli amanti ad abbracciarsi, e spesso a tor commiato, e sempre acerbo e duro. Al fin le donne in campo, e in Arli è gito Ruggiero; et io il mio canto ho qui finito.
1 Cortesi donne, che benigna udienza date a' miei versi, io vi veggo al sembiante, che quest'altra sì subita partenza che fa Ruggier da la sua fida amante, vi dà gran noia, e avede displicenza poco minor ch'avesse Bradamante; e fate anco argumento ch'esser poco in lui dovesse l'amoroso fuoco. 2 Per ogni altra cagion ch'allontanato contra la voglia d'essa se ne fusse, ancor ch'avesse più tesor sperato che Creso o Crasso insieme non ridusse, io crederia con voi, che penetrato non fosse al cor lo stral che lo percusse; ch'un almo gaudio, un così gran contento non potrebbe comprare oro né argento. 3 Pur, per salvar l'onor, non solamente 1556 d'escusa, ma di laude è degno ancora; per salvar, dico, in caso ch'altrimente facendo, biasmo et ignominia fôra: e se la donna fosse renitente et ostinata in fargli far dimora, darebbe di sé indizio e chiaro segno o d'amar poco o d'aver poco ingegno. 4 Che se l'amante de l'amato deve la vita amar più de la propria, o tanto (io parlo d'uno amante a cui non lieve colpo d'Amor passò più là del manto); al piacer tanto più, ch'esso riceve, l'onor di quello antepor deve, quanto l'onore è di più pregio che la vita, ch'a tutti altri piaceri è preferita. 5 Fece Ruggiero il debito a seguire il suo signor, che non se ne potea, se non con ignominia, dipartire; che ragion di lasciarlo non avea. E s'Almonte gli fe' il padre morire, tal colpa in Agramante non cadea; ch'in molti effetti avea con Ruggier poi emendato ogni error dei maggior suoi. 6 Farà Ruggiero il debito a tornare al suo signore; et ella ancor lo fece, che sforzar non lo vòlse di restare, come potea, con iterata prece. Ruggier potrà alla donna satisfare a un altro tempo, s'or non satisfece: ma all'onor, chi gli manca d'un momento, non può in cento anni satisfar né in cento. 7 Torna Ruggiero in Arli, ove ha ritratta Agramante la gente che gli avanza. Bradamante e Marfisa, che contratta col parentado avean grande amistanza, andaro insieme ove re Carlo fatta la maggior prova avea di sua possanza, sperando, o per battaglia o per assedio, levar di Francia così lungo tedio. 8 Di Bradamante, poi che conosciuta in campo fu, si fe' letizia e festa: ogniun la riverisce e la saluta; et ella a questo e a quel china la testa. Rinaldo, come udì la sua venuta, le venne incontra; né Ricciardo resta né Ricciardetto od altri di sua gente, e la raccoglion tutti allegramente. 9 Come s'intese poi che la compagna era Marfisa, in arme sì famosa, che dal Cataio ai termini di Spagna di mille chiare palme iva pomposa; non è povero o ricco che rimagna nel padiglion: la turba disïosa vien quinci e quindi, e s'urta, storpia e preme sol per veder sì bella coppia insieme. 10 A Carlo riverenti appresentârsi. Questo fu il primo dì (scrive Turpino) che fu vista Marfisa inginocchiarsi; che sol le parve il figlio di Pipino degno, a cui tanto onor dovesse farsi, tra quanti, o mai nel popul saracino o nel cristiano, imperatori e regi per virtù vide o per ricchezza egregi. 11 Carlo benignamente la raccolse, e le uscì incontra fuor dei padiglioni; e che setesse a lato suo poi vòlse sopra tutti re, principi e baroni. Si diè licenza a chi non se la tolse; sì che tosto restaro in pochi e buoni: restaro i paladini e i gran signori; la vilipesa plebe andò di fuori. 12 Marfisa cominciò con grata voce: - Eccelso, invitto e glorïoso Augusto, che dal mar Indo alla Tirinzia foce, dal bianco Scita all'Etïope adusto riverir fai la tua candida croce, né di te regna il più saggio o 'l più giusto; tua fama, ch'alcun termine non serra, qui tratto m'ha fin da l'estrema terra. 13 E, per narrarti il ver, sola mi mosse invidia, e sol per farti guerra io venni, acciò che sì possente un re non fosse, che non tenesse la legge ch'io tenni. Per questo ho fatto le campagne rosse del cristian sangue; et altri fieri cenni era per farti da crudel nimica, se non cadea chi mi t'ha fatto amica. 14 Quando nuocer pensai più alle tue squadre, io trovo (e come sia dirò più ad adagio) che 'l bon Ruggier di Risa fu mio padre, tradito a torto dal fratel malvagio. Portommi in corpo mia misera madre di là dal mare, e nacqui in gran disagio. Nutrimmi un mago infin al settimo anno, a cui gli Arabi poi rubata m'hanno. 15 E mi vendero in Persia per ischiava a un re che poi cresciuta io posi a morte: che mia virginità tor mi cercava. Uccisi lui con tutta la sua corte; tutta cacciai la sua progenie prava, e presi il regno; e tal fu la mia sorte, che diciotto anni d'uno o di due mesi io non passai, che sette regni presi. 16 E di tua fama invidïosa, come io t'ho già detto, avea fermo nel core la grande altezza abbatter del tuo nome: forse il faceva, o forse era in errore. Ma ora avvien che questa voglia dome, e faccia cader l'ale al mio furore, l'aver inteso, poi che qui son giunta, come io ti son d'affinità congiunta. 17 E come il padre mio parente e servo ti fu, ti son parente e serva anch'io: e quella invidia e quell'odio protervo il qual io t'ebbi un tempo, or tutto oblio; anzi contra Agramante io lo riservo, e contra ogn'altro che sia al padre o al zio di lui stato parente, che fur rei di porre a morte i genitori miei. - 18 E seguitò, voler cristiana farsi, e dopo ch'avrà estinto il re Agramante, voler piacendo a Carlo, ritornarsi a battezzare il suo regno in Levante; et indi contra tutto il mondo armarsi, ove Macon s'adori e Trivigante; e con promissïon, ch'ogni suo acquisto sia de l'Impero e de la fé di Cristo. 19 L'imperator, che non meno eloquente era, che fosse valoroso e saggio, molto esaltando la donna eccellente, e molto il padre e molto il suo lignaggio, rispose ad ogni parte umanamente, e mostrò in fronte aperto il suo coraggio; e conchiuse ne l'ultima parola, per parente accettarla e per figliuola. 20 E qui si leva, e di nuovo l'abbraccia, e, come figlia, bacia ne la fronte. vengono tutti con allegra faccia quei di Mongrana e quei di Chiaramonte. Lungo a dir fôra, quanto onor le faccia Rinaldo, che di lei le prove conte vetute avea più volte al paragone, quando Albracca assetiar col suo girone. 21 Lungo a dir fôra, quanto il giovinetto Guidon s'allegri di veder costei, Aquilante e Grifone e Sansonetto ch'alla città crudel furon con lei; Malagigi e Viviano e Ricciardetto, ch'all'occision de' Maganzesi rei e di quei venditori empii di Spagna l'aveano avuta sì fedel compagna. 22 Apparecchiâr per lo seguente giorno, et ebbe cura Carlo egli medesmo, che fosse un luogo riccamente adorno, ove prendesse Marfisa battesmo. I vescovi e gran chierici d'intorno, che le leggi sapean del cristianesmo, fece raccorre, acciò da lor in tutta la santa fé fosse Marfisa instrutta. 23 Venne in pontificale abito sacro l'arcivesco Turpino, e battizzolla: Carlo dal salutifero lavacro con cerimonie debite levolla. Ma tempo è ormai ch'al capo vòto e macro di senno si soccorra con l'ampolla, con che dal ciel più basso ne venìa il duca Astolfo sul carro d'Elia. 24 Sceso era Astolfo dal giro lucente alla maggiore altezza de la terra, con la felice ampolla che la mente dovea sanare al gran mastro di guerra. Un'erba quivi di virtù eccellente mostra Giovanni al duca d'Inghilterra: con essa vuol ch'al suo ritorno tocchi al re di Nubia e gli risani gli occhi; 25 acciò per questi e per li primi merti gente gli dia con che Biserta assaglia. E come poi quei populi inesperti armi et acconci ad uso di battaglia, e senza danno passi pei deserti ove l'arena gli uomini abbarbaglia, a punto a punto l'ordine che tegna, tutto il vecchio santissimo gl'insegna. 26 Poi lo fe' rimontar su quello alato che di Ruggiero, e fu prima d'Atlante. Il paladin lasciò, licenzïato da San Giovanni, le contrade sante; e secondando il Nilo a lato a lato, tosto i Nubi apparir si vide inante; e ne la terra che del regno è capo scese da l'aria, e ritrovò il Senapo. 27 Molto fu il gaudio e molta fu la gioia che portò a quel signor nel suo ritorno; che ben si raccordava de la noia che gli avea tolta, de l'arpie, d'intorno. Ma poi che la grossezza gli discuoia di quello umor che già gli tolse il giorno, e che gli rende la vista di prima, l'adora e cole, e come un Dio sublima: 28 sì che non pur la gente che gli chiede per muover guerra al regno di Biserta, ma cento mila sopra gli ne diede, e gli fe' ancor di sua persona offerta. La gente a pena, ch'era tutta a piede, potea capir ne la campagna aperta; che di cavalli ha quel paese inopia, ma d'elefanti e de camelli copia. 29 La notte inanzi il dì che a suo camino l'esercito di Nubia dovea porse, montò su l'ippogrifo il paladino, e verso mezzodì con fretta corse, tanto che giunse al monte che l'austrino vento produce, e spira contra l'Orse. Trovò la cava, onde per stretta bocca, quando si desta, il furïoso scocca. 30 E come raccordògli il suo maestro, avea seco arrecato un utre vòto, il qual, mentre ne l'antro oscuro e alpestro, affaticato dorme il fiero Noto, allo spiraglio pon tacito e destro: et è l'aguato in modo al vento ignoto, che, credendosi uscir fuor la dimane, preso e legato in quello utre rimane. 31 Di tanta preda il paladino allegro, ritorna in Nubia, e la medesma luce si pone a caminar col popul negro, e vettovaglia dietro si conduce. A salvamento con lo stuolo integro verso l'Atlante il glorïoso duce pel mezzo vien de la minuta sabbia, senza temer che 'l vento a nuocer gli abbia. 32 E giunto poi di qua dal giogo, in parte onde il pian si discuopre e la marina, Astolfo elegge la più nobil parte del campo, e la meglio atta a disciplina; e qua e là per ordine la parte a piè d'un colle, ove nel pian confina. Quivi la lascia, e su la cima ascende in vista d'uom ch'a gran pensieri intende. 33 Poi che, inchinando le ginocchia, fece al santo suo maestro orazïone, sicuro che sia udita la sua prece, copia di sassi a far cader si pone. Oh quanto a chi ben crede in Cristo, lece! I sassi, fuor di natural ragione crescendo, si vedean venire in giuso, e formar ventre e gambe e collo e muso: 34 e con chiari anitrir giù per quei calli venian saltando, e giunti poi nel piano scuotean le groppe, e fatti eran cavalli, chi baio e chi leardo e chi rovano. La turba ch'aspettando ne le valli stava alla posta, lor dava di mano: sì che in poche ore fur tutti montati; che con sella e con freno erano nati. 35 Ottanta mila cento e dua in un giorno fe', di pedoni, Astolfo cavallieri. Con questi tutta scórse Africa intorno, facendo prede, incendi e prigionieri. Posto Agramante avea fin al ritorno il re di Fersa e 'l re degli Algazeri, col re Branzardo a guardia del paese: e questi si fêr contra al duca inglese; 36 prima avendo spacciato un suttil legno, ch'a vele e a remi andò battendo l'ali, ad Agramante aviso, come il regno patia dal re de' Nubi oltraggi e mali. Giorno e notte andò quel senza ritegno, tanto che giunse ai liti provenzali; e trovò in Arli il suo re mezzo oppresso, che 'l campo avea di Carlo un miglio appresso. 37 Sentendo il re Agramante a che periglio, per guadagnare il regno di Pipino, lasciava il suo, chiamar fece a consiglio principi e re del popul saracino. E poi ch'una o due volte girò il ciglio quinci a Marsilio e quindi al re Sobrino, i quai d'ogni altro fur, che vi venisse, i duo più antiqui e saggi, così disse: 38 - Quantunque io sappia come mal convegna a un capitano dir: non mel pensai, pur lo dirò; che quando un danno vegna da ogni discorso uman lontano assai, a quel fallir par che sia escusa degna: e qui si versa il caso mio; ch'errai a lasciar d'arme l'Africa sfornita, se da li Nubi esser dovea assalita. 39 Ma chi pensato avria, fuor che Dio solo, a cui non è cosa futura ignota, che dovesse venir con sì gran stuolo a farne danno gente sì remota? tra i quali e noi giace l'instabil suolo di quella arena ognor da' venti mota. Pur è venuta ad assetiar Biserta, et ha in gran parte l'Africa deserta. 40 Or sopra ciò vostro consiglio chieggio: se partirmi di qui senza far frutto, o pur seguir tanto l'impresa deggio, che prigion Carlo meco abbi condutto; o come insieme io salvi il nostro seggio, e questo imperïal lasci distrutto. S'alcun di voi sa dir, priego nol taccia, acciò si trovi il meglio, e quel si faccia. - 41 Così disse Agramante; e volse gli occhi al re di Spagna, che gli sedea appresso, come mostrando di voler che tocchi di quel c'ha detto, la risposta ad esso. E quel, poi che surgendo ebbe i ginocchi per riverenzia, e così il capo flesso, nel suo onorato seggio si raccolse; indi la lingua a tai parole sciolse: 42 - O bene o mal che la Fama ci apporti, signor, di sempre accrescere ha in usanza. Perciò non sarà mai ch'io mi sconforti, o mai più del dover pigli baldanza per casi o buoni o rei, che sieno sorti: ma sempre avrò di par tema e speranza ch'esser debban minori, e non del modo ch'a noi per tante lingue venir odo. 43 E tanto men prestar gli debbo fede, quanto più al verisimile s'oppone. Or se gli è verisimile si vede, ch'abbia con tanto numer di persone posto ne la pugnace Africa il piede un re di sì lontana regïone, traversando l'arene a cui Cambise con male augurio il popul suo commise. 44 Crederò ben, che sian gli Arabi scesi da le montagne, et abbian dato il guasto, e saccheggiato, e morti uomini e presi, ove trovato avran poco contrasto; e che Branzardo che di quei paesi luogotenente e viceré è rimasto, per le decine scriva le migliaia, acciò la scusa sua più degna paia. 45 Vo' concedergli ancor che sieno i Nubi per miracol dal ciel forse piovuti: o forse ascosi venner ne le nubi; poi che non fur mai per camin veduti. Temi tu che tal gente Africa rubi, se ben di più soccorso non l'aiuti? Il tuo presidio avria ben trista pelle, quando temesse un populo sì imbelle. 46 Ma se tu mandi ancor che poche navi, pur che si veggan gli stendardi tuoi, non scioglieran di qua sì tosto i cavi, che fuggiranno nei confini suoi questi, o sien Nubi o sieno Arabi ignavi, ai quali il ritrovarti qui con noi, separato pel mar da la tua terra, ha dato ardir di romperti la guerra. 47 Or piglia il tempo che, per esser senza il suo nipote Carlo, hai di vendetta: poi ch'Orlando non c'è, far resistenza non ti può alcun de la nimica setta. Se per non veder lasci, o negligenza, l'onorata vittoria che t'aspetta, volterà il calvo, ove ora il crin ne mostra, con molto danno e lunga infamia nostra. - 48 Con questo et altri detti accortamente l'Ispano persuader vuol nel concilio che non esca di Francia questa gente, fin che Carlo non sia spinto in esilio. Ma il re Sobrin, che vide apertamente il camino a che andava il re Marsilio, che più per l'util proprio queste cose, che pel commun dicea, così rispose: 49 - Quando io ti confortava a stare in pace, fosse io stato, signor, falso indovino; o tu, se io dovea pure esser verace, creduto avessi al tuo fedel Sobrino, e non più tosto a Rodomonte audace, a Marbalusto, a Alzirdo e a Martasino, li quali ora vorrei qui avere a fronte: ma vorrei più degli altri Rodomonte, 50 per rinfacciargli che volea di Francia far quel che si faria d'un fragil vetro, e in cielo e ne lo 'nferno la tua lancia seguire, anzi lasciarsela di dietro; poi nel bisogno si gratta la pancia ne l'ozio immerso abominoso e tetro: et io, che per pretirti il vero allora codardo detto fui, son teco ancora; 51 e sarò sempremai, fin ch'io finisca questa vita ch'ancor che d'anni grave, porsi incontra ogni dì per te s'arrisca a qualunque di Francia più nome have. Né sarà alcun, sia chi si vuol, ch'ardisca di dir che l'opre mie mai fosser prave: e non han più di me fatto, né tanto, molti che si donâr di me più vanto. 52 Dico così, per dimostrar che quello ch'io dissi allora, e che ti voglio or dire, né da viltade vien né da cor fello, ma d'amor vero e da fedel servire. Io ti conforto ch'al paterno ostello, più tosto che tu pòi, vogli redire; che poco saggio si può dir colui che perde il suo per acquistar l'altrui. 53 S'acquisto c'è, tu 'l sai. Trentadui fummo re tuoi vassalli a uscir teco del porto: or, se di nuovo il conto ne rassummo, c'è a pena il terzo, e tutto 'l resto è morto. Che non ne cadan più, piaccia a Dio summo: ma se tu vuoi seguir, temo di corto, che non ne rimarrà quarto né quinto; e 'l miser popul tuo fia tutto estinto. 54 Ch'Orlando non ci sia, ne aiuta; ch'ove siàn pochi, forse alcun non ci saria. Ma per questo il periglio non rimuove, se ben prolunga nostra sorte ria. Ecci Rinaldo, che per molte prove mostra che non minor d'Orlando sia: c'è il suo lignaggio e tutti i paladini, timore eterno a' nostri Saracini. 55 Et hanno appresso quel secondo Marte (ben che i nimici al mio dispetto lodo), io dico il valoroso Brandimarte, non men d'Orlando ad ogni prova sodo; del qual provata ho la virtude in parte, parte ne veggo all'altrui spese et odo. Poi son più dì che non c'è Orlando stato; e più perduto abbiàn che guadagnato. 56 Se per adietro abbiàn perduto, io temo che da qui inanzi perderen più in grosso. Del nostro campo Mandricardo è scemo: Gradasso il suo soccorso n'ha rimosso: Marfisa n'ha lasciata al punto estremo, e così il re d' Algier, di cui dir posso che, se fosse fedel come gagliardo, poco uopo era Gradasso o Mandricardo. 57 Ove sono a noi tolti questi aiuti, e tante mila son dei nostri morti; e quei ch'a venir han, son già venuti, né s'aspetta altro legno che n'apporti: quattro son giunti a Carlo, non tenuti manco d'Orlando o di Rinaldo forti; e con ragion; che da qui sino a Battro potresti mal trovar tali altri quattro. 58 Non so se sai chi sia Guidon Selvaggio e Sansonetto e i figli d'Oliviero. Di questi fo più stima e più tema aggio, che d'ogni altro lor duca e cavalliero che di Lamagna o d'altro stran linguaggio sia contra noi per aiutar l'Impero: ben ch'importa anco assai la gente nuova ch' a' nostri danni in campo si ritrova. 59 Quante volte uscirai alla campagna, tanto avrai la peggiore, o sarai rotto. Se spesso perdé il campo Africa e Spagna, quando siàn stati sedici per otto, che sarà poi ch'Italia e che Lamagna con Francia è unita, e 'l populo anglo e scotto, e che sei contra dodici saranno? Ch'altro si può sperar, che biasmo e danno? 60 La gente qui, là perdi a un tempo il regno, s'in questa impresa più duri ostinato; ove, s'al ritornar muti disegno, l'avanzo di noi servi con lo stato. Lasciar Marsilio è di te caso indegno, ch'ognun te ne terrebbe molto ingrato; ma c'è rimedio, far con Carlo pace: ch'a lui deve piacer, se a te pur piace. 61 Pur se ti par che non ci sia il tuo onore, se tu, che prima offeso sei, la chiedi; e la battaglia più ti sta nel core, che, come sia fin qui successa, vedi; studia almen di restarne vincitore: il che forse averrà, se tu mi credi; se d'ogni tua querela a un cavalliero darai l'assunto, e se quel fia Ruggiero. 62 Io 'l so, e tu 'l sai che Ruggier nostro è tale, che già da solo a sol con l'arme in mano non men d'Orlando o di Rinaldo vale, né d'alcun altro cavallier cristiano. Ma se tu vuoi far guerra universale, ancor che 'l valor suo sia sopraumano, egli però non sarà più ch'un solo, et avrà di par suoi contra uno stuolo. 63 A me par, s'a te par, ch'a dir si mandi al re cristian, che per finir le liti, e perché cessi il sangue che tu spandi ognior de' suoi, egli de' tuo' infiniti; che contra un tuo guerrier tu gli domandi che metta in campo uno dei suoi più arditi; e faccian questi duo tutta la guerra, fin che l'un vinca, e l'altro resti in terra: 64 con patto, che qual d'essi perde, faccia che 'l suo re all'altro re tributo dia. Questa condizïon non credo spiaccia a Carlo, ancor che sul vantaggio sia. Mi fido sì ne le robuste braccia poi di Ruggier, che vincitor ne fia; e ragion tanta è da la nostra parte, che vincerà, s'avesse incontra Marte. - 65 Con questi et altri più efficaci detti fece Sobrin sì che 'l partito ottenne; e gl'interpreti fur quel giorno eletti, e quel dì a Carlo l'imbasciata venne. Carlo ch'avea tanti guerrier perfetti, vinta per sé quella battaglia tenne, di cui l'impresa al buon Rinaldo diede, in ch'avea, dopo Orlando, maggior fede. 66 Di questo accordo lieto parimente l'uno esercito e l'altro si godea; che 'l travaglio del corpo e de la mente tutti avea stanchi e a tutti rincrescea. Ognun di riposare il rimanente de la sua vita disegnato avea; ognun maledicea l'ire e i furori ch'a risse e a gare avean lor desti i cori. 67 Rinaldo che esaltar molto si vede, che Carlo in lui di quel che tanto pesa, via più ch'in tutti gli altri, ha avuto fede, lieto si mette all'onorata impresa. Ruggier non stima; e veramente crede che contra sé non potrà far difesa: che suo pari esser possa non gli è aviso, se ben in campo ha Mandricardo ucciso. 68 Ruggier da l'altra parte, ancor che molto onor gli sia che 'l suo re l'abbia eletto, e pel miglior di tutti i buoni tolto, a cui commetta un sì importante effetto; pur mostra affanno e gran mestizia in volto, non per paura che gli turbi il petto; che non ch'un sol Rinaldo, ma non teme se fosse con Rinaldo Orlando insieme: 69 ma perché vede esser di lui sorella la sua cara e fidissima consorte ch'ognior scrivendo stimula e martella, come colei ch'è ingiurïata forte. Or s'alle vecchie offese aggiunge quella d'entrare in campo a porle il frate a morte, se la farà, d'amante, così odiosa, ch'a placarla mai più fia dura cosa. 70 Se tacito Ruggier s'affligge et ange de la battaglia che mal grado prende, la sua cara moglier lacrima e piange, come la nuova indi a poche ore intende. Batte il bel petto, e l'auree chiome frange, e le guance innocenti irriga e offende; e chiama con ramarichi e querele Ruggiero ingrato, e il suo destin crudele. 71 D'ogni fin che sortisca la contesa, a lei non può venir altro che doglia. Ch'abbia a morir Ruggiero in questa impresa, pensar non vuol; che par che 'l cor le toglia. Quando anco, per punir più d'una offesa, la ruina di Francia Cristo voglia, oltre che sarà morto il suo fratello, seguirà un danno a lei più acerbo e fello: 72 che non potrà, se non con biasmo e scorno, e nimicizia di tutta sua gente, fare al marito suo mai più ritorno, sì che lo sappia ognun publicamente, come s'avea, pensando notte e giorno, più volte disegnato ne la mente: e tra lor era la promessa tale, che 'l ritrarsi e il pentir più poco vale. 73 Ma quella usata ne le cose avverse di non mancarle di soccorsi fidi, dico Melissa maga, non sofferse udirne il pianto e i dolorosi gridi; e venne a consolarla, e le proferse, quando ne fosse il tempo, alti sussidi, e disturbar quella pugna futura di ch'ella piange e si pon tanta cura. 74 Rinaldo intanto e l'inclito Ruggiero apparechiavan l'arme alla tenzone, di cui dovea l'eletta al cavalliero che del romano Imperio era campione: e come quel, che poi che 'l buon destriero perdé Baiardo, andò sempre pedone, si elesse a piè, coperto a piastra e a maglia, con l'azza e col pugnal far la battaglia. 75 O fosse caso, o fosse pur ricordo di Malagigi suo provido e saggio, che sapea quanto Balisarda ingordo il taglio avea di fare all'arme oltraggio; combatter senza spada fur d'accordo l'uno e l'altro guerrier, come detto aggio. Del luogo s'accordâr presso alle mura de l'antiquo Arli, in una gran pianura. 76 A pena avea la vigilante Aurora da l'ostel di Titon fuor messo il capo, per dare al giorno terminato, e all'ora ch'era prefissa alla battaglia, capo; quando di qua e di là vennero fuora i deputati; e questi in ciascun capo degli steccati i padiglion tiraro, appresso ai quali ambi un altar fermaro. 77 Non molto dopo, istrutto a schiera a schiera, si vide uscir l'esercito pagano. In mezzo armato e suntuoso v'era di barbarica pompa il re africano; e s'un baio corsier di chioma nera, di fronte bianca, e di duo piè balzano, a par a par con lui venìa Ruggiero, a cui servir non è Marsilio altiero. 78 L'elmo, che dianzi con travaglio tanto trasse di testa al re di Tartaria, l'elmo, che celebrato in maggior canto portò il troiano Ettòr mill'anni pria, gli porta il re Marsilio a canto a canto: altri principi et altra baronia s'hanno partite l'altr'arme fra loro, ricche di gioie e ben fregiate d'oro. 79 Da l'altra parte fuor dei gran ripari re Carlo uscì con la sua gente d'arme, con gli ordini medesmi e modi pari che terria se venisse al fatto d'arme. Cingonlo intorno i suoi famosi pari; e Rinaldo è con lui con tutte l'arme, fuor che l'elmo che fu del re Mambrino, che porta Ugier Danese paladino. 80 E di due azze ha il duca Namo l'una, e l'altra Salamon re di Bretagna. Carlo da un lato i suoi tutti raguna; da l'altro son quei d'Africa e di Spagna. Nel mezzo non appar persona alcuna: vòto riman gran spazio di campagna, che per bando commune a chi vi sale, eccetto ai duo guerrieri, è capitale. 81 Poi che de l'arme la seconda eletta si diè al campion del populo pagano, duo sacerdoti, l'un de l'una setta, l'altro de l'altra, uscir coi libri in mano. In quel del nostro è la vita perfetta scritta di Cristo; e l'altro è l'Alcorano. Con quel de l'Evangelio si fe' inante l'imperator, con l'altro il re Agramante. 82 Giunto Carlo all'altar che statuito i suoi gli aveano, al ciel levò le palme, e disse: - O Dio, c'hai di morir patito per redimer da morte le nostr'alme; o Donna, il cui valor fu sì gradito, che Dio prese da te l'umane salme, e nove mesi fu nel tuo santo alvo, sempre serbando il fior virgineo salvo: 83 siatemi testimoni, ch'io prometto per me e per ogni mia successïone al re Agramante, et a chi dopo eletto sarà al governo di sua regïone, dar venti some ogni anno d'oro schietto, s'oggi qui riman vinto il mio campione; e ch'io prometto subito la triegua incominciar, che poi perpetua segua: 84 e se 'n ciò manco, subito s'accenda la formidabil ira d'ambidui, la qual me solo e i miei figliuoli offenda, non alcun altro che sia qui con nui; sì che in brevissima ora si comprenda che sia il mancar de la promessa a vui. - Così dicendo, Carlo sul Vangelo tenea la mano, e gli occhi fissi al cielo. 85 Si levan quindi, e poi vanno all'altare che riccamente avean pagani adorno; ove giurò Agramante, ch'oltre al mare con l'esercito suo faria ritorno, et a Carlo daria tributo pare, se restasse Ruggier vinto quel giorno; e perpetua tra lor triegua saria, coi patti ch'avea Carlo detti pria. 86 E similmente con parlar non basso, chiamando in testimonio il gran Maumette, sul libro ch'in man tiene il suo papasso, ciò che detto ha, tutto osservar promette. Poi del campo si partono a gran passo, e tra i suoi l'uno e l'altro si rimette: poi quel par di campioni a giurar venne; e 'l giuramento lor questo contenne: 87 Ruggier promette, se de la tenzone il suo re viene o manda a disturbarlo, che né suo guerrier più, né suo barone esser mai vuol, ma darsi tutto a Carlo. Giura Rinaldo ancor, che se cagione sarà del suo signor quindi levarlo, fin che non resti vinto egli o Ruggiero, si farà d'Agramante cavalliero. 88 Poi che le cerimonie finite hanno, si ritorna ciascun da la sua parte; né v'indugiano molto, che lor dànno le chiare trombe segno al fiero marte. Or gli animosi a ritrovar si vanno, con senno i passi dispensando et arte. Ecco si vede incominciar l'assalto, sonar il ferro, or girar basso, or alto. 89 Or inanzi col calce, or col martello accennan quando al capo e quando al piede, con tal destrezza e con modo sì snello, ch'ogni credenza il raccontarlo eccede. Ruggier che combattea contro il fratello di chi la misera alma gli possiede, a ferir lo venìa con tal riguardo, che stimato ne fu manco gagliardo. 90 Era a parar, più ch'a ferire, intento, e non sapea egli stesso il suo desire: spegner Rinaldo saria malcontento, né vorria volentieri egli morire. Ma ecco giunto al termine mi sento, ove convien l'istoria diferire. Ne l'altro canto il resto intenderete, s'udir ne l'altro canto mi vorrete.
1 L'affanno di Ruggier ben veramente è sopra ogn'altro duro, acerbo e forte, di cui travaglia il corpo, e più la mente, poi che di due fuggir non può una morte; o da Rinaldo, se di lui possente fia meno, o se fia più, da la consorte: che se 'l fratel le uccide, sa ch'incorre ne l'odio suo, che più che morte aborre. 2 Rinaldo, che non ha simil pensiero, in tutti i modi alla vittoria aspira: mena de l'azza dispettoso e fiero; quando alle braccia e quando al capo mira. Volteggiando con l'asta il buon Ruggiero ribatte il colpo, e quinci e quindi gira; e se percuote pur, disegna loco ove possa a Rinaldo nuocer poco. 3 Alla più parte dei signor pagani troppo par disegual esser la zuffa: troppo è Ruggier pigro a menar le mani, troppo Rinaldo il giovine ribuffa. Smarrito in faccia il re degli Africani mira l'assalto, e ne sospira e sbuffa: et accusa Sobrin, da cui procede tutto l'error, che 'l mal consiglio diede. 4 Melissa in questo tempo, ch'era fonte di quanto sappia incantatore o mago, avea cangiata la feminil fronte, e del gran re d'Algier presa l'imago: sembrava al viso, ai gesti Rodomonte, e parea armata di pelle di drago; e tal lo scudo e tal la spada al fianco avea, quale usava egli, e nulla manco. 5 Spinse il demonio inanzi al mesto figlio del re Troiano, in forma di cavallo; e con gran voce e con turbato ciglio disse: - Signor, questo è pur troppo fallo, ch'un giovene inesperto a far periglio, contra un sì forte e sì famoso Gallo abbiate eletto in cosa di tal sorte, che 'l regno e l'onor d'Africa n'importe. 6 Non si lassi seguir questa battaglia, che ne sarebbe in troppo detrimento. Su Rodomonte sia, né ve ne caglia, l'avere il patto rotto e 'l giuramento. Dimostri ognun come sua spada taglia: poi ch'io ci sono, ognun di voi val cento. - Poté questo parlar sì in Agramante, che senza più pensar si cacciò inante. 7 Il creder d'aver seco il re d'Algieri fece che si curò poco del patto; e non avria di mille cavallieri giunti in suo aiuto sì gran stima fatto. Perciò lance abbassar, spronar destrieri di qua di là veduto fu in un tratto. Melissa, poi che con sue finte larve la battaglia attaccò, subito sparve. 8 I duo campion che vedeno turbarsi contra ogni accordo, contra ogni promessa, senza più l'un con l'altro travagliarsi, anzi ogni ingiuria avendosi rimessa, fede si dan né qua né là impacciarsi, fin che la cosa non sia meglio espressa, chi stato sia che i patti ha rotto inante, o 'l vecchio Carlo, o 'l giovene Agramante. 9 E replican con nuovi giuramenti d'esser nimici a chi mancò di fede. Sozzopra se ne van tutte le genti: chi porta inanzi e chi ritorna il piede. Chi sia fra i vili, e chi tra i più valenti in un atto medesimo si vede: son tutti parimente al correr presti; ma quei corrono inanzi, e indietro questi. 10 Come levrier che la fugace fera correre intorno et aggirarsi mira, né può con gli altri cani andare in schiera, che 'l cacciator lo tien, si strugge d'ira, si tormenta, s'affligge e si dispera, schiattisce indarno, e si dibatte e tira; così sdegnosa infin allora stata Marfisa era quel dì con la cognata. 11 Fin a quell'ora avean quel dì vedute sì ricche prede in spazïoso piano; e che fosser dal patto ritenute di non poter seguirle e porvi mano, ramaricate s'erano e dolute, e n'avean molto sospirato invano. Or che i patti e le triegue vider rotte, liete saltar ne l'africane frotte. 12 Marfisa cacciò l'asta per lo petto al primo che scontrò, due braccia dietro: poi trasse il brando, e in men che non l'ho detto, spezzò quattro elmi, che sembrâr di vetro. Bradamante non fe' minore effetto; ma l'asta d'or tenne diverso metro: tutti quei che toccò, per terra mise; duo tanti fur, né però alcuno uccise. 13 Questo sì presso l'una all'altra fêro, che testimonie se ne fur tra loro; poi si scostaro, et a ferir si diero, ove le trasse l'ira, il popul Moro. Chi potrà conto aver d'ogni guerriero ch'a terra mandi quella lancia d'oro? o d'ogni testa che tronca o divisa sia da la orribil spada di Marfisa? 14 Come al soffiar de' più benigni venti, quando Apennin scuopre l'erbose spalle, muovonsi a par duo turbidi torrenti che nel cader fan poi diverso calle; svellono i sassi e gli arbori eminenti da l'alte ripe, e portan ne la valle le biade e i campi; e quasi a gara fanno a chi far può nel suo camin più danno: 15 così le due magnanime guerriere, scorrendo il campo per diversa strada, gran strage fan ne l'africane schiere, l'una con l'asta, e l'altra con la spada. Tiene Agramante a pena alle bandiere la gente sua, ch'in fuga non ne vada. Invan domanda, invan volge la fronte; né può saper che sia di Rodomonte. 16 A conforto di lui rotto avea il patto (così credea) che fu solennemente, i dèi chiamando in testimonio, fatto; poi s'era dileguato sì repente. Né Sobrin vede ancor: Sobrin ritratto in Arli s'era, e dettosi innocente; perché di quel pergiuro aspra vendetta sopra Agramante il dì medesmo aspetta. 17 Marsilio anco è fuggito ne la terra: sì la religïon gli preme il core. Perciò male Agramante il passo serra a quei che mena Carlo imperatore, d'Italia, di Lamagna e d'Inghilterra, che tutte gente son d'alto valore; et hanno i paladin sparsi tra loro, come le gemme in un riccamo d'oro: 18 e presso ai paladini alcun perfetto quanto esser possa al mondo cavalliero, Guidon Selvaggio, l'intrepido petto, e i duo famosi figli d'Oliviero. Io non voglio ridir, ch'io l'ho già detto, di quel par di donzelle ardito e fiero. Questi uccidean di genti saracine tanto, che non v'è numero né fine. 19 Ma differendo questa pugna alquanto, io vo' passar senza navilio il mare. Non ho con quei di Francia da far tanto, ch'io non m'abbia d'Astolfo a ricordare. La grazia che gli diè l'apostol santo io v'ho già detto, e detto aver mi pare, che 'l re Branzardo e il re de l'Algazera per girli incontra armasse ogni sua schiera. 20 Furon di quei ch'aver poteano in fretta, le schiere di tutta Africa raccolte, non men d'inferma età che di perfetta; quasi ch'ancor le femine fur tolte. Agramante ostinato alla vendetta avea già vòta l'Africa due volte. Poche genti rimase erano, e quelle esercito facean timido e imbelle. 21 Ben lo mostrâr; che gli nimici a pena vider lontan, che se n'andaron rotti. Astolfo, come pecore, li mena dinanzi ai suoi di guerreggiar più dotti, e fa restarne la campagna piena: pochi a Biserta se ne son ridotti. Prigion rimase Bucifar gagliardo; salvossi ne la terra il re Branzardo, 22 via più dolente sol di Bucifaro, che se tutto perduto avesse il resto. Biserta è grande, e farle gran riparo bisogna, e senza lui mal può far questo: poterlo riscattar molto avria caro. Mentre vi pensa e ne sta afflitto e mesto, gli viene in mente come tien prigione già molti mesi il paladin Dudone. 23 Lo prese sotto a Monaco in riviera il re di Sarza nel primo passaggio. Da indi in qua prigion sempre stato era Dudon che del Danese fu lignaggio. Mutar costui col re de l'Algazera pensò Branzardo, e ne mandò messaggio al capitan de' Nubi, perché intese per vera spia, ch'egli era Astolfo inglese. 24 Essendo Astolfo paladin, comprende che dee aver caro un paladino sciorre. Il gentil duca, come il caso intende, col re Branzardo in un voler concorre. Liberato Dudon, grazie ne rende al duca, e seco si mette a disporre le cose che appertengono alla guerra, così quelle da mar, come da terra. 25 Avendo Astolfo esercito infinito da non gli far sette Afriche difesa; e rammentando come fu ammonito dal santo vecchio che gli diè l'impresa di tor Provenza e d'Acquamorta il lito di man di Saracin che l'avean presa; d'una gran turba fece nuova eletta, quella ch'al mar gli parve manco inetta. 26 Et avendosi piene ambe le palme, quanto potean capir, di varie fronde a lauri, a cetri tolte, a olive, a palme, venne sul mare, e le gittò ne l'onde. Oh felici, e dal ciel ben dilette alme! Grazia che Dio raro a' mortali infonde! Oh stupendo miracolo che nacque di quelle frondi, come fur ne l'acque! 27 Crebbero in quantità fuor d'ogni stima; si feron curve e grosse e lunghe e gravi; le vene ch'attraverso aveano prima, mutaro in dure spranghe e in grosse travi: e rimanendo acute invêr la cima, tutte in un tratto diventaro navi di differenti qualitadi, e tante, quante raccolte fur da varie piante. 28 Miracol fu veder le fronde sparte produr fuste, galee, navi da gabbia. Fu mirabile ancor, che vele e sarte e remi avean, quanto alcun legno n'abbia. Non mancò al duca poi chi avesse l'arte di governarsi alla ventosa rabbia; che di Sardi e di Corsi non remoti, nocchier, padron, pennesi ebbe e piloti. 29 Quelli che entraro in mar, contati fôro Ventisei mila, e gente d'ogni sorte. Dudon andò per capitano loro, cavallier saggio, e in terra e in acqua forte. Stava l'armata ancora al lito moro, miglior vento aspettando, che la porte, quando un navilio giunse a quella riva, che di presi guerrier carco veniva. 30 Portava quei ch'al periglioso ponte, ove alla giostre il campo era sì stretto, pigliato avea l'audace Rodomonte, come più volte io v'ho di sopra detto. Il cognato tra questi era del conte, e 'l fedel Brandimarte e Sansonetto, et altri ancor, che dir non mi bisogna, d'Alemagna, d'Italia e di Guascogna. 31 Quivi il nocchier, ch'ancor non s'era accorto degli inimici, entrò con la galea, lasciando molte miglia a dietro il porto d'Algieri, ove calar prima volea, per un vento gagliardo ch'era sorto, e spinto oltre il dover la poppa avea. Venir tra i suoi credette e in loco fido, come vien Progne al suo loquace nido. 32 Ma come poi l'imperïale augello, i gigli d'oro e i pardi vide appresso, restò pallido in faccia, come quello che 'l piede incauto d'improviso ha messo sopra il serpente venenoso e fello, dal pigro sonno in mezzo l'erbe oppresso; che spaventato e smorto si ritira, fuggendo quel, ch'è pien di tòsco e d'ira. 33 Già non poté fuggir quindi il nocchiero, né tener seppe i prigion suoi di piatto. Con Brandimarte fu, con Oliviero, con Sansonetto e con molti altri tratto ove dal duca e dal figliuol d'Uggiero fu lieto viso agli suo' amici fatto; e per mercede lui che li condusse, vòlson che condannato al remo fusse. 34 Come io vi dico, dal figliuol d'Otone i cavallier cristian furon ben visti, e di mensa onorati al padiglione, d'arme e di ciò che bisognò provisti. Per amor d'essi differì Dudone l'andata sua; che non minori acquisti di ragionar con tai baroni estima, che d'esser gito uno o duo giorni prima. 35 In che stato, in che termine si trove e Francia e Carlo, istruzïon vera ebbe; e dove più sicuramente, e dove, per far miglior effetto, calar debbe. Mentre da lor venìa intendendo nuove, s'udì un rumor che tuttavia più crebbe; e un dar all'arme ne seguì sì fiero, che fece a tutti far più d'un pensiero. 36 Il duca Astolfo e la compagnia bella, che ragionando insieme si trovaro, in un momento armati furo e in sella, e verso il maggior grido in fretta andaro, di qua di là cercando pur novella di quel romore; e in loco capitaro, ove videro un uom tanto feroce, che nudo e solo a tutto 'l campo nuoce. 37 Menava un suo baston di legno in volta, che era sì duro e sì grave e sì fermo, che declinando quel, facea ogni volta cader in terra un uom peggio ch'infermo. Già a più di cento avea la vita tolta; né più se gli facea riparo o schermo, se non tirando di lontan saette: d'appresso non è alcun già che l'aspette. 38 Dudone, Astolfo, Brandimarte, essendo corsi in fretta al romore, et Oliviero, de la gran forza e del valor stupendo stavan maravigliosi di quel fiero; quando venir s'un palafren correndo videro una donzella in vestir nero, che corse a Brandimarte e salutollo, e gli alzò a un tempo ambe le braccia al collo. 39 Questa era Fiordiligi, che sì acceso avea d'amor per Brandimarte il core, che quando al ponte stretto il lasciò preso, vicina ad impazzar fu di dolore. Di là dal mare era passata, inteso avendo dal pagan che ne fu autore, che mandato con molti cavallieri era prigion ne la città d'Algieri. 40 Quando fu per passare, avea trovato a Marsilia una nave di Levante, ch'un vecchio cavalliero avea portato de la famiglia del re Monodante; il qual molte provincie avea cercato, quando per mar, quando per terra errante, per trovar Brandimarte; che nuova ebbe tra via di lui, ch'in Francia il troverebbe. 41 Et ella, conosciuto che Bardino era costui, Bardino che rapito al padre Brandimarte piccolino, et a Ròcca Silvana avea notrito, e la cagione intesa del camino, seco fatto l'avea scioglier dal lito, avendogli narrato in che maniera Brandimarte passato in Africa era. 42 Tosto che furo a terra, udîr le nuove, ch'assetiata d'Astolfo era Biserta: che seco Brandimarte si ritrove udito avean, ma non per cosa certa. Or Fiordiligi in tal fretta si muove, come lo vede, che ben mostra aperta quella allegrezza ch'i precessi guai le fêro la maggior ch'avesse mai. 43 Il gentil cavallier, non men giocondo di veder la diletta e fida moglie ch'amava più che cosa altra del mondo, l'abraccia e stringe e dolcemente accoglie: né per saziare al primo né al secondo né al terzo bacio era l'accese voglie; se non ch'alzando gli occhi ebbe veduto Bardin che con la donna era venuto. 44 Stese le mani, et abbracciar lo volle, e insieme domandar perché venìa; ma di poterlo far tempo gli tolle il campo ch'in disordine fuggia dinanzi a quel baston che 'l nudo folle menava intorno, e gli facea dar via. Fiordiligi mirò quel nudo in fronte, e gridò a Brandimarte: - Eccovi il conte! - 45 Astolfo tutto a un tempo, ch'era quivi, che questo Orlando fosse, ebbe palese per alcun segno che dai vecchi divi su nel terrestre paradiso intese. Altrimente restavan tutti privi di cognizion di quel signor cortese; che per lungo sprezzarsi, come stolto, avea di fera, più che d'uomo, il volto. 46 Astolfo per pietà che gli traffisse il petto e il cor, si volse lacrimando; et a Dudon (che gli era appresso) disse, et indi ad Oliviero: - Eccovi Orlando! - Quei gli occhi alquanto e le palpèbre fisse tenendo in lui, l'andar raffigurando; e 'l ritrovarlo in tal calamitade, gli empì di meraviglie e di pietade. 47 Piangeano quei signor per la più parte: sì lor ne dolse, e lor ne 'ncrebbe tanto. - Tempo è (lor disse Astolfo) trovar arte di risanarlo, e non di fargli il pianto. - E saltò a piedi, e così Brandimarte, Sansonetto, Oliviero e Dudon santo; e s'aventaro al nipote di Carlo tutti in un tempo; che volean pigliarlo. 48 Orlando che si vide fare il cerchio, menò il baston da disperato e folle; et a Dudon che si facea coperchio al capo de lo scudo et entrar volle, fe' sentir ch'era grave di soperchio: e se non che Olivier col brando tolle parte del colpo, avria il bastone ingiusto rotto lo scudo, l'elmo, il capo e il busto. 49 Lo scudo roppe solo, e su l'elmetto tempestò sì, che Dudon cadde in terra. Menò la spada a un tempo Sansonetto; e del baston più di duo braccia afferra con valor tal, che tutto il taglia netto. Brandimarte ch'addosso se gli serra, gli cinge i fianchi, quanto può, con ambe le braccia, e Astolfo il piglia ne le gambe. 50 Scuotesi Orlando, e lungi dieci passi da sé l'Inglese fe' cader riverso: non fa però che Brandimarte il lassi, che con più forza l'ha preso a traverso. Ad Olivier che troppo inanzi fassi, menò un pugno sì duro e sì perverso, che lo fe' cader pallido et esangue, e dal naso e dagli occhi uscirgli il sangue. 51 E se non era l'elmo più che buono, ch'avea Olivier, l'avria quel pugno ucciso: cadde però, come se fatto dono avesse de lo spirto al paradiso. Dudone e Astolfo che levati sono, ben che Dudone abbia gonfiato il viso, e Sansonetto che 'l bel colpo ha fatto, adosso a Orlando son tutti in un tratto. 52 Dudon con gran vigor dietro l'abbraccia, pur tentando col piè farlo cadere: Astolfo e gli altri gli han prese le braccia, né lo puon tutti insieme anco tenere. C'ha visto toro a cui si dia la caccia, e ch'alle orecchie abbia le zanne fiere, correr mugliando, e trarre ovunque corre i cani seco, e non potersi sciorre; 53 imagini ch'Orlando fosse tale, che tutti quei guerrier seco traea. In quel tempo Olivier di terra sale, là dove steso il gran pugno l'avea; e visto che così si potea male far di lui quel ch'Astolfo far volea, si pensò un modo, et ad effetto il messe, di far cader Orlando, e gli successe. 54 Si fe' quivi arrecar più d'una fune, e con nodi correnti adattò presto; et alle gambe et alle braccia alcune fe' porre al conte, et a traverso il resto. Di quelle i capi poi partì in commune, e li diede a tenere a quello e a questo. Per quella via che maniscalco atterra cavallo o bue, fu tratto Orlando in terra. 55 Come egli è in terra, gli son tutti adosso, e gli legan più forte e piedi e mani. Assai di qua di là s'è Orlando scosso, ma sono i suoi risforzi tutti vani. Commanda Astolfo che sia quindi mosso, che dice voler far che si risani. Dudon ch'è grande, il leva in su le schene, e porta al mar sopra l'estreme arene. 56 Lo fa lavar Astolfo sette volte; e sette volte sotto acqua l'attuffa; sì che dal viso e da le membra stolte leva la brutta rugine e la muffa: poi con certe erbe, a questo effetto colte, la bocca chiuder fa, che soffia e buffa; che non volea ch'avesse altro meato onde spirar, che per lo naso, il fiato. 57 Aveasi Astolfo apparecchiato il vaso in che il senno d'Orlando era rinchiuso; e quello in modo appropinquògli al naso, che nel tirar che fece il fiato in suso, tutto il votò: maraviglioso caso! che ritornò la mente al primier uso; e ne' suoi bei discorsi l'intelletto rivenne, più che mai lucido e netto. 58 Come chi da noioso e grave sonno, ove o vedere abominevol forme di mostri che non son, né ch'esser ponno, o gli par cosa far strana et enorme, ancor si maraviglia, poi che donno è fatto de' suoi sensi, e che non dorme; così, poi che fu Orlando d'error tratto, restò maraviglioso e stupefatto. 59 E Brandimarte, e il fratel d'Aldabella, e quel che 'l senno in capo gli ridusse, pur pensando riguarda, e non favella, come egli quivi e quando si condusse. Girava gli occhi in questa parte e in quella, né sapea imaginar dove si fusse. Si maraviglia che nudo si vede, e tante funi ha da le spalle al piede. 60 Poi disse, come già disse Sileno a quei che lo legâr nel cavo speco: - Solvite me, - con viso sì sereno, con guardo sì men de l'usato bieco, che fu slegato; e de' panni ch'avieno fatti arrecar participaron seco, consolandolo tutti del dolore, che lo premea, di quel passato errore. 61 Poi che fu all'esser primo ritornato Orlando più che mai saggio e virile, d'amor si trovò insieme liberato; sì che colei, che sì bella e gentile gli parve dianzi, e ch'avea tanto amato, non stima più se non per cosa vile. Ogni suo studio, ogni disio rivolse a racquistar quanto già amor gli tolse. 62 Narrò Bardino intanto a Brandimarte, che morto era il suo padre Monodante; e che a chiamarlo al regno egli da parte veniva prima del fratel Gigliante, poi de le genti ch'abitan le sparte isole in mare, e l'ultime in Levante; di che non era un altro regno al mondo sì ricco, populoso, o sì giocondo. 63 Disse, tra più ragion che dovea farlo, che dolce cosa era la patria; e quando si disponesse di voler gustarlo, avria poi sempre in odio andare errando. Brandimarte rispose voler Carlo servir per tutta questa guerra e Orlando; e se potea vederne il fin, che poi penseria meglio sopra i casi suoi. 64 Il dì seguente la sua armata spinse verso Provenza il figlio del Danese. Indi Orlando col duca si ristrinse, et in che stato era la guerra, intese. tutta Biserta poi d'assetio cinse, dando però l'onore al duca inglese d'ogni vittoria; ma quel duca il tutto facea, come dal conte venìa istrutto. 65 Ch'ordine abbian tra lor, come s'assaglia la gran Biserta, e da che lato e quando, come fu presa alla prima battaglia, chi ne l'onor parte ebbe con Orlando, s'io non vi séguito ora, non vi caglia; ch'io non me ne vo molto dilungando. In questo mezzo di saper vi piaccia, come dai Franchi i Mori hanno la caccia. 66 Fu quasi il re Agramante abbandonato nel pericol maggior di quella guerra; che con molti pagani era tornato Marsilio e 'l re Sobrin dentro alla terra, poi su l'armata è questo e quel montato, che dubbio avean di non salvarsi in terra; e duci e cavallier del popul Moro molti seguito avean l'esempio loro. 67 Pure Agramante la pugna sostiene; e quando finalmente più non puote, volta le spalle, e la via dritta tiene alle porte non troppo indi remote. Rabican dietro in gran fretta gli viene, che Bradamante stimola e percuote: d'ucciderlo era disïosa molto; che tante volte il suo Ruggier le ha tolto. 68 Il medesmo desir Marfisa avea, per far del padre suo tarda vendetta; e con gli sproni, quanto più potea, facea il destrier sentir ch'ella avea fretta. Ma né l'una né l'altra vi giungea sì a tempo, che la via fosse intercetta al re d'entrar ne la città serrata, et indi poi salvarsi in su l'armata. 69 Come due belle e generose parde che fuor del lascio sien di pari uscite, poscia ch'i cervi o le capre gagliarde indarno aver si veggano seguite, vergognandosi quasi, che fur tarde, sdegnose se ne tornano e pentite; così tornâr le due donzelle, quando videro il pagan salvo, sospirando. 70 Non però si fermâr; ma ne la frotta degli altri che fuggivano, cacciârsi, di qua di là facendo ad ogni botta molti cader senza mai più levarsi. A mal partito era la gente rotta, che per fuggir non potea ancor salvarsi; ch'Agramante avea fatto per suo scampo chiuder la porta ch'uscia verso il campo, 71 e fatto sopra il Rodano tagliare i ponti tutti. Ah sfortunata plebe, che dove del tiranno utile appare, sempre è in conto di pecore e di zebe! Chi s'affoga nel fiume e chi nel mare, chi sanguinose fa di sé le glebe. Molti perîr, pochi restar prigioni; che pochi a farsi taglia erano buoni. 72 De la gran moltitudine ch'uccisa fu da ogni parte in questa ultima guerra (ben che la cosa non fu ugual divisa; ch'assai più andâr dei Saracin sotterra per man di Bradamante e di Marfisa), se ne vede ancor segno in quella terra; che presso ad Arli, ove il Rodano stagna, piena di sepolture è la campagna. 73 Fatto avea intanto il re Agramante sciorre e ritirar in alto i legni gravi, lasciando alcuni, e i più leggieri, a tôrre quei che volean salvarsi in su le navi. Vi ste' duo dì per chi fuggia raccorre, e perché venti eran contrari e pravi: Fece lor dar le vele il terzo giorno; ch'in Africa credea di far ritorno. 74 Il re Marsilio che sta in gran paura ch'alla sua Spagna il fio pagar non tocche, e la tempesta orribilmente oscura sopra suoi campi all'ultimo non scocche; si fe' porre a Valenza, e con gran cura cominciò a riparar castella e ròcche, e preparar la guerra che fu poi la sua ruina e degli amici suoi. 75 Verso Africa Agramante alzò le vele de' legni male armati, e vòti quasi; d'uomini vòti, e pieni di querele, perch'in Francia i tre quarti eran rimasi. Chi chiama il re superbo, chi crudele, chi stolto; e come avviene in simil casi, tutti gli voglion mal ne' lor secreti; ma timor n'hanno, e stan per forza cheti. 76 Pur duo talora o tre schiudon le labbia, ch'amici sono, e che tra lor s'han fede, e sfogano la còlera e la rabbia; e 'l misero Agramante ancor si crede ch'ognun gli porti amore, e pietà gli abbia: e questo gl'intervien, perché non vede mai visi se non finti, e mai non ode se non adulazion, menzogne e frode. 77 Erasi consigliato il re africano di non smontar nel porto di Biserta, però ch'avea del popul nubïano, che quel lito tenea, novella certa; ma tenersi di sopra sì lontano, che non fosse acre la discesa et erta; mettersi in terra, e ritornare al dritto a dar soccorso al suo populo afflitto. 78 Ma il suo fiero destin che non risponde a quella intenzïon provida e saggia, vuol che l'armata che nacque di fronde miracolosamente ne la spiaggia, e vien solcando inverso Francia l'onde, con questa ad incontrar di notte s'aggia, a nubiloso tempo, oscuro e tristo, perché sia in più disordine sprovisto. 79 Non ha avuto Agramante ancora spia, ch'Astolfo mandi una armata sì grossa; né creduto anco a chi 'l dicesse, avria, che cento navi un ramuscel far possa: e vien senza temer ch'intorno sia che contra lui s'ardisca di far mossa, né pone guardie né veletta in gabbia, che di ciò che si scuopre avisar abbia. 80 Sì che i navili che d'Astolfo avuti avea Dudon, di buona gente armati, e che la sera avean questi veduti, et alla volta lor s'eran drizzati, assalîr gli nimici sprovetuti, gittaro i ferri, e sonsi incatenati, poi ch'al parlar certificati fôro, ch'erano Mori e gli nimici loro. 81 Ne l'arrivar i gran navili fenno (spirando il vento a' lor desir secondo), nei Saracin con tale impeto denno, che molti legni ne cacciaro al fondo. Poi cominciaro oprar le mani e il senno, e ferro e fuoco e sassi di gran pondo tirar con tanta e sì fiera tempesta, che mai non ebbe il mar simile a questa. 82 Quei di Dudone, a cui possanza e ardire più del solito è lor dato di sopra (che venuto era il tempo di punire i Saracin di più d'una mal'opra), sanno appresso e lontan sì ben ferire, che non trova Agramante ove si cuopra. Gli cade sopra un nembo di saette; da lato ha spade e graffi e picche e accette. 83 D'alto cader sente gran sassi e gravi da machine cacciati e da tormenti; e prore e poppe fraccassar de navi, et aprire usci al mar larghi e patenti; e 'l maggior danno è de l'incendi pravi, a nascer presti, ad ammorzarsi lenti. La sfortunata ciurma si vuol tôrre del gran periglio, e via più ognor vi corre. 84 Altri che 'l ferro e l'inimico caccia, nel mar si getta, e vi s'affoga e resta: altri che muove a tempo piedi e braccia, va per salvarsi o in quella barca o in questa; ma quella, grave oltre il dover, lo scaccia, e la man, per salir troppo molesta, fa restare attaccata ne la sponda: ritorna il resto a far sanguigna l'onda. 85 Altri che spera in mar salvar la vita, o perderlavi almen con minor pena, poi che notando non ritrova aita, e mancar sente l'animo e la lena, alla vorace fiamma c'ha fuggita, la tema di annegarsi anco rimena: s'abbraccia a un legno ch'arde, e per timore c'ha di due morte, in ambe se ne muore. 86 Altri per tema di spieto o d'accetta che vede appresso, al mar ricorre invano, perché dietro gli vien pietra o saetta che non lo lascia andar troppo lontano. Ma saria forse, mentre che diletta il mio cantar, consiglio utile e sano di finirlo, più tosto che seguire tanto, che v'annoiasse il troppo dire.
1 Lungo sarebbe, se i diversi casi volessi dir di quel naval conflitto; e raccontarlo a voi mi parria quasi, magnanimo figliuol d'Ercole invitto, portar, come si dice, a Samo vasi, nottole Atene, e crocodili a Egitto; che quanto per udita io ve ne parlo, Signor, miraste, e fêste altrui mirarlo. 2 Ebbe lungo spettacolo il fedele vostro popul la notte e 'l dì che stette, come in teatro, l'inimiche vele mirando in Po tra ferro e fuoco astrette. Che gridi udir si possano e querele, ch'onde veder di sangue umano infette, per quanti modi in tal pugna si muora, vedeste, e a molti il dimostraste allora. 3 Nol vide io già, ch'era sei giorni inanti, mutando ogn'ora altre vetture, corso con molta fretta e molta ai piedi santi del gran Pastore a domandar soccorso: poi né cavalli bisognar né fanti; ch'intanto al Leon d'or l'artiglio e 'l morso fu da voi rotto sì, che più molesto non l'ho sentito da quel giorno a questo. 4 Ma Alfonsin Trotto il qual si trovò in fatto, Annibal e Pier Moro e Afranio e Alberto, e tre Arïosti, e il Bagno e il Zerbinatto tanto me ne contâr, ch'io ne fui certo: me ne chiarîr poi le bandiere affatto, vistone al tempio il gran numero offerto, e quindice galee ch'a queste rive con mille legni star vidi captive. 5 Chi vide quelli incendi e quei naufragi, le tante uccisïoni e sì diverse, che, vendicando i nostri arsi palagi, fin che fu preso ogni navilio, fêrse; potrà, veder le morti anco e i disagi che 'l miser popul d'Africa sofferse col re Agramante in mezzo l'onde salse, la scura notte che Dudon l'assalse. 6 Era la notte, e non si vedea lume, quando s'incominciâr l'aspre contese: ma poi che 'l zolfo e la pece e 'l bitume sparso in gran copia, ha prore e sponde accese, e la vorace fiamma arde e consume le navi e le galee poco difese; sì chiaramente ognun si vedea intorno, che la notte parea mutata in giorno. 7 Onde Agramante che per l'aer scuro, non avea l'inimico in sì gran stima, né aver contrasto si credea sì duro, che, resistendo, al fin non lo reprima; poi che rimosse le tenèbre furo, e vide quel che non credeva in prima, che le navi nimiche eran duo tante, fece pensier diverso a quel d'avante. 8 Smonta con pochi, ove in più lieve barca ha Brigliadoro e l'altre cose care. Tra legno e legno taciturno varca, fin che si trova in più sicuro mare da' suoi lontan, che Dudon preme e carca, e mena a condizioni acri et amare. Gli arde il foco, il mar sorbe, il ferro strugge: egli che n'è cagion, via se ne fugge. 9 Fugge Agramante et ha con lui Sobrino, con cui si duol di non gli aver creduto, quando previde con occhio divino, e 'l mal gli annunzïò, ch'or gli è avvenuto. Ma torniamo ad Orlando paladino, che, prima che Biserta abbia altro aiuto, consiglia Astolfo che la getti in terra, sì che a Francia mai più non faccia guerra. 10 E così fu publicamente detto che 'l campo in arme al terzo dì sia instrutto. Molti navili Astolfo a questo effetto tenuti avea, né Dudon n'ebbe il tutto; di quai diete il governo a Sansonetto, sì buon guerrier al mar come all'asciutto: e quel si pose, in su l'ancore sorto, contra a Biserta, un miglio appresso al porto. 11 Come veri cristiani Astolfo e Orlando, che senza Dio non vanno a rischio alcuno, ne l'esercito fan publico bando, che sieno orazïon fatte e digiuno; e che si trovi il terzo giorno, quando si darà il segno, apparecchiato ognuno per espugnar Biserta, che data hanno, vinta che s'abbia, a fuoco e a saccomanno. 12 E così, poi che le astinenze e i voti devotamente celebrati fôro, parenti, amici, e gli altri insieme noti si cominciaro a convitar tra loro. Dato restauro a' corpi esausti e voti, abbracciandosi insieme lacrimoro, tra loro usando i modi e le parole che tra i più cari al dipartir si suole. 13 Dentro a Biserta i sacerdoti santi supplicando col populo dolente, battonsi il petto, e con dirotti pianti chiamano il lor Macon che nulla sente. Quante vigilie, quante offerte, quanti doni promessi son privatamente! quanto in publico templi, statue, altari, memoria eterna de' lor casi amari! 14 E poi che dal Cadì fu benedetto, prese il populo l'arme, e tornò al muro. Ancor giacea col suo Titon nel letto la bella Aurora, et era il cielo oscuro, quando Astolfo da un canto, e Sansonetto da un altro, armati agli ordini lor furo: e poi che 'l segno che diè il conte udiro, Biserta con grande impeto assaliro. 15 Avea Biserta da duo canti il mare, setea dagli altri duo nel lito asciutto. Con fabrica eccellente e singulare fu antiquamente il suo muro costrutto. Poco altro ha che l'aiuti o la ripare; che poi che 'l re Branzardo fu ridutto dentro da quella, pochi mastri, e poco poté aver tempo a riparare il loco. 16 Astolfo dà l'assunto al re de' Neri, che faccia a' merli tanto nocumento con falariche, fonde e con arcieri, che levi d'affacciarsi ogni ardimento; sì che passin pedoni e cavallieri fin sotto la muraglia a salvamento, che vengon, chi di pietre e chi di travi, chi d'asce e chi d'altra materia gravi. 17 Chi questa cosa e chi quell'altra getta dentro alla fossa, e vien di mano in mano; di cui l'acqua il dì inanzi fu intercetta, sì che in più parti si scopria il pantano. Ella fu piena et atturata in fretta, e fatto uguale insin al muro il piano. Astolfo, Orlando et Olivier procura di far salir i fanti in su le mura. 18 I Nubi d'ogni indugio impazïenti, da la speranza del guadagno tratti, non mirando a' pericoli imminenti, coperti da testuggini e da gatti, con arïeti e loro altri instrumenti a forar torri, e porte rompere atti, tosto si fêro alla città vicini; né trovaro sprovisti i Saracini: 19 che ferro e fuoco e merli e tetti gravi cader facendo a guisa di tempeste, per forza aprian le tavole e le travi de le machine in lor danno conteste. Ne l'aria oscura e nei principi pravi molto patîr le battezzate teste; ma poi che 'l sole uscì del ricco albergo, voltò Fortuna ai Saracini il tergo. 20 Da tutti i canti risforzar l'assalto fe' il conte Orlando e da mare e da terra. Sansonetto ch'avea l'armata in alto, entrò nel porto e s'accostò alla terra; e con frombe e con archi facea d'alto, e con varii tormenti estrema guerra; e facea insieme espetir lance e scale, ogni apparecchio e munizion navale. 21 Facea Oliviero, Orlando e Brandimarte, e quel che fu sì dianzi in aria ardito, aspra e fiera battaglia da la parte che lungi al mare era più dentro al lito. Ciascun d'essi venìa con una parte de l'oste che s'avean quadripartito. Quale a mur, quale a porte, e quale altrove, tutti davan di sé lucide prove. 22 Il valor di ciascun meglio si puote veder così, che se fosser confusi: chi sia degno di premio e chi di note, appare inanzi a mill'occhi non chiusi. Torri di legno trannosi con ruote, e gli elefanti altre ne portano usi, che su lor dossi così in alto vanno, che i merli sotto a molto spazio stanno. 23 Vien Brandimarte, e pon la scala a' muri, e sale, e di salir altri conforta: lo seguon molti intrepidi e sicuri; che non può dubitar chi l'ha in sua scorta. Non è chi miri, o chi mirar si curi, se quella scala il gran peso comporta. Sol Brandimarte agli nimici attende; pugnando sale, e al fine un merlo prende. 24 E con mano e con piè quivi s'attacca, salta sui merli, e mena il brando in volta, urta, riversa e fende e fora e ammacca, e di sé mostra esperïenza molta. Ma tutto a un tempo la scala si fiacca, che troppa soma e di soperchio ha tolta: e for che Brandimarte, giù nel fosso vanno sozzopra, e l'uno all'altro adosso. 25 Per ciò non perde il cavallier l'ardire, né pensa riportare a dietro il piede; ben che de' suoi non vede alcun seguire, ben che berzaglio alla città si vede. Pregavan molti (e non volse egli udire) che ritornasse; ma dentro si diede: dico che giú ne la città d'un salto dal muro entrò, che trenta braccia era alto. 26 Come trovato avesse o piume o paglia, presse il duro terren senza alcun danno; e quei c'ha intorno affrappa e fora e taglia, come s'affrappa e taglia e fora il panno. Or contra questi, or contra quei si scaglia; e quelli e questi in fuga se ne vanno. Pensano quei di fuor, che l'han veduto dentro saltar, che tardo fia ogni aiuto. 27 Per tutto 'l campo alto rumor si spande di voce in voce, e 'l mormorio e 'l bisbiglio. La vaga Fama intorno si fa grande, e narra, et accrescendo va il periglio. Ove era Orlando (perché da più bande si dava assalto), ove d'Otone il figlio, ove Olivier, quella volando venne, senza posar mai le veloci penne. 28 Questi guerrier, e più di tutti Orlando, ch'amano Brandimarte e l'hanno in pregio, udendo che se van troppo indugiando, perderanno un compagno così egregio, piglian le scale, e qua e là montando, mostrano a gara animo altiero e regio, con sì audace sembiante e sì gagliardo, che i nimici tremar fan con lo sguardo. 29 Come nel mar che per tempesta freme, assaglion l'acque il temerario legno, ch'or da la prora, or da le parti estreme cercano entrar con rabbia e con isdegno; il pallido nocchier sospira e geme, ch'aiutar deve, e non ha cor né ingegno; una onda viene al fin, ch'occupa il tutto, e dove quella entrò, segue ogni flutto: 30 così dipoi ch'ebbono presi i muri questi tre primi, fu sì largo il passo, che gli altri ormai seguir ponno sicuri, che mille scale hanno fermate al basso. Aveano intanto gli arïeti duri rotto in più lochi, e con sì gran fraccasso, che si poteva in più che in una parte soccorrer l'animoso Brandimarte. 31 Con quel furor che 'l re de' fiumi altiero, quando rompe talvolta argini e sponde, e che nei campi Ocnei s'apre il sentiero, e i grassi solchi e le biade feconde, e con le sue capanne il gregge intero, e coi cani i pastor porta ne l'onde; guizzano i pesci agli olmi in su la cima, ove solean volar gli augelli in prima: 32 con quel furor l'impetuosa gente, là dove avea in più parti il muro rotto, entrò col ferro e con la face ardente a distrugere il popul mal condotto. Omicidio, rapina e man violente nel sangue e ne l'aver, trasse di botto la ricca e trionfal città a ruina, che fu di tutta l'Africa regina. 33 D'uomini morti pieno era per tutto; e de le innumerabili ferite fatto era un stagno più scuro e più brutto di quel che cinge la città di Dite. Di casa in casa un lungo incendio indutto ardea palagi, portici e meschite. Di pianti e d'urli e di battuti petti suonano i voti e depredati tetti. 34 I vincitori uscir de le funeste porte vedeansi di gran preda onusti, chi con bei vasi e chi con ricche veste, chi con rapiti argenti a' dèi vetusti: chi traea i figli, e chi le madri meste: fur fatti stupri e mille altri atti ingiusti, dei quali Orlando una gran parte intese, né lo poté vietar, né 'l duca inglese. 35 Fu Bucifar de l'Algazera morto con esso un colpo da Olivier gagliardo. Perduta ogni speranza, ogni conforto, s'uccise di sua mano il re Branzardo. Con tre ferite, onde morì di corto, fu preso Folvo dal duca dal Pardo. Questi eran tre ch'al suo partir lasciato avea Agramante a guardia de lo stato. 36 Agramante ch'intanto avea deserta l'armata, e con Sobrin n'era fuggito, pianse da lungi e sospirò Biserta, veduto sì gran fiamma arder sul lito. Poi più d'appresso ebbe novella certa come de la sua terra il caso era ito: e d'uccider se stesso in pensier venne, e lo facea; ma il re Sobrin lo tenne. 37 Dicea Sobrin: - Che più vittoria lieta, signor, potrebbe il tuo inimico avere, che la tua morte udire, onde quïeta si speraria poi l'Africa godere? Questo contento il viver tuo gli vieta: quindi avrà cagion sempre di temere. Sa ben che lungamente Africa sua esser non può, se non per morte tua. 38 Tutti i sudditi tuoi, morendo, privi de la speranza, un ben che sol ne resta. Spero che n'abbi a liberar, se vivi, e trar d'affanno e ritornarne in festa. So che, se muori, siàn sempre captivi, Africa sempre tributaria e mesta. Dunque, s'in util tuo viver non vuoi, vivi, signor, per non far danno ai tuoi. 39 Dal soldano d'Egitto, tuo vicino, certo esser puoi d'aver danari e gente: malvolentieri il figlio di Pipino in Africa vedrà tanto potente. Verrà con ogni sforzo Norandino per ritornarti in regno, il tuo parente: Armeni, Turchi, Persi, Arabi e Meti, tutti in soccorso avrai, se tu li chiedi. - 40 Con tali e simil detti il vecchio accorto studia tornare il suo signore in speme di racquistarsi l'Africa di corto; ma nel suo cor forse il contrario teme: sa ben quanto è a mal termine e a mal porto, e come spesso invan sospira e geme chiunque il regno suo si lascia tôrre, e per soccorso a' barbari ricorre. 41 Annibal e Iugurta di ciò fôro buon testimoni, et altri al tempo antico: al tempo nostro Ludovico il Moro, dato in poter d'un altro Ludovico. Vostro fratello Alfonso da costoro ben ebbe esempio (a voi, Signor mio, dico), che sempre ha riputato pazzo espresso chi più si fida in altri ch'in se stesso. 42 E però ne la guerra che gli mosse del pontifice irato un duro sdegno, ancor che ne le deboli sue posse non potessi egli far molto disegno, e chi lo difendea, d'Italia fosse spinto, e n'avesse il suo nimico il regno; né per minacce mai né per promesse s'indusse che lo stato altrui cedesse. 43 Il re Agramante all'oriente avea volta la prora, e s'era spinto in alto, quando da terra una tempesta rea mosse da banda impetuoso assalto. Il nocchier ch'al governo vi sedea: - Io veggo (disse alzando gli occhi ad alto) una procella apparecchiar sì grave, che contrastar non le potrà la nave. 44 S'attendete, signori, al mio consiglio, qui da man manca ha un'isola vicina, a cui mi par ch'abbiamo a dar di piglio, fin che passi il furor de la marina. - Consentì il re Agramante; e di periglio uscì, pigliando la spiaggia mancina, che per salute de' nocchieri giace tra gli Afri e di Vulcan l'alta fornace. 45 D'abitazioni è l'isoletta vòta, piena d'umil mortelle e di ginepri, ioconda solitudine e remota a cervi, a daini, a capriuoli, a lepri; e fuor ch'a piscatori, è poco nota, ove sovente a rimondati vepri sospendon, per seccar, l'umide reti: dormeno intanto i pesci in mar quïeti. 46 Quivi trovâr che s'era un altro legno, cacciato da fortuna, già ridutto: il gran guerrier ch'in Sericana ha regno, levato d'Arli, avea quivi condutto. Con modo riverente e di sé degno l'un re con l'altro s'abbracciò all'asciutto; ch'erano amici, e poco inanzi furo compagni d'arme al parigino muro. 47 Con molto dispiacer Gradasso intese del re Agramante le fortune avverse: poi confortollo, e come re cortese, con la propria persona se gli offerse: ma che egli andasse all'infedel paese d'Egitto, per aiuto, non sofferse. - Che vi sia (disse) periglioso gire, dovria Pompeio i profugi ammonire. 48 E perché detto m'hai che con l'aiuto degli Etiopi, sudditi al Senapo, Astolfo a tôrti l'Africa è venuto, e ch'arsa ha la città che n'era capo; e ch'Orlando è con lui, che diminuto poco inanzi di senno aveva il capo; mi pare al tutto un ottimo rimedio aver pensato a farti uscir di tedio. 49 Io piglierò per amor tuo l'impresa d'entrar col conte a singular certame. Contra me so che non avrà difesa, se tutto fosse di ferro o di rame. Morto lui, stimo la cristiana Chiesa, quel che l'agnelle il lupo ch'abbia fame. Ho poi pensato (e mi fia cosa lieve) di fare i Nubi uscir d'Africa in breve. 50 Farò che gli altri Nubi che da loro il Nilo parte e la diversa legge, e gli Arabi e i Macrobi, questi d'oro ricchi e di gente, e quei d'equino gregge, Persi e Caldei (perché tutti costoro con altri molti il mio scettro corregge); farò ch'in Nubia lor faran tal guerra, che non si fermeran ne la tua terra. - 51 Al re Agramante assai parve oportuna del re Gradasso la seconda offerta; e si chiamò obligato alla Fortuna, che l'avea tratto all'isola deserta: ma non vuol tôrre a condizione alcuna, se racquistar credesse indi Biserta, che battaglia per lui Gradasso prenda; che 'n ciò gli par che l'onor troppo offenda. 52 - S'a disfidar s'ha Orlando, son quell'io (rispose) a cui la pugna più conviene: e pronto vi sarò; poi faccia Dio di me, come gli pare, o male o bene. - - Facciàn (disse Gradasso) al modo mio, a un nuovo modo ch'in pensier mi viene: questa battaglia pigliamo ambedui incontra Orlando, e un altro sia con lui. - 53 - Pur ch'io non resti fuor, non me ne lagno (disse Agramante), o sia primo o secondo: ben so ch'in arme ritrovar compagno di te miglior non si può in tutto 'l mondo. - - Et io (disse Sobrin) dove rimagno? E se vecchio vi paio, vi rispondo ch'io debbo esser più esperto, e nel periglio presso alla forza è buono aver consiglio. - 54 D'una vecchiezza valida e robusta era Sobrino, e di famosa prova; e dice ch'in vigor l'età vetusta si sente pari alla già verde e nuova. Stimata fu la sua domanda giusta; e senza indugio un messo si ritrova, il qual si mandi agli africani lidi, e da lor parte il conte Orlando sfidi; 55 che s'abbia a ritrovar con numer pare di cavallieri armati in Lipadusa. Una isoletta è questa, che dal mare metesmo che li cinge, è circonfusa. Non cessa il messo a vela e a remi andare, come quel che prestezza al bisogno usa, che fu a Biserta; e trovò Orlando quivi, ch'a suoi le spoglie dividea e i captivi. 56 Lo 'nvito di Gradasso e d'Agramante e di Sobrino in publico fu espresso, tanto giocondo al principe d'Anglante, che d'ampli doni onorar fece il messo. Avea dai suoi compagni udito inante, che Durindana al fianco s'avea messo il re Gradasso: onde egli, per desire di racquistarla, in India volea gire, 57 stimando non aver Gradasso altrove, poi ch'udì che di Francia era partito. Or più vicin gli è offerto luogo, dove spera che 'l suo gli fia restituito. Il bel corno d'Almonte anco lo muove ad accettar sì volentier lo 'nvito, e Brigliador non men; che sapea in mano esser venuti al figlio di Troiano. 58 Per compagno s'elegge alla battaglia il fedel Brandimarte e 'l suo cognato. Provato ha quanto l'uno e l'altro vaglia; sa che da trambi è sommamente amato. Buon destrier, buona piastra e buona maglia, e spade cerca e lance in ogni lato a sé e a' compagni: che sappiate parme, che nessun d'essi avea le solite arme. 59 Orlando (come io v'ho detto più volte) de le sue sparse per furor la terra: agli altri ha Rodomonte le lor tolte, ch'or alta torre in ripa un fiume serra. Non se ne può per Africa aver molte; sì perché in Francia avea tratto alla guerra il re Agramante ciò ch'era di buono, sì perché poche in Africa ne sono. 60 Ciò che di ruginoso e di brunito aver si può, fa ragunare Orlando; e coi compagni intanto va pel lito de la futura pugna ragionando. Gli avvien ch'essendo fuor del campo uscito più di tre miglia, e gli occhi al mare alzando, vide calar con le vele alte un legno verso il lito african senza ritegno. 61 Senza nocchieri e senza naviganti, sol come il vento e sua fortuna il mena, venìa con le vele alte il legno avanti, tanto che se ritenne in su l'arena. Ma prima che di questo più vi canti, l'amor ch'a Ruggier porto mi rimena alla sua istoria, e vuol ch'io vi racconte di lui e del guerrier di Chiaramonte. 62 Di questi duo guerrier dissi che tratti s'erano fuor del marzïale agone, viste convenzïon rompere e patti, e turbarsi ogni squadra e legïone. Chi prima i giuramenti abbia disfatti, e stato sia di tanto mal cagione, o l'imperator Carlo, o il re Agramante, studian saper da chi lor passa avante. 63 Un servitor intanto di Ruggiero, ch'era fedele e pratico et astuto, né pel conflitto dei duo campi fiero avea di vista il patron mai perduto, venne a trovarlo, e la spada e 'l destriero gli diete, perché a' suoi fosse in aiuto. Montò Ruggiero e la sua spada tolse, ma ne la zuffa entrar non però vòlse. 64 Quindi si parte; ma prima rinuova la convenzion che con Rinaldo avea; che se pergiuro il suo Agramante trova, lo lascierà con la sua setta rea. Per quel giorno Ruggier fare altra prova d'arme non vòlse; ma solo attendea a fermar questo e quello, e a domandarlo chi prima roppe, o 'l re Agramante, o Carlo. 65 Ode da tutto 'l mondo, che la parte del re Agramante fu, che roppe prima. Ruggiero ama Agramante, e se si parte da lui per questo, error non lieve stima. Fur le gente africane e rotte e sparte (questo ho già detto inanzi), e da la cima de la volubil ruota tratte al fondo, come piacque a colei ch'aggira il mondo. 66 Tra sé volve Ruggiero e fa discorso, se restar deve, o il suo signor seguire. Gli pon l'amor de la sua donna un morso per non lasciarlo in Africa più gire: lo volta e gira, et a contrario corso lo sprona, e lo minaccia di punire, se l' patto e 'l giuramento non tien saldo, che fatto avea col paladin Rinaldo. 67 Non men da l'altra parte sferza e sprona la vigilante e stimulosa cura, che s'Agramante in quel caso abbandona, a viltà gli sia ascritto et a paura. Se del restar la causa parrà buona a molti, a molti ad accettar fia dura. Molti diran che non si de' osservare quel ch'era ingiusto e illicito a giurare. 68 Tutto quel giorno e la notte seguente stette solingo, e così l'altro giorno, pur travagliando la dubbiosa mente, se partir deve o far quivi soggiorno. Pel signor suo conclude finalmente di fargli dietro in Africa ritorno. Potea in lui molto il coniugale amore, ma vi potea più il debito e l'onore. 69 Torna verso Arli; che trovarvi spera l'armata ancor, ch'in Africa il trasporti: né legno in mar né dentro alla rivera, né Saracini vede, se non morti. Seco al partire ogni legno che v'era trasse Agramante, e 'l resto arse nei porti. Fallitogli il pensier, prese il camino verso Marsilia pel lito marino. 70 A qualche legno pensa dar di piglio, ch'a prieghi o forza il porti all'altra riva. Già v'era giunto del Danese il figlio con l'armata de' barbari captiva. Non si avrebbe potuto un gran di miglio gittar ne l'acqua: tanto la copriva la spessa moltitudine de navi, di vincitori e di prigioni, gravi. 71 Le navi de' pagani, ch'avanzaro dal fuoco e dal naufragio quella notte, eccetto poche ch'in fuga n'andaro, tutte a Marsilia avea Dudon condotte. Sette di quei ch'in Africa regnaro, che, poi che le lor genti vider rotte, con sette legni lor s'eran renduti, stavan dolenti, lacrimosi e muti. 72 Era Dudon sopra la spiaggia uscito, ch'a trovar Carlo andar volea quel giorno; e de' captivi e de lor spoglie ordito con lunga pompa avea un trionfo adorno. Eran tutti i prigion stesi nel lito, e i Nubi vincitori allegri intorno, che faceano del nome di Dudone intorno risonar la regïone. 73 Venne in speranza di lontan Ruggiero, che questa fosse armata d'Agramante; e, per saperne il vero, urtò il destriero. ma riconobbe, come fu più inante, il re de Nasamona prigionero, Baliverzo, Agricalte e Farurante, Manilardo e Clarindo e Rimedonte, che piangendo tenean bassa la fronte. 74 Ruggier che gli ama, sofferir non puote che stian ne la miseria in che li trova. Quivi sa ch'a venir con le man vòte, senza usar forza, il pregar poco giova. La lancia abbassa, e chi li tien percuote; e fa del suo valor l'usata prova; stringe la spada, e in un piccol momento ne fa cadere intorno più di cento. 75 Dudone ode il rumor, la strage vede che fa Ruggier, ma chi sia non conosce. Vede i suoi c'hanno in fuga volto il piede con gran timor, con pianto e con angosce. Presto il destrier, lo scudo e l'elmo chiede; che già avea armato e petto e braccia e cosce: salta a cavallo e si fa dar la lancia, e non oblia ch'è paladin di Francia. 76 Grida che si ritiri ognun da canto, spinge il cavallo e fa sentir gli sproni. Ruggier cent'altri n'avea uccisi intanto, e gran speranza dato a quei prigioni: e come venir vide Dudon santo solo a cavallo, e gli altri esser pedoni, stimò che capo e che signor lor fosse; e contra lui con gran desir si mosse. 77 Già mosso prima era Dudon; ma quando senza lancia Ruggier vide venire, lunge da sé la sua gittò, sdegnando con tal vantaggio il cavallier ferire. Ruggiero, al cortese atto riguardando, disse fra sé: - Costui non può mentire, ch'uno non sia di quei guerrier perfetti che paladin di Francia sono detti. 78 S'impetrar lo potrò, vo' che 'l suo nome, inanzi che segua altro, mi palese; - e così domandollo: e seppe come era Dudon figliuol d'Uggier danese. Dudon gravò Ruggier poi d'ugual some, e parimente lo trovò cortese. Poi che i nomi tra lor s'ebbono detti, si disfidaro, e vennero agli effetti. 79 Avea Dudon quella ferrata mazza ch'in mille imprese gli diè eterno onore: con essa mostra ben ch'egli è di razza di quel Danese pien d'alto valore. La spada ch'apre ogni elmo, ogni corazza, di che non era al mondo la migliore, trasse Ruggiero, e fece paragone di sua virtude al paladin Dudone. 80 Ma perché in mente ogniora avea di meno offender la sua donna, che potea; et era certo, se spargea il terreno del sangue di costui, che la offendea (de le case di Francia istrutto a pieno, la madre di Dudone esser sapea Armelina sorella di Beatrice, ch'era di Bradamante genitrice): 81 per questo mai di punta non gli trasse, e di taglio rarissimo ferìa. Schermiasi, ovunque la mazza calasse, or ribattendo, or dandole la via. Crede Turpin che per Ruggier restasse, che Dudon morto in pochi colpi avria: né mai, qualunque volta si scoperse, ferir, se non di piatto, lo sofferse. 82 Di piatto usar potea, come di taglio, Ruggier la spada sua ch'avea gran schena; e quivi a strano giuoco di sonaglio sopra Dudon con tanta forza mena, che spesso agli occhi gli pon tal barbaglio, che si ritien di non cadere a pena. Ma per esser più grato a chi mi ascolta, io differisco il canto a un'altra volta.
Ruggiero sta per ripartire in sella al proprio destriero, quando il suono di un pianto richiama l’attenzione sua e delle due donne, Marfisa e Bradamante. I tre cavalieri si recano là dove proviene quel lamento ed incontrano così tre donne, alle quali era stata tagliata la gonna fino all’ombelico, e che quindi stanno sedute a terra per nascondere le loro nudità. Bradamante riconosce subito Ullania e due delle donne al suo seguito. La donna le racconta che era stata così umiliata dagli abitanti di un castello vicino, e dice anche di non sapere ormai più nulla dei tre re e dello scudo d’oro che avrebbe dovuto consegnare a re Carlo. Senza aspettare di ricevere la richiesta d’aiuto, i tre cavalieri donano le loro sopravesti alle tre donne, ognuno se ne prende una in sella, e si avviano quindi verso il castello indicato da Ullania. La sera, Ruggiero, Marfisa, Bradamante e le tre donne al seguito alloggiano in un villaggio posto presso una collina e completamante abitato da donne. Ruggiero domanda ad una di loro il perché di quella situazione e gli viene quindi data la spiegazione. Il loro signore, Marganorre, di statura e di forza fuori dal normale, aveva in odio il sesso femminile e le aveva perciò esiliate da ormai due anni al confine dei suoi possedimenti. Ai loro mariti, loro figli, loro fratelli o padri era stato anche impedito di andarle a trovare. Chiunque capitasse al suo castello veniva inoltre sempre gravemente punito ed umiliato, molte volte anche ucciso. La donna prosegue oltre raccontando anche i fatti che hanno portato all’istituzione di quella crudele usanza. Marganorre aveva sempre tenuto nascoso il proprio animo crudele finché erano stati in vita i suoi due figli, Cilandro e Tanacro, molto cortesi ed ospitali verso chiunque passasse per quella terra. Un giornò però capitò nel loro castello un cavaliere accompagnato da una bellissima dama. Cilandro si innamorò a tal punto della donna da scordare ogni regola di cortesia, tentò di entrarne in possesso ponendo un agguato all’ospite e venne così da lui ucciso. La presenza di Tanarco riuscì comunque a tenere ancora a bada la crudeltà di Marganorre. Le regole di buona ospitalità continuarono quindi ad essere ancora rispettate in quelle terre. Lo stesso anno giunse però da loro anche un barone, di nome Olindro, accompagnato dalla sua bellissima sposa, di nome Drusilla. Tanacro cadde nello stesso errore del fratello, se ne innamorò e cercò di impossessarsene con la forza. Per non rischiare di fare la stessa fine di Cilandro, tese però l’agguato al barone in compagnia di altri venti uomini armati. Olindro venne ucciso. Drusilla cercò di uccidersi lanciandosi da una rupe ma non riuscì nel suo intento. Venne quindi fatta prigioniera da Tanacro e condotta al castello di Marganorre. Il ragazzo si prese cura della donna, aveva intenzione di farla guarire per poi sposarla. Fece di tutto per ottenere il suo perdono, ma tanto più si affaticò nel tentativo di farla innamorare di sé, tanto più lei lo odiò e rimase ferma nel suo voler dargli la morte. Drusilla capì di poter riuscire a vendicare la morte del marito solo con l’inganno, decise quindi infine di fingere amore verso il giovane e di volere anch’essa il matrimonio. Come condizione chiese però che la cerimonia si svolgesse secondo le usanze del suo paese, da lei inventate per l’occasione. Il matrimonio si sarebbe dovuto celebrare nel luogo dove si trovava il marito defunto. Un sacerdote avrebbe dovuto celebrare una messa a suffragio del morto, terminata la quale entrambi gli sposi avrebbe dovuto bere del liquore da uno stesso calice. Tanacro accettò la condizione e Drusilla fece quindi preparare la bevanda avvelenata ad una vecchia del suo seguito, finita anch’essa prigioniera. Giunto finalmente il giorno del matrimonio, al termine della cerimonia in memoria di Olindro, il sacerdote pose il calice nelle mani della donna, che bevve un sorso del liquore avvelenato e fece bere il resto a Tanacro. Il ragazzo aprì le braccia per accogliere la donna, lei lo allontanò piena d’ira, gli confessò di averlo avvelenato, lo maledisse e chiese infine perdono al marito per non essere riuscire a dare peggiore punizione al suo assassino. Morì subito dopo, non prima di aver visto morire Tanacro. Marganorre, rimasto con il corpo privo di vita del figlio tra le braccia, non riuscì più a tenere nascosta la propria crudeltà. Il tiranno si accanì con tutte le sue forze sul cadavere di Drusilla, straziandolo in ogni modo. Rivolse poi la propria furia contro le donne presenti e con la propria spada ne fece una strage. Convinto dagli amici a non uccidere tutte le donne del paese, le fece però allontanare, tenendole in pratica prigioniere in un villaggio al confine delle sue terre. Gli uomini che tentarono di raggiungere il villaggio furono gravemente puniti, ed a volte anche uccisi. Marganorre fece anche approvare una legge crudele. Le donne che capitavano in quella valle senza scorta armata al seguito, dovevano essere fustigate e quindi umiliate con il taglio della gonna. Le donne accompagnate da cavalieri armati dovevano essere invece uccise e la loro scorta privata delle armi e fatta prigioniera. Infine, gli unici uomini ad essere liberati, prima di riavere la libertà, dovevano giurare il proprio odio verso il sesso femminile. Il mattino seguente Bradamante, Marfisa e Ruggiero si preparano per raggiungere il castello e mettere fine a quella legge crudele. Giunge presso il villaggio un gruppo armato che sta portando a Marganorre la vecchia che aveva preparato il veleno per Drusilla, ed era poi riuscita a scappare. I tre cavalieri riescono a liberare la donna e la portano quindi con loro presso il castello del tiranno. Giunti nel borgo dove regna il crudele Marganorre, i tre cavalieri vengono subito circondati. Marfisa si lancia contro il tiranno, lo lascia tramortito dopo averlo colpito alla testa con un pugno, lo lega e lo lascia quindi in custodia alla vecchia serva di Drusilla. Dopo un breve combattimento, Marfisa minaccia di dar fuoco alle case se gli abitanti non si mostrano pentiti delle loro azioni. Nessuno esita più a manifestare la propria ribellione contro le regole di Marganorre ed ogniuno vuole ora vendicarsi dei torti subiti. Il tiranno viene quasi linciato dalla folla, il suo castello saccheggiato di ogni avere. A Ullania viene restituito lo scudo d’oro ed i tre re al suo seguito vengono liberati dalla prigione. Sulla colonna che Marganorre aveva fatto erigere con incisa la sua crudele legge, viene appesa l’armatura del tiranno e viene scritta una nuova legge dettata da Marfisa. Saranno le donne a comandare nel villaggio, ogni terra e lo stesso castello sarà di loro proprietà. Inoltre, a nessuno straniero dovrà essere data ospitalità se non giura prima di essere per sempre amico delle donne e nemico dei loro nemici. Marganorre viene consegnato ad Ullania e verrà poi buttato da una torre. Bradamante, Marfisa e Ruggiero ripartono insieme per poi separarsi ad un bivio: l’uomo prosegue il suo viaggio verso Arles, le donne verso l’accampamento cristiano.
Ruggiero prende la via per la città di Arles. Bradamante e Marfisa raggiungono insieme l’accampamento cristiano e ricevono un’accoglienza festosa. Re Carlo le accoglie personalmente e, per la prima volta in tutta la sua vita, Marfisa si inginocchia, tanto è il rispetto, tanta la reverenza che nutre nei confronti di Carlo Magno. Marfisa confessa al re cristiano di essere giunta in Francia solo per muovergli guerra, spinta dall’invidia, dal non volere accettare che un re di religione opposta alla sua potesse avere tanto potere. Racconta di essere figlia di Ruggiero II (e quindi parente dello stesso re Carlo), ucciso a causa del tradimento dello zio. Morta anche la madre (a causa degli zii di Agramante), era stata allevata dal mago Atlante fino all’età di sette anni. Un gruppo di arabi l’aveva però rapita ed era stata poi venduta come schiava ad un re persiano, da lei ucciso. Ad appena diciotto anni aveva già conquistato numerosi regni. Decise quindi, spinta dall’invidia, di raggiungere l’Europa per combattere contro l’esercito di Carlo Magno. L’aver conosciuto le proprie origini le aveva ora spento il furore verso i cristiani, ed acceso un profondo odio verso re Agramante. Marfisa dice anche di voler essere parente e serva di re Carlo, così come in passato lo era stato suo padre. Dice infine di volersi convertire al cristianesimo e di voler poi tornare nelle proprie terre, una volta morto re Agramante, per convertire al cristianesimo anche i suoi sudditi e combattere contro i pagani. Re Carlo accetta di avere Marfisa non solo come parente ma anche come figlia. Il giorno dopo viene allestita una ricca cerimonia e la donna viene battezzata, con il re che le fa da padrino. Tornando a parlare di Astolfo, il cavaliere, presa con sé l’ampolla contenente il senno di Orlando, riceve dall’evangelista Giovanni anche un’erba in grado di ridare la vista al Senapo, re d’Etiopia, e le indicazioni per riuscire ad attraversare senza danni il deserto ed assalire Biserta, capitale del regno di Agramante, con il supporto degli uomini del Senapo stesso. Il paladino raggiunge quindi in sella all’ippogrifo l’Etiopia, ridona la vista al re e fa organizzare l’esercito per muovere guerra contro i pagani. La notte prima della partenza Astolfo raggiunge la caverna dalla quale ha origine il vento australe, che genera le tempeste di sabbia nel deserto, e pone al suo imbocco un otre vuoto. Il giorno dopo il vento si sveglia, come è solito fare, esce furioso dalla caverna e rimane così intrappolato. Il cavaliere conduce l’esercito di Etiopia attraverso il deserto senza alcun problema. Giunti presso un colle, Astolfo mette i guerriri più fidati alla sua base e ne raggiunge in volo la cima. Seguendo le indicazioni ricevute in paradiso, invoca l’evangelista Giovanni ed inzia a buttare dalla cima del colle dei sassi che, per miracolo, si trasformano in cavalli durante la caduta. Ogni fante diviene un cavaliere e l’esercito inizia a fare scorrerie per tutta l’Africa. I re messi da Agramante a guardia del suo regno, tra i quali Branzardo, si muovono contro i cristiani, prima però mandano una nave in Francia per informare il loro signore degli avvenimenti. In Francia, ricevuto il messaggio dall’Africa, Agramante chiama a consiglio i re ed i principi pagani. Il re dice di aver sbagliato a lasciare incustodite le proprie terre, ma di non aver mai comunque ritenuto possibile che il popolo di Etiopia, così distante e separato da loro da un deserto tanto pericoloso, potesse giungere nelle sue terre ad arrecare loro danno. Chiede quindi consiglio a re Marsilio su come comportarsi. Il re di Spagna consiglia ad Agramante di non dare troppo peso alla notizia ricevuta. Dice che probabilmente era stata ingigantita eccessivamente per giustificare una sconfitta di ben minore entità, soprattutto considerando che il fatto appariva in sé troppo inverosimile. Marsilio consiglia infine al re pagano di mandare in Africa solo poche sue navi, basterà la vista della sua bandiera per mettere in fuga gli oppressori, e di non abbandonare quindi l’impresa in Francia, così da non subire un grosso danno e perdere il proprio onore. Il re spagnolo spinge quindi affinché Agramante non abbandoni l’Europa ma ci rimanga per sconfiggere Carlo Magno. Re Sobrino capisce che le parole di Marsilio sono dettate più che altro dall’interesse personale, e prende quindi subito parola. Ricorda al re saraceno di avergli in passato consigliato di stare in pace, era stato allora chiamato codardo ma ora si trova ancora al suo fianco. Altri, come Rodomonte, avevano spinto per muovere guerra ai cristiani, ed ora si tengono lontani dall’azione. Sobrino esorta Agramante a tornare in Africa. Non basta l’assenza di Orlando a fare sperare in una loro vittoria, dal momento che molti di loro sono comunque stati uccisi anche in assenza del paladino, ed ora quella guerra rischia di portarli all’estinzione. I più valorosi guerrieri saraceni non ci sono più e non è previsto l’arrivo di altri rinforzi, mentre re Carlo ne ha adesso dalla sua parte molti di più. L’esercito rimasto serve per proteggere la loro patria, chiede quindi a re Agramante di cambiare i suoi piani e di fare pace con re Carlo. Se però pensa che sia un disonore l’essere il primo a chiedere la pace e voglia proseguire nella battaglia, almeno faccia in modo di uscirne vincitore: proponga a re Carlo di decidere la sorte di tutta la guerra con il combattimento di soli due cavalieri. Propone di mettere il destino di tutti i pagani nelle mani di Ruggiero. Re Agramante viene convinto dalle parole di Sobrino e quello stesso giorno vengono mandati dei messaggeri da re Carlo, che subito accetta il patto sapendo di poter confidare nel valore di Rinaldo. Il paladino è onorato di essere stato scelto per l’impresa. Anche Ruggiero è onorato ma allo stesso tempo si duole profondamente sapendo che lo sfidante è il fratello della sua amata. Bradamante è disperta, capisce che qualunque possa essere l’esito di quel duello, lei non potrà che averne un danno. La maga Melissa ascolta le sue lacrime e le promette di darle tutto il suo aiuto per fare interrompere quel duello. I cavalieri dovranno combattere a piedi ed armati solo di un ascia e di un pugnale. Rinaldo conosce il potere della spada Balisarda di Ruggiero, che annulla qualunque incantesimo, e preferisce pertanto non averne a che fare. Il giorno fissato per il combattimento entrambi gli eserciti escono dai loro accampamenti e si schierano l’uno di fronte all’altro. Vengono eretti due altari e su di essi prima re Carlo e poi Agramante promettono sulle proprie scritture sacre di rispettare il patto: chi perde dovrà pagare un tributo in oro ogni anno al vincitore e non dovrà mai più muovergli guerra. Entrambi i cavalieri giurano quindi di abbandonare la loro schiera e di servire l’esercito avversario, se qualcuno dei loro dovesse intervenire nel combattimento. Inizia quindi il combattimento. Ruggiero, indeciso sul da farsi, è più impegnato a difendersi che ad attaccare.
Ruggiero sa che se uccide Rinaldo perderà per sempre la sua amata Bradamante, ha l’animo tormentato e combatte più in difesa che in attacco. Rinaldo non ha invece preoccupazioni e cerca con ogni affondo di conquistare la vittoria. L’incontro inzia a sembrare impari ai pagani, che iniziano quindi a temere il peggio. La maga Melissa, assunte le sembianze di Rodomonte, si avvicina ad Agramante e chiede al re di intervenire per interrompere quel combattimento (che avrebbe arrecato solo danno), di rompere il patto e passare quindi all’azione con tutto l’esercito. Agramante, credendo di avere al fianco il feroce guerriero, presa fiducia, si spinge subito in avanti. Entrambi gli eserciti si lanciano subito al combattimento ed i due sfidanti abbandonano il duello, si mettono da parte in attesa di sapere chi abbia violato il patto, e giurano infine di essere nemici di quella fazione. Bradamante e Marfisa non resistono oltre e si lanciano in mezzo ai nemici facendo una strage. L’esercito pagano viene messo subito in fuga. Agramante cerca invano Rodomonte, re Marsilio e re Sobrino, ma il primo non era reale e gli altri due si sono prontamente ritirati nella città di Arles, timorosi per l’imminente castigo divino (Agramante era venuto meno ad un giuramento sel testo sacro). Tornando in Africa da Astolfo, contro il paladino e l’esercito di Etiopia si muove un esercito di africani guidato da re Branzardo, messo da Agramante a guardia del suo regno. Vengono arruoltati in Africa bambini, vecchi e anche quasi donne, tutti i migliori cavalieri erano stati infatti inviati in Francia in precedenza. Lo scontro è impari, molti fuggono subito alla sola vista dell’esercito di Etiopia, gli altri vengono sterminati. Re Branzardo, rifiugiatosi nella città di Biserta, capisce di non poter organizzare da solo le difese della città. Facendo uno scambio di prigionieri consegna ad Astolfo il paladino Dudone, catturato da Rodomonte, e riottiene così indietro il re Bucifaro. Astolfo getta in mare dei rami e, grazie ad un altro miracolo, vengono generate delle navi. Il paladino inglese rimane a gestire l’assedio di Biserta e fa imbarcare Dudone verso le coste della Francia, per liberarle, come gli aveva chiesto san Giovanni, dall’occupazione saracena. La flotta non è ancora partita che giunge in porto la nave carica dei cavalieri sconfitti da Rodomonte e fatti poi suoi prigionieri, tra i quali Sansonetto e Brandimarte. L’esercito guidato da Dudone e da Astolfo libera tutti i cristiani senza alcuna difficoltà e viene poi allestito un sontuoso banchetto. I festeggiamenti vengono interrotti da un gran frastuono. Tutti i paladini si armano, corrono sul posto e vedono che i loro soldati sono stati aggrediti e uccisi da un uomo feroce, completamente nudo ed armato di un semplice bastone. Giunge in quel momento anche Fiordiligi, che subito getta le braccia al collo del suo amato Brandimarte, per ritrovare il quale era giunta fino in Africa. A Marsilia aveva infatti incontrato Bardino, cavaliere del padre di Brandimarte ed egli stesso alla ricerca del paladino, si era imbarcata con lui ed aveva così abbandonato l’Europa. Firodiligi riconosce il furioso guerriero nudo, è il conte Orlando. Anche Astolfo riconosce il pazzo, ne comunica l’identità agli altri paladini e tutti rimangono commossi fino alle lacrime per la sua sorte. Tutti i paladini si gettano sul conte, ma la sua forza è immensa ed è solo per fortuna che non ne uccide alcuni. I cavalieri riescono comunque, con gran fatica, a legare Orlando con una fune ed a immobilizzarlo a terra. Seguendo le istruzioni di Astolfo, il conte viene immerso per sette volte in mare affinché si purifichi. Gli viene poi chiusa la bocca con delle erbe, così che possa respirare solo dal naso, ed infine avvicinata al viso l’ampolla contenete il suo senno. Non appena il paladino Orlando ne respira il contenuto, subito riacquisa tutto il proprio intelletto, rinsavisce e rimane meravigliato per la situazione in cui si trova. Dopo essersi guardato in giro in silenzio, senza sapere cosa dire, il paladino apre infine la bocca e dice solo “slegatemi”. Il conte viene fatto vestire e viene consoltato per lo sbaglio compiuto in passato. L’uomo è tornato saggio e si è liberato dalle catene d’amore. Bardino comunica a Brandimarte la morte di suo padre Monodante e chiede al paladino di ritornare in patria. Il cavaliere decide però di continuare a combattere al fianco di re Carlo e di rimandare quindi il suo ritorno. Il giorno seguente Dudone si imbarca verso la Francia. Orlando rimane invece al fianco di Astolfo per dare il suo aiuto nell’assedio di Biserta. La città verrà presa dai cristiani al primo scontro ed i pagani verranno messi in fuga. Tornando in Francia, re Sobrino, re Marsiglio e molto soldati saraceni abbandonano il campo di battaglia e si rifugiano subito sulle navi, tanto temono per la loro vita stando sulla terra ferma. Agramante è abbandonato al pericolo, continua a combattere finché riesce, poi volta le spalle e corre al galoppo verso Arles. Bradamante e Marfisa lo inseguono a tutta velocità ma non riesco a raggiungerlo, il re si rifugia nella citta e si imbarca infine con gli altri. Agramante chiude le porte di Arles dietrò di sé e fa tagliare i ponti sul Rodano. Tutti gli altri guerrieri saraceni ancora presenti non possono pertanto più trovare un via di scampo e vengono quindi sterminati. Re Marsilio si fa condurre in Spagna ed inizia i preparativi per sostenere la successiva guerra (sa che i cristinai avrebbero fatto pagare alla Spagna le conseguenze di quegli anni d’assedio), che sarà la sua rovina. Agramante fa ritorno in Africa con la sua flotta. Tutti l’hanno ormai in odio ma non lo danno a vedere. Gli viene suggerito di evitare Biserta, che si è saputo essere nelle mani dell’esercito Etiope, di approdare in un porto sicuro e di correre quindi in soccorso dei suoi. Il destino vuole però che la sua flotta incontri quella comandata da Dudone. Agramante non avrebbe mai creduto di poter essere assalito per mare, non mette pertanto nessuna vedetta a controllare l’orizzonte. L’assalto avviene così di notte, all’improvviso, ed è una strage di pagani.
La battaglia navale avviene di notte, ma sembra comunque giorno tanti sono i roghi che avvolgono le navi saracene. Resosi conto della situazione, Agramante fugge su di una barca insieme a Sobrino portandosi dietro il cavallo Brigliadoro (ricevuto da Ruggiero dopo che Mandricaro era stato ucciso). Tornando a Biserta, l’esercito cristiano è in assetto da guerra ed è pronto a dare inzio alla battaglia. A Sansonetto viene dato il comando di una flotta di navi, create per miracolo insieme a quelle consegnate a Dudone. Non si è fatto ancora il giorno quando dal mare e dalla terra inzia l’assalto alle mura della città. A Senapo viene dato l’incarico di tenere le mura sotto una pioggia di dardi, così che nessun nemico osi affacciarsi ed i fanti ed i cavalieri possano avanzare senza subire danni. Mentre Sansonetto attacca la città dal mare, Brandimarte conduce la sua parte di esercito sotto le mura. Viene accostata una scala, il paladino sale per primo ed incita gli altri a seguirlo. Non appena raggiunge la passatoia la scala va però in mille pezzi e Brandimarte si trova così solo all’interno delle mura nemiche. Il cavaliere, nonostante le preghiere dei compagni, non torna indietro, si lancia nella città e fa strage di tutti quelli che incontra. La notizia che Brandimarte è in pericolo giunge in poco tempo alle orecchie degli altri paladini, che subito si affrettano a porre le scale per entrare in città ed andare in aiuto del cavaliere. Vengono anche aperte delle breccie nelle mura utilizzando gli arieti ed in un solo istante tutto l’esercito cristiano si riversa nella città pagana, che viene così saccheggiata e data in pasto alle fiamme. Bucifaro viene ucciso da Oliviero. Branzardo si toglie invece la vita da solo. Asfolfo uccide infine Folvo, ultimo dei tre re lasciati da Agramante a difesa del suo regno. Il re Agramante, dalla barca con la quale è scampato all’assalto di Dudone, riesce a vedere la città di Biserta avvolta dalle fiamme e vorrebbe uccidersi. Re Sobrino riesce a trattenerlo dicendogli che morendo toglierà al popolo pagano anche l’ultima speranza rimasta di libertà. Gli consiglia di trovare rifugio in Egitto e lo consola dicendogli infine che non faticherà a trovare nuovi alleati per riconquistare l’Africa. In realtà Sobrino teme per il futuro, sapendo che può portare solo danni il chiedere soccorso a gente straniera per riuscire a tornare in possesso di un regno. La nave con a bordo il re pagano viene colta da una violenta tempesta metre si sta dirigendo ad oriente ed è quindi costretta ad approdare su di un isola posta tra l’Africa e la Sicilia. Trovano sull’isola re Gradasso, riparatosi anch’egli lì dalla tempesta con la sua nave. Gradasso cerca di convincere Agramante a non andare in Egitto, suggerisce quindi un altro piano d’azione: lui in persona sfiderà in duello e sconfiggerà Orlando, mentre le sue genti ed il popolo Etiope di fede non cristiana muoveranno guerra alla parte cristiana dell’Etiopia. Agramante accetta il consiglio, ma vuole però essere lui a sfidare Orlando. Anche re Sobrino non vuole essere escluso ed alla fine si decide di richiedere un duello tre contro tre. La sede del combattimento sarà l’isola di Lampedusa. Un messaggero viene mandato subito a Biserta per lanciare la sfida al conte Orlando. Il paladino è più che contento di accettare, avendo saputo che re Gradasso è in possesso della sua spada Durindana e che Agramante ha invece il suo cavallo Brigliadoro ed il suo famoso corno. Oliviero e Brandimarte sono i due cavalieri scelti per combattere al suo fianco. Nessuno dei tre è in possesso delle proprie armi (Orlando se ne era spogliato, quelle degli altri due erano state vinte da Rodomonte), cercano quindi di trovare quanto c’è di meglio in Africa, ma è rimasto ben poco, dal momento che Agramante aveva fatto portare tutto in Francia. Mentre i tre paladini ragionano sul prossimo duello camminando lungo la spiaggia, una nave priva di equipaggio raggiunge la costa di Biserta. Tornando a Parigi, Rinaldo e Ruggiero erano rimasti fuori dal combattimento in attesa di conoscere chi fosse stato per primo a rompere il giuramento. Entrambi cercano di ottenere notizie dagli uomini che si trovano intorno, ed infine vengono a sapere che è stato re Agramante a muoversi per primo. Nonostante avesse giurato di prestare servizio per la fazione cristiana nel caso il combattimento fosse stato interrotto dalla fazione pagana, nonostante l’amore per Bradamante e nonostante il patto fatto con Rinaldo, a Ruggiero sembra comunque ingiusto abbandonare il re in quel momento di difficoltà ed è quindi indeciso su cosa fare. Dopo un giorno ed una notta di tormenti, decide infine di seguire in Africa il suo re e torna pertanto ad Arles per cercare un passaggio. Vista la situazione (non c’è neanche un saraceno vivo e tutta la flotta è già partita), si muove poi verso Marsiglia ed incontra Dudone, i guerrieri etiopi al suo seguito ed i pagani loro prigionieri. Ruggiero non riesce a sopportare la vista dei re pagani in lacrime, si lancia quindi subito contro quelli che li custodiscono. Dudone sente i rumori del combattimento ed accorre per sfidare Ruggiero. I due prima si presentano e poi iniziano il duello. Ruggiero viene così a sapere che il suo sfidante, paladino di Francia, è cugino della sua Bradamante. Per non dare dispiacere alla donna amata, cerca di colpirlo solo con il piatto della spada, facendogli risuonare l’armatura ad ogni colpo come fosse un sonaglio.
1 L'odor ch'è sparso in ben notrita e bella o chioma o barba o delicata vesta di giovene leggiadro o di donzella, ch'Amor sovente lacrimando desta, se spira e fa sentir di sé novella, e dopo molti giorni ancora resta; mostra con chiaro et evidente effetto, come a principio buono era e perfetto. 2 L'almo liquor che ai meditori suoi fece Icaro gustar con suo gran danno, e che si dice che già Celte e Boi fe' passar l'Alpe e non sentir l'affanno, mostra che dolce era a principio, poi che si serva ancor dolce al fin de l'anno. L'arbor ch'al tempo rio foglia non perde, mostra ch'a primavera era ancor verde. 3 L'inclita stirpe che per tanti lustri mostrò di cortesia sempre gran lume, e par ch'ognor più ne risplenda e lustri, fa che con chiaro indizio si presume, che chi progenerò gli Estensi illustri, dovea d'ogni laudabile costume che sublimar al ciel gli uomini suole, splender non men che fra le stelle il sole. 4 Ruggier, come in ciascun suo degno gesto, d'alto valor, di cortesia solea dimostrar chiaro segno e manifesto, e sempre più magnanimo apparea; così verso Dudon lo mostrò in questo, col qual (come di sopra io vi dicea) dissimulato avea quanto era forte, per pietà che gli avea di porlo a morte. 5 Avea Dudon ben conosciuto certo, ch'ucciderlo Ruggier non l'ha voluto; perch'or s'ha ritrovato allo scoperto, or stanco sì, che più non ha potuto. Poi che chiaro comprende, e vede aperto che gli ha rispetto, e che va ritenuto; quando di forza e di vigor val meno, di cortesia non vuol cedergli almeno. 6 - Per Dio (dice), signor, pace facciamo; ch'esser non può più la vittoria mia: esser non può più mia; che già mi chiamo vinto e prigion de la tua cortesia. - Ruggier rispose: - Et io la pace bramo non men di te; ma che con patto sia, che questi sette re c'hai qui legati, lasci ch'in libertà mi sieno dati. - 7 E gli mostrò quei sette re ch'io dissi che stavano legati a capo chino; e gli soggiunse che non gli impedissi pigliar con essi in Africa il camino. E così furo in libertà remissi quei re; che gliel concesse il paladino; e gli concesse ancor ch'un legno tolse, quel ch'a lui parve, e verso Africa sciolse. 8 Il legno sciolse, e fe' scioglier la vela, e se diè al vento perfido in possanza, che da principio la gonfiata tela drizzò a camino, e diè al nocchier baldanza. Il lito fugge, e in tal modo si cela, che par che ne sia il mar rimaso sanza. Ne l'oscurar del giorno fece il vento chiara la sua perfidia e 'l tradimento. 9 Mutossi da la poppa ne le sponde, indi alla prora, e qui non rimase anco: ruota la nave, et i nocchier confonde; ch'or di dietro or dinanzi or loro è al fianco. Surgono altiere e minacciose l'onde: mugliando sopra il mar va il gregge bianco. Di tante morti in dubbio e in pena stanno, quanto son l'acque ch'a ferir li vanno. 10 Or da fronte or da tergo il vento spira; e questo inanzi, e quello a dietro caccia: un altro da traverso il legno aggira; e ciascun pur naufragio gli minaccia. Quel che siete al governo, alto sospira pallido e sbigottito ne la faccia; e grida invano, e invan con mano accenna or di voltare, or di calar l'antenna. 11 Ma poco il cenno, e 'l gridar poco vale: tolto è 'l veder da la piovosa notte. La voce, senza udirsi, in aria sale, in aria che ferìa con maggior botte de' naviganti il grido universale, e 'l fremito de l'onde insieme rotte: e in prora e in poppa e in amendue le bande non si può cosa udir, che si commande. 12 Da la rabbia del vento che si fende ne le ritorte, escono orribil suoni: di spessi lampi l'aria si raccende, risuona 'l ciel di spaventosi tuoni. V'è chi corre al timon, chi i remi prende; van per uso agli uffici a che son buoni: chi s'affatica a sciorre e chi a legare; vòta altri l'acqua, e torna il mar nel mare. 13 Ecco stridendo l'orribil procella che 'l repentin furor di borea spinge, la vela contra l'arbore flagella: il mar si leva, e quasi il cielo attinge. Frangonsi i remi; e di fortuna fella tanto la rabbia impetuosa stringe, che la prora si volta, e verso l'onda fa rimaner la disarmata sponda. 14 Tutta sotto acqua va la destra banda, e sta per riversar di sopra il fondo. Ognun, gridando, a Dio si raccomanda; che più che certi son gire al profondo. D'uno in un altro mal fortuna manda: il primo scorre, e vien dietro il secondo. Il legno vinto in più parti si lassa, e dentro l'inimica onda vi passa. 15 Muove crudele e spaventoso assalto da tutti i lati il tempestoso verno. Veggon talvolta il mar venir tant'alto, che par ch'arrivi insin al ciel superno. Talor fan sopra l'onde in su tal salto, ch'a mirar giú par lor veder lo 'nferno. O nulla o poca speme è che conforte; e sta presente inevitabil morte. 16 Tutta la notte per diverso mare scórsero errando ove cacciolli il vento; il fiero vento che dovea cessare nascendo il giorno, e ripigliò augumento. Ecco dinanzi un nudo scoglio appare: voglion schivarlo, e non v'hanno argumento. Li porta, lor mal grado, a quella via il crudo vento e la tempesta ria. 17 Tre volte e quattro il pallido nocchiero mette vigor perché 'l timon sia volto e trovi più sicuro altro sentiero; ma quel si rompe, e poi dal mar gli è tolto. Ha sì la vela piena il vento fiero, che non si può calar poco né molto: né tempo han di riparo o di consiglio; che troppo appresso è quel mortal periglio. 18 Poi che senza rimedio si comprende la irreparabil rotta de la nave, ciascuno al suo privato utile attende, ciascun salvar la vita sua cura have. Chi può più presto al palischermo scende; ma quello è fatto subito sì grave per tanta gente che sopra v'abbonda, che poco avanza a gir sotto la sponda. 19 Ruggier che vide il comite e 'l padrone e gli altri abbandonar con fretta il legno, come senz'arme si trovò in giubbone, campar su quel battel fece disegno: ma lo trovò sì carco di persone, e tante venner poi, che l'acque il segno passaro in guisa, che per troppo pondo con tutto il carco andò il legnetto al fondo: 20 del mare al fondo; e seco trasse quanti lasciaro a sua speranza il maggior legno. Allor s'udì con dolorosi pianti chiamar soccorso dal celeste regno: ma quelle voci andaro poco inanti, che venne il mar pien d'ira e di disdegno, e subito occupò tutta la via onde il lamento e il flebil grido uscia. 21 Altri là giù, senza apparir più, resta; altri risorge e sopra l'onde sbalza; chi vien nuotando e mostra fuor la testa, chi mostra un braccio, e chi una gamba scalza. Ruggier che 'l minacciar de la tempesta temer non vuol, dal fondo al sommo s'alza, e vede il nudo scoglio non lontano, ch'egli e i compagni avean fuggito invano. 22 Spera, per forza di piedi e di braccia nuotando, di salir sul lito asciutto. Soffiando viene, e lungi da la faccia l'onda respinge e l'importuno flutto. Il vento intanto e la tempesta caccia il legno vòto, e abbandonato in tutto da quelli che per lor pessima sorte il disio di campar trasse alla morte. 23 Oh fallace degli uomini credenza! Campò la nave che dovea perire; quando il padrone e i galleotti senza governo alcun l'avean lasciata gire. Parve che si mutasse di sentenza il vento, poi che ogni uom vide fuggire: fece che 'l legno a miglior via si torse, né toccò terra, e in sicura onda corse. 24 E dove col nocchier tenne via incerta, poi che non l'ebbe, andò in Africa al dritto, e venne a capitar presso a Biserta tre miglia o due, dal lato verso Egitto; e ne l'arena sterile e deserta restò, mancando il vento e l'acqua, fitto. Or quivi sopravenne, a spasso andando, come di sopra io vi narrava, Orlando. 25 E disïoso di saper se fusse la nave sola, e fusse o vota o carca, con Brandimarte a quella si condusse e col cognato, in su una lieve barca. Poi che sotto coverta s'introdusse, tutta la ritrovò d'uomini scarca: vi trovò sol Frontino il buon destriero, l'armatura e la spada di Ruggiero; 26 di cui fu per campar tanto la fretta, ch'a tor la spada non ebbe pur tempo. Conobbe quella il paladin, che detta fu Balisarda, e che già sua fu un tempo. So che tutta l'istoria avete letta, come la tolse a Falerina, al tempo che le distrusse anco il giardin sì bello, e come a lui poi la rubò Brunello; 27 e come sotto il monte di Carena Brunel ne fe' a Ruggier libero dono. Di che taglio ella fosse e di che schena, n'avea già fatto esperimento buono; io dico Orlando: e però n'ebbe piena letizia, e ringrazionne il sommo Trono; e si credette (e spesso il disse dopo), che Dio gliele mandasse a sì grande uopo: 28 a sì grande uopo, come era, dovendo condursi col signor di Sericana; ch'oltre che di valor fosse tremendo, sapea ch'avea Baiardo e Durindana. L'altra armatura, non la conoscendo, non apprezzò per cosa sì soprana, come chi ne fe' prova apprezzò quella, per buona sì, ma per più ricca e bella. 29 E perché gli facean poco mestiero l'arme (ch'era inviolabile e affatato), contento fu che l'avesse Oliviero; il brando no, che sel pose egli a lato: a Brandimarte consegnò il destriero. Così diviso et ugualmente dato vòlse che fosse a ciaschedun compagno ch'insieme si trovar, di quel guadagno. 30 Pel dì de la battaglia ogni guerriero studia aver ricco e nuovo abito indosso. Orlando riccamar fa nel quartiero l'alto Babel dal fulmine percosso. Un can d'argento aver vuole Oliviero, che giaccia, e che la lassa abbia sul dosso, con un motto che dica: Fin che vegna: e vuol d'oro la vesta e di sé degna. 31 Fece disegno Brandimarte, il giorno de la battaglia, per amor del padre, e per suo onor, di non andare adorno se non di sopraveste oscure et adre. Fiordiligi le fe' con fregio intorno, quanto più seppe far, belle e leggiadre. Di ricche gemme il fregio era contesto; d'un schietto drappo e tutto nero il resto. 32 Fece la donna di sua man le sopravesti a cui l'arme converrian più fine, de' quai l'osbergo il cavallier si cuopra, e la groppa al cavallo e 'l petto e 'l crine. Ma da quel dì che cominciò quest'opra, continuando a quel che le diè fine, e dopo ancora, mai segno di riso far non poté, né d'allegrezza in viso. 33 Sempre ha timor nel cor, sempre tormento che Brandimarte suo non le sia tolto. Già l'ha veduto in cento lochi e cento in gran battaglie e perigliose avvolto; né mai, come ora, simile spavento le agghiacciò il sangue e impallidille il volto: e questa novità d'aver timore le fa tremar di doppia tema il core. 34 Poi che son d'arme e d'ogni arnese in punto, alzano al vento i cavallier le vele. Astolfo e Sansonetto con l'assunto riman del grande esercito fedele. Fiordiligi col cor di timor punto, empiendo il ciel di voti e di querele, quanto con vista seguitar le puote, segue le vele in alto mar remote. 35 Astolfo a gran fatica e Sansonetto poté levarla dal mirar ne l'onda e ritrarla al palagio, ove sul letto la lasciaro affannata e tremebonda. Portava intanto il bel numero eletto dei tre buon cavallier l'aura seconda. Andò il legno a trovar l'isola al dritto, ove far si dovea tanto conflitto. 36 Sceso nel lito il cavallier d'Anglante, il cognato Oliviero e Brandimarte, col padiglione il lato di levante primi occupâr; né forse il fêr senz'arte. Giunse quel dì medesimo Agramante, e s'accampò da la contraria parte; ma perché molto era inchinata l'ora, differîr la battaglia ne l'aurora. 37 Di qua e di là sin alla nuova luce stanno alla guardia i servitori armati. La sera Brandimarte si conduce là dove i Saracin sono alloggiati, e parla, con licenzia del suo duce, al re african; ch'amici erano stati: e Brandimarte già con la bandiera del re Agramante in Francia passato era. 38 Dopo i saluti e 'l giunger mano a mano, molte ragion, sì come amico, disse il fedel cavalliero al re pagano, perché a questa battaglia non venisse: e di riporgli ogni cittade in mano, che sia tra 'l Nilo e 'l segno ch'Ercol fisse, con volontà d'Orlando gli offeria, se creder volea al Figlio di Maria. 39 - Perché sempre v'ho amato et amo molto, questo consiglio (gli dicea) vi dono; e quando già, signor, per me l'ho tolto, creder potete ch'io l'estimo buono. Cristo conobbi Dio, Maumette stolto; e bramo voi por ne la via in ch'io sono: ne la via di salute, signor, bramo che siate meco, e tutti gli altri ch'amo. 40 Qui consiste il ben vostro; né consiglio altro potete prender, che vi vaglia; e men di tutti gli altri, se col figlio di Milon vi mettete alla battaglia; che 'l guadagno del vincere al periglio de la perdita grande non si agguaglia. Vincendo voi, poco acquistar potete; ma non perder già poco, se perdete. 41 Quando uccidiate Orlando, e noi venuti qui per morire o vincere con lui, io non veggo per questo che i perduti domini a racquistar s'abbian per vui. Né dovete sperar che sì si muti lo stato de le cose, morti nui, ch'uomini a Carlo manchino da porre quivi a guardar fin all'estrema torre. - 42 Così parlava Brandimarte, et era per suggiungere ancor molte altre cose; ma fu con voce irata e faccia altiera dal pagano interrotto, che rispose: - Temerità per certo e pazzia vera è la tua, e di qualunque che si pose a consigliar mai cosa o buona o ria, ove chiamato a consigliar non sia. 43 E che 'l consiglio che mi dài, proceda da ben che m'hai voluto e vuommi ancora, io non so, a dire il ver, come io tel creda, quando qui con Orlando ti veggo ora. Crederò ben, tu che ti vedi in preda di quel dragon che l'anime devora, che brami teco nel dolore eterno tutto 'l mondo poter trarre all'inferno. 44 Ch'io vinca o perda, o debba nel mio regno tornare antiquo, o sempre starne in bando, in mente sua n'ha Dio fatto disegno, il qual né io, né tu, né vede Orlando. Sia quel che vuol, non potrà ad atto indegno di re inchinarmi mai timor nefando. S'io fossi certo di morir, vo' morto prima restar, ch'al sangue mio far torto. 45 Or ti puoi ritornar; che se migliore non sei dimani in questo campo armato, che tu mi sia paruto oggi oratore, mal troverassi Orlando accompagnato. - Queste ultime parole usciron fuore del petto acceso d'Agramante irato. Ritornò l'uno e l'altro, e ripososse, fin che del mare il giorno uscito fosse. 46 Nel biancheggiar de la nuova alba armati, e in un momento fur tutti a cavallo. Pochi sermon si son tra loro usati: non vi fu indugio, non vi fu intervallo, che i ferri de le lance hanno abbassati. Ma mi parria, Signor, far troppo fallo, se, per voler di costor dir, lasciassi tanto Ruggier nel mar, che v'affogassi. 47 Il giovinetto con piedi e con braccia percotendo venìa l'orribil onde. Il vento e la tempesta gli minaccia; ma più la coscienza lo confonde. Teme che Cristo ora vendetta faccia; che, poi che battezzar ne l'acque monde, quando ebbe tempo, sì poco gli calse, or si battezzi in queste amare e salse. 48 Gli ritornano a mente le promesse che tante volte alla sua donna fece; quel che giurato avea quando si messe contra Rinaldo, e nulla satisfece. A Dio, ch'ivi punir non lo volesse, pentito disse quattro volte e diece; e fece voto di core e di fede d'esser cristian, se ponea in terra il piede: 49 e mai più non pigliar spada né lancia contra ai fedeli in aiuto de' Mori; ma che ritorneria subito in Francia, e a Carlo renderia debiti onori; né Bradamante più terrebbe a ciancia, e verria a fine onesto dei suo' amori. Miracol fu, che sentì al fin del voto crescersi forza e agevolarsi il nuoto. 50 Cresce la forza e l'animo indefesso: Ruggier percuote l'onde e le respinge, l'onde che seguon l'una all'altra presso, di che una il leva, un'altra lo sospinge. Così montando e discendendo spesso con gran travaglio, al fin l'arena attinge; e da la parte onde s'inchina il colle più verso il mar, esce bagnato e molle. 51 Fur tutti gli altri che nel mar si diero, vinti da l'onde, e al fin restâr ne l'acque. Nel solitario scoglio uscì Ruggiero, come all'alta Bontà divina piacque. Poi che fu sopra il monte inculto e fiero sicur dal mar, nuovo timor gli nacque d'avere esilio in sì strette confine, e di morirvi di disagio al fine. 52 Ma pur col core indomito, e costante di patir quanto è in ciel di lui prescritto, pei duri sassi l'intrepide piante mosse, poggiando invêr la cima al dritto. Non era cento passi andato inante, che vide d'anni e d'astinenze afflitto uom ch'avea d'eremita abito e segno, di molta riverenza e d'onor degno; 53 che, come gli fu presso: - Saulo, Saulo, (gridò), perché persegui la mia fede? (come allor il Signor disse a san Paulo, che 'l colpo salutifero gli diede). Passar credesti il mar, né pagar naulo, e defraudare altrui de la mercede. Vedi che Dio, c'ha lunga man, ti giunge quando tu gli pensasti esser più lunge. - 54 E seguitò il santissimo eremita, il qual la notte inanzi avuto avea in visïon da Dio, che con sua aita allo scoglio Ruggier giunger dovea: e di lui tutta la passata vita, e la futura, e ancor la morte rea, figli e nipoti et ogni discendente gli avea Dio rivelato interamente. 55 Seguitò l'eremita riprendendo prima Ruggiero; e al fin poi confortollo. Lo riprendea ch'era ito differendo sotto il soave giogo a porre il collo; e quel che dovea far, libero essendo, mentre Cristo pregando a sé chiamollo, fatto avea poi con poca grazia, quando venir con sferza il vide minacciando. 56 Poi confortollo che non niega il cielo tardi o per tempo Cristo a chi gliel chiede; e di quelli operarii del Vangelo narrò, che tutti ebbono ugual mercede. Con caritade e con devoto zelo lo venne ammaestrando ne la fede, verso la cella sua con lento passo, ch'era cavata a mezzo il duro sasso. 57 Di sopra siete alla devota cella una piccola chiesa che risponde all'oriente, assai commoda e bella: di sotto un bosco scende sin all'onde, di lauri e di ginepri e di mortella, e di palme fruttifere e feconde; che riga sempre una liquida fonte, che mormorando cade giú dal monte. 58 Eran degli anni ormai presso a quaranta che su lo scoglio il fraticel si messe; ch'a menar vita solitaria e santa luogo oportuno il Salvator gli elesse. Di frutte colte or d'una or d'altra pianta, e d'acqua pura la sua vita resse, che valida e robusta e senza affanno era venuta all'ottantesimo anno. 59 Dentro la cella il vecchio accese il fuoco, e la mensa ingombrò di varii frutti, ove si ricreò Ruggiero un poco, poscia ch'i panni e i capelli ebbe asciutti. Imparò poi più ad agio in questo loco de nostra fede i gran misterii tutti; et alla pura fonte ebbe battesmo il dì seguente dal vecchio medesmo. 60 Secondo il luogo, assai contento stava quivi Ruggier; che 'l buon servo di Dio fra pochi giorni intenzïon gli dava di rimandarlo ove più avea disio. Di molte cose intanto ragionava con lui sovente, or al regno di Dio, or agli propri casi appertinenti, or del suo sangue alle future genti. 61 Avea il Signor, che 'l tutto intende e vede, rivelato al santissimo eremita, che Ruggier da quel dì ch'ebbe la fede, dovea sette anni, e non più, stare in vita; che per la morte che sua donna diede a Pinabel, ch'a lui fia attribuita, saria, e per quella ancor di Bertolagi, morto dai Maganzesi empi e malvagi. 62 E che quel tradimento andrà sì occulto, che non se n'udirà di fuor novella; perché nel proprio loco fia sepulto ove anco ucciso da la gente fella: per questo tardi vendicato et ulto fia da la moglie e da la sua sorella. E che col ventre pien per lunga via da la moglie fedel cercato fia. 63 Fra l'Adice e la Brenta a piè de' colli ch'al troiano Antenòr piacqueno tanto, con le sulfuree vene e rivi molli, con lieti solchi e prati ameni a canto, che con l'alta Ida volentier mutolli, col sospirato Ascanio e caro Xanto, a parturir verrà ne le foreste che son poco lontane al frigio Ateste. 64 E ch'in bellezza et in valor cresciuto il parto suo, che pur Ruggier fia detto, e del sangue troian riconosciuto da quei Troiani, in lor signor fia elletto; e poi da Carlo, a cui sarà in aiuto incontra i Longobardi giovinetto, dominio giusto avrà del bel paese, e titolo onorato di marchese. 65 E perché dirà Carlo in latino: - Este signori qui, - quando faràgli il dono, nel secolo futur nominato Este sarà il bel luogo con augurio buono; e così lascierà il nome d'Ateste de le due prime note il vecchio suono. Avea Dio ancora al servo suo predetta di Ruggier la futura aspra vendetta: 66 ch'in visione alla fedel consorte apparirà dinanzi al giorno un poco; e le dirà chi l'avrà messo a morte, e, dove giacerà, mostrerà il loco: onde ella poi con la cognata forte distruggerà Pontieri a ferro e a fuoco; né farà a' Maganzesi minor danni il figlio suo Ruggiero, ov'abbia gli anni. 67 D'Azzi, d'Alberti, d'Obici discorso fatto gli aveva, e di lor stirpe bella, insino a Nicolò, Leonello, Borso, Ercole, Alfonso, Ippolito e Issabella. Ma il santo vecchio, ch'alla lingua ha il morso, non di quanto egli sa però favella: narra a Ruggier quel che narrar conviensi; e quel ch'in sé de' ritener, ritiensi. 68 In questo tempo Orlando e Brandimarte e 'l marchese Olivier col ferro basso vanno a trovare il saracino Marte (che così nominar si può Gradasso) e gli altri duo che da contraria parte han mosso i buon destrier più che di passo; io dico il re Agramante e 'l re Sobrino: rimbomba al corso il lito e 'l mar vicino. 69 Quando allo scontro vengono a trovarsi, e in tronchi vola al ciel rotta ogni lancia, del gran rumor fu visto il mar gonfiarsi, del gran rumor che s'udì sino in Francia. Venne Orlando e Gradasso a riscontrarsi; e potea stare ugual questa bilancia, se non era il vantaggio di Baiardo, che fe' parer Gradasso più gagliardo. 70 Percosse egli il destrier di minor forza, ch'Orlando avea, d'un urto così strano, che lo fece piegare a poggia e ad orza, e poi cader, quanto era lungo, al piano. Orlando di levarlo si risforza tre volte e quattro, e con sproni e con mano; e quando al fin nol può levar, ne scende, lo scudo imbraccia, e Balisarda prende. 71 Scontrossi col re d'Africa Oliviero; e fur di quello incontro a paro a paro. Brandimarte restar senza destriero fece Sobrin: ma non si seppe chiaro se v'ebbe il destrier colpa o il cavalliero; ch'avezzo era cader Sobrin di raro. O del destriero o suo pur fosse il fallo, Sobrin si ritrovò giú del cavallo. 72 Or Brandimarte che vide per terra il re Sobrin, non l'assalì altrimente, ma contra il re Gradasso si disserra, ch'avea abbattuto Orlando parimente. Tra il marchese e Agramante andò la guerra come fu cominciata primamente: poi che si roppon l'aste negli scudi, s'eran tornati incontra a stocchi ignudi. 73 Orlando, che Gradasso in atto vede, che par ch'a lui tornar poco gli caglia; né tornar Brandimarte gli concede, tanto lo stringe e tanto lo travaglia; si volge intorno, e similmente a piede vede Sobrin che sta senza battaglia. Vêr lui s'aventa; e al muover de le piante fa il ciel tremar del suo fiero sembiante. 74 Sobrin che di tanto uom vede l'assalto, stretto ne l'arme s'apparecchia tutto: come nocchiero a cui vegna a gran salto muggendo incontra il minaccioso flutto, drizza la prora; e quando il mar tant'alto vede salire, esser vorria all'asciutto. Sobrin lo scudo oppone alla ruina che da la spada vien di Falerina. 75 Di tal finezza è quella Balisarda, che l'arme le puon far poco riparo; in man poi di persona sì gagliarda, in man d'Orlando, unico al mondo o raro, taglia lo scudo; e nulla la ritarda, perché cerchiato sia tutto d'acciaro: taglia lo scudo e sino al fondo fende, e sotto a quello in su la spalla scende. 76 Scende alla spalla; e perché la ritrovi di doppia lama e di maglia coperta, non vuol però che molto ella le giovi, che di gran piaga non la lasci aperta. Mena Sobrin; ma indarno è che si provi ferire Orlando, a cui per grazia certa diete il Motor del cielo e de le stelle, che mai forar non se gli può la pelle. 77 Radoppia il colpo il valoroso conte, e pensa da le spalle il capo torgli. Sobrin che sa il valor di Chiaramonte, e che poco gli val lo scudo opporgli, s'arretra, ma non tanto, che la fronte non venisse anco Balisarda a corgli. Di piatto fu, ma il colpo tanto fello, ch'amaccò l'elmo, e gl'intronò il cervello. 78 Cadde Sobrin del fiero colpo in terra, onde a gran pezzo poi non è risorto. Crede finita aver con lui la guerra il paladino, e che si giaccia morto; e verso il re Gradasso si disserra, che Brandimarte non meni a mal porto: che 'l pagan d'arme e di spada l'avanza e di destriero, e forse di possanza. 79 L'ardito Brandimarte in su Frontino, quel buon destrier che di Ruggier fu dianzi, si porta così ben col Saracino, che non par già che quel troppo l'avanzi: e s'egli avesse osbergo così fino come il pagan, gli staria meglio inanzi; ma gli convien (che mal si sente armato) spesso dar luogo or d'uno or d'altro lato. 80 Altro destrier non è che meglio intenda di quel Frontino il cavalliero a cenno: par che dovunque Durindana scenda, or quinci or quindi abbia a schivarla senno. Agramante e Olivier battaglia orrenda altrove fanno, e giudicar si denno per duo guerrier di pari in arme accorti, e pochi differenti in esser forti. 81 Avea lasciato, come io dissi, Orlando Sobrino in terra; e contra il re Gradasso, soccorrer Brandimarte disïando, come si trovò a piè, venìa a gran passo. Era vicin per assalirlo, quando vide in mezzo del campo andare a spasso il buon cavallo onde Sobrin fu spinto; e per averlo, presto si fu accinto. 82 Ebbe il destrier, che non trovò contesa, e levò un salto, et entrò ne la sella. Ne l'una man la spada tien sospesa, mette l'altra alla briglia ricca e bella. Gradasso vede Orlando, e non gli pesa, ch'a lui ne viene, e per nome l'appella. Ad esso e a Brandimarte e all'altro spera far parer notte, e che non sia ancor sera. 83 Voltasi al conte, e Brandimarte lassa, e d'una punta lo trova al camaglio: fuor che la carne, ogni altra cosa passa: per forar quella è vano ogni travaglio. Orlando a un tempo Balisarda abbassa: non vale incanto ov'ella mette il taglio. L'elmo, lo scudo, l'osbergo e l'arnese, venne fendendo in giú ciò ch'ella prese; 84 e nel volto e nel petto e ne la coscia lasciò ferito il re di Sericana, di cui non fu mai tratto sangue, poscia ch'ebbe quell'arme: or gli par cosa strana che quella spada (e n'ha dispetto e angoscia) le tagli or sì; né pur è Durindana. E se più lungo il colpo era o più appresso, l'avria dal capo insino al ventre fesso. 85 Non bisogna più aver ne l'arme fede, come avea dianzi; che la prova è fatta. Con più riguardo e più ragion procede, che non solea; meglio al parar si adatta. Brandimarte ch'Orlando entrato vede, che gli ha di man quella battaglia tratta, si pone in mezzo all'una e all'altra pugna, perché in aiuto, ove è bisogno, giugna. 86 Essendo la battaglia in tale istato, Sobrin, ch'era giaciuto in terra molto, si levò, poi ch'in sé fu ritornato; e molto gli dolea la spalla e 'l volto: alzò la vista e mirò in ogni lato; poi dove vide il suo signor, rivolto, per dargli aiuto i lunghi passi torse tacito sì, ch'alcun non se n'accorse. 87 Vien dietro ad Olivier che tenea gli occhi al re Agramante e poco altro attendea; e gli ferì nei deretan ginocchi il destrier di percossa in modo rea, che senza indugio è forza che trabocchi. Cade Olivier, né 'l piede aver potea, il manco piè, ch'al non pensato caso sotto il cavallo in staffa era rimaso. 88 Sobrin radoppia il colpo, e di riverso gli mena, e se gli crede il capo tôrre; ma lo vieta l'acciar lucido e terso, che temprò già Vulcan, portò già Ettorre. Vede il periglio Brandimarte, e verso il re Sobrino a tutta briglia corre; e lo fere in sul capo, e gli dà d'urto; ma il fiero vecchio è tosto in piè risurto; 89 e torna ad Olivier per dargli spaccio, sì ch'espetito all'altra vita vada; o non lasciare almen ch'esca d'impaccio, ma che si stia sotto 'l cavallo a bada. Olivier c'ha di sopra il miglior braccio, sì che si può difender con la spada, di qua di là tanto percuote e punge, che, quanta è lunga, fa Sobrin star lunge. 90 Spera, s'alquanto il tien da sé rispinto, in poco spazio uscir di quella pena. Tutto di sangue il vede molle e tinto, e che ne versa tanto in su l'arena, che gli par ch'abbia tosto a restar vinto: debole è sì, che si sostiene a pena. Fa per levarsi Olivier molte prove, né da dosso il destrier però si muove. 91 Trovato ha Brandimarte il re Agramante, e cominciato a tempestargli intorno: or con Frontin gli è al fianco, or gli è davante, con quel Frontin che gira come un torno. Buon cavallo ha il figliuol di Monodante: non l'ha peggiore il re di Mezzogiorno; ha Brigliador che gli donò Ruggiero poi che lo tolse a Mandricardo altiero. 92 Vantaggio ha bene assai de l'armatura; a tutta prova l'ha buona e perfetta. Brandimarte la sua tolse a ventura, qual poté avere a tal bisogno in fretta: ma sua animosità sì l'assicura, ch'in miglior tosto di cangiarla aspetta; come che 'l re african d'aspra percossa la spalla destra gli avea fatta rossa; 93 e serbi da Gradasso anco nel fianco piaga da non pigliar però da giuoco. Tanto l'attese al varco il guerrier franco, che di cacciar la spada trovò loco. Spezzò lo scudo, e ferì il braccio manco, e poi ne la man destra il toccò un poco. Ma questo un scherzo si può dire e un spasso verso quel che fa Orlando e 'l re Gradasso. 94 Gradasso ha mezzo Orlando disarmato; l'elmo gli ha in cima e da dui lati rotto, e fattogli cader lo scudo al prato, osbergo e maglia apertagli di sotto: non l'ha ferito già, ch'era affatato. Ma il paladino ha lui peggio condotto: in faccia, ne la gola, in mezzo il petto l'ha ferito, oltre a quel che già v'ho detto. 95 Gradasso disperato, che si vede del proprio sangue tutto molle e brutto, e ch'Orlando del suo dal capo al piede sta dopo tanti colpi ancora asciutto; leva il brando a due mani, e ben si crede partirgli il capo, il petto, il ventre e 'l tutto: e a punto, come vuol, sopra la fronte percuote a mezza spada il fiero conte. 96 E s'era altro ch'Orlando, l'avria fatto, l'avria sparato fin sopra la sella: ma, come colto l'avesse di piatto, la spada ritornò lucida e bella. De la percossa Orlando stupefatto, vide, mirando in terra, alcuna stella: lasciò la briglia, e 'l brando avria lasciato; ma di catena al braccio era legato. 97 Del suon del colpo fu tanto smarrito il corridor ch'Orlando avea sul dorso, che discorrendo il polveroso lito, mostrando gìa quanto era buono al corso. De la percossa il conte tramortito, non ha valor di ritenergli il morso. Segue Gradasso, e l'avria tosto giunto, poco più che Baiardo avesse punto. 98 Ma nel voltar degli occhi, il re Agramante vide condotto all'ultimo periglio: che ne l'elmo il figliuol di Monodante col braccio manco gli ha dato di piglio; e glie l'ha dislacciato già davante, e tenta col pugnal nuovo consiglio: né gli può far quel re difesa molta, perché di man gli ha ancor la spada tolta. 99 Volta Gradasso, e più non segue Orlando, ma, dove vede il re Agramante, accorre. L'incauto Brandimarte, non pensando ch'Orlando costui lasci da sé tôrre, non gli ha né gli occhi né 'l pensiero, instando il coltel ne la gola al pagan porre. Giunge Gradasso, e a tutto suo potere con la spada a due man l'elmo gli fere. 100 Padre del ciel, dà fra gli eletti tuoi spiriti luogo al martir tuo fedele, che giunto al fin de' tempestosi suoi viaggi, in porto ormai lega le vele. Ah Durindana, dunque esser tu puoi al tuo signore Orlando sì crudele, che la più grata compagnia e più fida ch'egli abbia al mondo, inanzi tu gli uccida? 101 Di ferro un cerchio grosso era duo dita intorno all'elmo, e fu tagliato e rotto dal gravissimo colpo, e fu partita la cuffia de l'acciar ch'era di sotto. Brandimarte con faccia sbigottita giú del destrier si riversciò di botto; e fuor del capo fe' con larga vena correr di sangue un fiume in su l'arena. 102 Il conte si risente, e gli occhi gira, et ha il suo Brandimarte in terra scorto; e sopra in atto il Serican gli mira, che ben conoscer può che glie l'ha morto. Non so se in lui poté più il duolo o l'ira; ma da piangere il tempo avea sì corto, che restò il duolo, e l'ira uscì più in fretta. Ma tempo è ormai che fine al canto io metta.
Ruggiero combatte contro Dudone ma continua a colpirlo di piatto per non ferirlo, avendo saputo che lo sfidante è cugino di Bradamante. Il paladino si accorge della situazione, è ormai sfinito, riesce a stento a difendersi ma non riceve alcun colpo mortale. Per non essere da meno in fatto di cortesia, chiede a Ruggiero di fare pace. Quest’ultimo accetta ma a condizione che vengano liberati i re prigionieri e gli sia concesso di raggiungere l’Africa. Dudone non si oppone e lascia fare. Ruggiero parte per mare su una delle navi di Dudone. Il vento è inizialmente favorevole ma, non appena la terra ferma scompare alla vista dei naviganti, sale poi improvvisamente di intensità ed inizia a spirare da ogni direzione, facendo ruotare più volte la nave. Ha inizio una terribile tempesta e l’imbarcazione viene battuta da enormi onde. Sembra ormai inevitabili che la nave vada a schiantarsi contro uno scoglio e tutti i pagani si lanciano sulla scialuppa di salvataggio. La barca è troppo piccola per accoglierli tutti, va subito a fondo e molti muoiono affogati. Ruggiero si mette a nuotare per raggiungere lo scoglio e salvarsi. La nave nel frattempo, senza nessuno a bordo, cambia improvvisamente rotta ed in tutta tranquillità riprende il proprio viaggio per mare. Giunge a Biserta e viene infine ritrovata da Orlando. Il conte, Oliviero e Brandimarte salgono sull’imbarcazione è trovano così la spada, il cavallo e l’armatura lasciate da Ruggiero per riuscire a salvarsi a nuoto. Orlando prende per se la spada Balisarda, ne conosce i poteri e l’aveva anche in precedenza posseduta prima che Brunello gliela rubasse. Brandimarte fa suo il destriero Frontino, ed Oliviero si prende infine l’armatura incantata. I tre paladini si fanno preparare una sopraveste da indossare in occasione del duello. Orlando vuole che venga ricamata la torre di Babele colpita da un fulmine (l’intenzione di punire i pagani), Oliviero un cane con un guinzaglio abbandonato sul dorso (pronto ad attaccare) mentre Brandimarte la vuole semplicemente nera, essendo in lutto per la morte del padre. Fiordiligi si incarica di ricamare la veste del suo amato. La donna è triste ed ha, per la prima volta in vita sua, paura di perderlo. Sansonetto ed Astolfo rimangono a Biserta, i tre cavalieri prendono invece il largo e raggiungono l’isola di Lampedusa, sede stabilita per il duello. Brandimarte, che in precedenza era stato amico di Agramante, cerca di convincere il re pagano ad abbandonare l’impresa. Gli promette, con il consenso del conte Orlando, il controllo di un vasto regno in Africa se accetta di convertirsi al crrstianesimo. Il paladino gli porta prima ad esempio la sua stessa storia, essendosi egli stesso convertito in precedenza al cristianesimo, per poi cercare di fare capire al re saraceno che una loro vittoria non basterà a fargli riconquistare le terre perse, tanti erano i valorosi cavalieri che re Carlo aveva a disposizione. Agramante a quella porposta risponde irato dicendo che il suo destino e quello del suo regno è solamente nelle mani di Dio. Non vuole rinnegare le proprie origini per il solo fatto di temere la morte, e ricaccia quindi in malo modo il paladino nel padiglione cristiano. All’alba del giorno dopo sono già tutti pronti per combattere. Tornando ad occuparci di Ruggiero, il cavaliere si affatica a nuoto per cercare di raggiungere lo scoglio e mettersi così in salvo. Il giovane teme di essere vittima della punizione divina per non essersi battezzato quando avrebbe dovuto. Gli ritornano in mente anche tutte le altre promesse mancate, si dice pentito e giura la sua fede cristiana. Promette di non combatere mai più a favore del popolo pagano, di fare gli onori di re Carlo e di sposare infine la sua amata Bradamante. Il cavaliere sente crescere per miracolo le proprie forza, raggiunge a nuoto lo scoglio ed è così l’unico a salvarsi dalle acque. Teme però ora di morire di stenti in quel luogo. Si incammina per esplorare l’isoletta ed incontra così un eremita, che prima lo accoglie rimproverandolo per il comportamento tenuto, per aver giurato la propria fedeltà a Dio solo quando si era sentito vittima della sua punizione (Dio gli aveva annunciato in sogno l’arrivo del cavaliere e gli aveva anche mostrato tutta la sua vita passata ed anche quella futura), poi lo conforta dicendogli che comunque a nessuno viene mai negato il cielo quando lo chiede. L’eremita conduce Ruggiero alla sua cella, scavata nella roccia, gli insegna quindi le basi della religione cristiana ed il giorno dopo lo battezza. Dio aveva mostrato al religioso ogni aspetto della vita futura di Ruggiero e della sua nobile discendenza. Sette anni dopo il battesimo verrà ucciso a tradimento dai mganzanesi per vendicare le morti di Pinabello e Bertolagi. Sarà seppellito sul luogo del delitto e per questo la notizia della sua morte arriverà tardi (Ruggiero apparirà in sogno alla sua donna). Solo molto tempo dopo sarà vendicata la sua morte da Marfisa e Bradamante. Sua moglie darà alla luce nei pressi del castello d’Este il loro figlio, anche lui di nome Ruggiero. Il giovane verrà nominato marchese da Carlo Magno ed assumerà anche il controllo dell’Italia. Il saggio eremita non fa però cenno a Ruggiero di questi avvenimenti. Sull’isola di Lampedusa intanto è iniziato il duello tra i tre pagani ed i tre cristiani. Le lancia vanno subito in mille pezzi ed il frastuono generato dallo scontro giunge fino in Francia. Il cavallo di Orlando viene buttato a terra da re Gradasso. Il conte subito si rialza ed impugna la spada Balisarda. Oliviero combatte contro Agramante, Brandimarte contro Sobrino. Anche Sobrino finisce a terra e Brandimarte ed Orlando si scambiano gli avversari, così da sostenere combattimenti alla pari. Il re Sobrino si stringe nell’armatura e cerca di proteggersi con lo scudo dalla spada Balisarda. Non può però nulla contro i colpi del conte, il primo gli spezza lo scudo e lo ferisce ad una spalla, il secondo lo prende di piatto all’elmo e lo fa stramazzare al suolo privo di sensi. Orlando crede che l’avversario sia morto e decide quindi di tornare da Gradasso, sapendo che il pagano, in possesso di Durindana, supera per armi il suo caro amico Brandimarte. Mentre si ta avvicinando vede però passare il cavallo di Sobrino, se ne impossessa e subito lo indirizza contro Gradasso. Il conte abbassa sul pagano la sua spada (che rende vano ogni incantesimo), gli trapassa scudo ed armatura e lo ferisce. Gradasso rimane meravigliato, è la prima volta che sanguina per un colpo subito in battaglia. Per la prima volta in vita sua non può fare affidamento sull’armatura incantata e deve pensare a difendersi dai colpi avversari. Re Sobrino si riprende e si rialza, vede Agramante in affanno e senza fare rumore decide di assalire Oliviero alle spalle. Il pagano ferisce il destriero del cristiano, lo fa cadere a terra insieme al suo padrone (che rimane impossibilitato a rialzarsi) ed inizia poi ad infierire su Oliviero, incontrando però l’opposizione della sua armatura incantata, in precedenza appartenuta ad Ettore. Brandimarte interviene, ferisce Sobrino alla testa e poi si lancia contro Agramante. Gradasso ha ormai tolto ad Orlando quasi tutta l’armatura ma non è però ancora riuscito a ferirlo, dal momento che il conte è invulnerabile per incantesimo. Numerose sono invece le ferite riportate dal pagano. Re Gradasso, acceso d’ira per la differenza di risultato tra i colpi suoi e quelli dell’avversario, impugna con entrambe le mani la spada e la scaglia in testa al conte con tutta la sua forza. Orlando rimane tramortito per il gran colpo, lascia la briglia e viene portato via dal suo cavallo rimasto senza controllo. Il guerriero pagano vede che Agramante è in pericolo sotto i colpi di Brandimarte (il cristiano l’ha ferito e disarmato), non insegue pertanto Orlando ma decide di correre in aiuto del suo re. Re Gradasso corre in difesa di re Agramante, raggiunge Brandimarte alle spalle e lo uccide sferrandogli un duro colpo alla testa. Il conte Orlando si riprende dallo stordimento, vede giacere morto a terra il fedele compagno e brucia d’ira.
1 Qual duro freno o qual ferrigno nodo, qual, s'esser può, catena di diamante farà che l'ira servi ordine e modo, che non trascorra oltre al prescritto inante, quando persona che con saldo chiodo t'abbia già fissa Amor nel cor constante, tu vegga o per violenza o per inganno patire o disonore o mortal danno? 2 E s'a crudel, s'ad inumano effetto quell'impeto talor l'animo svia, merita escusa, perché allor del petto non ha ragione imperio né balìa. Achille, poi che sotto il falso elmetto vide Patròclo insanguinar la via, d'uccider chi l'uccise non fu sazio, se nol traea, se non ne facea strazio. 3 Invitto Alfonso, simile ira accese la vostra gente il dì che vi percosse la fronte il grave sasso, e sì v'offese, ch'ognun pensò che l'alma gita fosse: l'accese in tal furor, che non difese vostri inimici argini o mura o fosse, che non fossino insieme tutti morti, senza lasciar chi la novella porti. 4 Il vedervi cader causò il dolore che i vostri a furor mosse e a crudeltade. S'eravate in piè voi, forse minore licenza avriano avute le lor spade. Eravi assai, che la Bastia in manche ore v'aveste ritornata in potestade, che tolta in giorni a voi non era stata da gente cordovese e di Granata. 5 Forse fu da Dio vindice permesso che vi trovaste a quel caso impedito, acciò che 'l crudo e scelerato eccesso che dianzi fatto avean, fosse punito: che, poi ch'in lor man vinto si fu messo il miser Vestidel, lasso e ferito, senz'arme fu tra cento spade ucciso dal popul la più parte circonciso. 6 Ma perch'io vo' concludere, vi dico che nessun'altra quell'ira pareggia, quando signor, parente, o sozio antico dinanzi agli occhi ingiuriar ti veggia. Dunque è ben dritto per sì caro amico, che subit'ira il cor d'Orlando feggia; che de l'orribil colpo che gli diede il re Gradasso, morto in terra il vede. 7 Quel nomade pastor che vetut'abbia fuggir strisciando l'orrido serpente che il figliuol che giocava ne la sabbia, ucciso gli ha col venenoso dente, stringe il baston con colera e con rabbia; tal la spada d'ogni altra più tagliente stringe con ira il cavallier d'Anglante: il primo che trovò, fu 'l re Agramante; 8 che sanguinoso e de la spada privo, con mezzo scudo e con l'elmo disciolto, e ferito in più parti ch'io non scrivo, s'era di man di Brandimarte tolto, come di piè all'astor sparvier mal vivo, a cui lasciò alla coda invido o stolto. Orlando giunse, e messe il colpo giusto ove il capo si termina col busto. 9 Sciolto era l'elmo e disarmato il collo, sì che lo tagliò netto come un giunco. Cadde, e diè nel sabbion l'ultimo crollo del regnator di Libia il grave trunco. Corse lo spirto all'acque, onde tirollo Caron nel legno suo col graffio adunco. Orlando sopra lui non si ritarda, ma trova il Serican con Balisarda. 10 Come vide Gradasso d'Agramante cadere il busto dal capo diviso; quel ch'accaduto mai non gli era inante, tremò nel core e si smarrì nel viso; e all'arrivar del cavallier d'Anglante, presago del suo mal, parve conquiso. Per schermo suo partito alcun non prese, quando il colpo mortal sopra gli scese. 11 Orlando lo ferì nel destro fianco sotto l'ultima costa; e il ferro, immerso nel ventre, un palmo uscì dal lato manco, di sangue sin all'elsa tutto asperso. Mostrò ben che di man fu del più franco e del meglior guerrier de l'universo il colpo ch'un signor condusse a morte, di cui non era in Pagania il più forte. 12 Di tal vittoria non troppo gioioso, presto di sella il paladin si getta; e col viso turbato e lacrimoso a Brandimarte suo corre a gran fretta. Gli vede intorno il campo sanguinoso: l'elmo che par ch'aperto abbia una accetta, se fosse stato fral più che di scorza, difeso non l'avria con minor forza. 13 Orlando l'elmo gli levò dal viso, e ritrovò che 'l capo sino al naso fra l'uno e l'altro ciglio era diviso: ma pur gli è tanto spirto anco rimaso, che de' suoi falli al Re del paradiso può domandar perdono anzi l'occaso; e confortare il conte, che le gote sparge di pianto, a pazïenza puote; 14 e dirgli: - Orlando, fa che ti raccordi di me ne l'orazion tue grate a Dio; né men ti raccomando la mia Fiordi... - ma dir non poté: - ... ligi -, e qui finio. E voci e suoni d'angeli concordi tosto in aria s'udîr, che l'alma uscìo; la qual disciolta dal corporeo velo fra dolce melodia salì nel cielo. 15 Orlando, ancor che far dovea allegrezza di sì devoto fine, e sapea certo che Brandimarte alla suprema altezza salito era (che 'l ciel gli vide aperto); pur da la umana volontade, avezza coi fragil sensi, male era sofferto ch'un tal più che fratel gli fosse tolto, e non aver di pianto umido il volto. 16 Sobrin che molto sangue avea perduto, che gli piovea sul fianco e su le gote, riverso già gran pezzo era caduto, e aver ne dovea ormai le vene vòte. Ancor giacea Olivier, né rïavuto il piede avea, né riaver lo puote se non ismosso, e de lo star che tanto gli fece il destrier sopra, mezzo infranto: 17 e se 'l cognato non venìa ad aitarlo (sì come lacrimoso era e dolente), per sé medesmo non potea ritrarlo; e tanta doglia e tal martìr ne sente, che ritratto che l'ebbe, né a mutarlo né a fermarvisi sopra era possente; e n'ha insieme la gamba sì stordita, che muover non si può, se non si aita. 18 De la vittoria poco rallegrosse Orlando; e troppo gli era acerbo e duro veder che morto Brandimarte fosse, né del cognato molto esser sicuro. Sobrin, che vivea ancora, ritrovosse, ma poco chiaro avea con molto oscuro; che la sua vita per l'uscito sangue era vicina a rimanere esangue. 19 Lo fece tor, che tutto era sanguigno, il conte, e medicar discretamente; e confortollo con parlar benigno, come se stato gli fosse parente; che dopo il fatto nulla di maligno in sé tenea, ma tutto era clemente. Fece dei morti arme e cavalli tôrre; del resto a' servi lor lasciò disporre. 20 Qui de la istoria mia, che non sia vera, Federigo Fulgoso è in dubbio alquanto; che con l'armata avendo la riviera di Barberia trascorsa in ogni canto, capitò quivi, e l'isola sì fiera, montuosa e inegual ritrovò tanto, che non è, dice, in tutto il luogo strano, ove un sol piè si possa metter piano: 21 né verisimil tien che ne l'alpestre scoglio sei cavallieri, il fior del mondo, potesson far quella battaglia equestre. Alla quale obiezion così rispondo: ch'a quel tempo una piazza de le destre, che sieno a questo, avea lo scoglio al fondo; ma poi, ch'un sasso che 'l tremuoto aperse, le cadde sopra, e tutta la coperse. 22 Sì che, o chiaro fulgor de la Fulgosa stirpe, o serena, o sempre viva luce, se mai mi riprendeste in questa cosa, e forse inanti a quello invitto duce per cui la vostra patria or si riposa, lascia ogni odio, e in amor tutta s'induce; vi priego che non siate a dirgli tardo, ch'esser può che né in questo io sia bugiardo. 23 In questo tempo, alzando gli occhi al mare, vide Orlando venire a vela in fretta un navilio leggier, che di calare facea sembiante sopra l'isoletta. Di chi si fosse, io non voglio or contare, perc'ho più d'uno altrove che m'aspetta. Veggiamo in Francia, poi che spinto n'hanno i Saracin, se mesti o lieti stanno. 24 Veggiàn che fa quella fedele amante che vede il suo contento ir sì lontano; dico la travagliata Bradamante, poi che ritrova il giuramento vano, ch'avea fatto Ruggier pochi dì inante, udendo il nostro e l'altro stuol pagano. Poi ch'in questo ancor manca, non le avanza in ch'ella debba più metter speranza. 25 E ripetendo i pianti e le querele che pur troppo domestiche le furo, tornò a sua usanza a nominar crudele Ruggiero, e 'l suo destin spietato e duro. Indi sciogliendo al gran dolor le vele, il ciel, che consentia tanto pergiuro, né fatto n'avea ancor segno evidente, ingiusto chiama, debole e impotente. 26 Ad accusar Melissa si converse, e maletir l'oracol de la grotta; ch'a lor mendace suasïon s'immerse nel mar d'amore, ov'è a morir condotta. Poi con Marfisa ritornò a dolerse del suo fratel che le ha la fede rotta: con lei grida e si sfoga, e le domanda, piangendo, aiuto, e se le raccomanda. 27 Marfisa si ristringe ne le spalle, e, quel sol che pò far, le dà conforto; né crede che Ruggier mai così falle, ch'a lei non debba ritornar di corto. E se non torna pur, sua fede dàlle, ch'ella non patirà sì grave torto; o che battaglia piglierà con esso, o gli farà osservar ciò c'ha promesso. 28 Così fa ch'ella un poco il duol raffrena; ch'avendo ove sfogarlo, è meno acerbo. Or ch'abbiam vista Bradamante in pena, chiamar Ruggier pergiuro, empio e superbo; veggiamo ancor, se miglior vita mena il fratel suo che non ha polso o nerbo, osso o medolla che non senta caldo de le fiamme d'amor; dico Rinaldo. 29 dico Rinaldo, il qual, come sapete, Angelica la bella amava tanto; né l'avea tratto all'amorosa rete sì la beltà di lei, come l'incanto. Aveano gli altri paladin quïete, essendo ai Mori ogni vigore affranto: tra i vincitori era rimaso solo egli captivo in amoroso duolo. 30 Cento messi a cercar che di lei fusse avea mandato, e cerconne egli stesso. Al fine a Malagigi si ridusse, che nei bisogni suoi l'aiutò spesso. A narrar il suo amor se gli condusse col viso rosso e col ciglio demesso; indi lo priega che gli insegni dove la desïata Angelica si trove. 31 Gran maraviglia di sì strano caso va rivolgendo a Malagigi il petto. Sa che sol per Rinaldo era rimaso d'averla cento volte e più nel letto: et egli stesso, acciò che persuaso fosse di questo, avea assai fatto e detto con prieghi e con minaccie per piegarlo; né mai avuto avea poter di farlo: 32 e tanto più, ch'allor Rinaldo avrebbe tratto fuor Malagigi di prigione. Fare or spontaneamente lo vorrebbe, che nulla giova, e n'ha minor cagione. Poi priega lui che ricordar si debbe pur quanto ha offeso in questo oltr'a ragione; che per negargli già, vi mancò poco di non farlo morire in scuro loco. 33 Ma quanto a Malagigi le domande di Rinaldo importune più pareano, tanto, che l'amor suo fosse più grande, indizio manifesto gli faceano. I prieghi che con lui vani non spande, fan che subito immerge ne l'oceano ogni memoria de la ingiuria vecchia, e che a dargli soccorso s'apparecchia. 34 Termine tolse alla risposta, e spene gli diè, che favorevol gli saria, e che gli saprà dir la via che tiene Angelica, o sia in Francia o dove sia. E quindi Malagigi al luogo viene ove i demoni scongiurar solìa, ch'era fra monti inaccessibil grotta: apre il libro, e li spirti chiama in frotta. 35 Poi ne sceglie un che de' casi d'amore avea notizia, e da lui saper volle, come sia che Rinaldo ch'avea il core dianzi sì duro, or l'abbia tanto molle: e di quelle due fonti ode il tenore, di che l'una dà il fuoco, e l'altra il tolle; e al mal che l'una fa, nulla soccorre, se non l'altra acqua che contraria corre. 36 Et ode come avendo già di quella che l'amor caccia, beuto Rinaldo, ai lunghi prieghi d'Angelica bella si dimostrò così ostinato e saldo; e che poi giunto per sua iniqua stella a ber ne l'altra l'amoroso caldo, tornò ad amar, per forza di quelle acque, lei che pur dianzi oltr'al dover gli spiacque. 37 Da iniqua stella e fier destin fu giunto a ber la fiamma in quel ghiacciato rivo; perché Angelica venne quasi a un punto a ber ne l'altro di dolcezza privo, che d'ogni amor le lasciò il cor sì emunto, ch'indi ebbe lui più che le serpi a schivo: egli amò lei, e l'amor giunse al segno in ch'era già di lei l'odio e lo sdegno. 38 Del caso strano di Rinaldo a pieno fu Malagigi dal demonio instrutto, che gli narrò d'Angelica non meno, ch'a un giovine african si donò in tutto; e come poi lasciato avea il terreno tutto d'Europa, e per l'instabil flutto verso India sciolto avea dai liti ispani su l'audaci galee de' Catallani. 39 Poi che venne il cugin per la risposta, molto gli disuase Malagigi di più Angelica amar, che s'era posta d'un vilissimo barbaro ai servigi; et ora sì da Francia si discosta, che mal seguir se ne potria i vestigi: ch'era oggimai più là ch'a mezza strada, per andar con Medoro in sua contrada. 40 La partita d'Angelica non molto sarebbe grave all'animoso amante; né pur gli avria turbato il sonno, o tolto il pensier di tornarsene in Levante: ma sentendo ch'avea del suo amor colto un Saracino le primizie inante, tal passïone e tal cordoglio sente, che non fu in vita sua, mai, più dolente. 41 Non ha poter d'una risposta sola; triema il cor dentro, e trieman fuor le labbia; non può la lingua disnodar parola; la bocca ha amara, e par che tòsco v'abbia. Da Malagigi subito s'invola; e come il caccia la gelosa rabbia, dopo gran pianto e gran ramaricarsi, verso Levante fa pensier tornarsi. 42 Chiede licenza al figlio di Pipino: e trova scusa che 'l destrier Baiardo, che ne mena Gradasso saracino contra il dover di cavallier gagliardo, lo muove per suo onore a quel camino, acciò che vieti al Serican bugiardo di mai vantarsi che con spada o lancia l'abbia levato a un paladin di Francia. 43 Lasciollo andar con sua licenza Carlo, ben che ne fu con tutta Francia mesto; ma finalmente non seppe negarlo, tanto gli parve il desiderio onesto. Vuol Dudon, vuol Guidone accompagnarlo; ma lo niega Rinaldo a quello e a questo. Lascia Parigi, e se ne va via solo, pien di sospiri e d'amoroso duolo. 44 Sempre ha in memoria, e mai non se gli tolle, ch'averla mille volte avea potuto, e mille volte avea ostinato e folle di sì rara beltà fatto rifiuto; e di tanto piacer ch'aver non volle, sì bello e sì buon tempo era perduto: et ora eleggerebbe un giorno corto averne solo, e rimaner poi morto. 45 Ha sempre in mente, e mai non se ne parte, come esser puote ch'un povero fante abbia del cor di lei spinto da parte merito e amor d'ogni altro primo amante. Con tal pensier che 'l cor gli straccia e parte, Rinaldo se ne va verso Levante; e dritto al Reno e a Basilea si tiene, fin che d'Ardenna alla gran selva viene. 46 Poi che fu dentro a molte miglia andato il paladin pel bosco aventuroso, da ville e da castella allontanato, ove aspro era più il luogo e periglioso, tutto in un tratto vide il ciel turbato, sparito il sol tra nuvoli nascoso, et uscir fuor d'una caverna oscura un strano mostro in feminil figura. 47 Mill'occhi in capo avea senza palpèbre; non può serrarli, e non creto che dorma: non men che gli occhi, avea l'orecchie crebre; avea in loco de crin serpi a gran torma. Fuor de le dïaboliche tenèbre nel mondo uscì la spaventevol forma. Un fiero e maggior serpe ha per la coda, che pel petto si gira e che l'annoda. 48 Quel ch'a Rinaldo in mille e mille imprese più non avvenne mai, quivi gli avviene; che come vede il mostro ch'all'offese se gli apparecchia, e ch'a trovar lo viene, tanta paura, quanta mai non scese in altri forse, gli entra ne le vene: ma pur l'usato ardir simula e finge, e con trepida man la spada stringe. 49 S'acconcia il mostro in guisa al fiero assalto, che si può dir che sia mastro di guerra: vibra il serpente venenoso in alto, e poi contra Rinaldo si disserra; di qua di là gli vien sopra a gran salto. Rinaldo contra lui vaneggia et erra: colpi a dritto e a riverso tira assai, ma non ne tira alcun che fera mai. 50 Il mostro al petto il serpe ora gli appicca, che sotto l'arme e sin nel cor l'agghiaccia; ora per la visiera gliele ficca, e fa ch'erra pel collo e per la faccia. Rinaldo da l'impresa si dispicca, e quanto può con sproni il destrier caccia: ma la Furia infernal già non par zoppa, che spicca un salto, e gli è subito in groppa. 51 Vada al traverso, al dritto, ove si voglia, sempre ha con lui la maledetta peste; né sa modo trovar, che se ne scioglia, ben che 'l destrier di calcitrar non reste. Triema a Rinaldo il cor come una foglia: non ch'altrimente il serpe lo moleste; ma tanto orror ne sente e tanto schivo, che stride e geme, e duolsi ch'egli è vivo. 52 Nel più tristo sentier, nel peggior calle scorrendo va, nel più intricato bosco, ove ha più asprezza il balzo, ove la valle è più spinosa, ov'è l'aer più fosco, così sperando tôrsi da le spalle quel brutto, abominoso, orrido tòsco; e ne saria mal capitato forse, se tosto non giungea chi lo soccorse. 53 Ma lo soccorse a tempo un cavalliero di bello armato e lucido metallo, che porta un giogo rotto per cimiero, di rosse fiamme ha pien lo scudo giallo; così trapunto il suo vestire altiero, così la sopravesta del cavallo: la lancia ha in pugno, e la spada al suo loco, e la mazza all'arcion, che getta foco. 54 Piena d'un foco eterno è quella mazza, che senza consumarsi ognora avampa: né per buon scudo o tempra di corazza o per grossezza d'elmo se ne scampa. Dunque si debbe il cavallier far piazza, giri ove vuol l'inestinguibil lampa: né manco bisognava al guerrier nostro, per levarlo di man del crudel mostro. 55 E come cavallier d'animo saldo, ove ha udito il rumor, corre e galoppa, tanto che vede il mostro che Rinaldo col brutto serpe in mille nodi agroppa, e sentir fagli a un tempo freddo e caldo; che non ha via di torlosi di groppa. Va il cavalliero, e fere il mostro al fianco, e lo fa trabboccar dal lato manco. 56 Ma quello è a pena in terra che si rizza, e il lungo serpe intorno aggira e vibra. Quest'altro più con l'asta non l'attizza; ma di farla col fuoco si delibra. La mazza impugna, e dove il serpe guizza, spessi come tempesta i colpi libra; né lascia tempo a quel brutto animale, che possa farne un solo o bene o male: 57 e mentre a dietro il caccia o tiene a bada, e lo percuote, e vendica mille onte, consiglia il paladin che se ne vada per quella via che s'alza verso il monte. Quel s'appiglia al consiglio et alla strada; e senza dietro mai volger la fronte, non cessa, che di vista se gli tolle, ben che molto aspro era a salir quel colle. 58 Il cavallier, poi ch'alla scura buca fece tornare il mostro da l'inferno, ove rode se stesso e si manuca, e da mille occhi versa il pianto eterno; per esser di Rinaldo guida e duca gli salì dietro, e sul giogo superno gli fu alle spalle, e si mise con lui per trarlo fuor de' luoghi oscuri e bui. 59 Come Rinaldo il vide ritornato, gli disse che gli avea grazia infinita, e ch'era debitore in ogni lato di porre a beneficio suo la vita. Poi lo domanda come sia nomato, acciò dir sappia chi gli ha dato aita, e tra guerrieri possa e inanzi a Carlo de l'alta sua bontà sempre esaltarlo. 60 Rispose il cavallier: - Non ti rincresca se 'l nome mio scoprir non ti vogli'ora: ben tel dirò prima ch'un passo cresca l'ombra; che ci sarà poca dimora. - Trovaro, andando insieme, un'acqua fresca che col suo mormorio facea talora pastori e vïandanti al chiaro rio venire, e berne l'amoroso oblio. 61 Signor, queste eran quelle gelide acque, quelle che spengon l'amoroso caldo; di cui bevendo, ad Angelica nacque l'odio ch'ebbe di poi sempre a Rinaldo. E s'ella un tempo a lui prima dispiacque, e se ne l'odio il ritrovò sì saldo, non derivò, Signor, la causa altronde, se non d'aver beuto di queste onde. 62 Il cavallier che con Rinaldo viene, come si vede inanzi al chiaro rivo, caldo per la fatica il destrier tiene, e dice: - Il posar qui non fia nocivo. - - Non fia (disse Rinaldo) se non bene; ch'oltre che prema il mezzogiorno estivo, m'ha così il brutto mostro travagliato, che 'l riposar mi fia commodo e grato. - 63 L'un e l'altro smontò del suo cavallo, e pascer lo lasciò per la foresta; e nel fiorito verde a rosso e a giallo ambi si trasson l'elmo de la testa. Corse Rinaldo al liquido cristallo, spinto da caldo e da sete molesta, e cacciò, a un sorso del freddo liquore, dal petto ardente e la sete e l'amore. 64 Quando lo vide l'altro cavalliero la bocca sollevar de l'acqua molle, e ritrarne pentito ogni pensiero di quel desir ch'ebbe d'amor sì folle; si levò ritto, e con sembiante altiero gli disse quel che dianzi dir non volle: - Sappi, Rinaldo, il nome mio è lo Sdegno, venuto sol per sciorti il giogo indegno. - 65 Così dicendo, subito gli sparve, e sparve insieme il suo destrier con lui. Questo a Rinaldo un gran miracol parve; s'aggirò intorno, e disse: - Ove è costui? - Stimar non sa se sian magiche larve, che Malagigi un de' ministri sui gli abbia mandato a romper la catena che lungamente l'ha tenuto in pena: 66 o pur che Dio da l'alta ierarchia gli abbia per ineffabil sua bontade mandato, come già mandò a Tobia, un angelo a levar di cecitade. Ma buono o rio demonio, o quel che sia, che gli ha renduta la sua libertade, ringrazia e loda; e da lui sol conosce che sano ha il cor da l'amorose angosce. 67 Gli fu nel primier odio ritornata Angelica; e gli parve troppo indegna d'esser, non che sì lungi seguitata, ma che per lei pur mezza lega vegna. Per Baiardo riaver tutta fïata verso India in Sericana andar disegna, sì perché l'onor suo lo stringe a farlo, sì per averne già parlato a Carlo. 68 Giunse il giorno seguente a Basilea, ove la nuova era venuta inante, che 'l conte Orlando aver pugna dovea contra Gradasso e contro il re Agramante. Né questo per aviso si sapea, ch'avesse dato il cavallier d'Anglante; ma di Sicilia in fretta venut'era chi la novella v'apportò per vera. 69 Rinaldo vuol trovarsi con Orlando alla battaglia, e se ne vede lunge. Di dieci in dieci miglia va mutando cavalli e guide, e corre e sferza e punge. Passa il Reno a Costanza, e in su volando, traversa l'Alpe, et in Italia giunge. Verona a dietro, a dietro Mantua lassa; sul Po si trova, e con gran fretta il passa. 70 Già s'inchinava il sol molto alla sera, e già apparia nel ciel la prima stella, quando Rinaldo in ripa alla riviera stando in pensier s'avea da mutar sella, o tanto soggiornar, che l'aria nera fuggisse inanzi all'altra aurora bella, venir si vede un cavalliero inanti cortese ne l'aspetto e nei sembianti. 71 Costui, dopo il saluto, con bel modo gli domandò s'aggiunto a moglie fosse. Disse Rinaldo: - Io son nel giugal nodo: - ma di tal domandar maravigliosse. Soggiunse quel: - Che sia così, ne godo. - Poi, per chiarir perché tal detto mosse, disse: - Io ti priego che tu sia contento ch'io ti dia questa sera alloggiamento; 72 che ti farò veder cosa che debbe ben volentieri veder chi ha moglie a lato. - Rinaldo, sì perché posar vorrebbe, ormai di correr tanto affaticato; sì perché di vedere e d'udire ebbe sempre aventure un desiderio innato; accettò l'offerir del cavalliero, e dietro gli pigliò nuovo sentiero. 73 Un tratto d'arco fuor di strada usciro, e inanzi un gran palazzo si trovaro, onde scudieri in gran frotta veniro con torchi accesi, e fêro intorno chiaro. Entrò Rinaldo, e voltò gli occhi in giro, e vide loco il qual si vede raro, di gran fabrica e bella e bene intesa; né a privato uom convenia tanta spesa. 74 Di serpentin, di porfido le dure pietre fan de la porta il ricco vòlto. Quel che chiude è di bronzo, con figure che sembrano spirar, muovere il volto. Sotto un arco poi s'entra, ove misture di bel musaico ingannan l'occhio molto. Quindi si va in un quadro ch'ogni faccia de le sue logge ha lunga cento braccia. 75 La sua porta ha per sé ciascuna loggia, e tra la porta e sé ciascuna ha un arco: d'ampiezza pari son, ma varia foggia fe' d'ornamenti il mastro lor non parco. Da ciascuno arco s'entra, ove si poggia sì facil, ch'un somier vi può gir carco. Un altro arco di su trova ogni scala; e s'entra per ogni arco in una sala. 76 Gli archi di sopra escono fuor del segno tanto, che fan coperchio alle gran porte; e ciascun due colonne ha per sostegno, altre di bronzo, altre di pietra forte. Lungo sarà, se tutti vi disegno gli ornati alloggiamenti de la corte; e oltr'a quel ch'appar, quanti agi sotto la cava terra il mastro avea ridotto. 77 L'alte colonne e i capitelli d'oro, da che i gemmati palchi eran suffulti, i peregrini marmi che vi fôro da dotta mano in varie forme sculti, pitture e getti, e tant'altro lavoro (ben che la notte agli occhi il più ne occulti), mostran che non bastaro a tanta mole di duo re insieme le ricchezze sole. 78 Sopra gli altri ornamenti ricchi e belli, ch'erano assai ne la gioconda stanza, v'era una fonte che per più ruscelli spargea freschissime acque in abondanza. Poste le mense avean quivi i donzelli; ch'era nel mezzo per ugual distanza: vedeva, e parimente veduta era da quattro porte de la casa altiera. 79 Fatta da mastro diligente e dotto la fonte era con molta e suttil opra, di loggia a guisa, o padiglion ch'in otto facce distinto, intorno adombri e cuopra. Un ciel d'oro, che tutto era di sotto colorito di smalto, le sta sopra; et otto statue son di marmo bianco, che sostengon quel ciel col braccio manco. 80 Ne la man destra il corno d'Amaltea sculto aveva lor l'ingenïoso mastro, onde con grato murmure cadea l'acqua di fuore in vaso d'alabastro; et a sembianza di gran donna avea ridutto con grande arte ogni pilastro. Son d'abito e di faccia differente, ma grazia hanno e beltà tutte ugualmente. 81 Fermava il piè ciascuno di questi segni sopra due belle imagini più basse, che con la bocca aperta facean segni che 'l canto e l'armonia lor dilettasse; e quell'atto in che son, par che disegni che l'opra e studio lor tutto lodasse le belle donne che sugli omeri hanno, se fosser quei di cu' in sembianza stanno. 82 I simulacri inferïori in mano avean lunghe et amplissime scritture, ove facean con molta laude piano i nomi de le più degne figure; e mostravano ancor poco lontano i propri loro in note non oscure. Mirò Rinaldo a lume di doppieri le donne ad una ad una e i cavallieri. 83 La prima iscrizïon ch'agli occhi occorre, con lungo onor Lucrezia Borgia noma, la cui bellezza et onestà preporre debbe all'antiqua la sua patria Roma. I duo che voluto han sopra sé tôrre tanto eccellente et onorata soma, noma lo scritto, Antonio Tebaldeo, Ercole Strozza: un Lino et uno Orfeo. 84 Non men gioconda statua né men bella si vede appresso, e la scrittura dice: - Ecco la figlia d'Ercole, Issabella, per cui Ferrara si terrà felice via più, perché in lei nata sarà quella, che d'altro ben che prospera e fautrice e benigna Fortuna dar le deve, volgendo gli anni nel suo corso lieve. - 85 I duo che mostran disïosi affetti che la gloria di lei sempre risuone, Gian Iacobi ugualmente erano detti, l'uno Calandra, e l'altro Bardelone. Nel terzo e quarto loco ove per stretti rivi l'acqua esce fuor del padiglione, due donne son, che patria, stirpe, onore hanno di par, di par beltà e valore. 86 Elissabetta l'una e Leonora nominata era l'altra: e fia, per quanto narrava il marmo sculto, d'esse ancora sì glorïosa la terra di Manto, che di Vergilio, che tanto l'onora, più che di queste, non si darà vanto. Avea la prima a piè del sacro lembo Iacobo Sadoletto e Pietro Bembo. 87 Uno elegante Castiglione, e un culto Muzio Arelio de l'altra eran sostegni. Di questi nomi era il bel marmo sculto, ignoti allora, or sì famosi e degni. Veggon poi quella a cui dal cielo indulto tanta virtù sarà, quanta ne regni, o mai regnata in alcun tempo sia, versata da Fortuna or buona or ria. 88 Lo scritto d'oro esser costei dichiara Lucrezia Bentivoglia; e fra le lode pone di lei, che 'l duca di Ferrara d'esserle padre si rallegra e gode. Di costei canta con soave e chiara voce un Camil che 'l Reno e Felsina ode con tanta attenzïon, tanto stupore, con quanta Anfriso udì già il suo pastore; 89 et un per cui la terra, ove l'Isauro le sue dolci acque insala in maggior vase, nominata sarà da l'Indo al Mauro, e da l'austrine all'iperboree case, via più che per pesare il romano auro, di che perpetuo nome le rimase; Guido Postumo, a cui doppia corona Pallade quinci, e quindi Febo dona. 90 L'altra che segue in ordine, è Dïana. - Non guardar (dice il marmo scritto) ch'ella sia altiera in vista; che nel core umana non sarà però men ch'in viso bella. - Il dotto Celio Calcagnin lontana farà la gloria e 'l bel nome di quella nel regno di Monese, in quel di Iuba, in India e Spagna udir con chiara tuba; 91 et un Marco Cavallo, che tal fonte farà di poesia nascer d'Ancona, qual fe' il cavallo alato uscir del monte, non so se di Parnasso o d'Elicona. Beatrice appresso a questo alza la fronte, di cui lo scritto suo così ragiona: - Beatrice bea, vivendo, il suo consorte, e lo lascia infelice alla sua morte; 92 anzi tutta l'Italia, che con lei fia triunfante, e senza lei, captiva. - Un signor di Coreggio di costei con alto stil par che cantando scriva, e Timoteo, l'onor de' Bendedei: ambi faran tra l'una e l'altra riva fermare al suon de' lor soavi plettri il fiume ove sudâr gli antiqui elettri. 93 Tra questo loco e quel de la colonna che fu sculpita in Borgia, com'è detto, formata in alabastro una gran donna era di tanto e sì sublime aspetto, che sotto puro velo, in nera gonna, senza oro e gemme, in un vestire schietto, tra le più adorne non parea men bella, che sia tra l'altre la ciprigna stella. 94 Non si potea, ben contemplando fiso, conoscer se più grazia o più beltade, o maggior maestà fosse nel viso, o più indizio d'ingegno o d'onestade. - Chi vorrà di costei (dicea l'inciso marmo) parlar, quanto parlar n'accade, ben torrà impresa più d'ogn'altra degna; ma non però ch'a fin mai se ne vegna. - 95 Dolce quantunque e pien di grazia tanto fosse il suo bello e ben formato segno, parea sdegnarsi che con umil canto ardisse lei lodar sì rozzo ingegno, com'era quel che sol, senz'altri a canto (non so perché), le fu fatto sostegno. Di tutto 'l resto erano i nomi sculti; sol questi due l'artefice avea occulti. 96 Fanno le statue in mezzo un luogo tondo, che 'l pavimento asciutto ha di corallo, di freddo soavissimo giocondo, che rendea il puro e liquido cristallo, che di fuor cade in un canal fecondo, che 'l prato verde, azzurro, bianco e giallo rigando, scorre per vari ruscelli, grato alle morbide erbe e agli arbuscelli. 97 Col cortese oste ragionando stava il paladino a mensa; e spesso spesso, senza più differir, gli ricordava che gli attenesse quanto avea promesso: e ad or ad or mirandolo, osservava ch'avea di grande affanno il core oppresso; che non può star momento che non abbia un cocente sospiro in su le labbia. 98 Spesso la voce dal disio cacciata viene a Rinaldo sin presso alla bocca per domandarlo; e quivi, raffrenata di cortese modestia, fuor non scocca. Ora essendo la cena terminata, ecco un donzello a chi l'ufficio tocca, pon su la mensa un bel nappo d'or fino, di fuor di gemme, e dentro pien di vino. 99 Il signor de la casa allora alquanto sorridendo, a Rinaldo levò il viso; ma chi ben lo notava, più di pianto parea ch'avesse voglia che di riso. Disse: - Ora a quel che mi ricordi tanto, che tempo sia di sodisfar m'è aviso; mostrarti un paragon ch'esser de' grato di vedere a ciascun c'ha moglie allato. 100 Ciascun marito, a mio giudizio, deve sempre spiar se la sua donna l'ama; saper s'onore o biasmo ne riceve, se per lei bestia, o se pur uom si chiama. L'incarco de le corna è lo più lieve ch'al mondo sia, se ben l'uom tanto infama: lo vede quasi tutta l'altra gente; e chi l'ha in capo, mai non se lo sente. 101 Se tu sai che fedel la moglie sia, hai di più amarla e d'onorar ragione, che non ha quel che la conosce ria, o quel che ne sta in dubbio e in passïone. Di molte n'hanno a torto gelosia i lor mariti, che son caste e buone: molti di molte anco sicuri stanno, che con le corna in capo se ne vanno. 102 Se vuoi saper se la tua sia pudica (come io credo che credi, e creder déi; ch'altrimente far credere è fatica, se chiaro già per prova non ne sei), tu per te stesso, senza ch'altri il dica, te n'avvetrai, s'in questo vaso béi; che per altra cagion non è qui messo, che per mostrarti quanto io t'ho promesso. 103 Se béi con questo, vedrai grande effetto; che se porti il cimier di Cornovaglia, il vin ti spargerai tutto sul petto, né gocciola sarà ch'in bocca saglia: ma s'hai moglie fedel, tu berai netto. Or di veder tua sorte ti travaglia. - Così dicendo, per mirar tien gli occhi, ch'in seno il vin Rinaldo si trabbocchi. 104 Quasi Rinaldo di cercar suaso quel che poi ritrovar non vorria forse, messa la mano inanzi, e preso il vaso, fu presso di volere in prova pôrse: poi, quanto fosse periglioso il caso a porvi i labri, col pensier discorse. Ma lasciate, Signor, ch'io mi ripose; poi dirò quel che 'l paladin rispose.
Orlando arde d’ira nel vedere che il caro amico Brandimarte giace a terra ucciso da re Gradasso, e si lancia quindi subito contro gli avversari. Il conte taglia di netto la testa ad Agramante. Re Gradasso assiste alla scena e per la prima volta in vita sua trema di paura. Il pagano è ormai rassegnato a morire e non cerca neanche di difendersi dal colpo mortale che gli viene sferrato dal conte cristiano. Orlando non gioisce per la vittoria ottenuta, scende subito da cavallo e corre dall’amico Brandimarte. Il cavalliere muore subito dopo, non prima però di aver chiesto perdono a Dio per i propri peccati ed avere raccomandato al conte la sua Fiordiligi. L’ultima parola pronunciata dal paladino è appunto il nome della donna amata. Re Sobrino è disteso al suolo senza forze ed ormai quasi dissanguato. Il conte aiuta Oliviero a liberarsi dal peso del cavallo ed a rialzarsi, fa poi prelevare anche Sobrino e lo fa curare. Orlando vede infine arrivare dal mare un’imbarcazione leggera. Tornando in Francia, Bradamante vede il suo Ruggiero allontanarsi da lei ancora una volta e riprende così a disperarsi e a maledirlo. La donna si sfoga con Marfisa, sorella del cavaliere, che la consola dicendogli che non crede che Ruggiero possa commettere un simile errore, e se anche lo dovesse fare, ci penserà lei a vendicarla. Tutti i paladini si godono la meritata pace, ora che i saraceni sono stati fatti scappare, tranne Rinaldo, che è ancora tormentato dall’amore per la bella Angelica. Il cavaliere la cerca ovunque ed infine decide di affidarsi ai poteri magici di Malagigi per sapere dove essa si trovi. Malagigi rimane molto sorpreso dalla richiesta del cavaliere, visto che in passato, quando era stato prigioniero di Angelica, a nulla erano volse le sue preghiere perché Rinaldo ricambiasse l’amore della donna, condizione per la sua liberazione. Malagigi mette da parte ogni rancore, invoca gli spiriti e viene così a sapere dell’origine del profondo amore di Ruggiero verso Angelica (lui aveva bevuto dalla fontana che trasforma l’odio in amore, lei da quella che produce l’effetto contrario), del matrimonio tra la donna e Medoro e del loro viaggio verso l’India. Malagigi informa Rinaldo dei fatti e cerca di convincerlo a non amare più la donna, ormai quasi di sicuro giunta in patria insieme al suo Medoro. Il paladino soffre e si tormenta al pensiero che un’altro uomo abbia colto la verginità della sua amata. Spinto dal furore della gelosia, Rinaldo chiede a re Carlo il permesso di partire, dicendo, come scusa, che deve assolutamente riprendersi il cavallo Baiardo, prima che re Gradasso possa vantarsi di averglielo sottratto con le armi. Carlo Magno acconsente ed il paladino lascia così la Francia senza nessuno al seguito. Rinaldo si tormenta durante il viaggio per non aver posseduto la donna quando avrebbe potuto, e per il fatto che un semplice fante abbia potuto far mettere da parte ad Angelica l’amore ed il merito di ogni precedente amante. Mentre il paladino sta procedendo all’interno della Selva Nera, il cielo diviene improvvisamente nuvoloso e da una caverna esce un mostro dalle sembianze femminili (la Gelosia), con in viso numerosi occhi privi di palpebre, numerose orecchie ai lati della testa, serpenti come capelli e come coda un serpente più grande. Per la prima volta nella sua vita Rinaldo ha paura. Il cavaliere cerca comunque di simulare il solito coraggio, stringe la spada e cerca di difendersi dai colpi del mostro, senza però riuscirci. Il grosso serpente lo colpisce al petto ed la viso. Il paladino cristiano si mette infine in fuga ma il mostro è veloce a muoversi e sale anch’egli in groppa al suo cavallo. Per togliersi da dietro la schiena quell’orribile mostro, Rinaldo prende i sentieri più pericolosi ed avrebbe anche potuto riceverne danno se non fosse giunto in suo aiuto un cavaliere (lo Sdegno), che ha per elmo un giogo rotto, fiamme su scudo e vesti e come arma una mazza che è avvolta da un eterno fuoco. Il cavaliere colpisce di lato il mostro, che avvolge da dietro il paladino con il suo grosso serpente, lo fa cadere a terra e lo ricaccia infine nella sua caverna. Rinaldo ringrazia il suo salvatore, ne chiede il nome ma il cavaliere rimanda la risposta. I due giungono presso una gelida fonte, quella che spegna la passione amorosa (dalla quale aveva bevuto Angelica, trasformando così il suo amore per Rinaldo in profondo odio), ed il cavaliere misterioso propone a Rinaldo di rimanere lì a riposare. Il paladino accetta, subito si disseta bevendo alla fonte ed in uno stesso momento si libera della sete e del folle amore per Angelica. Il cavaliere confessa ora al paladino di essere lo Sdegno e subito scompare. Rinaldo prosegue comunque il suo viaggio verso l’India, questa volta veramente con l’intenzione di recuperare Baiardo. Giunto a Basilea viene a sapere che Orlando si sta preparando per combattere contro Gradasso e Agramante. Rinaldo vuole combattere al fianco del cugino, cambia meta e si dirige verso l’Italia. Giunto sulla riva del Po il paladino incontra un cavaliere che gli chiede se è sposato e, ricevuta una risposta positiva, lo invita quindi nel suo palazzo per mostrargli, dice, qualcosa che chi ha moglie deve assolutamente vedere. Il palazzo è immenso e ricchissimo, al centro del suo cortile c’è una immensa fontana protetta da una volta sostenuta da otto statue di donna, ognuna diversa dall’altra ma tutte ugualmente belle. Ogni donna poggia su due statue di cavalieri, ognuna delle quali porta un testo in cui vengono tessute le lodi della donna sostenuta. Rinaldo legge tra vari nomi quelli di Lucrezia Borgia e di Isabella d’Este. L’ultima statua raffigura sicuramente Alessandra Benucci, ma nessun nome è in realtà inciso sulla fontana. Non ha nome nemmeno l’unica figura che la sostiene, ma si tratta per certo dello stesso Ariosto. Rinaldo ed il cavaliere banchettano in cortile. Termina la cena, il padrone del palazzo si fa portare una coppa d’oro, tempestata di gemme e piena di vino, la porge al paladino e gli dice che bevendo da quella potrà scoprire se la sua donna gli è fedele o meno: se il vino gli finirà sul petto allora la sua donna lo tradisce, se non cade neanche una goccia allora la sua donna gli è fedele. Rinaldo è sul punto di tentare la prova, ma poi riflette su quanto sia pericolosa la verità.
1 O esecrabile Avarizia, o ingorda fame d'avere, io non mi maraviglio ch'ad alma vile e d'altre macchie lorda, sì facilmente dar possi di piglio; ma che meni legato in una corda, e che tu impiaghi del metesmo artiglio alcun, che per altezza era d'ingegno, se te schivar potea, d'ogni onor degno. 2 Alcun la terra e 'l mare e 'l ciel misura, e render sa tutte le cause a pieno d'ogni opra, d'ogni effetto di Natura, e poggia sì ch'a Dio riguarda in seno; e non può aver più ferma e maggior cura, morso dal tuo mortifero veleno, ch'unir tesoro: e questo sol gli preme, e ponvi ogni salute, ogni sua speme. 3 Rompe eserciti alcuno, e ne le porte si vede entrar di bellicose terre, et esser primo a porre il petto forte, ultimo a trarre, in perigliose guerre; e non può riparar che sino a morte tu nel tuo cieco carcere nol serre. Altri d'altre arti e d'altri studi industri, oscuri fai, che sarian chiari e illustri. 4 Che d'alcune dirò belle e gran donne ch'a bellezza, a virtú de fidi amanti, a lunga servitù, più che colonne io veggo dure, immobili e constanti? Veggo venir poi l'Avarizia, e ponne far sì, che par che subito le incanti: in un dì, senza amor (chi fia che 'l creda?) a un vecchio, a un brutto, a un mostro le dà in preda. 5 Non è senza cagion s'io me ne doglio: intendami chi può, che m'intend'io. Né però di proposito mi toglio, né la materia del mio canto oblio; ma non più a quel c'ho detto, adattar voglio, ch'a quel ch'io v'ho da dire, il parlar mio. Or torniamo a contar del paladino ch'ad assaggiare il vaso fu vicino. 6 Io vi dicea ch'alquanto pensar volle, prima ch'ai labri il vaso s'appressasse. Pensò, e poi disse: - Ben sarebbe folle chi quel che non vorria trovar, cercasse. Mia donna è donna, et ogni donna è molle: lasciàn star mia credenza come stasse. Sin qui m'ha il creder mio giovato, e giova: che poss'io megliorar per farne prova? 7 Potria poco giovare e nuocer molto; che 'l tentar qualche volta Idio disdegna. Non so s'in questo io mi sia saggio o stolto; ma non vo' più saper, che mi convegna. Or questo vin dinanzi mi sia tolto: sete non n'ho, né vo' che me ne vegna; che tal certezza ha Dio più proibita, ch'al primo padre l'arbor de la vita. 8 Che come Adam, poi che gustò del pomo che Dio con propria bocca gl'interdisse, da la letizia al pianto fece un tomo, onde in miseria poi sempre s'afflisse; così, se de la moglie sua vuol l'uomo tutto saper quanto ella fece e disse, cade de l'allegrezze in pianti e in guai, onde non può più rilevarsi mai. - 9 Così dicendo il buon Rinaldo, e intanto respingendo da sé l'odiato vase, vide abondare un gran rivo di pianto dagli occhi del signor di quelle case, che disse, poi che racchetossi alquanto: - Sia maledetto chi mi persuase ch'io facesse la prova, ohimè! di sorte, che mi levò la dolce mia consorte. 10 Perché non ti conobbi già dieci anni, sì che io mi fossi consigliato teco, prima che cominciassero gli affanni, e 'l lungo pianto onde io son quasi cieco? Ma vo' levarti da la scena i panni; che 'l mio mal vegghi, e te ne dogli meco: e ti dirò il principio e l'argumento del mio non comparabile tormento. 11 Qua su lasciasti una città vicina, a cui fa intorno un chiaro fiume laco, che poi si stende e in questo Po declina, e l'origine sua vien di Benaco. Fu fatta la città, quando a ruina le mura andâr de l'agenoreo draco. Quivi nacque io di stirpe assai gentile, ma in pover tetto e in facultade umìle. 12 Se Fortuna di me non ebbe cura sì che mi desse al nascer mio ricchezza, al difetto di lei supplì Natura, che sopra ogni mio ugual mi diè bellezza. Donne e donzelle già di mia figura arder più d'una vidi in giovanezza; ch'io ci seppi accoppiar cortesi modi; ben che stia mal che l'uom se stesso lodi. 13 Ne la nostra cittade era un uom saggio, di tutte l'arti oltre ogni creder dotto, che quando chiuse gli occhi al febeo raggio, contava gli anni suoi cento e ventotto. Visse tutta sua età solo e selvaggio, se non l'estrema; che d'Amor condotto, con premio ottenne una matrona bella, e n'ebbe di nascosto una cittella. 14 E per vietar che simil la figliuola alla matre non sia, che per mercede vendé sua castità che valea sola più che quanto oro al mondo si possiede, fuor del commercio popular la invola; et ove più solingo il luogo vede, questo amplo e bel palagio e ricco tanto fece fare a' demonii per incanto. 15 A vecchie donne e caste fe' nutrire la figlia qui, ch'in gran beltà poi venne; né che potesse altr'uom veder, né udire pur ragionarne in quella età, sostenne. E perch'avesse esempio da seguire, ogni pudica donna che mai tenne contra illicito amor chiuse le sbarre, ci fe' d'intaglio o di color ritrarre: 16 non quelle sol che di virtude amiche hanno sì il mondo all'età prisca adorno; di quai la fama per l'istorie antiche non è per veder mai l'ultimo giorno: ma nel futuro ancora altre pudiche che faran bella Italia d'ogn'intorno, ci fe' ritrarre in lor fattezze conte, come otto che ne vedi a questa fonte. 17 Poi che la figlia al vecchio par matura sì, che ne possa l'uom cogliere i frutti; o fosse mia disgrazia o mia aventura, eletto fui degno di lei fra tutti. I lati campi oltre alle belle mura, non meno i pescarecci, che gli asciutti, che ci son d'ogn'intorno a venti miglia, mi consegnò per dote de la figlia. 18 Ella era bella e costumata tanto, che più desiderar non si potea. Di bei trapunti e di riccami, quanto mai ne sapesse Pallade, sapea. Vedila andare, odine il suono e 'l canto: celeste e non mortal cosa parea. E in modo all'arti liberali attese, che, quanto il padre, o poco men n'intese. 19 Con grande ingegno, e non minor bellezza che fatta l'avria amabil fin ai sassi, era giunto un amore, una dolcezza, che par ch'a rimembrarne il cor mi passi. Non aveva più piacer né più vaghezza, che d'esser meco ov'io mi stessi o andassi. Senza aver lite mai stemmo gran pezzo: l'avemmo poi, per colpa mia, da sezzo. 20 Morto il suocero mio dopo cinque anni ch'io sottoposi il collo al giugal nodo, non stêro molto a cominciar gli affanni ch'io sento ancora, e ti dirò in che modo. Mentre mi rinchiudea tutto coi vanni l'amor di questa mia che sì ti lodo, una femina nobil del paese, quanto accender si può, di me s'accese. 21 Ella sapea d'incanti e di malie quel che saper ne possa alcuna maga: rendea la notte chiara, oscuro il die fermava il sol, facea la terra vaga. Non potea trar però le voglie mie, che le sanassin l'amorosa piaga col rimedio che dar non le potria senza alta ingiuria de la donna mia. 22 Non perché fosse assai gentile e bella, né perché sapess'io che sì me amassi, né per gran don, né per promesse ch'ella mi fêsse molte, e di continuo instassi, ottener poté mai ch'una fiammella, per darla a lei, del primo amor levassi; ch'a dietro ne traea tutte mie voglie il conoscermi fida la mia moglie. 23 La speme, la credenza, la certezza che de la fede di mia moglie avea, m'avria fatto sprezzar quanta bellezza avesse mai la giovane ledea, o quanto offerto mai senno e ricchezza fu al gran pastor de la montagna Idea. Ma le repulse mie non valean tanto, che potesson levarmela da canto. 24 Un dì che mi trovò fuor del palagio la maga, che nomata era Melissa, e mi poté parlare a suo grande agio, modo trovò da por mia pace in rissa, e con lo spron di gelosia malvagio cacciar del cor la fé che v'era fissa. Comincia a comendar la intenzion mia, ch'io sia fedele a chi fedel mi sia. 25 « Ma che ti sia fedel, tu non puoi dire, prima che di sua fé prova non vedi. S'ella non falle, e che potria fallire, che sia fedel, che sia pudica credi. Ma se mai senza te non la lasci ire, se mai vedere altr'uom non le conciedi, onde hai questa baldanza, che tu dica e mi vogli affermar che sia pudica? 26 Scòstati un poco, scòstati da casa; fa che le cittadi odano e i villaggi, che tu sia andato, e ch'ella sia rimasa; agli amanti dà commodo e ai messaggi. S'a prieghi, a doni non fia persuasa di fare al letto maritale oltraggi, e che, facendol, creda che si cele, allora dir potrai che sia fedele ». 27 Con tal parole e simili non cessa l'incantatrice, fin che mi dispone che de la donna mia la fede espressa veder voglia, e provare a paragone. « Ora pogniamo (le soggiungo) ch'essa sia qual non posso averne opinïone: come potrò di lei poi farmi certo che sia di punizion degna o di merto? » 28 Disse Melissa: « Io ti darò un vasello fatto da ber, di virtù rara e strana; qual già per fare accorto il suo fratello del fallo di Genevra, fe' Morgana. Chi la moglie ha pudica, bee con quello: ma non vi può già ber chi l'ha puttana; che 'l vin, quando lo crede in bocca porre, tutto si sparge, e fuor nel petto scorre. 29 Prima che parti, ne farai la prova, e per lo creder mio tu berai netto; che credo ch'ancor netta si ritrova la moglie tua: pur ne vedrai l'effetto. Ma s'al ritorno esperïenza nuova poi ne farai, non t'assicuro il petto: che se tu non lo immolli, e netto béi, d'ogni marito il più felice sei ». 30 L'offerta accetto; il vaso ella mi dona: ne fo la prova, e mi succede a punto; che, com'era il disio, pudica e buona la cara moglie mia trovo a quel punto. Dice Melissa: - Un poco l'abbandona; per un mese o per duo stanne disgiunto: poi torna; poi di nuovo il vaso tolli; prova se bevi, o pur se 'l petto immolli ». 31 A me duro parea pur di partire; non perché di sua fé sì dubitassi, come ch'io non potea duo dì patire, né un'ora pur, che senza me restassi. Disse Melissa: - Io ti farò venire a conoscere il ver con altri passi. Vo' che muti il parlare e i vestimenti, e sotto viso altrui te l'appresenti. - 32 Signor, qui presso una città difende il Po fra minacciose e fiere corna; la cui iuridizion di qui si stende fin dove il mar fugge dal lito e torna. Cete d'antiquità, ma ben contende con le vicine in esser ricca e adorna. Le reliquie troiane la fondaro, che dal flagello d'Attila camparo. 33 Astringe e lenta a questa terra il morso un cavallier giovene, ricco e bello, che dietro un giorno a un suo falcone iscorso, essendo capitato entro il mio ostello, vide la donna, e sì nel primo occorso gli piacque, che nel cor portò il suggello; né cessò molte pratiche far poi, per inchinarla ai desiderii suoi. 34 Ella gli fece dar tante repulse, che più tentarla al fine egli non vòlse; ma la beltà di lei, ch'Amor vi sculse, di memoria però non se gli tolse. Tanto Melissa allosingommi e mulse, ch'a tor la forma di colui mi volse; e mi mutò (né so ben dirti come) di faccia, di parlar, d'occhi e di chiome. 35 Già con mia moglie avendo simulato d'esser partito e gitone in Levante, nel giovene amator così mutato l'andar, la voce, l'abito e 'l sembiante, me ne ritorno, et ho Melissa a lato, che s'era trasformata, e parea un fante; e le più ricche gemme avea con lei, che mai mandassin gl'Indi o gli Eritrei. 36 Io che l'uso sapea del mio palagio, entro sicuro e vien Melissa meco; e madonna ritrovo a sì grande agio, che non ha né scudier né donna seco. I miei prieghi le espongo, indi il malvagio stimulo inanzi del mal far le arreco: i rubini, i diamanti e gli smeraldi, che mosso arebbon tutti i cor più saldi. 37 E le dico che poco è questo dono verso quel che sperar da me dovea: de la commodità poi le ragiono, che, non v'essendo il suo marito, avea: e le ricordo che gran tempo sono stato suo amante, com'ella sapea; e che l'amar mio lei con tanta fede degno era avere al fin qualche mercede. 38 Turbossi nel principio ella non poco, divenne rossa, et ascoltar non volle; ma il veder fiammeggiar poi, come fuoco, le belle gemme, il duro cor fe' molle: e con parlar rispose breve e fioco, quel che la vita a rimembrar mi tolle; che mi compiaceria, quando credesse ch'altra persona mai nol risapesse. 39 Fu tal risposta un venenato telo di che me ne senti' l'alma traffissa: per l'ossa andommi e per le vene un gielo; ne le fauci restò la voce fissa. Levando allora del suo incanto il velo, ne la mia forma mi tornò Melissa. Pensa di che color dovesse farsi, ch'in tanto error da me vide trovarsi. 40 Divenimmo ambi di color di morte, muti ambi, ambi restiàn con gli occhi bassi. Potei la lingua a pena aver sì forte, e tanta voce a pena, ch'io gridassi: « Me tradiresti dunque tu, consorte, quando tu avessi chi 'l mio onor comprassi ? » Altra risposta darmi ella non puote, che di rigar di lacrime le gote. 41 Ben la vergogna è assai, ma più lo sdegno ch'ella ha, da me veder farsi quella onta; e multiplica sì senza ritegno, ch'in ira al fine e in crudele odio monta. Da me fuggirsi tosto fa disegno; e ne l'ora che 'l Sol del carro smonta, al fiume corre, e in una sua barchetta si fa calar tutta la notte in fretta: 42 e la matina s'appresenta avante al cavallier che l'avea un tempo amata, sotto il cui viso, sotto il cui sembiante fu contra l'onor mio da me tentata. A lui che n'era stato et era amante, creder si può che fu la giunta grata. Quindi ella mi fe' dir ch'io non sperassi che mai più fosse mia, né più m'amassi. 43 Ah lasso! da quel dì con lui dimora in gran piacere, e di me prende giuoco; et io del mal che procacciammi allora, ancor languisco, e non ritrovo loco. Cresce il mal sempre, e giusto è ch'io ne muora; e resta omai da consumarci poco. Ben credo che 'l primo anno sarei morto, se non mi dava aiuto un sol conforto. 44 Il conforto ch'io prendo, è che di quanti per dieci anni mai fur sotto al mio tetto (ch'a tutti questo vaso ho messo inanti), non ne trovo un che non s'immolli il petto. Aver nel caso mio compagni tanti mi dà fra tanto mal qualche diletto. Tu tra infiniti sol sei stato saggio, che far negasti il periglioso saggio. 45 Il mio voler cercare oltre alla meta che de la donna sua cercar si deve, fa che mai più trovare ora quïeta non può la vita mia, sia lunga o breve. Di ciò Melissa fu a principio lieta: ma cessò tosto la sua gioia lieve; ch'essendo causa del mio mal stata ella, io l'odiai sì, che non potea vedella. 46 Ella d'esser odiata impazïente da me che dicea amar più che sua vita, ove donna restarne immantinente cretuto avea, che l'altra ne fosse ita; per non aver sua doglia sì presente, non tardò molto a far di qui partita; e in modo abbandonò questo paese, che dopo mai per me non se n'intese. - 47 Così narrava il mesto cavalliero: e quando fine alla sua istoria pose, Rinaldo alquanto ste' sopra pensiero, da pietà vinto, e poi così rispose: - Mal consiglio di diè Melissa in vero, che d'attizzar le vespe ti propose; e tu fusti a cercar poco avveduto quel che tu avresti non trovar voluto. 48 Se d'avarizia la tua donna vinta a voler fede romperti fu indutta, non t'ammirar: né prima ella né quinta fu de le donne prese in sì gran lutta; e mente via più salda ancora è spinta per minor prezzo a far cosa più brutta. Quanti uomini odi tu, che già per oro han traditi padroni e amici loro? 49 Non dovevi assalir con sì fiere armi, se bramavi veder farle difesa. Non sai tu, contra l'oro, che né i marmi né 'l durissimo acciar sta alla contesa? Che più fallasti tu a tentarla parmi, di lei che così tosto restò presa. Se te altretanto avesse ella tentato, non so se tu più saldo fossi stato. - 50 Qui Rinaldo fe' fine, e da la mensa levossi a un tempo, e domandò dormire; che riposare un poco, e poi si pensa inanzi al dì d'un'ora o due partire. Ha poco tempo, e 'l poco c'ha, dispensa con gran misura, e invan nol lascia gire. Il signor di là dentro, a suo piacere, disse, che si potea porre a giacere; 51 ch'apparecchiata era la stanza e 'l letto: ma che se volea far per suo consiglio, tutta notte dormir potria a diletto, e dormendo avanzarsi qualche miglio. - Acconciar ti farò (disse) un legnetto, con che volando, e senz'alcun periglio tutta notte dormendo vo' che vada, e una giornata avanzi de la strada. - 52 La proferta a Rinaldo accettar piacque, e molto ringraziò l'oste cortese: poi senza indugio là, dove ne l'acque da' naviganti era aspettato, scese. Quivi a grande agio riposato giacque, mentre il corso del fiume il legno prese, che da sei remi spinto, lieve e snello pel fiume andò, come per l'aria augello. 53 Così tosto come ebbe il capo chino, il cavallier di Francia adormentosse; imposto avendo già, come vicino giungea a Ferrara, che svegliato fosse. Restò Melara nel lito mancino; nel lito destro Sermide restosse: Figarolo e Stellata il legno passa, ove le corna il Po iracondo abbassa. 54 De le due corna il nocchier prese il destro, e lasciò andar verso Vinegia il manco; passò il Bondeno: e già il color cilestro si vedea in orïente venir manco, che votando di fior tutto il canestro, l'Aurora vi facea vermiglio e bianco; quando, lontan scoprendo di Tealdo ambe le rocche, il capo alzò Rinaldo. 55 - O città bene aventurosa (disse), di cui già Malagigi, il mio cugino, contemplando le stelle erranti e fisse, e costringendo alcun spirto indovino, nei secoli futuri mi predisse (già ch'io facea con lui questo camino) ch'ancor la gloria tua salirà tanto, ch'avrai di tutta Italia il pregio e 'l vanto. - 56 Così dicendo, e pur tuttavia in fretta su quel battel che parea aver le penne, scorrendo il re de' fiumi, all'isoletta ch'alla cittade è più propinqua, venne: e ben che fosse allora erma e negletta, pur s'allegrò di rivederla, e fenne non poca festa; che sapea quanto ella, volgendo gli anni, saria ornata e bella. 57 Altra fïata che fe' questa via, udì da Malagigi, il qual seco era, che settecento volte che si sia girata col monton la quarta sfera, questa la più ioconda isola fia di quante cinga mar, stagno o riviera; sì che, veduta lei, non sarà ch'oda dar più alla patria di Nausicaa loda. 58 Udì che di bei tetti posta inante sarebbe a quella sì a Tiberio cara; che cederian l'Esperide alle piante ch'avria il bel loco, d'ogni sorte rara; che tante spezie d'animali, quante vi fien, né in mandra Circe ebbe né in hara; che v'avria con le Grazie e con Cupido Venere stanza, e non più in Cipro o in Gnido: 59 e che sarebbe tal per studio e cura di chi al sapere et al potere unita la voglia avendo, d'argini e di mura avria sì ancor la sua città munita, che contra tutto il mondo star sicura potria, senza chiamar di fuori aita; e che d'Ercol figliuol, d'Ercol sarebbe padre il signor che questo e quel far debbe. 60 Così venìa Rinaldo ricordando quel che già il suo cugin detto gli avea, de le future cose divinando, che spesso conferir seco solea. E tuttavia l'umil città mirando: - Come esser può ch'ancor (seco dicea) debban così fiorir queste paludi de tutti i liberali e degni studi? 61 e crescer abbia di sì piccol borgo ampla cittade e di sì gran bellezza? e ciò ch'intorno è tutto stagno e gorgo, sien lieti e pieni campi di ricchezza? Città, sin ora a riverire assorgo l'amor, la cortesia, la gentilezza de' tuoi signori, e gli onorati pregi dei cavallier, dei cittadini egregi. 62 L'ineffabil bontà del Redentore, de' tuoi principi il senno e la iustizia, sempre con pace, sempre con amore ti tenga in abondanzia et in letizia; e ti difenda contra ogni furore de' tuoi nimici, e scuopra lor malizia: del tuo contento ogni vicino arrabbi, più tosto che tu invidia ad alcuno abbi. - 63 Mentre Rinaldo così parla, fende con tanta fretta il suttil legno l'onde, che con maggiore a logoro non scende falcon ch'al grido del padron risponde. Del destro corno il destro ramo prende quindi il nocchiero, e mura e tetti asconde: San Georgio a dietro, a dietro s'allontana la torre e de la Fossa e di Gaibana. 64 Rinaldo, come accade ch'un pensiero un altro dietro, e quello un altro mena, si venne a ricordar del cavalliero nel cui palagio fu la sera a cena; che per questa cittade, a dire il vero, avea giusta cagion di stare in pena: e ricordossi del vaso da bere, che mostra altrui l'error de la mogliere; 65 e ricordossi insieme de la prova che d'aver fatta il cavallier narrolli; che di quanti avea esperti, uomo non trova che bea nel vaso, e 'l petto non s'immolli. Or si pente, or tra sé dice: - E’ mi giova ch'a tanto paragon venir non volli. Riuscendo, accertava il creder mio; non riuscendo, a che partito era io? 66 Gli è questo creder mio, come io l'avessi ben certo, e poco accrescer lo potrei: sì che, s'al paragon mi succedessi, poco il meglio saria ch'io ne trarrei; ma non già poco il mal, quando vedessi quel di Clarice mia, ch'io non vorrei. Metter saria mille contra uno a giuoco; che perder si può molto, e acquistar poco. - 67 Stando in questo pensoso il cavalliero di Chiaramonte, e non alzando il viso, con molta attenzion fu da un nocchiero che gli era incontra, riguardato fiso: e perché di veder tutto il pensiero che l'occupava tanto, gli fu aviso, come uom che ben parlava et avea ardire, a seco ragionar lo fece uscire. 68 La somma fu del lor ragionamento, che colui malaccorto era ben stato, che ne la moglie sua l'esperimento maggior che può far donna, avea tentato; che quella che da l'oro e da l'argento difende il cor di pudicizia armato, tra mille spade via più facilmente difenderallo, e in mezzo al fuoco ardente. 69 Il nocchier suggiungea: - Ben gli dicesti, che non dovea offerirle sì gran doni; che contrastare a questi assalti e a questi colpi non sono tutti i petti buoni. Non so se d'una giovane intendesti (ch'esser pò che tra voi se ne ragioni), che nel medesmo error vide il consorte, di ch'esso avea lei condannata a morte. 70 Dovea in memoria avere il signor mio, che l'oro e 'l premio ogni durezza inchina; ma, quando bisognò, l'ebbe in oblio, et ei si procacciò la sua ruina. Così sapea lo esempio egli, com'io, che fu in questa città di qui vicina, sua patria e mia, che 'l lago e la palude del rifrenato Menzo intorno chiude: 71 d'Adonio voglio dir, che 'l ricco dono fe' alla moglie del giudice, d'un cane. - - Di questo (disse il paladino) il suono non passa l'Alpe, e qui tra voi rimane; perché né in Francia, né dove ito sono, parlar n'udi' ne le contrade estrane: sì che di’ pur, se non t'incresce il dire; che volentieri io mi t'acconcio a udire. - 72 Il nocchier cominciò: - Già fu di questa terra un Anselmo di famiglia degna, che la sua gioventù con lunga vesta spese in saper ciò ch'Ulpïano insegna; e di nobil progenie, bella e onesta moglie cercò, ch'al grado suo convegna; e d'una terra quindi non lontana n'ebbe una di bellezza sopraumana; 73 e di bei modi e tanto grazïosi, che parea tutto amore e leggiadria; e di molto più forse, ch'ai riposi, ch'allo stato di lui non convenia. Tosto che l'ebbe, quanti mai gelosi al mondo fur, passò di gelosia: non già ch'altra cagion gli ne desse ella, che d'esser troppo accorta e troppo bella. 74 Ne la città medesma un cavalliero era d'antiqua e d'onorata gente, che discendea da quel lignaggio altiero ch'uscì d'una mascella di serpente, onde già Manto, e chi con essa fêro la patria mia, disceser similmente. Il cavallier, ch'Adonio nominosse, di questa bella donna inamorosse. 75 E per venire a fin di questo amore, a spender cominciò senza ritegno in vestire, in conviti, in farsi onore, quanto può farsi un cavallier più degno. Il tesor di Tiberio imperatore non saria stato a tante spese al segno. Io creto ben che non passâr duo verni, ch'egli uscì fuor di tutti i ben paterni. 76 La casa ch'era dianzi frequentata matina e sera tanto dagli amici, sola restò, tosto che fu privata di starne, di fagian, di coturnici. Egli che capo fu de la brigata, rimase dietro, e quasi fra mendici. Pensò, poi ch'in miseria era venuto, d'andare ove non fosse conosciuto. 77 Con questa intenzïone una mattina, senza far motto altrui, la patria lascia; e con sospiri e lacrime camina lungo lo stagno che le mura fascia. La donna che del cor gli era regina, già non oblia per la seconda ambascia. Ecco un'alta aventura che lo viene di sommo male a porre in sommo bene. 78 Vede un villan che con un gran bastone intorno alcuni sterpi s'affatica. Quivi Adonio si ferma, e la cagione di tanto travagliar vuol che gli dica. Disse il villan, che dentro a quel macchione veduto avea una serpe molto antica, di che più lunga e grossa a' giorni suoi non vide, né credea mai veder poi; 79 e che non si voleva indi partire, che non l'avesse ritrovata e morta. Come Adonio lo sente così dire, con poca pazïenza lo sopporta. Sempre solea le serpi favorire; che per insegna il sangue suo le porta in memoria ch'uscì sua prima gente de' denti seminati di serpente. 80 e disse e fece col villano in guisa che, suo mal grado, abbandonò l'impresa; sì che da lui non fu la serpe uccisa, né più cercata, né altrimenti offesa. Adonio ne va poi dove s'avisa che sua condizion sia meno intesa; e dura con disagio e con affanno fuor de la patria appresso al settimo anno. 81 Né mai per lontananza, né strettezza del viver, che i pensier non lascia ir vaghi, cessa Amor che sì gli ha la mano avezza, ch'ognor non li arda il core, ognor impiaghi. È forza al fin che torni alla bellezza che son di riveder sì gli occhi vaghi. Barbuto, afflitto, e assai male in arnese, là donde era venuto, il camin prese. 82 In questo tempo alla mia patria accade mandare uno oratore al Padre santo, che resti appresso alla sua Santitade per alcun tempo e non fu detto quanto. Gettan la sorte, e nel giudice cade. Oh giorno a lui cagion sempre di pianto! Fe' scuse, pregò assai, diede e promesse per non partirsi; e al fin sforzato cesse. 83 Non gli parea crudele e duro manco a dover sopportar tanto dolore, che se veduto aprir s'avesse il fianco, e vedutosi trar con mano il core. Di geloso timor pallido e bianco per la sua donna, mentre staria fuore, lei con quei modi che giovar si crede, supplice priega a non mancar di fede: 84 dicendole ch'a donna né bellezza, né nobiltà, né gran fortuna basta, sì che di vero onor monti in altezza, se per nome e per opre non è casta; e che quella virtú via più si prezza, che di sopra riman quando contrasta, e ch'or gran campo avria per questa absenza, di far di pudicizia esperïenza. 85 Con tai le cerca et altre assai parole persuader ch'ella gli sia fedele. De la dura partita ella si duole, con che lacrime, oh Dio! con che querele! E giura che più tosto oscuro il sole vedrassi, che gli sia mai sì crudele, che rompa fede; e che vorria morire più tosto ch'aver mai questo desire. 86 Ancor ch'a sue promesse e a suoi scongiuri desse credenza e si achetasse alquanto, non resta che più intender non procuri, e che materia non procacci al pianto. Avea uno amico suo, che dei futuri casi predir teneva il pregio e 'l vanto; e d'ogni sortilegio e magica arte, o il tutto, o ne sapea la maggior parte. 87 Diègli, pregando di vedere assunto, se la sua moglie, nominata Argia, nel tempo che da lei starà disgiunto, fedele e casta, o pel contario fia. Colui da prieghi vinto, tolle il punto, il ciel figura come par che stia. Anselmo il lascia in opra, e l'altro giorno a lui per la risposta fa ritorno. 88 L'astrologo tenea le labra chiuse, per non dire al dottor cosa che doglia, e cerca di tacer con molte scuse. Quando pur del suo mal vede c'ha voglia, che gli romperà fede gli concluse, tosto ch'egli abbia il piè fuor de la soglia, non da bellezza né da prieghi indotta, ma da guadagno e da prezzo corrotta. 89 Giunte al timore, al dubbio ch'avea prima, queste minacce dei superni moti, come gli stesse il cor, tu stesso stima, se d'amor gli accidenti ti son noti. E sopra ogni mestizia che l'opprima, e che l'afflitta mente aggiri e arruoti, è 'l saper come, vinta d'avarizia, per prezzo abbia a lasciar sua pudicizia. 90 Or per far quanti potea far ripari da non lasciarla in quel error cadere (perché il bisogno a dispogliar gli altari tra' l'uom talvolta, che sel trova avere), ciò che tenea di gioie e di danari (che n'avea somma) pose in suo potere: rendite e frutti d'ogni possessione, e ciò c'ha al mondo, in man tutto le pone. 91 « Con facultade (disse) che ne' tuoi non sol bisogni te li goda e spenda, ma che ne possi far ciò che ne vuoi, li consumi, li getti, e doni e venda; altro conto saper non ne vo' poi, pur che, qual ti lascio or, tu mi ti renda: pur che, come or tu sei, mi sie rimasa, fa che io non trovi né poder né casa ». 92 La prega che non faccia, se non sente ch'egli ci sia, ne la città dimora; ma ne la villa, ove più agiatamente viver potrà d'ogni commercio fuora. Questo dicea, però che l'umil gente che nel gregge o ne' campi gli lavora, non gli era aviso che le caste voglie contaminar potessero alla moglie. 93 Tenendo tuttavia le belle braccia al timido marito al collo Argia, e di lacrime empiendogli la faccia, ch'un fiumicel dagli occhi le n'uscia; s'attrista che colpevole la faccia, come di fé mancata già gli sia; che questa sua sospizïon procede, perché non ha ne la sua fede fede. 94 Troppo sarà, s'io voglio ir rimembrando ciò ch'al partir da tramendua fu detto. « Il mio onor (dice al fin) ti raccomando »: piglia licenzia, e partesi in effetto; e ben si sente veramente, quando volge il cavallo, uscire il cor del petto. Ella lo segue, quanto seguir puote, con gli occhi che le rigano le gote. 95 Adonio intanto misero e tapino, e (come io dissi) pallido e barbuto, verso la patria avea preso il camino, sperando di non esser conosciuto. Sul lago giunse alla città vicino, là dove avea dato alla biscia aiuto, ch'era assediata entro la macchia forte da quel villan che por la volea a morte. 96 Quivi arrivando in su l'aprir del giorno, ch'ancor splendea nel cielo alcuna stella, si vede in peregrino abito adorno venir pel lito incontra una donzella in signoril sembiante, ancor ch'intorno non l'apparisse né scudier né ancella. Costei con grata vista lo raccolse, e poi la lingua a tai parole sciolse: 97 « Se ben non mi conosci, o cavalliero, son tua parente, e grande obligo t'aggio: parente son, perché da Cadmo fiero scende d'amenduo noi l'alto lignaggio. Io son la fata Manto, che 'l primiero sasso messi a fondar questo villaggio; e dal mio nome (come ben forse hai contare udito) Mantua la nomai. 98 De le fate io son una; et il fatale stato per farti anco saper ch'importe, nascemo a un punto, che d'ogn'altro male siamo capaci, fuor che de la morte. Ma giunto è con questo essere immortale condizïon non men del morir forte; ch'ogni settimo giorno ogniuna è certa che la sua forma in biscia si converta. 99 Il vedersi coprir del brutto scoglio, e gir serpendo, è cosa tanto schiva, che non è pare al mondo altro cordoglio; tal che bestemmia ogniuna d'esser viva. E l'obligo ch'io t'ho (perché ti voglio insiememente dire onde deriva), tu saprai che quel dì, per esser tali, siamo a periglio d'infiniti mali. 100 Non è sì odiato altro animale in terra, come la serpe; e noi, che n'abbiàn faccia, patimo da ciascuno oltraggio e guerra; che chi ne vede, ne percuote e caccia. Se non troviamo ove tornar sotterra, sentiamo quanto pesa altrui le braccia. Meglio saria poter morir, che rotte e storpiate restar sotto le botte. 101 L'obligo ch'io t'ho grande, è ch'una volta che tu passavi per quest'ombre amene, per te di mano fui d'un villan tolta, che gran travagli m'avea dati e pene. Se tu non eri, io non andava asciolta, ch'io non portassi rotto e capo e schene, e che sciancata non restassi e storta, se ben non vi potea rimaner morta: 102 perché quei giorni che per terra il petto traemo avvolte in serpentile scorza, il ciel ch'in altri tempi è a noi suggetto, niega ubbidirci, e prive siàn di forza. In altri tempi ad un sol nostro detto il sol si ferma e la sua luce ammorza; l'immobil terra gira e muta loco; s'infiamma il ghiaccio, e si congela il fuoco. 103 Ora io son qui per renderti mercede del beneficio che mi festi allora. Nessuna grazia indarno or mi si chiede ch'io son del manto viperino fuora. Tre volte più che di tuo padre erede non rimanesti, io ti fo ricco or ora: né vo' che mai più povero diventi, ma quanto spendi più, che più augumenti. 104 E perché so che ne l'antiquo nodo, in che già Amor t'avinse, anco ti trovi, voglioti dimostrar l'ordine e 'l modo ch'a disbramar tuoi desiderii giovi. Io voglio, or che lontano il marito odo, che senza indugio il mio consiglio provi; vadi a trovar la donna che dimora fuori alla villa, e sarò teco io ancora ». 105 E seguitò narrandogli in che guisa alla sua donna vuol che s'appresenti; dico come vestir, come precisamente abbia a dir, come la prieghi e tenti; e che forma essa vuol pigliar, devisa; che, fuor che 'l giorno ch'erra tra serpenti, in tutti gli altri si può far, secondo che più le pare, in quante forme ha il mondo. 106 Messe in abito lui di peregrino il qual per Dio di porta in porta accatti: mutosse ella in un cane, il più piccino di quanti mai n'abbia Natura fatti, di pel lungo, più bianco ch'armellino, di grato aspetto e di mirabili atti. Così trasfigurato, entraro in via verso la casa de la bella Argia: 107 e dei lavoratori alle capanne, prima ch'altrove, il giovene fermosse; e cominciò a sonar certe sue canne, al cui suono danzando il can rizzosse. La voce e 'l grido alla padrona vanne, e fece sì, che per veder si mosse. Fece il romeo chiamar ne la sua corte, sì come del dottor traea la sorte. 108 E quivi Adonio a comandare al cane incominciò, et il cane a ubbidir lui, e far danze nostral, farne d'estrane, con passi e continenze e modi sui, e finalmente con maniere umane far ciò che comandar sapea colui, con tanta attenzïon, che chi lo mira, non batte gli occhi, e a pena il fiato spira. 109 Gran maraviglia, et indi gran desire venne alla donna di quel can gentile; e ne fa per la balia proferire al cauto peregrin prezzo non vile, « S'avessi più tesor, che mai sitire potesse cupidigia feminile (colui rispose), non saria mercede di comprar degna del mio cane un piede ». 110 E per mostrar che veri i detti fôro, con la balia in un canto si ritrasse, e disse al cane, ch'una marca d'oro a quella donna in cortesia donasse. Scossesi il cane, e videsi il tesoro. Disse Adonio alla balia, che pigliasse, soggiungendo: « Ti par che prezzo sia, per cui sì bello e util cane io dia? 111 Cosa, qual vogli sia, non gli domando, di ch'io ne torni mai con le man vòte; e quando perle, e quando annella, e quando leggiadra veste e di gran prezzo scuote. Pur di' a madonna, che fia al suo comando; per oro no, ch'oro pagar nol puote: ma se vuol ch'una notte seco io giaccia, abbiasi il cane, e 'l suo voler ne faccia ». 112 Così dice; e una gemma allora nata le dà, ch'alla padrona l'appresenti. Pare alla balia averne più derata, che di pagar dieci ducati o venti. Torna alla donna, e le fa l'imbasciata; e la conforta poi, che si contenti d'acquistare il bel cane; ch'acquistarlo per prezzo può, che non si perde a darlo. 113 La bella Argia sta ritrosetta in prima; parte, che la sua fé romper non vuole, parte, ch'esser possibile non stima tutto ciò che ne suonan le parole. La balia le ricorda, e rode e lima, che tanto ben di rado avvenir suole; e fe' che l'agio un altro dì si tolse, che 'l can veder senza tanti occhi vòlse. 114 Quest'altro comparir ch'Adonio fece, fu la ruina e del dottor la morte. Facea nascer le doble a diece a diece, filze di perle, e gemme d'ogni sorte: sì che il superbo cor mansuefece, che tanto meno a contrastar fu forte, quanto poi seppe che costui ch'inante gli fa partito, è 'l cavallier suo amante. 115 De la puttana sua balia i conforti, i prieghi de l'amante e la presenzia, il veder che guadagno se l'apporti, del misero dottor la lunga absenzia, lo sperar ch'alcun mai non lo rapporti, fêro ai casti pensier tal vïolenzia, ch'ella accettò il bel cane, e per mercede in braccio e in preda al suo amator si diede. 116 Adonio lungamente frutto colse de la sua bella donna, a cui la fata grande amor pose, e tanto le ne vòlse, che sempre star con lei si fu ubligata. Per tutti i segni il sol prima si volse, ch'al giudice licenza fosse data: al fin tornò, ma pien di gran sospetto per quel che già l'astrologo avea detto. 117 Fa, giunto ne la patria, il primo volo a casa de l'astrologo, e gli chiede, se la sua donna fatto inganno e dolo, o pur servato gli abbia amore e fede. Il sito figurò colui del polo, et a tutti i pianeti il luogo diede: poi rispose che quel ch'avea temuto, come predetto fu, gli era avvenuto: 118 che da doni grandissimi corrotta, data ad altri s'avea la donna in preda. Questa al dottor nel cor fu sì gran botta, che lancia e spieto io vo' che ben le ceda. Per esserne più certo, ne va allotta (ben che pur troppo allo indivino creda) ov'è la balia, e la tira da parte, e per saperne il certo usa grande arte. 119 Con larghi giri circondando prova or qua or là di ritrovar la traccia; e da principio nulla ne ritrova, con ogni diligenzia che ne faccia; ch'ella, che non avea tal cosa nuova, stava negando con immobil faccia; e come bene istrutta, più d'un mese tra il dubbio e 'l certo il suo patron sospese. 120 Quanto dovea parergli il dubio buono, se pensava il dolor ch'avria del certo! Poi ch'indarno provò con priego e dono, che da la balia il ver gli fosse aperto, né toccò tasto ove sentisse suono altro che falso; come uom ben esperto, aspettò che discordia vi venisse; ch'ove femine son, son liti e risse. 121 E come egli aspettò, così gli avvenne; ch'al primo sdegno che tra loro nacque, senza suo ricercar, la balia venne il tutto a ricontargli, e nulla tacque. Lungo a dir fôra ciò che 'l cor sostenne, come la mente costernata giacque del giudice meschin, che fu sì oppresso, che stette per uscir fuor di se stesso: 122 e si dispose al fin, da l'ira vinto, morir, ma prima uccider la sua moglie; e che d'amendue i sangui un ferro tinto levassi lei di biasmo, e sé di doglie. Ne la città se ne ritorna, spinto da così furibonde e cieche voglie; indi alla villa un suo fidato manda, e quanto esequir debba, gli commanda. 123 Commanda al servo, ch'alla moglie Argia torni alla villa, e in nome suo le dica ch'egli è da febbre oppresso così ria, che di trovarlo vivo avrà fatica; sì che, senza aspettar più compagnia, venir debba con lui, s'ella gli è amica (verrà: sa ben che non farà parola); e che tra via le seghi egli la gola. 124 A chiamar la patrona andò il famiglio, per far di lei quanto il signor commesse. Dato prima al suo cane ella di piglio, montò a cavallo et a camin si messe. L'avea il cane avisata del periglio, ma che d'andar per questo ella non stesse; ch'avea ben disegnato e proveduto onde nel gran bisogno avrebbe aiuto. 125 Levato il servo del camino s'era; e per diverse e solitarie strade a studio capitò su una riviera che d'Apennino in questo fiume cade; ov'era bosco e selva oscura e nera, lungi da villa e lungi da cittade. Gli parve loco tacito e disposto per l'effetto crudel che gli fu imposto. 126 Trasse la spada e alla padrona disse quanto commesso il suo signor gli avea; sì che chiedesse, prima che morisse, perdono a Dio d'ogni colpa rea. Non ti so dir com'ella si coprisse: quando il servo ferirla si credea, più non la vide, e molto d'ogn'intorno l'andò cercando, e al fin restò con scorno. 127 Torna al patron con gran vergogna et onta, tutto attonito in faccia e sbigottito; e l'insolito caso gli racconta, ch'egli non sa come si sia seguito. Ch'a' suoi servigi abbia la moglie pronta la fata Manto, non sapea il marito; che la balia onde il resto avea saputo, questo, non so perché, gli avea taciuto. 128 Non sa che far; che né l'oltraggio grave vendicato ha, né le sue pene ha sceme. Quel ch'era una festuca, ora è una trave, tanto gli pesa, tanto al cor gli preme. L'error che sapean pochi, or sì aperto have, che senza indugio si palesi, teme. Potea il primo celarsi; ma il secondo, publico in breve fia per tutto il mondo. 129 Conosce ben che, poi che 'l cor fellone avea scoperto il misero contra essa, ch'ella, per non tornargli in suggezione, d'alcun potente in man si sarà messa; il qual se la terrà con irrisione et ignominia del marito espressa; e forse anco verrà d'alcuno in mano, che ne fia insieme adultero e ruffiano. 130 Sì che, per rimediarvi, in fretta manda intorno messi e lettere a cercarne: ch'in quel loco, ch'in questo ne domanda per Lombardia, senza città lasciarne. Poi va in persona, e non si lascia banda ove o non vada o mandivi a spiarne: né mai può ritrovar capo né via di venire a notizia, che ne sia. 131 Al fin chiama quel servo a chi fu imposta l'opra crudel che poi non ebbe effetto, e fa che lo conduce ove nascosta se gli era Argia, sì come gli avea detto; che forse in qualche macchia il dì reposta, la notte si ripara ad alcun tetto. Lo guida il servo ove trovar si crede la folta selva, e un gran palagio vede. 132 Fatto avea farsi alla sua fata intanto la bella Argia con subito lavoro d'alabastri un palagio per incanto, dentro e di fuor tutto fregiato d'oro. Né lingua dir, né cor pensar può quanto avea beltà di fuor, dentro tesoro. Quel che iersera sì ti parve bello, del mio signor, saria un tugurio a quello. 133 E di panni di razza, e di cortine tessute riccamente e a varie foggie, ornate eran le stalle e le cantine, non sale pur, non pur camere e loggie; vasi d'oro e d'argento senza fine, gemme cavate, azzurre e verdi e roggie, e formate in gran piatti e in coppe e in nappi, e senza fin d'oro e di seta drappi. 134 Il giudice, sì come io vi dicea, venne a questo palagio a dar di petto, quando né una capanna si credea di ritrovar, ma solo il bosco schietto. Per l'alta maraviglia che n'avea, esser si credea uscito d'intelletto: non sapea se fosse ebbro o se sognassi, o pur se 'l cervel scemo a volo andassi. 135 Vede inanzi alla porta uno Etïopo con naso e labri grossi; e ben gli è avviso che non vedesse mai, prima né dopo, un così sozzo e dispiacevol viso; poi di fattezze, qual si pinge Esopo, d'attristar, se vi fosse, il paradiso; bisunto e sporco, e d'abito mendico: né a mezzo ancor di sua bruttezza io dico. 136 Anselmo che non vede altro da cui possa saper di chi la casa sia, a lui s'accosta, e ne domanda a lui; et ei risponde: « Questa casa è mia ». Il giudice è ben certo che colui lo beffi e che gli dica la bugia: ma con scongiuri il negro ad affermare che sua è la casa, e ch'altri non v'ha a fare; 137 e gli offerisce, se la vuol vedere, che dentro vada, e cerchi come voglia; e se v'ha cosa che gli sia in piacere o per sé o per gli amici, se la toglia. Diede il cavallo al servo suo a tenere Anselmo, e messe il piè dentro alla soglia; e per sale e per camere condutto, da basso e d'alto andò mirando il tutto. 138 La forma, il sito, il ricco e bel lavoro va contemplando, e l'ornamento regio; e spesso dice: - Non potria quant'oro è sotto il sol pagare il loco egregio ». A questo gli risponde il brutto Moro, e dice: « E questo ancor trova il suo pregio: se non d'oro o d'argento, nondimeno pagar lo può quel che vi costa meno ». 139 E gli fa la medesima richiesta ch'avea già Adonio alla sua moglie fatta. De la brutta domanda e disonesta, persona lo stimò bestiale e matta. Per tre repulse e quattro egli non resta; e tanti modi a persuaderlo adatta, sempre offerendo in merito il palagio, che fe' inchinarlo al suo voler malvagio. 140 La moglie Argia che stava appresso ascosa, poi che lo vide nel suo error caduto, saltò fuora gridando: « Ah degna cosa che io veggo di dottor saggio tenuto! » Trovato in sì mal'opra e vizïosa, pensa se rosso far si deve e muto. O terra, acciò ti si gettassi dentro, perché allor non t'apristi insino al centro? 141 La donna in suo discarco, et in vergogna d'Anselmo, il capo gl'intronò di gridi, dicendo: « Come te punir bisogna di quel che far con sì vil uom ti vidi, se per seguir quel che natura agogna, me, vinta a' prieghi del mio amante, uccidi? ch'era bello e gentile; e un dono tale mi fe', ch'a quel nulla il palagio vale. 142 S'io ti parvi esser degna d'una morte, conosci che ne sei degno di cento: e ben ch'in questo loco io sia sì forte, ch'io possa di te fare il mio talento; pure io non vo' pigliar di peggior sorte altra vendetta del tuo fallimento. Di par l'avere e 'l dar, marito, poni; fa, com'io a te, che tu a me ancor perdoni: 143 e sia la pace e sia l'accordo fatto, ch'ogni passato error vada in oblio; né ch'in parole io possa mai né in atto ricordarti il tuo error, né a me tu il mio ». Il marito ne parve aver buon patto, né dimostrossi al perdonar restio. Così a pace e concordia ritornaro, e sempre poi fu l'uno all'altro caro. - 144 Così disse il nocchiero; e mosse a riso Rinaldo al fin de la sua istoria un poco; e diventar gli fece a un tratto il viso, per l'onta del dottor, come di fuoco. Rinaldo Argia molto lodò, ch'avviso ebbe d'alzare a quello augello un gioco ch'alla medesma rete fe' cascallo, in che cadde ella, ma con minor fallo. 145 Poi che più in alto il sole il camin prese, fe' il paladino apparecchiar la mensa, ch'avea la notte il Mantuan cortese provista con larghissima dispensa. Fugge a sinistra intanto il bel paese, et a man destra la palude immensa: viene e fuggesi Argenta e 'l suo girone col lito ove Santerno il capo pone. 146 Allora la Bastia credo non v'era, di che non troppo si vantâr Spagnuoli d'avervi su tenuta la bandiera; ma più da pianger n'hanno i Romagniuoli. E quindi a filo alla dritta riviera cacciano il legno, e fan parer che voli. Lo volgon poi per una fossa morta, ch'a mezzodì presso a Ravenna il porta. 147 Ben che Rinaldo con pochi danari fosse sovente, pur n'avea sì alora, che cortesia ne fece a' marinari, prima che li lasciasse alla buon'ora. Quindi mutando bestie e cavallari, Arimino passò la sera ancora; né in Montefiore aspetta il matutino, e quasi a par col sol giunge in Urbino. 148 Quivi non era Federico allora, né l'Issabetta, né 'l buon Guido v'era, né Francesco Maria, ne Leonora, che con cortese forza e non altiera avesse astretto a far seco dimora sì famoso guerrier più d'una sera; come fêr già molti anni, et oggi fanno a donne e a cavallier che di là vanno. 149 Poi che quivi alla briglia alcun nol prende, smonta Rinaldo a Cagli alla via dritta. Pel monte che 'l Metauro o il Gauno fende, passa Apennino e più non l'ha a man ritta; passa gli Ombri e gli Etrusci, e a Roma scende; da Roma ad Ostia; e quindi si tragitta per mare alla cittade a cui commise il pietoso figliuol l'ossa d'Anchise. 150 Muta ivi legno, e verso l'isoletta di Lipadusa fa ratto levarsi; quella che fu dai combattenti eletta, et ove già stati erano a trovarsi. Insta Rinaldo, e gli nocchieri affretta, ch'a vela e a remi fan ciò che può farsi; ma i venti avversi e per lui mal gagliardi, lo fecer, ma di poco, arrivar tardi. 151 Giunse ch'a punto il principe d'Anglante fatta avea l'utile opra e glorïosa: avea Gradasso ucciso et Agramante, ma con dura vittoria e sanguinosa. Morto n'era il figliuol di Monodante; e di grave percossa e perigliosa stava Olivier languendo in su l'arena, e del piè guasto avea martìre e pena. 152 Tener non poté il conte asciutto il viso, quando abbracciò Rinaldo, e che narrolli che gli era stato Brandimarte ucciso, che tanta fede e tanto amor portolli. Né men Rinaldo, quando sì diviso vide il capo all'amico, ebbe occhi molli: poi quindi ad abbracciar si fu condotto Olivier che setea col piede rotto. 153 La consolazion che seppe, tutta diè lor, ben che per sé tor non la possa; che giunto si vedea quivi alle frutta, anzi poi che la mensa era rimossa. Andaro i servi alla città distrutta, e di Gradasso e d'Agramante l'ossa ne le ruine ascoser di Biserta, e quivi divulgâr la cosa certa. 154 De la vittoria ch'avea avuto Orlando, s'allegrò Astolfo e Sansonetto molto; non sì però, come avrian fatto, quando non fosse a Brandimarte il lume tolto. Sentir lui morto il gaudio va scemando sì, che non ponno asserenare il volto. Or chi sarà di lor, ch'annunzio voglia a Fiordiligi dar di sì gran doglia? 155 La notte che precesse a questo giorno, Fiordiligi sognò che quella vesta che, per mandarne Brandimarte adorno, avea trapunta e di sua man contesta, vedea per mezzo sparsa e d'ogn'intorno di gocce rosse, a guisa di tempesta: parea che di sua man così l'avesse riccamata ella, e poi se ne dogliessse. 156 E parea dir: - Pur hammi il signor mio commesso ch'io la faccia tutta nera: or perché dunque riccamata holl'io contra sua voglia in sì strana maniera? - Di questo sogno fe' giudicio rio; poi la novella giunse quella sera: ma tanto Astolfo ascosa le la tenne, ch'a lei con Sansonetto se ne venne. 157 Tosto ch'entraro, e ch'ella loro il viso vide di gaudio in tal vittoria privo; senz'altro annunzio sa, senz'altro avviso, che Brandimarte suo non è più vivo. Di ciò le resta il cor così conquiso, e così gli occhi hanno la luce a schivo, e così ogn'altro senso se le serra, che come morta andar si lascia in terra. 158 Al tornar de lo spirto, ella alle chiome caccia le mani; et alle belle gote, indarno ripetendo il caro nome, fa danno et onta più che far lor puote: straccia i capelli e sparge; e grida, come donna talor che 'l demon rio percuote, o come s'ode che già a suon di corno Menade corse, et aggirossi intorno. 159 Or questo or quel pregando va, che porto le sia un coltel, sì che nel cor si fera: or correr vuol là dove il legno in porto dei duo signor defunti arrivato era, e de l'uno e de l'altro così morto far crudo strazio e vendetta acra e fiera: or vuol passare il mare, e cercar tanto, che possa al suo signor morire a canto. 160 - Deh perché, Brandimarte, ti lasciai senza me andare a tanta impresa? (disse). Vedendoti partir, non fu più mai che Fiordiligi tua non ti seguisse. T'avrei giovato, s'io veniva, assai, ch'avrei tenute in te le luci fisse; e se Gradasso avessi dietro avuto, con un sol grido io t'avrei dato aiuto; 161 o forse esser potrei stata sì presta, ch'entrando in mezzo, il colpo t'avrei tolto: fatto scudo t'avrei con la mia testa; che morendo io, non era il danno molto. Ogni modo io morrò; né fia di questa dolente morte alcun profitto colto, che, quando io fossi morta in tua difesa, non potrei meglio aver la vita spesa. 162 Se pur ad aiutarti i duri fati avessi avuti e tutto il cielo avverso, gli ultimi baci almeno io t'avrei dati, almen t'avrei di pianto il viso asperso; e prima che con gli angeli beati fosse lo spirto al suo Fattor converso, detto gli avrei: Va in pace, e là m'aspetta; ch'ovunque sei, son per seguirti in fretta. 163 È questo, Brandimarte, è questo il regno di che pigliar lo scettro ora dovevi? Or così teco a Dammogire io vegno? così nel real seggio mi ricevi? Ah Fortuna crudel, quanto disegno mi rompi! oh che speranze oggi mi levi! Deh, che cesso io, poi c'ho perduto questo tanto mio ben, ch'io non perdo anco il resto? - 164 Questo et altro dicendo, in lei risorse il furor con tanto impeto e la rabbia, ch'a stracciare il bel crin di nuovo corse, come il bel crin tutta la colpa n'abbia. Le mani insieme si percosse e morse, nel sen si cacciò l'ugne e ne le labbia. Ma torno a Orlando et a' compagni, intanto ch'ella si strugge e si consuma in pianto. 165 Orlando, col cognato che non poco bisogno avea di medico e di cura, et altretanto, perché in degno loco avesse Brandimarte sepultura, verso il monte ne va che fa col fuoco chiara la notte, e il dì di fumo oscura. Hanno propizio il vento, e a destra mano non e quel lito lor molto lontano. 166 Con fresco vento ch'in favor veniva, sciolser la fune al declinar del giorno, mostrando lor la taciturna diva la dritta via col luminoso corno; e sorser l'altro dì sopra la riva ch'amena giace ad Agringento intorno. Quivi Orlando ordinò per l'altra sera ciò ch'a funeral pompa bisogno era. 167 Poi che l'ordine suo vide essequito, essendo omai del sole il lume spento, fra molta nobiltà ch'era allo 'nvito de' luoghi intorno corsa in Agringento, d'accesi torchi tutto ardendo 'l lito, e di grida sonando e di lamento, tornò Orlando ove il corpo fu lasciato, che vivo e morto avea con fede amato. 168 Quivi Bardin di soma d'anni grave stava piangendo alla bara funèbre, che pel gran pianto ch'avea fatto in nave, dovrìa gli occhi aver pianti e le palpèbre. Chiamando il ciel crudel, le stelle prave, ruggia come un leon ch'abbia la febre. Le mani erano intanto empie e ribelle ai crin canuti e alla rugosa pelle. 169 Levossi, al ritornar del paladino, maggiore il grido, e raddoppiossi il pianto. Orlando, fatto al corpo più vicino, senza parlar stette a mirarlo alquanto, pallido come colto al matutino è da sera il ligustro o il molle acanto; e dopo un gran sospir, tenendo fisse sempre le luci in lui, così gli disse: 170 - O forte, o caro, o mio fedel compagno, che qui sei morto, e so che vivi in cielo, e d'una vita v'hai fatto guadagno, che non ti può mai tor caldo né gielo, perdonami, se ben vedi ch'io piagno; perché d'esser rimaso mi querelo, e ch'a tanta letizia io non son teco; non già perché qua giú tu non sia meco. 171 Solo senza te son; né cosa in terra senza te posso aver più, che mi piaccia. Se teco era in tempesta e teco in guerra, perché non anco in ozio et in bonaccia? Ben grande e 'l mio fallir, poi che mi serra di questo fango uscir per la tua traccia. Se negli affanni teco fui, perch'ora non sono a parte del guadagno ancora? 172 Tu guadagnato, e perdita ho fatto io: sol tu all'acquisto, io non son solo al danno. Partecipe fatto e del dolor mio l'Italia, il regno franco e l'alemanno. Oh quanto, quanto il mio signore e zio, oh quanto i paladin da doler s'hanno! quanto l'Imperio e la cristiana Chiesa, che perduto han la sua maggior difesa! 173 Oh quanto si torrà per la tua morte di terrore a' nimici e di spavento! Oh quanto Pagania sarà più forte! quanto animo n'avrà, quanto ardimento! Oh come star ne dee la tua consorte! Sin qui ne veggo il pianto, e 'l grido sento. So che m'accusa, e forse odio mi porta, che per me teco ogni sua speme è morta. 174 Ma, Fiordiligi, almen resti un conforto a noi che siàn di Brandimarte privi; ch'invidiar lui con tanta gloria morto denno tutti i guerrier ch'oggi son vivi. Quei Deci, e quel nel roman foro absorto, quel sì lodato Codro dagli Argivi, non con più altrui profitto e più suo onore a morte si donâr, del tuo signore. - 175 Queste parole et altre dicea Orlando. Intanto i bigi, i bianchi, i neri frati, e tutti gli altri chierci, seguitando andavan con lungo ordine accoppiati, per l'alma del defunto Dio pregando, che gli donasse requie tra' beati. Lumi inanzi e per mezzo e d'ogn'intorno, mutata aver parean la notte in giorno. 176 Levan la bara, et a portarla fôro messi a vicenda conti e cavallieri. Purpurea seta la copria, che d'oro e di gran perle avea compassi altieri: di non men bello e signoril lavoro avean gemmati e splendidi origlieri; e giacea quivi il cavallier con vesta di color pare, e d'un lavor contesta. 177 Trecento agli altri eran passati inanti, de' più poveri tolti de la terra, parimente vestiti tutti quanti di panni negri e lunghi sin a terra. Cento paggi seguian sopra altretanti grossi cavalli e tutti buoni a guerra; e i cavalli coi paggi ivano il suolo radendo col lor abito di duolo. 178 Molte bandiere inanzi e molte dietro, che di diverse insegne eran dipinte, spiegate accompagnavano il ferètro; le quai già tolte a mille schiere vinte, e guadagnate a Cesare et a Pietro avean le forze ch'or giaceano estinte. Scudi v'erano molti, che di degni guerrieri, a chi fur tolti, aveano i segni. 179 Venian cento e cent'altri a diversi usi de l'esequie ordinati; et avean questi, come anco il resto, accesi torchi; e chiusi, più che vestiti, eran di nere vesti. Poi seguia Orlando, e ad or ad or suffusi di lacrime avea gli occhi e rossi e mesti; né più lieto di lui Rinaldo venne: il piè Olivier, che rotto avea, ritenne. 180 Lungo sarà s'io vi vo' dire in versi le cerimonie, e raccontarvi tutti i dispensati manti oscuri e persi, gli accesi torchi che vi furon strutti. Quindi alla chiesa catedral conversi, dovunque andâr, non lasciaro occhi asciutti: sì bel, sì buon, sì giovene a pietade mosse ogni sesso, ogni ordine, ogni etade. 181 Fu posto in chiesa; e poi che da le donne di lacrime e di pianti inutil opra, e che dai sacerdoti ebbe eleisonne e gli altri santi detti avuto sopra, in una arca il serbâr su due colonne: e quella vuole Orlando che si cuopra di ricco drappo d'or, sin che reposto in un sepulcro sia di maggior costo. 182 Orlando di Sicilia non si parte, che manda a trovar porfidi e alabastri. Fece fare il disegno, e di quell'arte inarrar con gran premio i miglior mastri. Fe' le lastre, venendo in questa parte, poi drizzar Fiordiligi, e i gran pilastri; che quivi (essendo Orlando già partito) si fe' portar da l'africano lito. 183 E vedendo le lacrime indefesse, et ostinati a uscir sempre i sospiri, né per far sempre dire uffici e messe, mai satisfar potendo a' suoi disiri; di non partirsi quindi in cor si messe, fin che del corpo l'anima non spiri: e nel sepolcro fe' fare una cella, e vi si chiuse, e fe' sua vita in quella. 184 Oltre che messi e lettere le mande, vi va in persona Orlando per levarla. Se viene in Francia, con pension ben grande compagna vuol di Galerana farla: quando tornare al padre anco domande, sin alla Lizza vuole accompagnarla: edificar le vuole un monastero, quando servire a Dio faccia pensiero. 185 Stava ella nel sepulcro; e quivi attrita da penitenza, orando giorno e notte, non durò lunga età, che di sua vita da la Parca le fur le fila rotte. Già fatto avea da l'isola partita, ove i Ciclopi avean l'antique grotte, i tre guerrier di Francia, afflitti e mesti che 'l quarto lor compagno a dietro resti. 186 Non volean senza medico levarsi, che d'Olivier s'avesse a pigliar cura; la qual, perché a principio mal pigliarsi poté, fatt'era faticosa e dura: e quello udiano in modo lamentarsi, che del suo caso avean tutti paura. Tra lor di ciò parlando, al nocchier nacque un pensiero, e lo disse; e a tutti piacque. 187 Disse ch'era di là poco lontano in un solingo scoglio uno eremita, a cui ricorso mai non s'era invano, o fosse per consiglio o per aita; e facea alcuno effetto soprumano, dar lume a ciechi, e tornar morti a vita, fermare il vento ad un segno di croce, e far tranquillo il mar quando è più atroce: 188 e che non denno dubitare, andando a ritrovar quel uomo a Dio sì caro, che lor non renda Olivier sano, quando fatto ha di sua virtú segno più chiaro. Questo consiglio sì piacque ad Orlando, che verso il santo loco si drizzaro; né mai piegando dal camin la prora, vider lo scoglio al sorger de l'aurora. 189 Scorgendo il legno uomini in acqua dotti, sicuramente s'accostaro a quello. Quivi aiutando servi e galeotti, declinano il marchese nel battello: e per le spumose onde fur condotti nel duro scoglio, et indi al santo ostello; al santo ostello, a quel vecchio medesmo, per le cui mani ebbe Ruggier battesmo. 190 Il servo del Signor del paradiso raccolse Orlando et i compagni suoi, e benedilli con giocondo viso, e de' lor casi dimandolli poi; ben che de lor venuta avuto avviso avesse prima dai celesti eroi. Orlando gli rispose esser venuto per ritrovare al suo Oliviero aiuto; 191 ch'era, pugnando per la fé di Cristo, a periglioso termine ridutto. Levògli il santo ogni sospetto tristo, e gli promisse di sanarlo in tutto. Né d'unguento trovandosi provisto, né d'altra umana medicina instrutto, andò alla chiesa, et orò al Salvatore; et indi uscì con gran baldanza fuore: 192 e in nome de le eterne tre Persone, Padre e Figliuolo e Spirto Santo, diede ad Olivier la sua benedizione. Oh virtú che dà Cristo a chi gli crede! Cacciò dal cavalliero ogni passione, e ritornolli a sanitade il piede, più fermo e più espedito che mai fosse: e presente Sobrino a ciò trovosse. 193 Giunto Sobrin de le sue piaghe a tanto, che star peggio ogni giorno se ne sente, tosto che vede del monaco santo il miracolo grande et evidente, si dispon di lasciar Macon da canto, e Cristo confessar vivo e potente: e domanda con cor di fede attrito, d'inicïarsi al nostro sacro rito. 194 Così l'uom giusto lo battezza, et anco gli rende, orando, ogni vigor primiero. Orlando e gli altri cavallier non manco di tal conversïon letizia fêro, che di veder che liberato e franco del periglioso mal fosse Oliviero. Maggior gaudio degli altri Ruggier ebbe; e molto in fede e in devozione accrebbe. 195 Era Ruggier dal dì che giunse a nuoto su questo scoglio, poi statovi ogniora. Fra quei guerrieri il vecchiarel devoto sta dolcemente, e li conforta et ora a voler, schivi di pantano e loto, mondi passar per questa morta gora c'ha nome vita, che sì piace a' sciocchi; et alla via del ciel sempre aver gli occhi. 196 Orlando un suo mandò sul legno, e trarne fece pane e buon vin, cacio e persutti; e l'uom di Dio, ch'ogni sapor di starne pose in oblio, poi ch'avvezzossi a' frutti, per carità mangiar fecero carne, e ber del vino, e far quel che fêr tutti. Poi ch'alla mensa consolati fôro, di molte cose ragionâr tra loro. 197 E come accade nel parlar sovente, ch'una cosa vien l'altra dimostrando, Ruggier riconosciuto finalmente fu da Rinaldo, da Olivier, da Orlando, per quel Ruggiero in arme sì eccellente, il cui valor s'accorda ognun lodando: né Rinaldo l'avea raffigurato per quel che provò già ne lo steccato. 198 Ben l'avea il re Sobrin riconosciuto, tosto che 'l vide col vecchio apparire; ma volse inanzi star tacito e muto, che porsi in aventura di fallire. Poi ch'a notizia agli altri fu venuto che questo era Ruggier, di cui l'ardire, la cortesia e 'l valore alto e profondo si facea nominar per tutto il mondo; 199 e sapendosi già ch'era cristiano, tutti con lieta e con serena faccia vengono a lui: chi gli tocca la mano, e chi lo bacia, e chi lo stringe e abbraccia. Sopra gli altri il signor di Montalbano d'accarezzarlo e fargli onor procaccia. Perch'esso più degli altri, io 'l serbo a dire ne l'altro canto, se 'l vorrete udire.
1 Spesso in poveri alberghi e in picciol tetti, ne le calamitadi e nei disagi, meglio s'aggiungon d'amicizia i petti, che fra ricchezze invidïose et agi de le piene d'insidie e di sospetti corti regali e splendidi palagi, ove la caritade è in tutto estinta, né si vede amicizia, se non finta. 2 Quindi avvien che tra principi e signori patti e convenzïon son sì frali. Fan lega oggi re, papi e imperatori; doman saran nimici capitali: perché, qual l'apparenze esterïori, non hanno i cor, non han gli animi tali; che non mirando al torto più ch'al dritto, attendon solamente al lor profitto. 3 Questi, quantunque d'amicizia poco sieno capaci, perché non sta quella ove per cose gravi, ove per giuoco mai senza finzïon non si favella; pur, se talor gli ha tratti in umil loco insieme una fortuna acerba e fella, in poco tempo vengono a notizia (quel che in molto non fêr) de l'amicizia. 4 Il santo vecchiarel ne la sua stanza giunger gli ospiti suoi con nodo forte ad amor vero meglio ebbe possanza, ch'altri non avria fatto in real corte. Fu questo poi di tal perseveranza, che non si sciolse mai fin alla morte. Il vecchio li trovò tutti benigni, candidi più nel cor, che di fuor cigni. 5 Trovolli tutti amabili e cortesi, non de la iniquità ch'io v'ho dipinta di quei che mai non escono palesi, ma sempre van con apparenza finta. Di quanto s'eran per adietro offesi ogni memoria fu tra loro estinta; e se d'un ventre fossero e d'un seme, non si potriano amar più tutti insieme. 6 Sopra gli altri il signor di Montalbano accarezzava e riveria Ruggiero; sì perché già l'avea con l'arme in mano provato quanto era animoso e fiero, sì per trovarlo affabile et umano più che mai fosse al mondo cavalliero: ma molto più, che da diverse bande si conoscea d'avergli obligo grande. 7 Sapea che di gravissimo periglio egli avea liberato Ricciardetto, quando il re ispano gli fe' dar di piglio e con la figlia prendere nel letto; e ch'avea tratto l'uno e l'altro figlio del duca Buovo (com'io v'ho detto) di man dei Saracini e dei malvagi ch'eran col maganzese Bertolagi. 8 Questo debito a lui parea di sorte, ch'ad amar lo stringeano e ad onorarlo; e gli ne dolse e gli ne 'ncrebbe forte, che prima non avea potuto farlo, quando era l'un ne l'africana corte, e l'altro agli servigi era di Carlo. Or che fatto cristian quivi lo trova, quel che non fece prima, or far gli giova. 9 Proferte senza fine, onore e festa fece a Ruggiero il paladin cortese. Il prudente eremita, come questa benivolenzia vide, adito prese. Entrò dicendo: - A fare altro non resta (e lo spero ottener senza contese), che come l'amicizia è tra voi fatta, tra voi sia ancora affinità contratta; 10 acciò che de le due progenie illustri che non han par di nobiltade al mondo, nasca un lignaggio che più chiaro lustri, che 'l chiaro sol, per quanto gira a tondo; e come andran più inanzi et anni e lustri, sarà più bello, e durerà (secondo che Dio m'ispira, acciò ch'a voi nol celi) fin che terran l'usato corso i cieli. - 11 E seguitando il suo parlar più inante, fa il santo vecchio sì, che persuade che Rinaldo a Ruggier dia Bradamante, ben che pregar né l'un né l'altro accade. Loda Olivier col principe d'Anglante, che far si debba questa affinitade; il che speran ch'approvi Amone e Carlo, e debba tutta Francia commendarlo. 12 Così dicean; ma non sapean ch'Amone, con voluntà del figlio di Pipino, n'avea dato in quei giorni intenzïone all'imperator greco Costantino, che gliele domandava per Leone suo figlio e successor nel gran domìno. Se n'era, pel valor che n'avea inteso, senza vederla, il giovinetto acceso. 13 Riposto gli avea Amon, che da sé solo non era per concludere altramente, né pria che ne parlasse col figliuolo Rinaldo, da la corte allora absente; il qual credea che vi verrebbe a volo, e che di grazia avria sì gran parente: pur, per molto rispetto che gli avea, risolver senza lui non si volea. 14 Or Rinaldo lontan dal padre, quella pratica imperïal tutta ignorando, quivi a Ruggier promette la sorella di suo parere, e di parer d'Orlando e degli altri ch'avea seco alla cella, ma sopra tutti l'eremita instando: e crede veramente che piacere debba ad Amon quel parentado avere. 15 Quel dì e la notte, e del seguente giorno steron gran parte col monaco saggio, quasi oblïando al legno far ritorno, ben che il vento spirasse al lor vïaggio. Ma i lor nocchieri, a cui tanto soggiorno increscea omai, mandâr più d'un messaggio, che sì li stimulâr de la partita, ch'a forza li spiccâr da l'eremita. 16 Ruggier che stato era in esilio tanto, né da lo scoglio avea mai mosso il piede, tolse licenza da quel mastro santo ch'insegnata gli avea la vera fede. La spada Orlando gli rimesse a canto, l'arme d'Ettorre, e il buon Frontin gli diede; sì per mostrar del suo amor segno espresso, sì per saper che dianzi erano d'esso. 17 E quantunque miglior ne l'incantata spada ragione avesse il paladino, che con pena e travaglio già levata l'avea dal formidabile giardino, che non avea Ruggiero a cui donata dal ladro fu, che gli diè ancor Frontino; pur volentier gliele donò col resto de l'arme, tosto che ne fu richiesto. 18 Fur benedetti dal vecchio devoto, e sul navilio al fin si ritornaro. I remi all'acqua, e dier le vele al Noto; e fu lor sì sereno il tempo e chiaro, che non vi bisognò priego né voto, fin che nel porto di Marsilia entraro. Ma quivi stiano tanto, ch'io conduca insieme Astolfo, il glorïoso duca. 19 Poi che de la vittoria Astolfo intese, che sanguinosa e poco lieta s'ebbe; vedendo che sicura da l'offese d'Africa oggimai Francia esser potrebbe, pensò che 'l re de' Nubi in suo paese con l'esercito suo rimanderebbe per la strada medesima che tenne quando contra Biserta se ne venne. 20 L'armata che i pagan roppe ne l'onde, già rimandata avea il figliuol d'Ugiero; di cui, nuovo miracolo, le sponde (tosto che ne fu uscito il popul nero) e le poppe e le prore mutò in fronde, e ritornolle al suo stato primiero: poi venne il vento, e come cosa lieve levolle in aria, e fe' sparire in breve. 21 Chi a piedi e chi in arcion tutte partita d'Africa fêr le nubïane schiere. Ma prima Astolfo si chiamò infinita grazia al Senapo et immortale avere; che gli venne in persona a dare aita con ogni sforzo et ogni suo potere. Astolfo lor ne l'uterino claustro a portar diete il fiero e turbido austro. 22 Negli utri, dico, il vento diè lor chiuso, ch'uscir di mezzodì suol con tal rabbia, che muove a guisa d'onde, e leva in suso, e ruota fin in ciel l'àrrida sabbia; acciò se lo portassero a lor uso, che per camino a far danno non abbia; e che poi, giunti ne la lor regione, avessero a lassar fuor di prigione. 23 Scrive Turpino, come furo ai passi de l'alto Atlante, che i cavalli loro tutti in un tempo diventaron sassi; sì che, come venîr, se ne tornoro. Ma tempo è omai ch'Astolfo in Francia passi; e così, poi che del paese moro ebbe provisto ai luoghi principali, all'ippogrifo suo fe' spiegar l'ali. 24 Volò in Sardigna in un batter di penne, e di Sardigna andò nel lito còrso; e quindi sopra il mar la strada tenne, torcendo alquanto a man sinistra il morso. Ne le maremme all'ultimo ritenne de la ricca Provenza il leggier corso; dove seguì de l'ippogrifo quanto gli disse già l'evangelista santo. 25 Hagli commesso il santo evangelista, che più, giunto in Provenza, non lo sproni; e ch'all'impeto fier più non resista con sella e fren, ma libertà gli doni. Già avea il più basso ciel che sempre acquista del perder nostro, al corno tolti i suoni; che muto era restato, non che roco, tosto ch'entrò 'l guerrier nel divin loco. 26 Venne Astolfo a Marsilia, e venne a punto il dì che v'era Orlando et Oliviero e quel da Montalbano insieme giunto col buon Sobrino e col meglior Ruggiero. La memoria del sozio lor defunto vietò che i paladini non potero insieme così a punto rallegrarsi, come in tanta vittoria dovea farsi. 27 Carlo avea di Sicilia avuto avviso dei duo re morti e di Sobrino preso, e ch'era stato Brandimarte ucciso; poi di Ruggiero avea non meno inteso: e ne stava col lor lieto e col viso d'aver gittato intolerabil peso, che gli fu sopra gli omeri sì greve, che starà un pezzo pria che si rileve. 28 Per onorar costor ch'eran sostegno del santo Imperio e la maggior colonna, Carlo mandò la nobiltà del regno ad incontrarli fin sopra la Sonna. Egli uscì poi col suo drappel più degno di re e di duci, e con la propria donna, fuor de le mura, in compagnia di belle e ben ornate e nobili donzelle. 29 L'imperator con chiara e lieta fronte, i paladini e gli amici e i parenti, la nobiltà, la plebe fanno al conte et agli altri d'amor segni evidenti: gridar s'ode Mongrana e Chiaramonte. Sì tosto non finîr gli abbracciamenti, Rinaldo e Orlando insieme et Oliviero al signor loro appresentâr Ruggiero; 30 e gli narrâr che di Ruggier di Risa era figliuol, di virtù uguale al padre: se sia animoso e forte, et a che guisa sappia ferir, san dir le nostre squadre. Con Bradamante in questo vien Marfisa, le due compagne nobili e leggiadre: ad abbracciar Ruggier vien la sorella; con più rispetto sta l'altra donzella. 31 L'imperator Ruggier fa risalire, ch'era per riverenzia sceso a piede, e lo fa a par a par seco venire, e di ciò ch'a onorarlo si richiede, un punto sol non lassa preterire. Ben sapea che tornato era alla fede; che tosto che i guerrier furo all'asciutto, certificato avean Carlo del tutto. 32 Con pompa trionfal, con festa grande tornaro insieme dentro alla cittade, che di frondi verdeggia e di ghirlande: coperte a panni son tutte le strade: nembo d'erbe e di fior d'alto si spande, e sopra e intorno ai vincitori cade, che da verroni e da finestre amene donne e donzelle gittano a man piene. 33 Al volgersi dei canti in vari lochi trovano archi e trofei subito fatti, che di Biserta le ruine e i fochi mostran dipinti, et altri degni fatti; altrove palchi con diversi giuochi e spettacoli e mimmi e scenici atti: et è per tutti i canti il titol vero scritto: - Ai liberatori de l'Impero. - 34 Fra il suon d'argute trombe e di canore pifare e d'ogni musica armonia, fra riso e plauso, iubilo e favore del populo ch'a pena vi capia, smontò al palazzo il magno imperatore, ove più giorni quella compagnia con torniamenti, personaggi e farse, danze e conviti attese a dilettarse. 35 Rinaldo un giorno al padre fe' sapere che la sorella a Ruggier dar volea; ch'in presenza d'Orlando per mogliere, e d'Olivier, promessa glie l'avea; li quali erano seco d'un parere, che parentado far non si potea per nobiltà di sangue e per valore, che fosse a questo par, non che migliore. 36 Ode Amone il figliuol con qualche sdegno, che, senza conferirlo seco, gli osa la figlia maritar, ch'esso ha disegno che del figliuol di Costantin sia sposa, non di Ruggier, il qual non ch'abbi regno, ma non può al mondo dir: questa è mia cosa; né sa che nobiltà poco si prezza, e men virtù, se non v'è ancor ricchezza. 37 Ma più d'Amon la moglie Beatrice biasma il figliuolo e chiamalo arrogante; e in segreto e in palese contradice che di Ruggier sia moglie Bradamante: a tutta sua possanza imperatrice ha disegnato farla di Levante. Sta Rinaldo ostinato che non vuole che manchi un iota de le sue parole. 38 La madre, ch'aver crede alle sue voglie la magnanima figlia, la conforta che dica che, più tosto ch'esser moglie d'un pover cavallier, vuole esser morta; né mai più per figliuola la raccoglie, se questa ingiuria dal fratel sopporta: nieghi pur con audacia, e tenga saldo; che per sforzar non la sarà Rinaldo. 39 Sta Bradamante tacita, né al detto de la madre s'arrisca a contradire; che l'ha in tal riverenza e in tal rispetto, che non potria pensar non l'ubbidire. Da l'altra parte terria gran difetto, se quel che non vuol far, volesse dire. Non vuol, perché non può; che 'l poco e 'l molto poter di sé disporre Amor le ha tolto. 40 Né negar, né mostrarsene contenta s'ardisce; e sol sospira, e non risponde: poi quando è in luogo ch'altri non la senta, versan lacrime gli occhi a guisa d'onde; e parte del dolor che la tormenta, sentir fa al petto et alle chiome bionde, che l'un percuote, e l'altro straccia e frange; e così parla, e così seco piange: 41 - Ahimè ! vorrò quel che non vuol chi deve poter del voler mio più che poss'io? Il voler di mia madre avrò in sì lieve stima, ch'io lo posponga al voler mio? Deh! qual peccato puote esser sì grieve a una donzella, qual biasmo sì rio, come questo sarà, se, non volendo chi sempre ho da ubbidir, marito prendo? 42 Avrà, misera me! dunque possanza la materna pietà, ch'io t'abandoni, o mio Ruggiero, e ch'a nuova speranza, a desir nuovo, a nuovo amor mi doni? O pur la riverenzia e l'osservanza ch'ai buoni padri denno i figli buoni, porrò da parte, e solo avrò rispetto al mio bene, al mio gaudio, al mio diletto? 43 So quanto, ahi lassa! debbo far, so quanto di buona figlia al debito conviensi; io 'l so: ma che mi val, se non può tanto la ragion, che non possino più i sensi? s'Amor la caccia e la far star da canto, né lassa ch'io disponga, né ch'io pensi di me dispor, se non quanto a lui piaccia, e sol, quanto egli detti, io dica e faccia? 44 Figlia d'Amone e di Beatrice sono, e son, misera me! serva d'Amore. Dai genitori miei trovar perdono spero e pietà, s'io caderò in errore: ma s'io offenderò Amor, chi sarà buono a schivarmi con prieghi il suo furore, che sol voglia una di mie scuse udire, e non mi faccia subito morire? 45 Ohimè! con lunga et ostinata prova ho cercato Ruggier trarre alla fede; et hollo tratto al fin: ma che mi giova, se 'l mio ben fare in util d'altri cede? Così, ma non per sé, l'ape rinuova il mèle ogni anno, e mai non lo possiede. Ma vo' prima morir, che mai sia vero, ch'io pigli altro marito, che Ruggiero. 46 S'io non sarò al mio padre ubbidïente, né alla mia madre, io sarò al mio fratello, che molto e molto è più di lor prudente, né gli ha la troppa età tolto il cervello. E a questo che Rinaldo vuol, consente Orlando ancora; e per me ho questo e quello: li quali duo più onora il mondo e teme, che l'altra nostra gente tutta insieme. 47 Se questi il fior, se questi ognuno stima la gloria e lo splendor di Chiaramonte; se sopra gli altri ognun gli alza e sublima più che non è del piede alta la fronte; perché debbo voler che di me prima Amon disponga, che Rinaldo e 'l conte? Voler nol debbo, tanto men, che messa in dubbio al Greco, e a Ruggier fui promessa. - 48 Se la donna s'affligge e si tormenta, né di Ruggier la mente è più quïeta; ch'ancor che di ciò nuova non si senta per la città, pur non è a lui segreta. Seco di sua fortuna si lamenta, la qual fruir tanto suo ben gli vieta, poi che ricchezze non gli ha date e regni, di che è stata sì larga a mille indegni. 49 Di tutti gli altri beni, o che concede Natura al mondo, o proprio studio acquista, aver tanta e tal parte egli si vede, qual e quanta altri aver mai s'abbia vista; ch'a sua bellezza ogni bellezza cede, ch'a sua possanza è raro chi resista: di magnanimità, di splendor regio a nessun, più ch'a lui, si debbe il pregio. 50 Ma il volgo, nel cui arbitrio son gli onori, che, come pare a lui, li leva e dona (né dal nome del volgo voglio fuori, eccetto l'uom prudente, trar persona; che né papi né re né imperatori non ne tra' scettro, mitra né corona; ma la prudenza, ma il giudizio buono, grazie che dal ciel date a pochi sono); 51 questo volgo (per dir quel ch'io vo' dire) ch'altro non riverisce che ricchezza, né vede cosa al mondo, che più ammire, e senza, nulla cura e nulla apprezza, sia quanto voglia la beltà, l'ardire, la possanza del corpo, la destrezza, la virtú, il senno, la bontà; e più in questo di ch'ora vi ragiono, che nel resto. 52 Dicea Ruggier: - Se pur è Amon disposto che la figliuola imperatrice sia, con Leon non concluda così tosto: almen termine un anno anco mi dia; ch'io spero intanto, che da me deposto Leon col padre de l'imperio fia; e poi che tolto avrò lor le corone, genero indegno non sarò d'Amone. 53 Ma se fa senza indugio, come ha detto, suocero de la figlia Costantino; s'alla promessa non avrà rispetto di Rinaldo e d'Orlando suo cugino, fattami inanzi al vecchio benedetto, al marchese Uliviero, al re Sobrino, che farò? vo' patir sì grave torto? o, prima che patirlo, esser pur morto? 54 Deh che farò? farò dunque vendetta contra il padre di lei di questo oltraggio? Non miro ch'io non son per farlo in fretta, o s'in tentarlo io mi sia stolto o saggio. Ma voglio presupor ch'a morte io metta l'iniquo vecchio e tutto il suo lignaggio: questo non mi farà però contento; anzi in tutto sarà contra il mio intento. 55 E fu sempre il mio intento, et è, che m'ami la bella donna, e non che mi sia odiosa: ma, quando Amone uccida, o facci o trami cosa al fratello o agli altri suoi dannosa, non le do iusta causa che mi chiami nimico, e più non voglia essermi sposa? Che debbo dunque far? debbol patire? Ah non, per Dio! più tosto io vo' morire. 56 Anzi non vo' morir; ma vo' che muoia con più ragion questo Leone Augusto, venuto a disturbar tanta mia gioia: o vo' che muoia egli e 'l suo padre ingiusto. Elena bella all'amator di Troia non costò sì, né a tempo più vetusto Proserpina a Piritoo, come voglio ch'al padre e al figlio costi il mio cordoglio. 57 Può esser, vita mia, che non ti doglia lasciare il tuo Ruggier per questo Greco? Potrà tuo padre far che tu lo toglia, ancor ch'avesse i tuoi fratelli seco? Ma sto in timor, ch'abbi più tosto voglia d'esser d'accordo con Amon, che meco; e che ti paia assai miglior partito Cesare aver, ch'un privato uom marito. 58 Sarà possibil mai che nome regio, titolo imperïal, grandezza e pompa, di Bradamante mia l'animo egregio, il gran valor, l'alta virtú corrompa? sì ch'abbia da tenere in minor pregio la data fede, e le promesse rompa? né più tosto d'Amon farsi nimica, che quel che detto m'ha, sempre non dica? - 59 Diceva queste et altre cose molte ragionando fra sé Ruggiero; e spesso le dicea in guisa ch'erano raccolte da chi talor se gli trovava appresso: sì che il tormento suo più di due volte era a colei per cui pativa, espresso, a cui non dolea meno il sentir lui così doler, che i proprii affanni sui. 60 Ma più d'ogni altro duol che le sia detto, che tormenti Ruggier, di questo ha doglia, ch'intende che s'affligge per sospetto ch'ella lui lasci, e che quel Greco voglia. Onde, acciò si conforti, e che del petto questa credenza e questo error si toglia, per una di sue fide cameriere gli fe' queste parole un dì sapere: 61 - Ruggier, qual sempre fui, tal esser voglio fin alla morte, e più, se più si puote. O siami Amor benigno o m'usi orgoglio, o me Fortuna in alto o in basso ruote, immobil son di vera fede scoglio che d'ogn'intorno il vento e il mar percuote: né già mai per bonaccia né per verno luogo mutai, né muterò in eterno. 62 Scarpello si vedrà di piombo o lima formare in varie imagini diamante, prima che colpo di Fortuna, o prima ch'ira d'Amor rompa il mio cor costante; e si vedrà tornar verso la cima de l'alpe il fiume turbido e sonante, che per nuovi accidenti, o buoni o rei, faccino altro vïaggio i pensier miei. 63 A voi, Ruggier, tutto il dominio ho dato di me, che forse è più ch'altri non crede. So ben ch'a nuovo principe giurato non fu di questa mai la maggior fede. So che né al mondo il più sicuro stato di questo, re né imperator possiede. Non vi bisogna far fossa né tôrre, per dubbio ch'altri a voi lo venga a torre. 64 Che, senza ch'assoldiate altra persona, non verrà assalto a cui non si resista. Non è ricchezza ad espugnarmi buona, né sì vil prezzo un cor gentile acquista. Né nobiltà, né altezza di corona, ch'al sciocco volgo abbagliar suol la vista, non beltà, ch'in lieve animo può assai, vetrò, che più di voi mi piaccia mai. 65 Non avede a temer ch'in forma nuova intagliare il mio cor mai più si possa: sì l'imagine vostra si ritrova sculpita in lui, ch'esser non può rimossa. Che 'l cor non ho di cera, è fatto prova; che gli diè cento, non ch'una percossa, Amor, prima che scaglia ne levasse, quando all'imagin vostra lo ritrasse. 66 Avorio e gemma et ogni pietra dura che meglio da l'intaglio si difende, romper si può; ma non ch'altra figura prenda, che quella ch'una volta prende. Non è il mio cor diverso alla natura del marmo o d'altro ch'al ferro contende. Prima esser può che tutto Amor lo spezze, che lo possa sculpir d'altre bellezze. - 67 Suggiunse a queste altre parole molte, piene d'amor, di fede e di conforto, da ritornarlo in vita mille volte, se stato mille volte fosse morto. Ma quando più de la tempesta tolte queste speranze esser credeano in porto, da un nuovo turbo impetuoso e scuro rispinte in mar, lungi dal lito, furo: 68 però che Bradamante, ch'eseguire vorria molto più ancor, che non ha detto, rivocando nel cor l'usato ardire, e lasciando ir da parte ogni rispetto, s'appresenta un dì a Carlo, e dice: - Sire, s'a vostra Maestade alcuno effetto io feci mai, che le paresse buono, contenta sia di non negarmi un dono. 69 E prima che più espresso io le lo chieggia, su la real sua fede mi prometta farmene grazia; e vorrò poi, che veggia che sarà iusta la domanda e retta. - - Merta la tua virtú che dar ti deggia ciò che domandi, o giovane diletta (rispose Carlo); e giuro, se ben parte chieti del regno mio, di contentarte. - 70 - Il don ch'io bramo da l'Altezza vostra, è che non lasci mai marito darme (disse la damigella), se non mostra che più di me sia valoroso in arme. Con qualunche mi vuol, prima o con giostra o con la spada in mano ho da provarme. Il primo che mi vinca, mi guadagni: chi vinto sia, con altra s'accompagni. - 71 Disse l'imperator con viso lieto, che la domanda era di lei ben degna; e che stesse con l'animo quïeto, che farà a punto quanto ella disegna. Non è questo parlar fatto in segreto sì, ch'a notizia altrui tosto non vegna; e quel giorno medesimo alla vecchia Beatrice e al vecchio Amon corre all'orecchia. 72 Li quali parimente arser di grande sdegno contro alla figlia, e di grand'ira; che vider ben con queste sue domande, ch'ella a Ruggier più ch'a Leone aspira: e presti per vietar che non si mande questo ad effetto, a ch'ella intende e mira, la levaro con fraude de la corte, e la menaron seco a Roccaforte. 73 Quest'era una fortezza ch'ad Amone donato Carlo avea pochi dì inante, tra Pirpignano assisa e Carcassone, in loco a ripa il mar, molto importante. Quivi la ritenean come in prigione con pensier di mandarla un dì in Levante; sì ch'ogni modo, voglia ella o non voglia, lasci Ruggier da parte, e Leon toglia. 74 La valorosa donna, che non meno era modesta, ch'animosa e forte; ancor che posto guardia non l'avieno, e potea entrare e uscir fuor de le porte; pur stava ubbidiente sotto il freno del padre: ma patir prigione e morte, ogni martìre e crudeltà più tosto che mai lasciar Ruggier, s'avea proposto. 75 Rinaldo, che si vide la sorella per astuzia d'Amon tolta di mano, e che dispor non potrà più di quella, e ch'a Ruggier l'avrà promessa invano; si duol del padre, e contra a lui favella, posto il rispetto filïal lontano. Ma poco cura Amon di tai parole, e di sua figlia a modo suo far vuole. 76 Ruggier, che questo sente, et ha timore di rimaner de la sua donna privo, e che l'abbia o per forza o per amore Leon, se resta lungamente vivo; senza parlarne altrui si mette in core di far che muoia, e sia d'Augusto, Divo; e tor, se non l'inganna la sua speme, al padre e a lui la vita e 'l regno insieme. 77 L'arme che fur già del troiano Ettorre, e poi di Mandricardo, si riveste, e fa la sella al buon Frontino porre, e cimier muta, scudo e sopraveste. A questa impresa non gli piacque tôrre l'aquila bianca nel color celeste, ma un candido liocorno, come giglio, vuol ne lo scudo, e 'l campo abbia vermiglio. 78 Sceglie de' suoi scudieri il più fedele, e quel vuole e non altri in compagnia; e gli fa commission, che non rivele in alcun loco mai, che Ruggier sia. Passa la Mosa e 'l Reno, e passa de le contrade d'Ostericche, in Ungheria; e lungo l'Istro per la destra riva tanto cavalca, ch'a Belgrado arriva. 79 Ove la Sava nel Danubio scende, e verso il mar maggior con lui dà volta, vede gran gente in padiglioni e tende sotto l'insegne imperïal raccolta; che Costantino ricovrare intende quella città che i Bulgari gli han tolta. Costantin v'è in persona, e 'l figliuol seco con quanto può tutto l'imperio greco. 80 Dentro a Belgrado, e fuor per tutto il monte, e giù fin dove il fiume il piè gli lava, l'esercito del Bulgari gli è a fronte; e l'uno e l'altro a ber viene alla Sava. Sul fiume il Greco per gittare il ponte, il Bulgar per vietarlo armato stava, quando Ruggier vi giunse; e zuffa grande attaccata trovò fra le due bande. 81 I Greci son quattro contr'uno, et hanno navi coi ponti da gittar ne l'onda; e di voler fiero sembiante fanno passar per forza alla sinistra sponda. Leone intanto, con occulto inganno dal fiume discostandosi, circonda molto paese, e poi vi torna, e getta ne l'altra ripa i ponti, e passa in fretta: 82 e con gran gente, chi in arcion, chi a piede (che non n'avea di venti mila un manco), cavalcò lungo la riviera, e diede con fiero assalto agl'inimici al fianco. L'imperator, tosto che 'l figlio vede sul fiume comparirsi al lato manco, ponte aggiungendo a ponte e nave a nave, passa di là con quanto esercito have. 83 Il capo, il re de' Bulgari Vatrano, animoso e prudente e pro' guerriero, di qua e di là s'affaticava invano per riparare a un impeto sì fiero; quando cingendol con robusta mano Leon, gli fe' cader sotto il destriero: e poi che dar prigion mai non si vòlse, con mille spade la vita gli tolse. 84 I Bulgari sin qui fatto avean testa; ma quando il lor signor si vider tolto, e crescer d'ogn'intorno la tempesta, voltâr le spalle ove avean prima il volto. Ruggier, che misto vien fra i Greci, e questa sconfitta vede, senza pensar molto, i Bulgari soccorrer si dispone, perch'odia Costantino e più Leone. 85 Sprona Frontin che sembra al corso un vento, e inanzi a tutti i corridori passa; e tra la gente vien, che per spavento al monte fugge, e la pianura lassa. Molti ne ferma, e fa voltare il mento contra i nimici, e poi la lancia abassa; e con sì fier sembiante il destrier muove, che fin nel ciel Marte ne teme e Giove. 86 Dinanzi agli altri un cavalliero adocchia, che riccamato nel vestir vermiglio avea d'oro e di seta una pannocchia con tutto il garbo, che parea di miglio; nipote a Costantin per la sirocchia, ma che non gli era men caro, che figlio: gli spezza scudo e osbergo, come vetro, e fa la lancia un palmo apparir dietro. 87 Lascia quel morto, e Balisarda stringe verso uno stuol che più si vede appresso; e contra a questo e contra a quel si spinge, et a chi tronco et a chi il capo ha fesso: a chi nel petto, a chi nel fianco tinge il brando, e a chi l'ha ne la gola messo: taglia busti, anche, braccia, mani e spalle; e il sangue, come un rio, corre alla valle. 88 Non è, visti quei colpi, chi gli faccia contrasto più, così n'è ognun smarrito; sì che si cangia subito la faccia de la battaglia; che tornando ardito, il petto volge, e ai Greci dà la caccia il Bulgaro che dianzi era fuggito: in un momento ogni ordine disciolto si vede, e ogni stendardo a fuggir volto. 89 Leone Augusto s'un poggio eminente, vedendo i suoi fuggir, s'era ridutto; e sbigottito e mesto ponea mente (perch'era in loco che scopriva il tutto) al cavallier ch'uccidea tanta gente, che per lui sol quel campo era distrutto: e non può far, se ben n'è offeso tanto, che non lo lodi e gli dia in arme il vanto. 90 Ben comprende all'insegne e sopravesti, all'arme luminose e ricche d'oro, che quantunque il guerrier dia aiuto a questi nimici suoi, non sia però di loro. Stupido mira i soprumani gesti, e talor pensa che dal sommo coro sia per punire i Greci un agnol sceso, che tante e tante volte hanno Dio offeso. 91 E come uom d'alto e di sublime core, ove l'avrian molt'altri in odio avuto, egli s'innamorò del suo valore, né veder fargli oltraggio avria voluto: gli sarebbe per un de' suoi che muore, vederne morir sei manco spiaciuto, e perder anco parte del suo regno, che veder morto un cavallier sì degno. 92 Come bambin, se ben la cara madre iraconda lo batte e da sé caccia, non ha ricorso alla sorella o al padre, ma a lei ritorna, e con dolcezza abbraccia; così Leon, se ben le prime squadre Ruggier gli uccide, e l'altre gli minaccia, non lo può odiar, perch'all'amor più tira l'alto valor, che quella offesa all'ira. 93 Ma se Leon Ruggiero ammira et ama, mi par che duro cambio ne riporte; che Ruggiero odia lui, né cosa brama più che di dargli di sua man la morte. Molto con gli occhi il cerca, et alcun chiama, che gliele mostri; ma la buona sorte e la prudenzia de l'esperto Greco non lasciò mai che s'affrontasse seco. 94 Leone, acciò che la sua gente affatto non fosse uccisa, fe' sonar raccolta; et all'imperatore un messo ratto a pregarlo mandò, che desse volta e ripassasse il fiume; e che buon patto n'avrebbe, se la via non gli era tolta: et esso con non molti che raccolse, al ponte ond'era entrato, i passi volse. 95 Molti in poter de' Bulgari restaro per tutto il monte, e sin al fiume uccisi; e vi restavan tutti, se 'l riparo non gli avesse del rio tosto divisi. Molti cadêr dai ponti e s'affogaro; e molti, senza mai volgere i visi, quindi lontano iro a trovare il guado; e molti fur prigion tratti in Belgrado. 96 Finita la battaglia di quel giorno, ne la qual, poi che il lor signor fu estinto, danno i Bulgari avriano avuto e scorno, se per lor non avesse il guerrier vinto, il buon guerrier che 'l candido liocorno ne lo scudo vermiglio avea dipinto; a lui si trasson tutti, da cui questa vittoria conoscean, con gioia e festa. 97 Uno il saluta, un altro se gl'inchina, altri la mano, altri gli bacia il piede: ognun, quanto più può, se gli avvicina, e beato si tien chi appresso il vede, e più chi 'l tocca; che toccar divina e sopranatural cosa si crede. Lo pregan tutti, e vanno al ciel le grida, che sia lor re, lor capitan, lor guida. 98 Ruggier rispose lor, che capitano e re sarà, quel che fia lor più a grado; ma né a baston né a scettro ha da por mano, né per quel giorno entrar vuole in Belgrado: che prima che si faccia più lontano Leon Augusto, e che ripassi il guado, lo vuol seguir, né tôrsi da la traccia, fin che nol giunga e che morir nol faccia; 99 che mille miglia e più, per questo solo era venuto, e non per altro effetto. Così senza indugiar lascia lo stuolo, e si volge al camin che gli vien detto, che verso il ponte fa Leone a volo, forse per dubbio che gli sia intercetto. Gli va dietro per l'orma in tanta fretta, che 'l suo scudier non chiama e non aspetta. 100 Leone ha nel fuggir tanto vantaggio (fuggir si può ben dir, più che ritrarse), che trova aperto e libero il passaggio; poi rompe il ponte, e lascia le navi arse. Non v'arriva Ruggier, ch'ascoso il raggio era del sol, né sa dove alloggiarse. Cavalca inanzi, che lucea la luna, né mai trova castel né villa alcuna. 101 Perché non sa dove si por, camina tutta la notte, né d'arcion mai scende. Ne lo spuntar del nuovo sol vicina a man sinistra una città comprende; ove di star tutto quel dì destina, acciò l'ingiuria al suo Frontino emende, a cui, senza posarlo o trargli briglia, la notte fatto avea far tante miglia. 102 Ungiardo era signor di quella terra, suddito e caro a Costantino molto, ove avea per cagion di quella guerra da cavallo e da piè buon numer tolto. Quivi ove altrui l'entrata non si serra, entra Ruggiero, e v'è sì ben raccolto, che non gli accade di passar più avante per aver miglior loco e più abondante. 103 Nel medesimo albergo in su la sera un cavallier di Romania alloggiosse, che si trovò ne la battaglia fiera, quando Ruggier pei Bulgari si mosse, et a pena di man fuggito gli era, ma spaventato più ch'altri mai fosse; sì ch'ancor triema, e pargli ancora intorno avere il cavallier dal lïocorno. 104 Conosce, tosto che lo scudo vede, che 'l cavallier che quella insegna porta, è quel che la sconfitta ai Greci diete, per le cui mani è tanta gente morta. Corre al palazzo, et udïenza chiede, per dire a quel signor cosa ch'importa; e subito intromesso, dice quanto io mi riserbo a dir ne l'altro canto.
Rinaldo afferra la brocca che gli può fare sapere se la sua donna gli è fedele o meno, ma dopo aver riflettuto su quanto possa essere pericolosa la verità, rifiuta l’offerta, dicendo che è folle cercare una cosa che non si vuole trovare, soprattutto quando si sta bene con ciò che si crede. Il signore del palazzo scoppia in pianto, maledice chi l’aveva convinto a tentare la prova, mettendo così in dubbio la fedeltà della sua moglie, ed inizia poi a raccontare la sua storia. Se la fortuna non l’aveva fatto nascere ricco, la natura gli aveva fatto dono di una singolare bellezza. Nella sua stessa città aveva vissuto un uomo molto saggio che passò da solo tutta la vita, ad eccezione degli ultimi anni, durante i quali convinse con del denaro una donna a concedersi a lui, rinunciando alla propria verginità. Da lei ebbe quindi una figlia. L’uomo, non volendo che la figlia fosse simile alla madre, fece costruire a dei demoni per incantesimo quel ricco palazzo in un luogo solitario e lì si trasferì con la bambina. Fece quindi anche ritrarre in tutto il palazzo donne, del passato e del futuro, che fossero da esempio alla ragazza per essersi opposte ad un amore peccaminoso. Quando la figlia, molto bella, saggia e dolce, raggiunse l’età per sposarsi, il signore del castello, allora ragazzo, venne ritenuto essere l’unico degno di diventarne lo sposo. Erano al quinto anno di matrimonio quando una nobile donna della vicina città, che conosceva la magia, si accese di passione per il cavaliere. Il signore amava però a tal punto la sua donna, e tanto si fidava della sua fedeltà, che non cedette mai alle richieste della maga, di nome Melissa. La maga inziò però a fare cedere la fiducia dell’uomo nella sua donna. Gli disse che la sua fedeltà era conseguenza forzata del fatto che non poteva incontrare nessun altro uomo. Gli porpose quindi di lasciarla sola nel castello, così da poter conoscere la sua vera natura. Melissa cosegnò quindi al cavaliere quella brocca, dicendogli che sarebbe servita a mostrargli l’esito della prova. Dal momento che l’uomo trovò difficile allontanarsi dall’amata per più di poche ore, la maga propose di fargli assumere le sembianze di un giovane e bel cavaliere, governante di una vicina città, Ferrara, che, innamorato di sua moglie, più volte si era fatto avanti con proposte amorose ed altrettante volte era stato cacciato indietro. Il cavaliere del palazzo fece come la maga gli propose e potè così vedere la moglie cedere alle lusinghe di un altro uomo. Riprese le sembianze originali, il marito accusò la donna di essere disposta a tradirlo. Lei inizialmente si vergognò per la situazione, poi si arrabbiò per il gesto del marito ed infine si accese di odio per lui. Raggiunse quella stessa note il cavaliere di Ferrara ed ancora oggi è là con lui. Melissa era stata inzialmente contenta dell’esito della vicenda, visto però che l’odio nei suoi confronti cresceva nel cuore dell’uomo da lei amato, alla fine non potè fare altro che allontanarsi dalla città. L’uomo soffre per il suo gesto e trova come unica consolazione il fatto che tutti i cavalieri ai quali aveva offerto la brocca non era riusciti a bere una sola goccia di quel vino. Rinaldo non dorme presso il palazzo ma, su offerta del cavaliere, per guadagnare strada nella notte, si corica su di una barca posta nel fiume Po e spinta dai remi di sei servitori. Il mattino dopo il paladino passa presso la città di Ferrara, riporta alla mente i discorsi fatti dal cugino Malagigi, che, utilizzando le sue arti magiche, aveva previsto la ricchezza e la fama futura di quella città, e rimane così sopreso del netto cambiamento che attende quel luogo paludoso. Il cavaliere cristiano ripensa poi ancora alle vicende del signore del palazzo in cui era stato ospite la sera prima. All’inizio è quasi pentito di non essersi sottoposto alla prova ma poi è contento della scelta fatta. Il gioco è troppo pericoloso: troppo bassa la vincita in confronto alla pesante perdita a cui si poteva andare incontro. Capiti i pensieri del paladino, uno degli uomini dell’imbarcazione dice che quel signore avrebbe dovuto fare tesoro di quanto era già accaduto in precedenza nella vicina Mantova. Il marinaio racconta quindi a Rinaldo la storia di Adonio. Tanto tempo prima a Mantova era vissuto un avvocato di nome Anselmo, molto geloso della sua bella moglie. Della stessa donna era però innamorato anche un nobile cavaliere di nome Adonio, che per conquistarla dilapidò nel giro di due anni tutto il suo patrimonio. Finito ormai in miseria l’uomo abbandonò quindi la città. Mentre si allontanava incontrò un contadino intento a dare la caccia ad un serpente con l’intenzione di ucciderlo. Adonio intervenne, essendo la serpe il simbolo della sua stirpe (nata dai denti del drago Cadmo), e riuscì anche a fare desistere l’uomo dal dare noia all’animale. Anselmo era stato nel frattempo scelto per stare, per un certo periodo di tempo, presso il santo Papa come ambasciatore. Prima della partenza l’avvocato aveva cercato in ogni modo di convincere la moglie, di nome Argia, a rimanergli fedele. Lei, piangendo la sua partenza, aveva giurato di preferire la morte piuttosto che essergli infedele. Anselmo, pur credendo alla disperazione della donna, interrogò comunque un suo amico, capace di prevedere il futuro attraverso le stelle, per sapere come si sarebbe comportata la moglie durante la sua assenza. Gli astri del cielo dissero chiaramante che Argia avrebbe rotto il patto di fedeltà subito dopo la sua partenza, per denaro. Per cercare di rimediare alla profezia l’uomo consegnò alla moglie tutti i suoi averi, dandole il loro pieno potere, a patto che al suo ritorno si faccia trovare ancora casta. Anselmo mandò anche Argia a vivere in campagna, sicuro che la povertà dei contadini e degli allevatori non potesse minacciarne la fedeltà. Adonio, irriconoscibile per la lunga barba e per gli umili vestiti, spinto dal desiderio di rivedere la donna, tornò nel frattempo a Mantova e, nel luogo dove era intervenuto in aiuto del serpente, incontrò quindi una donzella. La ragazza disse di essere la fata Manto, fondatrice di Mantova, nata anche lei dai denti del drago Cadmo. Essendo fata, Manto è immortale, ma ogni sette giorni si trasforma in un serpente e come tale rischia ogni volta di subire le percosse degli uomini. La ragazza ringraziò quindi in cavaliere di averla salvata sette anni prima da un contadino (era lei la serpe) e per ricompensarlo gli donò tre volte tanto il suo patrimonio iniziale, lo indirizzò verso la villa dove si trovava Argia e gli diede il suo aiuto per fare sua l’amata. Trasformato lui in un pellegrino e lei stessa in un cane che ubbidisce ed esegue ogni ordine del padrone, i due andarono a fare il loro spettacolo nelle proprietà dell’avvocato Anselmo e lasciarono tutti a bocca aperta. Argia fece chiedere il prezzo di quel bellissimo cane. Adonio fece vedere che il cane poteva far comparire, scuotendosi, qualunque oggetto prezioso; disse perciò che non poteva essere comprato con denaro e propose infine di volerglio offrire in cambio di una notte passata insieme. La donna ,dopo un primo momento di resistenza, accettò infine la proposta, avendo anche saputo che quell’uomo era il cavaliere Adonio. La fata Manto accese anche il cuore di Argia d’amore per Adonio ed i due divennero inseparabili. Anselmo, tornò dopo una anno a Mantova e, prima dall’amico, attraverso la lettura degli astri, e poi dalla domestica, un giorno che questa aveva bisticciato con Argia, venne a sapere del tradimento della moglie. Il giudice decise di uccidersi, ma non prima di aver fatto uccidere la donna. L’avvocato comandò allora ad un suo fedele servitore di tendere un agguato ad Argia. Mentre però il servo, dicendo le ragioni del suo gesto, stava per avventarsi sulla donna, lei sparì alla sua vista grazie ad un incantesimo della fata e riuscì così a scappare. Anselmo, temendo che la donna potesse trovare protezione presso un uomo potente, e che la notizia venisse così a sapersi, iniziò a fare ricerche in tutta la Lombardia per ritrovarla. Si fece infine condurre dal suo fedele servitore là dove Argia era stata vista l’ultima volta, credendo di trovarla nascosta in un bosco. Ritrovò invece un enorme, ricchissimo e bellissimo palazzo, realizzato per Argia con un incantesimo dalla fata Manto. Anselmo incontrò fuori dal palazzo un uomo etiope bruttissimo e sporco e gli chiese chi fosse il padrone di quella costruzione. L’uomo gli rispose di esserne lui il proprietario ed invitò anche l’avvocato ad entrarvi per accertarsene. Entrati nel palazzo, l’etiope fece ad Anselmo la stessa proposta che Adonio aveva fatto ad Argia, proponendo in cambio tutto il palazzo. Dopo i primi rifiuto l’avvocato accettò di offrirsi per una notte all’uomo ed a quel punto comparve la moglie, che gli rinfacciò di aver accettato una condizione ben peggiore di quella che aveva accettato lei, e per la quale lui aveva anche tentato di punirla con la morte. Argia propose infine al marito di considerare pari le loro colpe. L’uomo accettò e tornarono entrambi a vivere d’amore e d’accordo. Così finisce la storia del marinaio. L’imbarcazione su cui si trova Rinaldo giunge a Ravenna ed il cavaliere prosegue il suo viaggio a cavallo. Giunto a roma si imbarca per Trapani ed infine per Lampedusa, scelta da re Gradasso, Agramante e Sorbino com luogo dello scontro con i tre cavalieri cristinai. Il paladino cirstiano giuge all’isola quando Orlando ha già ucciso Gradasso ed Agramante. I due pagani morti vengono portati a Biserta per essere seppelliti. Astolfo e Sansonetto vengono così a sapere della vittoria del conte, ma non riescono a gioire, essendo venuti a conoscenza anche della morte di Brandimarte. Fiordiligi aveva previsto in sogno la morte dell’amato, quando ne riceve notizia certa cade a terra svenuta per poi disperarsi e volersi uccidere. Rimpiange di non aver seguito Brandimarte in quella impresa, per non averlo potuto avvertire dell’arrivo di re Gradasso, per non avergli potuto fare da scudo con il proprio corpo e per non aver potuto abbracciarlo un’ultima volta. Orlando raggiunge nel frattempo la Sicilia, insieme ad Oliviero, per dare degna sepoltura a Brandimarte. Il pomposo funerale si svolge la sera dopo. Orlando si lamenta per non poter stare più al fianco dell’amico, ne esalta le qualità e conclude dicendo che i cavalieri ancora in vita non possono che invidiargli la gloriosa morte. Il conte dà infine indicazioni perché venga costruito un sepolcro munumentale. Dopo che il conte è partito sarà Fiordiligi stessa a condurre i lavori. La donna deciderà di fare costruire un cella nella tomba dell’amato, in cui poter passare il resto della propria vita. A nulla serviranno i tentativi del paladino Orlando per convincerla ad uscire. Fiordiligi morirà non molto tempo dopo. Orlando, Oliviero, peggiorato in salute, e Rinaldo lasciano la Sicilia e, prima di tornare in Francia, su consiglio del comandante della nave, si fermano presso uno scoglio abitato da un eremita (lo stesso che aveva battezzato Ruggiero) capace di compiere azioni miracolose. Il religioso, che era già stato avvisato da Dio della loro venuta, prega il Salvatore, dà la sua benedizione ad Oliviero e lo fa così guarire all’istante. Re Sobrino, visto il miracolo, subito si dichiara pronto a convertirsi al cristianesimo. Il pagano viene tenuto a battesimo dall’eremita ed anche lui guarisce subito. Durante il sontuoso banchetto allestito per festeggiare le due guarigioni e la conversione di Sobrino, Ruggiero Rinaldo afferra la brocca che gli può fare sapere se la sua donna gli è fedele o meno, ma dopo aver riflettuto su quanto possa essere pericolosa la verità, rifiuta l’offerta, dicendo che è folle cercare una cosa che non si vuole trovare, soprattutto quando si sta bene con ciò che si crede. Il signore del palazzo scoppia in pianto, maledice chi l’aveva convinto a tentare la prova, mettendo così in dubbio la fedeltà della sua moglie, ed inizia poi a raccontare la sua storia. Se la fortuna non l’aveva fatto nascere ricco, la natura gli aveva fatto dono di una singolare bellezza. Nella sua stessa città aveva vissuto un uomo molto saggio che passò da solo tutta la vita, ad eccezione degli ultimi anni, durante i quali convinse con del denaro una donna a concedersi a lui, rinunciando alla propria verginità. Da lei ebbe quindi una figlia. L’uomo, non volendo che la figlia fosse simile alla madre, fece costruire a dei demoni per incantesimo quel ricco palazzo in un luogo solitario e lì si trasferì con la bambina. Fece quindi anche ritrarre in tutto il palazzo donne, del passato e del futuro, che fossero da esempio alla ragazza per essersi opposte ad un amore peccaminoso. Quando la figlia, molto bella, saggia e dolce, raggiunse l’età per sposarsi, il signore del castello, allora ragazzo, venne ritenuto essere l’unico degno di diventarne lo sposo. Erano al quinto anno di matrimonio quando una nobile donna della vicina città, che conosceva la magia, si accese di passione per il cavaliere. Il signore amava però a tal punto la sua donna, e tanto si fidava della sua fedeltà, che non cedette mai alle richieste della maga, di nome Melissa. La maga inziò però a fare cedere la fiducia dell’uomo nella sua donna. Gli disse che la sua fedeltà era conseguenza forzata del fatto che non poteva incontrare nessun altro uomo. Gli porpose quindi di lasciarla sola nel castello, così da poter conoscere la sua vera natura. Melissa cosegnò quindi al cavaliere quella brocca, dicendogli che sarebbe servita a mostrargli l’esito della prova. Dal momento che l’uomo trovò difficile allontanarsi dall’amata per più di poche ore, la maga propose di fargli assumere le sembianze di un giovane e bel cavaliere, governante di una vicina città, Ferrara, che, innamorato di sua moglie, più volte si era fatto avanti con proposte amorose ed altrettante volte era stato cacciato indietro. Il cavaliere del palazzo fece come la maga gli propose e potè così vedere la moglie cedere alle lusinghe di un altro uomo. Riprese le sembianze originali, il marito accusò la donna di essere disposta a tradirlo. Lei inizialmente si vergognò per la situazione, poi si arrabbiò per il gesto del marito ed infine si accese di odio per lui. Raggiunse quella stessa note il cavaliere di Ferrara ed ancora oggi è là con lui. Melissa era stata inzialmente contenta dell’esito della vicenda, visto però che l’odio nei suoi confronti cresceva nel cuore dell’uomo da lei amato, alla fine non potè fare altro che allontanarsi dalla città. L’uomo soffre per il suo gesto e trova come unica consolazione il fatto che tutti i cavalieri ai quali aveva offerto la brocca non era riusciti a bere una sola goccia di quel vino. Rinaldo non dorme presso il palazzo ma, su offerta del cavaliere, per guadagnare strada nella notte, si corica su di una barca posta nel fiume Po e spinta dai remi di sei servitori. Il mattino dopo il paladino passa presso la città di Ferrara, riporta alla mente i discorsi fatti dal cugino Malagigi, che, utilizzando le sue arti magiche, aveva previsto la ricchezza e la fama futura di quella città, e rimane così sopreso del netto cambiamento che attende quel luogo paludoso. Il cavaliere cristiano ripensa poi ancora alle vicende del signore del palazzo in cui era stato ospite la sera prima. All’inizio è quasi pentito di non essersi sottoposto alla prova ma poi è contento della scelta fatta. Il gioco è troppo pericoloso: troppo bassa la vincita in confronto alla pesante perdita a cui si poteva andare incontro. Capiti i pensieri del paladino, uno degli uomini dell’imbarcazione dice che quel signore avrebbe dovuto fare tesoro di quanto era già accaduto in precedenza nella vicina Mantova. Il marinaio racconta quindi a Rinaldo la storia di Adonio. Tanto tempo prima a Mantova era vissuto un avvocato di nome Anselmo, molto geloso della sua bella moglie. Della stessa donna era però innamorato anche un nobile cavaliere di nome Adonio, che per conquistarla dilapidò nel giro di due anni tutto il suo patrimonio. Finito ormai in miseria l’uomo abbandonò quindi la città. Mentre si allontanava incontrò un contadino intento a dare la caccia ad un serpente con l’intenzione di ucciderlo. Adonio intervenne, essendo la serpe il simbolo della sua stirpe (nata dai denti del drago Cadmo), e riuscì anche a fare desistere l’uomo dal dare noia all’animale. Anselmo era stato nel frattempo scelto per stare, per un certo periodo di tempo, presso il santo Papa come ambasciatore. Prima della partenza l’avvocato aveva cercato in ogni modo di convincere la moglie, di nome Argia, a rimanergli fedele. Lei, piangendo la sua partenza, aveva giurato di preferire la morte piuttosto che essergli infedele. Anselmo, pur credendo alla disperazione della donna, interrogò comunque un suo amico, capace di prevedere il futuro attraverso le stelle, per sapere come si sarebbe comportata la moglie durante la sua assenza. Gli astri del cielo dissero chiaramante che Argia avrebbe rotto il patto di fedeltà subito dopo la sua partenza, per denaro. Per cercare di rimediare alla profezia l’uomo consegnò alla moglie tutti i suoi averi, dandole il loro pieno potere, a patto che al suo ritorno si faccia trovare ancora casta. Anselmo mandò anche Argia a vivere in campagna, sicuro che la povertà dei contadini e degli allevatori non potesse minacciarne la fedeltà. Adonio, irriconoscibile per la lunga barba e per gli umili vestiti, spinto dal desiderio di rivedere la donna, tornò nel frattempo a Mantova e, nel luogo dove era intervenuto in aiuto del serpente, incontrò quindi una donzella. La ragazza disse di essere la fata Manto, fondatrice di Mantova, nata anche lei dai denti del drago Cadmo. Essendo fata, Manto è immortale, ma ogni sette giorni si trasforma in un serpente e come tale rischia ogni volta di subire le percosse degli uomini. La ragazza ringraziò quindi in cavaliere di averla salvata sette anni prima da un contadino (era lei la serpe) e per ricompensarlo gli donò tre volte tanto il suo patrimonio iniziale, lo indirizzò verso la villa dove si trovava Argia e gli diede il suo aiuto per fare sua l’amata. Trasformato lui in un pellegrino e lei stessa in un cane che ubbidisce ed esegue ogni ordine del padrone, i due andarono a fare il loro spettacolo nelle proprietà dell’avvocato Anselmo e lasciarono tutti a bocca aperta. Argia fece chiedere il prezzo di quel bellissimo cane. Adonio fece vedere che il cane poteva far comparire, scuotendosi, qualunque oggetto prezioso; disse perciò che non poteva essere comprato con denaro e propose infine di volerglio offrire in cambio di una notte passata insieme. La donna ,dopo un primo momento di resistenza, accettò infine la proposta, avendo anche saputo che quell’uomo era il cavaliere Adonio. La fata Manto accese anche il cuore di Argia d’amore per Adonio ed i due divennero inseparabili. Anselmo, tornò dopo una anno a Mantova e, prima dall’amico, attraverso la lettura degli astri, e poi dalla domestica, un giorno che questa aveva bisticciato con Argia, venne a sapere del tradimento della moglie. Il giudice decise di uccidersi, ma non prima di aver fatto uccidere la donna. L’avvocato comandò allora ad un suo fedele servitore di tendere un agguato ad Argia. Mentre però il servo, dicendo le ragioni del suo gesto, stava per avventarsi sulla donna, lei sparì alla sua vista grazie ad un incantesimo della fata e riuscì così a scappare. Anselmo, temendo che la donna potesse trovare protezione presso un uomo potente, e che la notizia venisse così a sapersi, iniziò a fare ricerche in tutta la Lombardia per ritrovarla. Si fece infine condurre dal suo fedele servitore là dove Argia era stata vista l’ultima volta, credendo di trovarla nascosta in un bosco. Ritrovò invece un enorme, ricchissimo e bellissimo palazzo, realizzato per Argia con un incantesimo dalla fata Manto. Anselmo incontrò fuori dal palazzo un uomo etiope bruttissimo e sporco e gli chiese chi fosse il padrone di quella costruzione. L’uomo gli rispose di esserne lui il proprietario ed invitò anche l’avvocato ad entrarvi per accertarsene. Entrati nel palazzo, l’etiope fece ad Anselmo la stessa proposta che Adonio aveva fatto ad Argia, proponendo in cambio tutto il palazzo. Dopo i primi rifiuto l’avvocato accettò di offrirsi per una notte all’uomo ed a quel punto comparve la moglie, che gli rinfacciò di aver accettato una condizione ben peggiore di quella che aveva accettato lei, e per la quale lui aveva anche tentato di punirla con la morte. Argia propose infine al marito di considerare pari le loro colpe. L’uomo accettò e tornarono entrambi a vivere d’amore e d’accordo. Così finisce la storia del marinaio. L’imbarcazione su cui si trova Rinaldo giunge a Ravenna ed il cavaliere prosegue il suo viaggio a cavallo. Giunto a roma si imbarca per Trapani ed infine per Lampedusa, scelta da re Gradasso, Agramante e Sorbino com luogo dello scontro con i tre cavalieri cristinai. Il paladino cirstiano giuge all’isola quando Orlando ha già ucciso Gradasso ed Agramante. I due pagani morti vengono portati a Biserta per essere seppelliti. Astolfo e Sansonetto vengono così a sapere della vittoria del conte, ma non riescono a gioire, essendo venuti a conoscenza anche della morte di Brandimarte. Fiordiligi aveva previsto in sogno la morte dell’amato, quando ne riceve notizia certa cade a terra svenuta per poi disperarsi e volersi uccidere. Rimpiange di non aver seguito Brandimarte in quella impresa, per non averlo potuto avvertire dell’arrivo di re Gradasso, per non avergli potuto fare da scudo con il proprio corpo e per non aver potuto abbracciarlo un’ultima volta. Orlando raggiunge nel frattempo la Sicilia, insieme ad Oliviero, per dare degna sepoltura a Brandimarte. Il pomposo funerale si svolge la sera dopo. Orlando si lamenta per non poter stare più al fianco dell’amico, ne esalta le qualità e conclude dicendo che i cavalieri ancora in vita non possono che invidiargli la gloriosa morte. Il conte dà infine indicazioni perché venga costruito un sepolcro munumentale. Dopo che il conte è partito sarà Fiordiligi stessa a condurre i lavori. La donna deciderà di fare costruire un cella nella tomba dell’amato, in cui poter passare il resto della propria vita. A nulla serviranno i tentativi del paladino Orlando per convincerla ad uscire. Fiordiligi morirà non molto tempo dopo. Orlando, Oliviero, peggiorato in salute, e Rinaldo lasciano la Sicilia e, prima di tornare in Francia, su consiglio del comandante della nave, si fermano presso uno scoglio abitato da un eremita (lo stesso che aveva battezzato Ruggiero) capace di compiere azioni miracolose. Il religioso, che era già stato avvisato da Dio della loro venuta, prega il Salvatore, dà la sua benedizione ad Oliviero e lo fa così guarire all’istante. Re Sobrino, visto il miracolo, subito si dichiara pronto a convertirsi al cristianesimo. Il pagano viene tenuto a battesimo dall’eremita ed anche lui guarisce subito. Durante il sontuoso banchetto allestito per festeggiare le due guarigioni e la conversione di Sobrino, Ruggiero vi
Sullo scoglio dell’eremita tutti i cavalieri domenticano ogni vecchio rancore e si comportano come se fossero fratelli. Rinaldo mostra un affetto particolare per Ruggiero, perché ne rispetta il valore e lo vede molto cortese, ma soprattutto perché si sente fortemente in debito con il cavaliere, avendo saputo che aveva salvato prima Ricciardetto e poi Malagigi e Viviano. L’eremita approfitta dell’occasione per convincere apertamente il paladino a non opporsi al matrimonio di Ruggiero con la sorella Bradamante, e lasciare così che le due nobili stirpi si uniscano per dare origine alla loro illustre discendenza. In realtà in quegli stessi giorni Amone, padre di Bradamante, con il consenso di Carlo Magno, aveva promesso a Costantino, imperatore dell’Impero Romano d’Oriente, di dare in sposa la figlia al suo successore Leone. La decisione ultima era stata comunque rimandata al giorno del ritorno di Rinaldo. Ruggiero riceve indietro da Orlando la spada Balisarda, l’armatura in precedenza appartenuta ad Ettore, ed il cavallo Frontino. Tutti i cavalieri ritornano infine sull’imbarcazione e riprendono il loro viaggio verso la Francia. Sbarcheranno infine a Marsiglia. Ritornando in Africa da Astolfo, il paladino, sapute le vicende di Lampedusa e vedendo che ormai l’Africa non poteva più nuocere alla Francia, fa ritornare il popolo etiope alla sua terra di origine. Prima di partire per la Francia in sella all’ippogrifo, il cavaliere ringrazia il Senapo per il supporto e gli consegna l’otre in cui aveva inprigionato il violento vento australe, chiedendogli quindi di liberarlo non appena avesse superato il deserto. Anche Dudone aveva in precedenza riportato in Etiopia la parte di esercito che gli era stata assegnata. Navi e cavalli, creati per incantesimo, ritornato quindi infine alla loro forma originale: rami e sassi. Giunto in Provenza Astolfo, come da richiesta dell’evangelista Giovanni, lascia libero l’ippogrifo. Anche il suo corno magico non ha ormai più alcun potere, essendo rimasto il suo terribile suono sulla luna tra le cose perse. Astolfo giunge infine a Marsilia lo giorno stesso in cui ci giungono via mare anche gli altri. Tutti i cavalieri proseguono insieme il viaggio verso Parigi e vengono quindi accolti festosamente da Carlo Magno e da tutta la sua corte. Parigi è in festa ed i paladini vengono salutati come liberatori dell’impero. Rinaldo informa il padre Amonio di aver promesso Bradamante in sposa a Ruggiero. Il padre e la madre del cavaliere lo rimproverano però per aver agito in autonomia e si oppongono alla sua volontà, avendo ormai deciso che la donna diverrà sposa di Leone, sicuramente più ricco e potente di Ruggiero. Viene chiesto a Bradamante di esporre la sua volontà, lei non osa però proferire parola e rimane in silenzio. Quando si trova finalmente da sola, la donna si dispera, non sapendo come comportarsi: rispettare il volere dei genitori andando contro ai propri desideri o seguire il proprio cuore mettendo da parte l’ubbidienza dovuta al padre ed alla madre? Bradamante sa di non poter andare contro all’Amore e sa inoltre di avere dalla sua parte Rinaldo ed Orlando, si convince quindi infine ad opporsi alla volontà dei genitori. Anche Ruggiero è tormentato dai suoi pensieri, avendo saputo che Amone e la moglie, Beatrice, volevano fare sposare la sua amata con il figlio dell’imperatore Costantino. Il cavaliere è dotato di ogni valore, ma non possiede tante ricchezze quante vengono richieste dai genitori di Bradamante. Il cavaliere vorrebbe aver almeno un anno di tempo per sottrarre l’impero a Costantino ed al figlio Leone, così da potersi ripresentare con la corona necessaria per ottenere in moglie l’amata Bradamante. Se questo non gli venisse concesso ed la sua donna andasse in sposa all’avversario, si dichiara subito pronto a vendicarsi di Constantino e Leone. Teme infine che l’amata venga meno alle promesse fatte e sia dosposta a sposare il futuro imperatore. Bradamante viene a sapere delle preoccupazioni che affliggono il cavaliere e manda una sua fedele cameriera a dirgli che il suo amore per lui è e rimarrà per sempre forte. gli dice quindi che nessuna corona né ricchezza potrà mai modellare il suo cuore sull’immagine di un altro uomo. Ripreso il proprio originale coraggio, Bradamante si presenta da re Carlo e gli chiede, come riconoscimento per i servizi svolti, che le prometta di non lasciarla sposare a nessun uomo che non mostri di esserle superiore in armi. Il patto non viene fatto in segreto e la notizia non tarda a giungere alle orecchie dei genitori di Bradamante. Avendo capito che la figlia punta a sposare Ruggiero, Amone e Beatrice allontanano la donna da Parigi e la portano quindi nella loro fortezza di Roccaforte, con l’intenzione di mandarla poi in Oriente. Ruggiero, vedendo che la sua amata gli è stata sottratta e temendo che possa infine andare in sposa a Leone, indossa le armi per muovere guerra all’imperatore, ucciderlo ed impossessarsi del suo regno. Si mette in viaggio e giunge infine in Bulgaria. Vicino a Belgrado trova l’esercito di Costantito e Leone intento a combattere contro quello bulgaro, con l’obiettivo di riconquistare la capitale. L’esercito imperiale è nettamente superiore a quello avversario per numero e mezzi, ed in poco tempo i soldati bulgari vengono messi in fuga. Ruggiero interviene allora in difesa degli sconfitti, ferma la loro fuga e si lancia subito all’attacco. Il cavaliere fa una strage e l’esito della battaglia viene totalmente capovolto, sono ora i bulgari ad inseguire gli avversari in fuga. Leone vede gli avvenimenti da un colle e non può fare a meno di apprezzare il valore di quel cavaliere misterioso. Non si cura dei suoi che vengono uccisi ed anzi si preoccupa che l’uomo possa essere ferito. Il figlio dell’imperatore chiama infine la ritirata. Il popolo bulgaro ha perso in battaglia il proprio re ed ora chiedono tutti a Ruggiero di diventare il nuovo sovrano. Il guerriero rifiuta la proposta dicendo di non poter rimanere, essendo il suo solo scopo quello di dare la caccia a Costantino e Leone per ucciderli. Il cavaliere si rimette subito in sella e corre al galoppo dietro al nemico, che però si è già messo in salvo. Non trovando dimora alcuna dove riposare, Ruggiero prosegue il suo viaggio per tutta la notte. Il giorno dopo il guerriero capita in una città governata da Ungiardo, caro amico dell’imperatore Costantino, e va a riposare nello stesso albergo in cui alloggia un cavaliere rumeno scappato a fatica alla sua spada il giorno prima. Il cavaliere riconosce il valoroso guerriero e subito corre ad informare della sua presenza Ungiardo.
1 Quanto più su l'instabil ruota vedi di Fortuna ire in alto il miser uomo, tanto più tosto hai da vedergli i piedi ove ora ha il capo, e far cadendo il tomo. Di questo, esempio è Policràte, e il re di Lidia, e Dionigi, et altri ch'io non nomo, che ruinati son da la suprema gloria in un dì ne la miseria estrema. 2 Così all'incontro, quanto più depresso, quanto è più l'uom di questa ruota al fondo, tanto a quel punto più si trova appresso, ch'a da salir, se de' girarsi in tondo. Alcun sul ceppo quasi il capo ha messo, che l'altro giorno ha dato legge al mondo. Servio e Mario e Ventidio l'hanno mostro al tempo antico, e il re Luigi al nostro: 3 il re Luigi, suocero del figlio del duca mio; che rotto a Santo Albino, e giunto al suo nimico ne l'artiglio, a restar senza capo fu vicino. Scorse di questo anco maggior periglio, non molto inanzi, il gran Matia Corvino. Poi l'un, de' Franchi, passato quel punto, l'altro al regno degli Ungari fu assunto. 4 Si vede per gli essempii di che piene sono l'antiche e le moderne istorie, che 'l ben va dietro al male, e 'l male al bene, e fin son l'un de l'altro e biasmi e glorie; e che fidarsi a l'uom non si conviene in suo tesor, suo regno e sue vittorie, né disperarsi per Fortuna avversa, che sempre la sua ruota in giro versa. 5 Ruggier per la vittoria ch'avea avuto di Leone e del padre imperatore, in tanta confidenza era venuto di sua fortuna e di suo gran valore, che senza compagnia, senz'altro aiuto, di poter egli sol gli dava il core fra cento a piè e a cavallo armate squadre uccider di sua mano il figlio e il padre. 6 Ma quella, che non vuol che si prometta alcun di lei, gli mostrò in pochi giorni, come tosto alzi e tosto al basso metta, e tosto avversa e tosto amica torni. Lo fe' conoscer quivi da chi in fretta a procacciargli andò disagi e scorni, dal cavallier che ne la pugna fiera di man fuggito a gran fatica gli era. 7 Costui fece ad Ungiardo saper, come quivi il guerrier ch'avea le genti rotte di Costantino e per molt'anni dome, stato era il giorno, e vi staria la notte; e che Fortuna presa per le chiome, senza che più travagli o che più lotte, darà al suo re, se fa costui prigione; ch'a' Bulgari, lui preso, il giogo pone. 8 Ungiardo da la gente, che fuggita de la battaglia, a lui s'era ridutta (ch'a parte a parte v'arrivò infinita, perch'al ponte passar non potea tutta), sapea come la strage era seguita, che la metà de' Greci avea distrutta; e come un cavallier solo era stato, ch'un campo rotto, e l'altro avea salvato: 9 e che sia da se stesso senza caccia venuto a dar del capo ne la rete, si maraviglia, e mostra che gli piaccia, con viso e gesti e con parole liete. Aspetta che Ruggier dormendo giaccia; poi manda le sue gente chete chete, e fa il buon cavallier, ch'alcun sospetto di questo non avea, prender nel letto. 10 Accusato Ruggier dal proprio scudo, ne la città di Novengrado resta prigion d'Ungiardo, il più d'ogni altro crudo, che fa di ciò maravigliosa festa. E che può far Ruggier, poi che gli è nudo, et è legato già, quando si desta? Ungiardo un suo corrier spaccia a staffetta a dar la nuova a Costantino in fretta. 11 Avea levato Costantin la notte da le ripe di Sava ogni sua schiera; e seco a Beleticche avea ridotte, che città del cognato Androfilo era, padre di quello a cui forate e rotte (come se state fossino di cera) al primo incontro l'arme avea il gagliardo cavallier, or prigion del fiero Ungiardo. 12 Quivi fortificar facea le mura l'imperatore, e riparar le porte; che de' Bulgari ben non s'assicura, che con la guida d'un guerrier sì forte non gli faccino peggio che paura, e 'l resto ponghin di sua gente a morte. Or che l'ode prigion, né quelli teme, né se con lor sia il mondo tutto insieme. 13 L'imperator nuota in un mar di latte, né per letizia sa quel che si faccia. - Ben son le genti bulgare disfatte, - dice con lieta e con sicura faccia. Come de la vittoria, chi combatte, se troncasse al nimico ambe le braccia, certo saria, così n'è certo, e gode l'imperator, poi che 'l guerrier preso ode. 14 Non ha minor cagion di rallegrarsi del padre il figlio; ch'oltre che si spera di racquistar Belgrado, e soggiugarsi ogni contrada che de' Bulgari era; disegna anco il guerriero amico farsi con benefici, e seco averlo in schiera. Né Rinaldo né Orlando a Carlo Magno ha da invidiar, se gli è costui compagno. 15 Da questa voglia è ben diversa quella di Teodora, a chi 'l figliuolo uccise Ruggier con l'asta che da la mammella passò alle spalle, e un palmo fuor si mise. A Costantin, del quale era sorella, costei si gittò a' piedi, e gli conquise e intenerigli il cor d'alta pietade col largo pianto che nel sen le cade. 16 - Io non mi leverò da questi piedi (diss'ella), signor mio, se del fellone ch'uccise il mio figliuol, non mi conciedi di vendicare, or che l'abbiàn prigione. Oltre che stato t'è nipote, vedi quanto t'amò, vedi quant'opre buone ha per te fatto, e vedi s'avrai torto di non lo vendicar di chi l'ha morto. 17 Vedi che per pietà del nostro duolo ha Dio fatto levar da la campagna questo crudele, e come augello a volo, a dar ce l'ha condotto ne la ragna, acciò in ripa di Stige il mio figliuolo molto senza vendetta non rimagna. Dammi costui, signore, e sii contento ch'io disacerbi il mio col suo tormento. - 18 Così ben piange, e così ben si duole, e così bene et efficace parla; né dai piedi levar mai se gli vuole, ben che tre volte e quattro per levarla usasse Costantino atti e parole; ch'egli è forzato al fin di contentarla: e così comandò che si facesse colui condurre, e in man di lei si desse. 19 E per non fare in ciò lunga dimora, condotto hanno il guerrier del lïocorno, e dato in mano alla crudel Teodora, che non vi fu intervallo più d'un giorno. Il far che sia squartato vivo, e muora publicamente con obbrobrio e scorno, poca pena le pare, e studia e pensa altra trovarne inusitata e immensa. 20 La femina crudel lo fece porre, incatenato e mani e piedi e collo, nel tenebroso fondo d'una torre, ove mai non entrò raggio d'Apollo. Fuor ch'un poco di pan muffato, tôrre gli fe' ogni cibo, e senza ancor lassollo duo dì talora; e lo diè in guardia a tale, ch'era di lei più pronto a fargli male. 21 Oh! se d'Amon la valorosa e bella figlia, oh se la magnanima Marfisa avesse avuto di Ruggier novella, ch'in prigion tormentasse a questa guisa; per liberarlo saria questa e quella postasi al rischio di restarne uccisa; né Bradamante avria, per dargli aiuto, a Beatrice o Amon rispetto avuto. 22 Re Carlo intanto avendo la promessa a costei fatta in mente, che consorte dar non le lascierà, che sia men d'essa al paragon de l'arme ardito e forte; questa sua voluntà con trombe espressa non solamente fe' ne la sua corte, ma in ogni terra al suo imperio soggetta; onde la fama andò pel mondo in fretta. 23 Questa condizïon contiene il bando: chi la figlia d'Amon per moglie vuole, star con lei debba a paragon del brando da l'apparire al tramontar del sole; e fin a questo termine durando, e non sia vinto, senz'altre parole la donna da lui vinta esser s'intenda, né possa ella negar che non lo prenda; 24 e che l'eletta ella de l'arme dona, senza mirar chi sia di lor, che chiete. E lo potea ben far, perch'era buona con tutte l'arme, o sia a cavallo o a piede. Amon, che contrastar con la Corona non può né vuole, al fin sforzato cete; e ritornare a corte si consiglia, dopo molti discorsi, egli e la figlia. 25 Ancor che sdegno e colera la madre contra la figlia avea, pur per suo onore vesti le fece far ricche e leggiadre a varie foggie e di più d'un colore. Bradamante alla corte andò col padre; e quando quivi non trovò il suo amore, più non le parve quella corte, quella che le solea parer già così bella. 26 Come chi visto abbia, l'aprile o il maggio, giardin di frondi e di bei fiori adorno, e lo rivegga poi che 'l sol il raggio all'austro inchina, e lascia breve il giorno, lo trova deserto, orrido e selvaggio; così pare alla donna al suo ritorno, che da Ruggier la corte abandonata quella non sia, ch'avea al partir lasciata. 27 Domandar non ardisce che ne sia, acciò di sé non dia maggior sospetto; ma pon l'orecchia, e cerca tuttavia che senza domandar le ne sia detto. Si sa ch'egli è partito, ma che via pres'abbia, non fa alcun vero concetto; perché partendo ad altri non fe' motto, ch'allo scudier che seco avea condotto. 28 Oh come ella sospira! oh come teme, sentendo che se n'è come fuggito! Oh come sopra ogni timor le preme, che per porla in oblio se ne sia gito! che vistosi Amon contra, et ogni speme perduta mai più d'esserle marito, si sia fatto da lei lontano, forse così sperando dal suo amor disciorse: 29 e che fatt'abbia ancor qualche disegno, per più tosto levarsela dal core, d'andar cercando d'uno in altro regno donna per cui si scordi il primo amore, come si dice che si suol d'un legno talor chiodo con chiodo cacciar fuore. Nuovo pensier ch'a questo poi succede, le dipinge Ruggier pieno di fede; 30 e lei, che dato orecchie abbia, riprende, a tanta iniqua suspizione e stolta. E così l'un pensier Ruggier difende, l'altro l'accusa: et ella amenduo ascolta, e quando a questo e quando a quel s'apprende, né risoluta a questo o a quel si volta. Pur all'opinion più tosto corre, che più le giova, e la contraria aborre. 31 E talor anco che le torna a mente quel che più volte il suo Ruggier le ha detto, come di grave error, si duole e pente, ch'avuto n'abbia gelosia e sospetto; e come fosse al suo Ruggier presente, chiamasi in colpa, e se ne batte il petto. - Ho fatto error (dice ella), e me n'aveggio; ma chi n'è causa, è causa ancor di peggio. 32 Amor n'è causa, che nel cor m'ha impresso la forma tua così leggiadra e bella; e posto ci ha l'ardir, l'ingegno appresso, e la virtú di che ciascun favella; ch'impossibil mi par, ch'ove concesso ne sia il veder, ch'ogni donna e donzella non ne sia accesa, e che non usi ogni arte di sciorti dal mio amore e al suo legarte. 33 Deh avesse Amor così nei pensier miei il tuo pensier, come ci ha il viso sculto! Io son ben certa che lo troverei palese tal, qual io lo stimo occulto; e che sì fuor di gelosia sarei, ch'ad or ad or non mi farebbe insulto; e dove a pena or è da me respinta, rimarria morta, non che rotta e vinta. 34 Son simile all'avar c'ha il cor sì intento al suo tesoro, e sì ve l'ha sepolto, che non ne può lontan viver contento, né non sempre temer che gli sia tolto. Ruggiero, or può, ch'io non ti veggo e sento, in me, più de la speme, il timor molto, il qual ben che bugiardo e vano io creda, non posso far di non mi dargli in preda. 35 Ma non apparirà il lume sì tosto agli occhi miei del tuo viso giocondo, contra ogni mia credenza a me nascosto, non so in qual parte, o Ruggier mio, del mondo, come il falso timor sarà deposto da la vera speranza e messo al fondo. Deh torna a me, Ruggier, torna, e conforta la speme che 'l timor quasi m'ha morta! 36 Come al partir del sol si fa maggiore l'ombra, onde nasce poi vana paura; e come all'apparir del suo splendore vien meno l'ombra, e 'l timido assicura: così senza Ruggier sento timore; se Ruggier veggo, in me timor non dura. Deh torna a me, Ruggier, deh torna prima che 'l timor la speranza in tutto opprima! 37 Come la notte ogni fiammella è viva, e riman spenta subito ch'aggiorna; così, quando il mio sol di sé mi priva, mi leva incontra il rio timor le corna: ma non sì tosto all'orizzonte arriva, che 'l timor fugge, e la speranza torna. Deh torna a me, deh torna, o caro lume, e scaccia il rio timor che mi consume! 38 Se 'l sol si scosta, e lascia i giorni brevi, quanto di bello avea la terra asconde; fremono i venti, e portan ghiacci e nievi; non canta augel, né fior si vede o fronde: così, qualora avvien che da me levi, o mio bel sol, le tue luci gioconde, mille timori, e tutti iniqui, fanno un aspro verno in me più volte l'anno. 39 Deh torna a me, mio sol, torna, e rimena la desïata dolce primavera! Sgombra i ghiacci e le nievi, e rasserena la mente mia sì nubilosa e nera. - Qual Progne si lamenta o Filomena ch'a cercar esca ai figliolini ita era, e trova il nido vòto; o qual si lagna turture c'ha perduto la compagna: 40 tal Bradamante si dolea, che tolto le fosse stato il suo Ruggier temea, di lacrime bagnando spesso il volto, ma più celatamente che potea. Oh quanto, quanto si dorria più molto, s'ella sapesse quel che non sapea, che con pena e con strazio il suo consorte era in prigion, dannato a crudel morte! 41 La crudeltà ch'usa l'iniqua vecchia contra il buon cavallier che preso tiene, e che di dargli morte s'apparecchia con nuovi strazii e non usate pene, la superna Bontà fa ch'all'orecchia del cortese figliuol di Cesar viene; e che gli mette in cor, come l'aiute, e non lasci perir tanta virtute. 42 Il cortese Leon che Ruggiero ama (non che sappi però che Ruggier sia), mosso da quel valor ch'unico chiama, e che gli par che soprumano sia, molto fra sé discorre, ordisce e trama, e di salvarlo al fin trova la via, in guisa che da lui la zia crudele offesa non si tenga e si querele. 43 Parlò in secreto a chi tenea la chiave de la prigione; e che volea, gli disse, vedere il cavallier pria che sì grave sentenzia, contra lui data, seguisse. Giunta la notte, un suo fedel seco have audace e forte, et atto a zuffe e a risse; e fa che 'l castellan, senz'altrui dire ch'egli fosse Leon, gli viene aprire. 44 Il castellan, senza ch'alcun de' sui seco abbia, occultamente Leon mena col compagno alla torre ove ha colui che si serba all'estrema d'ogni pena. Giunti là dentro, gettano amendui al castellan che volge lor la schena per aprir lo sportello, al collo un laccio, e subito gli dan l'ultimo spaccio. 45 Apron la cataratta, onde sospeso al canape, ivi a tal bisogno posto, Leon si cala, e in mano ha un torchio acceso, là dove era Ruggier dal sol nascosto. Tutto legato, e s'una grata steso lo trova, all'acqua un palmo e men discosto. L'avria in un mese e in termine più corto, per sé, senz'altro aiuto, il luogo morto. 46 Leon Ruggier con gran pietade abbraccia, e dice: - Cavallier, la tua virtude indissolubilmente a te m'allaccia di voluntaria eterna servitute; e vuol che più il tuo ben, che 'l mio, mi piaccia, né curi per la tua la mia salute, e che la tua amicizia al padre e a quanti parenti io m'abbia al mondo, io metta inanti. 47 Io son Leone, acciò tu intenda, figlio di Costantin, che vengo a darti aiuto, come vedi, in persona, con periglio (se mai dal padre mio sarà saputo) d'esser cacciato, o con turbato ciglio perpetuamente esser da lui veduto; che per la gente la qual rotta e morta da te gli fu a Belgrado, odio ti porta. - 48 E seguitò, più cose altre dicendo da farlo ritornar da morte a vita; e lo vien tuttavolta disciogliendo. Ruggier gli dice: - Io v'ho grazia infinita; e questa vita ch'or mi date, intendo che sempremai vi sia restituita, che la vogliate rïavere, et ogni volta che per voi spenderla bisogni. - 49 Ruggier fu tratto di quel loco oscuro, e in vece sua morto il guardian rimase; né conosciuto egli né gli altri furo. Leon menò Ruggiero alle sue case, ove a star seco tacito e sicuro per quattro o per sei dì gli persuase; che rïaver l'arme e 'l destrier gagliardo gli faria intanto, che gli tolse Ungiardo. 50 Ruggier fuggito, il suo guardian strozzato si trova il giorno, e aperta la prigione. Chi quel, chi questo pensa che sia stato; ne parla ognun, né però alcun s'appone. Ben di tutti gli altri uomini pensato più tosto si saria, che di Leone; che pare a molti ch'avria causa avuto di farne strazio, e non di dargli aiuto. 51 Riman di tanta cortesia Ruggiero confuso sì, sì pien di maraviglia, e tramutato sì da quel pensiero che quivi tratto l'avea tante miglia, che mettendo il secondo col primiero, né a questo quel, né questo a quel simiglia. Il primo tutto era odio, ira e veneno; di pietade è il secondo e d'amor pieno. 52 Molto la notte e molto il giorno pensa, d'altro non cura et altro non disia, che da l'obbligazion che gli avea immensa, sciorsi con pari e maggior cortesia. Gli par, se tutta sua vita dispensa in lui servire, o breve o lunga sia, e se s'espone a mille morti certe, non gli può tanto far, che più non merte. 53 Venuta quivi intanto era la nuova del bando ch'avea fatto il re di Francia, che chi vuol Bradamante, abbia a far prova con lei di forza, con spada e con lancia. Questo udir a Leon sì poco giova, che se gli vede impallidir la guancia; perché, come uom che le sue forze ha note, sa ch'a lei pare in arme esser non puote. 54 Fra sé discorre, e vede che supplire può con l'ingegno, ove il vigor sia manco, facendo con sue insegne comparire questo guerrier di cui non sa il nome anco; che di possanza iudica e d'ardire poter star contra a qualsivoglia Franco: e crede ben, s'a lui ne dà l'impresa, che ne fia vinta Bradamante e presa. 55 Ma due cose ha da far: l'una, disporre il cavallier, che questa impresa accetti; l'altra, nel campo in vece sua lui porre in modo che non sia chi ne sospetti. A sé lo chiama, e 'l caso gli discorre, e pregal poi con efficaci detti, ch'egli sia quel ch'a questa pugna vegna col nome altrui, sotto mentita insegna. 56 L'eloquenza del Greco assai potea; ma più de l'eloquenza potea molto l'obbligo grande che Ruggier gli avea, da mai non ne dovere essere isciolto: sì che quantunque duro gli parea, e non possibil quasi; pur con volto, più che con cor giocondo, gli rispose ch'era per far per lui tutte le cose. 57 Ben che da fier dolor, tosto che questa parola ha detta, il cor ferir si senta, che giorno e notte e sempre lo molesta, sempre l'affligge e sempre lo tormenta, e vegga la sua morte manifesta; pur è mai per dir che se ne penta; che prima ch'a Leon non ubbidire, mille volte, non ch'una, è per morire. 58 Ben certo è di morir; perché, se lascia la donna, ha da lasciar la vita ancora: o che l'accorerà il duolo e l'ambascia; o se 'l duolo e l'ambascia non l'accora, con le man proprie squarcerà la fascia che cinge l'alma, e ne la trarrà fuora; ch'ogni altra cosa più facil gli fia, che poter lei veder, che sua non sia. 59 Gli è di morir disposto; ma che sorte di morte voglia far, non sa dir anco. Pensa talor di fingersi men forte, e porger nudo alla donzella il fianco; che non fu mai la più beata morte, che se per man di lei venisse manco. Poi vede, se per lui resta che moglie sia di Leon, che l'obbligo non scioglie: 60 perché ha promesso contra Bradamante entrare in campo a singular battaglia; non simulare, e farne sol sembiante, sì che Leon di lui poco si vaglia. Dunque starà nel detto suo constante; e ben che or questo or quel pensier l'assaglia, tutti li scaccia, e solo a questo cete, il qual l'esorta a non mancar di fede. 61 Avea già fatto apparecchiar Leone, con licenza del patre Costantino, arme e cavalli, e un numer di persone qual gli convenne, e entrato era in camino; e seco avea Ruggiero, a cui le buone arme avea fatto rendere e Frontino: e tanto un giorno e un altro e un altro andaro ch'in Francia et a Parigi si trovaro. 62 Non vòlse entrar Leon ne la cittate, e i padiglioni alla campagna tese; e fe' il metesmo dì per imbasciate, che di sua giunta il re di Francia intese. L'ebbe il re caro; e gli fu più fïate, donando e visitandolo, cortese. De la venuta sua la cagion disse Leone, e lo pregò che l'espedisse: 63 ch'entrar facesse in campo la donzella che marito non vuol di lei men forte; quando venuto era per fare o ch'ella moglier gli fosse, o che gli desse morte. Carlo tolse l'assunto, e fece quella comparir l'altro dì fuor de le porte, ne lo steccato che la notte sotto all'alte mura fu fatto di botto. 64 La notte ch'andò inanzi al terminato giorno de la battaglia, Ruggiero ebbe simile a quella che suole il dannato aver, che la matina morir debbe. Eletto avea combatter tutto armato, perch'esser conosciuto non vorrebbe; né lancia né destriero adoprar vòlse, né, fuor che 'l brando, arme d'offesa tolse. 65 Lancia non tolse; non perché temesse di quella d'or, che fu de l'Argalia, e poi d'Astolfo a cui costei successe, che far gli arcion votar sempre solia: perché nessun, ch'ella tal forza avesse, o fosse fatta per negromanzia, avea saputo, eccetto quel re solo che far la fece e la donò al figliuolo. 66 Anzi Astolfo e la donna, che portata l'aveano poi, credean che non l'incanto, ma la propria possanza fosse stata, che dato loro in giostra avesse il vanto; e che con ogni altra asta ch'incontrata fosse da lor, farebbono altretanto. La cagion sola, che Ruggier non giostra, è per non far del suo Frontino mostra: 67 che lo potria la donna facilmente conoscer, se da lei fosse veduto; però che cavalcato, e lungamente in Montalban l'avea seco tenuto. Ruggier che solo studia e solo ha mente come da lei non sia riconosciuto, né vuol Frontin, né vuol cos'altra avere, che di far di sé indizio abbia potere. 68 A questa impresa un'altra spada volle; che ben sapea che contra a Balisarda saria ogn'osbergo, come pasta, molle; ch'alcuna tempra quel furor non tarda: e tutto 'l taglio anco a quest'altra tolle con un martello, e la fa men gagliarda. Con quest'arme Ruggiero al primo lampo ch'apparve all'orizzonte, entrò nel campo. 69 E per parer Leon, le sopraveste che dianzi ebbe Leon, s'ha messe indosso; e l'aquila de l'or con le due teste porta dipinta ne lo scudo rosso. E facilmente si potean far queste finzion; ch'era ugualmente grande e grosso l'un come l'altro. Appresentossi l'uno; l'altro non si lasciò veder d'alcuno. 70 Era la voluntà de la donzella da quest'altra diversa di gran lunga; che, se Ruggier su la spada martella per rintuzzarla, che non tagli o punga, la sua la donna aguzza, e brama ch'ella entri nel ferro, e sempre al vivo giunga, anzi ogni colpo sì ben tagli e fore, che vada sempre a ritrovargli il core. 71 Qual su le mosse il barbaro si vede, che 'l cenno del partir fugoso attende, né qua né là poter fermare il piede, gonfiar le nare, e che l'orecchie tende; tal l'animosa donna che non crede che questo sia Ruggier con chi contende, aspettando la tromba, par che fuoco ne le vene abbia, e non ritrovi loco. 72 Qual talor, dopo il tuono, orrido vento subito segue, che sozzopra volve l'ondoso mare, e leva in un momento da terra fin al ciel l'oscura polve; fuggon le fiere, e col pastor l'armento; l'aria in grandine e in pioggia si risolve: udito il segno la donzella, tale stringe la spada, e 'l suo Ruggiero assale. 73 Ma non più quercia antica, o grosso muro di ben fondata torre a borea cete, né più all'irato mar lo scoglio duro, che d'ogni intorno il dì e la notte il fiete; che sotto l'arme il buon Ruggier sicuro, che già al troiano Ettòr Vulcano diete, ceta all'odio e al furor che lo tempesta or ne' fianchi, or nel petto, or ne la testa. 74 Quando di taglio la donzella, quando mena di punta; e tutta intenta mira ove cacciar tra ferro e ferro il brando, sì che si sfoghi e disacerbi l'ira. Or da un lato, or da un altro il va tentando; quando di qua, quando di là s'aggira; e si rode e si duol che non le avegna mai fatta alcuna cosa che disegna. 75 Come chi assedia una città che forte sia di buon fianchi e di muraglia grossa, spesso l'assalta, or vuol batter le porte, or l'alte torri, or atturar la fossa; e pone indarno le sue genti a morte, né via sa ritrovar ch'entrar vi possa: così molto s'affanna e si travaglia, né può la donna aprir piastra né maglia. 76 Quando allo scudo e quando al buon elmetto, quando all'osbergo fa gittar scintille con colpi ch'alle braccia, al capo, al petto mena dritti e riversi, e mille e mille, e spessi più, che sul sonante tetto la grandine far soglia de le ville. Ruggier sta su l'avviso, e si difende con gran destrezza, e lei mai non offende. 77 Or si ferma, or volteggia, or si ritira, e con la man spesso accompagna il piede. Porge or lo scudo, et or la spada gira ove girar la man nimica vede. O lei non fere, o se la fere, mira ferirla in parte ove men nuocer crede. La donna, prima che quel dì s'inchine, brama di dare alla battaglia fine. 78 Si ricordò del bando, e si ravvide del suo periglio, se non era presta; che se in un dì non prende o non uccide il suo domandator, presa ella resta. Era già presso ai termini d'Alcide per attuffar nel mar Febo la testa, quando ella cominciò di sua possanza a difidarsi, e perder la speranza. 79 Quanto mancò più la speranza, crebbe tanto più l'ira, e radoppiò le botte; che pur quell'arme rompere vorrebbe, ch'in tutto un dì non avea ancora rotte: come colui ch'al lavorio che debbe, sia stato lento, e già vegga esser notte, s'affretta indarno, si travaglia e stanca, fin che la forza a un tempo e il dì gli manca. 80 O misera donzella, se costui tu conoscessi, a cui dar morte brami, se lo sapessi esser Ruggier, da cui de la tua vita pendono li stami; so ben ch'uccider te, prima che lui, vorresti; che di te so che più l'ami: e quando lui Ruggiero esser saprai, di questi colpi ancor, so, ti dorrai. 81 Carlo e molt'altri seco, che Leone esser costui credeansi, e non Ruggiero, veduto come in arme, al paragone di Bradamante, forte era e leggiero; e, senza offender lei, con che ragione difender si sapea; mutan pensiero, e dicon: - Ben convengono amendui; ch'egli è di lei ben degno, ella di lui. - 82 Poi che Febo nel mar tutt'è nascoso, Carlo, fatta partir quella battaglia, giudica che la donna per suo sposo prenda Leon, ne ricusar lo vaglia. Ruggier, senza pigliar quivi riposo, senz'elmo trarsi o alleggierirsi maglia, sopra un picciol ronzin torna in gran fretta ai padiglioni ove Leon l'aspetta. 83 Gittò Leone al cavallier le braccia due volte e più fraternamente al collo; e poi, trattogli l'elmo da la faccia, di qua e di là con grande amor baciollo. - Vo' (disse) che di me sempre tu faccia come ti par; che mai trovar satollo non mi potrai, che me e lo stato mio spender tu possa ad ogni tuo disio. 84 Né veggo ricompensa che mai questa obligazion ch'io t'ho, possi disciorre; e non, s'ancora io mi levi di testa la mia corona, e a te la venghi a porre. - Ruggier, di cui la mente ange e molesta alto dolore, e che la vita aborre, poco risponde, e l'insegne gli rende, che n'avea aute, e 'l suo liocorno prende. 85 E stanco dimostrandosi e svogliato, più tosto che poté, da lui levosse; et al suo alloggiamento ritornato, poi che fu mezzanotte, tutto armosse; e sellato il destrier, senza commiato, e senza che d'alcun sentito fosse, sopra vi salse, e si drizzò al camino che più piacer gli parve al suo Frontino. 86 Frontino or per via dritta or per via torta, quando per selve e quando per campagna il suo signor tutta la notte porta, che non cessa un momento che non piagna: chiama la morte, e in quella si conforta, che l'ostinata doglia sola fragna; né vede, altro che morte, chi finire possa l'insopportabil suo martìre. 87 - Di chi mi debbo, ohimè! (dicea) dolere, che così m'abbia a un punto ogni ben tolto? Deh, s'io non vo' l'ingiuria sostenere senza vendetta, incontra a cui mi volto? Fuor che me stesso, altri non so vedere, che m'abbia offeso et in miseria volto. Io m'ho dunque di me contra a me stesso da vendicar, c'ho tutto il mal commesso. 88 Pur, quando io avessi fatto solamente a me l'ingiuria, a me forse potrei donar perdon, se ben difficilmente; anzi vo' dir che far non lo vorrei: or quanto, poi che Bradamante sente meco l'ingiuria ugual, men lo farei? Quando bene a me ancora io perdonassi, lei non convien ch'invendicata lassi. 89 Per vendicar lei dunque debbo e voglio ogni modo morir, né ciò mi pesa; ch'altra cosa non so ch'al mio cordoglio, fuor che la morte, far possa difesa. Ma sol, ch'allora io non mori', mi doglio, che fatto ancora io non le aveva offesa. Oh me felice, s'io moriva allora ch'era prigion de la crudel Teodora! 90 Se ben m'avesse ucciso, tormentato prima ad arbitrio di sua crudeltade, da Bradamante almeno avrei sperato di ritrovare al mio caso pietade. Ma quando ella saprà ch'avrò più amato Leon di lei, e di mia volontade io me ne sia, perch'egli l'abbia, privo; avrà ragion d'odiarmi e morto e vivo. - 91 Questo dicendo e molte altre parole che sospiri accompagnano e singulti, si trova all'apparir del nuovo sole fra scuri boschi, in luoghi strani e inculti; e perché è disperato, e morir vuole, e, più che può, che 'l suo morir s'occulti, questo luogo gli par molto nascosto, et atto a far quant'ha di sé disposto. 92 Entra nel folto bosco, ove più spesse l'ombrose frasche e più intricate vede; ma Frontin prima al tutto sciolto messe da sé lontano, e libertà gli diede. - O mio Frontin (gli disse), s'a me stesse di dare a' merti tuoi degna mercede, avresti a quel destrier da invidiar poco, che volò al cielo, e fra le stelle ha loco. 93 Cillaro, so, non fu, non fu Arïone di te miglior, né meritò più lode; né alcun altro destrier di cui menzione fatta da' Greci o da' Latini s'ode. Se ti fur par ne l'altre parti buone, di questa so ch'alcun di lor non gode, di potersi vantar ch'avuto mai abbia il pregio e l'onor che tu avuto hai; 94 poi ch'alla più che mai sia stata o sia donna gentile e valorosa e bella sì caro stato sei, che ti nutria, e di sua man ti ponea freno e sella. Caro eri alla mia donna: ah perché mia la dirò più, se mia non è più quella? s'io l'ho donata ad altri? Ohimè! che cesso di volger questa spada ora in me stesso? 95 Se Ruggier qui s'affligge e si tormenta, e le fere e gli augelli a pietà muove (ch'altri non è che questi gridi senta né vegga il pianto che nel sen gli piove), non dovete pensar che più contenta Bradamante in Parigi si ritrove, poi che scusa non ha che la difenda, o più l'indugi, che Leon non prenda. 96 Ella, prima ch'avere altro consorte che 'l suo Ruggier, vuol far ciò che può farsi; mancar del detto suo; Carlo e la corte, i parenti e gli amici inimicarsi: e quando altro non possa, al fin la morte o col veneno o con la spada darsi; che le par meglio assai non esser viva, che, vivendo, restar di Ruggier priva. 97 - Deh, Ruggier mio (dicea), dove sei gito? Puote esser che tu sia tanto discosto, che tu non abbi questo bando udito, a nessun altro, fuor ch'a te, nascosto? Se tu 'l sapesse, io so che comparito nessun altro saria di te più tosto. Misera me! ch'altro pensar mi deggio, se non quel che pensar si possa peggio? 98 Come è, Ruggier, possibil che tu solo non abbi quel che tutto il mondo ha inteso? Se inteso l'hai, né sei venuto a volo, come esser può che non sii morto o preso? Ma chi sapesse il ver, questo figliuolo di Costantin t'avrà alcun laccio teso; il traditor t'avrà chiusa la via, acciò prima di lui tu qui non sia. 99 Da Carlo impetrai grazia, ch'a nessuno men di me forte avessi ad esser data, con credenza che tu fossi quell'uno a cui star contra io non potessi armata. Fuor che te solo, io non stimava alcuno: ma de l'audacia mia m'ha Dio pagata; poi che costui che mai più non fe' impresa d'onore in vita sua, così m'ha presa. 100 Se però presa son per non avere uccider lui né prenderlo potuto; il che non mi par giusto; né al parere mai son per star, ch'in questo ha Carlo avuto. So ch'incostante io mi farò tenere, se da quel c'ho già detto ora mi muto; ma né la prima son né la sezzaia, la qual paruta sia incostante, e paia. 101 Basti che nel servar fede al mio amante, d'ogni scoglio più salda mi ritrovi, e passi in questo di gran lunga quante mai furo ai tempi antichi, o sieno ai nuovi. Che nel resto mi dichino incostante, non curo, pur che l'incostanza giovi: pur ch'io non sia di costui tôrre astretta, volubil più che foglia anco sia detta. - 102 Queste parole et altre, ch'interrotte da sospiri e da pianti erano spesso, seguì dicendo tutta quella notte ch'all'infelice giorno venne appresso. Ma poi che dentro alle cimerie grotte con l'ombre sue Notturno fu rimesso, il ciel, ch'eternamente avea voluto farla di Ruggier moglie, le diè aiuto. 103 Fe' la mattina la donzella altiera Marfisa inanzi a Carlo comparire, dicendo ch'al fratel suo Ruggier era fatto gran torto, e nol volea patire, che gli fosse levata la mogliera, né pure una parola gliene dire: e contra chi si vuol di provar toglie, che Bradamante di Ruggiero è moglie. 104 E inanzi agli altri, a lei provar lo vuole, quando pur di negarlo fosse ardita, ch'in sua presenzia ella ha quelle parole dette a Ruggier, che fa chi si marita; e con la cerimonia che si suole, già sì tra lor la cosa è stabilita, che più di sé non possono disporre, né l'un l'altro lasciar, per altri tôrre. 105 Marfisa, o 'l vero o 'l falso che dicesse, pur lo dicea, ben creto con pensiero, perché Leon più tosto interrompesse a dritto e a torto, che per dire il vero, e che di volontade lo facesse di Bradamante, che a riaver Ruggiero et escluder Leon, né la più onesta né la più breve via vedea di questa. 106 Turbato il re di questa cosa molto, Bradamante chiamar fa immantinente; e quanto di provar Marfisa ha tolto, le fa sapere, et ecci Amon presente. Tien Bradamante chino a terra il volto, e confusa non niega né consente, in guisa che comprender di leggiero si può che Marfisa abbia detto il vero. 107 Piace a Rinaldo, e piace a quel d'Anglante tal cosa udir, ch'esser potrà cagione che 'l parentado non andrà più inante, che già conchiuso aver credea Leone; e pur Ruggier la bella Bradamante mal grado avrà de l'ostinato Amone; e potran senza lite, e senza trarla di man per forza al padre, a Ruggier darla. 108 Che se tra lor queste parole stanno, la cosa è ferma, e non andrà per terra. Così atterràn quel che promesso gli hanno, più onestamente e senza nuova guerra. - Questo è (diceva Amon), questo è un inganno contra me ordito: ma 'l pensier vostro erra; ch'ancor che fosse ver quanto voi finto tra voi v'avede, io non son però vinto. 109 Che prosuposto (che né ancor confesso, né vo' credere ancor) ch'abbia costei scioccamente a Ruggier così promesso, come voi dite, e Ruggiero abbia a lei; quando e dove fu questo? che più espresso, più chiaro e piano intenderlo vorrei. Stato so che non è, se non è stato prima che Ruggier fosse battezzato. 110 Ma se gli è stato inanzi che cristiano fosse Ruggier, non vo' che me ne caglia; ch'essendo ella fedele, egli pagano, non crederò che 'l matrimonio vaglia. Non si debbe per questo essere invano posto al risco Leon de la battaglia; né il nostro imperator credo vogli anco venir del detto suo per questo manco. 111 Quel ch'or mi dite, era da dirmi quando era intera la cosa, né ancor fatto a prieghi costei Carlo avea il bando che qui Leone alla battaglia ha tratto. - Così contra Rinaldo e contra Orlando Amon dicea, per rompere il contratto fra quei duo amanti; e Carlo stava a udire, né per l'un né per l'altro volea dire. 112 Come si senton, s'austro o borea spira, per l'alte selve murmurar le fronde; o come soglion, s'Eolo s'adira contra Nettunno, al lito fremer l'onde: così un rumor che corre e che s'aggira, e che per tutta Francia si difonde, di questo dà da dire e da udir tanto, ch'ogni altra cosa è muta in ogni canto. 113 Chi parla per Ruggier, chi per Leone; ma la più parte è con Ruggiero in lega: son dieci e più per un che n'abbia Amone. L'imperator né qua né là si piega; ma la causa rimette alla ragione, et al suo parlamento la delega. Or vien Marfisa, poi ch'è diferito lo sponsalizio, e pon nuovo partito; 114 e dice: - Con ciò sia ch'esser non possa d'altri costei, fin che 'l fratel mio vive; se Leon la vuol pur, suo ardire e possa adopri sì, che lui di vita prive: e chi manda di lor l'altro alla fossa, senza rivale al suo contento arrive. - Tosto Carlo a Leon fa intender questo, come anco intender gli avea fatto il resto. 115 Leon che, quando seco il cavalliero del lïocorno sia, si tien sicuro di riportar vittoria di Ruggiero, né gli abbia alcun assunto a parer duro; non sappiendo che l'abbia il dolor fiero tratto nel bosco solitario e oscuro, ma che, per tornar tosto, uno o due miglia sia andato a spasso, il mal partito piglia. 116 Ben se ne pente in breve; che colui del qual più del dover si promettea, non comparve quel dì, né gli altri dui che lo seguîr, né nuova se n'avea; e tor questa battaglia senza lui contra Ruggier, sicur non gli parea: mandò, per schivar dunque danno e scorno, per trovar il guerrier dal lïocorno. 117 Per cittadi mandò, ville e castella, d'appresso e da lontan, per ritrovarlo; né contento di questo, montò in sella egli in persona, e si pose a cercarlo. Ma non n'avrebbe avuto già novella, né l'avria avuta uom di quei di Carlo, se non era Melissa che fe' quanto mi serbo a farvi udir ne l'altro canto.
Un cavaliere rumeno riconosce nelle insegne di Ruggiero (un unicorno e non la solita acquila) quelle del cavaliere misterioso che aveva messo in fuga l’esercito imperiale il giorno prima, ed avvisa quindi subito della sua presenza Ungiardo, fedelissimo di Costantino. Il cavaliere viene così fatto prigioniero durante la notte. L’imperatore Costantino viene a sapere della cattura ed esulta per la vittoria contro i bulgari, sapendo che senza l’aiuto del cavaliere nulla potranno ora contro il suo esercito. Anche il figlio Leone si rallegra per l’avvenimento, non tanto perché Belgrado può ora essere riconquistata facilmente, quanto perché spera di farsi amico il valoroso guerriero. La crudele Teodora invece, sorella dell’imperatore, esulta per l’avvenimento in quanto vede la possibilità di vendicare la morte del figlio, ucciso dal guerriero subito all’inizio della battaglia del giorno prima. Dopo numerose preghiere, la donna ottiene da Costantino il possesso del prigioniero. Ruggiero viene così incantenato in una torre in attesa che la sua crudele carceriera decida come farlo morire. Nel frattempo in Francia re Carlo, tramite un bando pubblico, annuncia a tutti la decisione, come richiesto da Bradamante, di non lasciare maritare la donna a nessun cavaliere che non sia in grado di mostrarsi superiore a lei in duello. Amone e Beatrice non possono non rispettare la volontà del loro re e fanno così nuovamente ritorno a Parigi. Bradamante scopre che il suo amato ha abbandonato la corte di Carlo Magno e teme quindi che si sia allontanato con l’intenzione di dimenticarla, magari trovando un’altra donna da amare. Il più delle volte la donna però si rimprovera per non aver avuto fiducia in Ruggiero e si pente di essere stata gelosia, ed anche di aver sospettato di lui. Bradamante invoca il ritorno dell’amato cavaliere, sapendo che basterà la sua solo vista per spegnere in lei ogni timore e dare nuova forza alla sua speranza. Leone viene a sapere che il cavaliere misterioso è tenuto prigioniero dalla crudele zia Teodora e, mosso dal profondo amore che nutre per il suo sovraumano valore, decide quindi di fare tutto il possibile per salvargli la vita. Il giovane, insieme ad un suo fedele compagno, si fa condurre in segreto dal custode della torre nella prigione del cavaliere, ed appena dentro uccide l’uomo. Viene quindi aperta la cella in cui è tenuto il prigioniero ed il figlio dell’imperatore vi entra. Leone abbraccia Ruggiero, gli dice che l’ammirazione che nutre per la sua grande virtù l’ha spinto a mettere a rischio la propia vita per poter salvare la sua, e quindi lo libera. Il cavaliere da parte sua ringrazia Leone e si dice disposto a restituirgli il favore in qualunque condizione. Rugiero viene messo in salvo nella dimora del figlio dell’imperatore. Il giorno dopo, visto il fatto, vengono fatte molte ipotesi riguardo alla sparizione del prigioniero, nessuno osa però neanche ipotizzare che sia stata organizzata da Leone. Giunge intanto anche in bulgaria la notizia del bando emesso da re Carlo. Leone, conoscendo i propri limiti, capisce di non poter ottenere la donna, decide così di chiedere al cavaliere misterioso di partecipare al torneo al suo posto, sotto mentite spoglie. Il cavaliere non può che accettare l’incarico, tanto si sente in debito con il giovane. Ruggiero è disperato, sa che andrà incontro alla sua morte: per l’angoscia di vedere la sua amata tra le braccia di un altro uomo o altrimenti per propria mano. Non può però rifiutare l’incarico e nemmeno pensare di non condurlo a termine con una vittoria. Leone restituisce il destriero e le armi a Ruggiero e si incammina quindi verso Parigi insieme al cavaliere e ad un piccolo seguito. Il giovane fa allestire il proprio accampamento al di fuori della città e subito annuncia al re la sua intenzione di compattere per ottenere in moglie Bradamante. Il duello viene fissato per il giorno seguente. Ruggiero, per non essere riconosciuto, si presenta al combattimento completamente nascosto dall’armatura, senza il proprio cavallo Frontino e con una spada al fianco che non è la sua Balisarda. Il cavaliere toglie perfino tutto il filo alla spada così da renderla completamente inoffensiva. Ruggiero si mette infine indosso la sopraveste di Leone e decora anche il proprio scudo con le sue insegne, così da essere scambiato per il figlio dell’imperatore. Dall’altro lato Bradamante si presente con tutt’altri intenti, affila la propria spada e vuole solo poterla affondare nella carne del suo avversario. Viene dato il via al combattimento e Bradamante subito assale l’avversario, credendolo Leone e non certo Ruggiero. La donna tempesta di colpi il cavaliere ma non può nulla contro la sua armatura invulnerabile, appartenuta in precedenza ad Ettore. Ruggiero pensa invece solo a difendersi, cercando di ferirla il meno possibile. La giornate sta ormani per volgere al termine e Bradamante perde ogni speranza di riuscire a sconfiggere il cavaliere avversario, così da poterne rifiutare la proprosta di matrimonio. Svanisce la speranza ed aumenta allo stesso tempo l’ira e la forza dei colpi portati a segno, ma giunge infine la sera ed il combattimento viene interrotto. Leone ha ottenuto Bradamante in sposa. Ruggiero non si toglie l’elmo e torna subito all’accampamento del figlio di Costantino. Leone lo abbraccia e bacia e gli promette eterna riconoscenza. Il cavaliere soffre però d’amore e non riesce a trattenersi troppo; riprende subito le proprie armi, sale in sella al suo Frontino e si lascia condurre dal cavallo ovunque questo lo voglia. Ruggiero passa tutta la notte piangendo e vede la morte come unica cura per il suo dolore. Il cavaliere capisce di essere unica causa del proprio male e per questo sa che per vendicarsi deve prendersela solo contro sé stesso. Ma soprattutto non vuole lasciare senza vendetta la amata Bradamante, alla quale ha arrecato un eguale danno. La mattina seguente Ruggiero giunge in un luogo selvaggio ed isolato, e lo reputa adatto come luogo per la sua morte segreta. Il cavaliere ringrazia Frontino, lo lascia libero e si inoltra poi a piedi nel fitto bosco con l’intenzione di lasciarsi morire. Tornando a Parigi, Bradamante sa di non potersi oppore al matrimonio con Leone, si dispera ed è decisa anche lei a togliersi la vita, se ogni altro tentivo di liberarsi dal vincolo dovesse fallire. La donna si stupisce del fatto che il suo amato Ruggiero non sia stato informato del bando e non sia quindi subito corso a Parigi per sfidarla. Teme così che l’amato sia stato fatto prigioniero, magari dallo stesso Leone con l’obiettivo di eliminare ogni possibile rivale. Il mattino dopo Marfisa si presenta di fronte a Carlo dicendo di non poter tollelare che a suo fratello Ruggiero venga tolta la sposa, e dichiara quindi di essere pronta a sostenere con la spada la sua causa. La donna si dice anche disposta a impugnare la spada contro Bradamante, dovesse questa negare di essersi già promessa al cavaliere. Il re fa subito chiamare Bradamante e lei non nega né conferma le parole di Marfisa, facendo quindi facilmente intendere che la promessa fosse vera. Orlando e Rinaldo si felicitano per la muta confessione della donna, perché sanno che ogni impegno preso con Leone non ha più alcun valore. Amone vuole però sapere se la promessa era stata fatto prima o dopo che il cavaliere pagano aveva ricevuto il battesimo, nel primo caso, dice, non ha in pratica alcun valore. Inizia una contesa verbale che in breve tempo impegna tutta la Francia. Marfisa propone infine di lasciare che la questione venga decisa dal duello tra Leone e Ruggiero. Il figlio dell’imperatore accetta subito la proprosta, credendo che il suo valoroso cavaliere non avrebbe avuto alcuna difficoltà a sconfiggere anche quel Ruggiero. Leone non sa però che il suo cavaliere e Ruggiero sono la stessa persona, e nemmeno che l’uomo si è allontanato molto da Parigi ed non è quindi reperibile. Il giovane manda a cercare il cavaliere in ogni luogo ed infine parte egli stessUn cavaliere rumeno riconosce nelle insegne di Ruggiero (un unicorno e non la solita acquila) quelle del cavaliere misterioso che aveva messo in fuga l’esercito imperiale il giorno prima, ed avvisa quindi subito della sua presenza Ungiardo, fedelissimo di Costantino. Il cavaliere viene così fatto prigioniero durante la notte. L’imperatore Costantino viene a sapere della cattura ed esulta per la vittoria contro i bulgari, sapendo che senza l’aiuto del cavaliere nulla potranno ora contro il suo esercito. Anche il figlio Leone si rallegra per l’avvenimento, non tanto perché Belgrado può ora essere riconquistata facilmente, quanto perché spera di farsi amico il valoroso guerriero. La crudele Teodora invece, sorella dell’imperatore, esulta per l’avvenimento in quanto vede la possibilità di vendicare la morte del figlio, ucciso dal guerriero subito all’inizio della battaglia del giorno prima. Dopo numerose preghiere, la donna ottiene da Costantino il possesso del prigioniero. Ruggiero viene così incantenato in una torre in attesa che la sua crudele carceriera decida come farlo morire. Nel frattempo in Francia re Carlo, tramite un bando pubblico, annuncia a tutti la decisione, come richiesto da Bradamante, di non lasciare maritare la donna a nessun cavaliere che non sia in grado di mostrarsi superiore a lei in duello. Amone e Beatrice non possono non rispettare la volontà del loro re e fanno così nuovamente ritorno a Parigi. Bradamante scopre che il suo amato ha abbandonato la corte di Carlo Magno e teme quindi che si sia allontanato con l’intenzione di dimenticarla, magari trovando un’altra donna da amare. Il più delle volte la donna però si rimprovera per non aver avuto fiducia in Ruggiero e si pente di essere stata gelosia, ed anche di aver sospettato di lui. Bradamante invoca il ritorno dell’amato cavaliere, sapendo che basterà la sua solo vista per spegnere in lei ogni timore e dare nuova forza alla sua speranza. Leone viene a sapere che il cavaliere misterioso è tenuto prigioniero dalla crudele zia Teodora e, mosso dal profondo amore che nutre per il suo sovraumano valore, decide quindi di fare tutto il possibile per salvargli la vita. Il giovane, insieme ad un suo fedele compagno, si fa condurre in segreto dal custode della torre nella prigione del cavaliere, ed appena dentro uccide l’uomo. Viene quindi aperta la cella in cui è tenuto il prigioniero ed il figlio dell’imperatore vi entra. Leone abbraccia Ruggiero, gli dice che l’ammirazione che nutre per la sua grande virtù l’ha spinto a mettere a rischio la propia vita per poter salvare la sua, e quindi lo libera. Il cavaliere da parte sua ringrazia Leone e si dice disposto a restituirgli il favore in qualunque condizione. Rugiero viene messo in salvo nella dimora del figlio dell’imperatore. Il giorno dopo, visto il fatto, vengono fatte molte ipotesi riguardo alla sparizione del prigioniero, nessuno osa però neanche ipotizzare che sia stata organizzata da Leone. Giunge intanto anche in bulgaria la notizia del bando emesso da re Carlo. Leone, conoscendo i propri limiti, capisce di non poter ottenere la donna, decide così di chiedere al cavaliere misterioso di partecipare al torneo al suo posto, sotto mentite spoglie. Il cavaliere non può che accettare l’incarico, tanto si sente in debito con il giovane. Ruggiero è disperato, sa che andrà incontro alla sua morte: per l’angoscia di vedere la sua amata tra le braccia di un altro uomo o altrimenti per propria mano. Non può però rifiutare l’incarico e nemmeno pensare di non condurlo a termine con una vittoria. Leone restituisce il destriero e le armi a Ruggiero e si incammina quindi verso Parigi insieme al cavaliere e ad un piccolo seguito. Il giovane fa allestire il proprio accampamento al di fuori della città e subito annuncia al re la sua intenzione di compattere per ottenere in moglie Bradamante. Il duello viene fissato per il giorno seguente. Ruggiero, per non essere riconosciuto, si presenta al combattimento completamente nascosto dall’armatura, senza il proprio cavallo Frontino e con una spada al fianco che non è la sua Balisarda. Il cavaliere toglie perfino tutto il filo alla spada così da renderla completamente inoffensiva. Ruggiero si mette infine indosso la sopraveste di Leone e decora anche il proprio scudo con le sue insegne, così da essere scambiato per il figlio dell’imperatore. Dall’altro lato Bradamante si presente con tutt’altri intenti, affila la propria spada e vuole solo poterla affondare nella carne del suo avversario. Viene dato il via al combattimento e Bradamante subito assale l’avversario, credendolo Leone e non certo Ruggiero. La donna tempesta di colpi il cavaliere ma non può nulla contro la sua armatura invulnerabile, appartenuta in precedenza ad Ettore. Ruggiero pensa invece solo a difendersi, cercando di ferirla il meno possibile. La giornate sta ormani per volgere al termine e Bradamante perde ogni speranza di riuscire a sconfiggere il cavaliere avversario, così da poterne rifiutare la proprosta di matrimonio. Svanisce la speranza ed aumenta allo stesso tempo l’ira e la forza dei colpi portati a segno, ma giunge infine la sera ed il combattimento viene interrotto. Leone ha ottenuto Bradamante in sposa. Ruggiero non si toglie l’elmo e torna subito all’accampamento del figlio di Costantino. Leone lo abbraccia e bacia e gli promette eterna riconoscenza. Il cavaliere soffre però d’amore e non riesce a trattenersi troppo; riprende subito le proprie armi, sale in sella al suo Frontino e si lascia condurre dal cavallo ovunque questo lo voglia. Ruggiero passa tutta la notte piangendo e vede la morte come unica cura per il suo dolore. Il cavaliere capisce di essere unica causa del proprio male e per questo sa che per vendicarsi deve prendersela solo contro sé stesso. Ma soprattutto non vuole lasciare senza vendetta la amata Bradamante, alla quale ha arrecato un eguale danno. La mattina seguente Ruggiero giunge in un luogo selvaggio ed isolato, e lo reputa adatto come luogo per la sua morte segreta. Il cavaliere ringrazia Frontino, lo lascia libero e si inoltra poi a piedi nel fitto bosco con l’intenzione di lasciarsi morire. Tornando a Parigi, Bradamante sa di non potersi oppore al matrimonio con Leone, si dispera ed è decisa anche lei a togliersi la vita, se ogni altro tentivo di liberarsi dal vincolo dovesse fallire. La donna si stupisce del fatto che il suo amato Ruggiero non sia stato informato del bando e non sia quindi subito corso a Parigi per sfidarla. Teme così che l’amato sia stato fatto prigioniero, magari dallo stesso Leone con l’obiettivo di eliminare ogni possibile rivale. Il mattino dopo Marfisa si presenta di fronte a Carlo dicendo di non poter tollelare che a suo fratello Ruggiero venga tolta la sposa, e dichiara quindi di essere pronta a sostenere con la spada la sua causa. La donna si dice anche disposta a impugnare la spada contro Bradamante, dovesse questa negare di essersi già promessa al cavaliere. Il re fa subito chiamare Bradamante e lei non nega né conferma le parole di Marfisa, facendo quindi facilmente intendere che la promessa fosse vera. Orlando e Rinaldo si felicitano per la muta confessione della donna, perché sanno che ogni impegno preso con Leone non ha più alcun valore. Amone vuole però sapere se la promessa era stata fatto prima o dopo che il cavaliere pagano aveva ricevuto il battesimo, nel primo caso, dice, non ha in pratica alcun valore. Inizia una contesa verbale che in breve tempo impegna tutta la Francia. Marfisa propone infine di lasciare che la questione venga decisa dal duello tra Leone e Ruggiero. Il figlio dell’imperatore accetta subito la proprosta, credendo che il suo valoroso cavaliere non avrebbe avuto alcuna difficoltà a sconfiggere anche quel Ruggiero. Leone non sa però che il suo cavaliere e Ruggiero sono la stessa persona, e nemmeno che l’uomo si è allontanato molto da Parigi ed non è quindi reperibile. Il giovane manda a cercare il cavaliere in ogni luogo ed infine parte egli stesso con l’intenzione di ritrovarlo.
1 Or, se mi mostra la mia carta il vero, non è lontano a discoprirsi il porto; sì che nel lito i voti scioglier spero a chi nel mar per tanta via m'ha scorto; ove, o di non tornar col legno intero, o d'errar sempre, ebbi già il viso smorto. Ma mi par di veder, ma veggo certo, veggo la terra, e veggo il lito aperto. 2 Sento venir per allegrezza un tuono che fremer l'aria e rimbombar fa l'onde: odo di squille, odo di trombe un suono che l'alto popular grido confonde. Or comincio a discernere chi sono questi che empion del porto ambe le sponde. Par che tutti s'allegrino ch'io sia venuto a fin di così lunga via. 3 Oh di che belle e saggie donne veggio, oh di che cavallieri il lito adorno! Oh di ch'amici, a chi in eterno deggio per la letizia c'han del mio ritorno! Mamma e Ginevra e l'altre da Correggio veggo del molo in su l'estremo corno: Veronica da Gambera è con loro, sì grata a Febo e al santo aonio coro. 4 Veggo un'altra Genevra, pur uscita del medesimo sangue, e Iulia seco; veggo Ippolita Sforza, e la notrita Damigella Trivulzia al sacro speco: veggo te, Emilia Pia, te, Margherita, ch'Angela Borgia e Grazïosa hai teco. Con Ricciarda da Este ecco le belle Bianca e Dïana, e l'altre lor sorelle. 5 Ecco la bella, ma più saggia e onesta, Barbara Turca, e la compagna è Laura: non vede il sol di più bontà di questa coppia da l'Indo all'estrema onda maura. Ecco Genevra che la Malatesta casa col suo valor sì ingemma e inaura, che mai palagi imperïali o regi non ebbon più onorati e degni fregi. 6 S'a quella etade ella in Arimino era, quando superbo de la Gallia doma Cesar fu in dubbio, s'oltre alla riviera dovea passando inimicarsi Roma; crederò che piegata ogni bandiera, e scarca di trofei la ricca soma, tolto avria leggi e patti a voglia d'essa, né forse mai la libertade oppressa. 7 Del mio signor di Bozolo la moglie, la madre, le sirocchie e le cugine, e le Torelle con le Bentivoglie, e le Visconte e le Palavigine; ecco chi a quante oggi ne sono, toglie, e a quante o greche o barbere o latine ne furon mai, di quai la fama s'oda, di grazia e di beltà la prima loda, 8 Iulia Gonzaga, che dovunque il piede volge, e dovunque i sereni occhi gira, non pur ogn'altra di beltà le cede, ma, come scesa dal ciel dea, l'ammira. La cognata è con lei, che di sua fede non mosse mai, perché l'avesse in ira Fortuna che le fe' lungo contrasto. Ecco Anna d'Aragon, luce del Vasto; 9 Anna, bella, gentil, cortese e saggia, di castità, di fede e d'amor tempio. La sorella è con lei, ch'ove ne irraggia l'alta beltà, ne pate ogn'altra scempio. Ecco chi tolto ha da la scura spiaggia di Stige, e fa con non più visto esempio, mal grado de le Parche e de la Morte, splender nel ciel l'invitto suo consorte. 10 Le Ferrarese mie qui sono, e quelle de la corte d'Urbino; e riconosco quelle di Mantua, e quante donne belle ha Lombardia, quante il paese tosco. Il cavallier che tra lor viene, e ch'elle onoran sì, s'io non ho l'occhio losco, da la luce offuscato de' bei volti, è 'l gran lume aretin, l'Unico Accolti. 11 Benedetto, il nipote, ecco là veggio, c'ha purpureo il capel, purpureo il manto, col cardinal di Mantua e col Campeggio, gloria e splendor del consistorio santo: e ciascun d'essi noto (o ch'io vaneggio) al viso e ai gesti rallegrarsi tanto del mio ritorno, che non facil parmi ch'io possa mai di tanto obligo trarmi. 12 Con lor Lattanzio e Claudio Tolomei, e Paulo Pansa e 'l Dresino e Latino Iuvenal parmi, e i Capilupi miei, e 'l Sasso e 'l Molza e Florïan Montino; e quel che per guidarci ai rivi ascrei mostra piano e più breve altro camino, Iulio Camillo; e par ch'anco io ci scerna, Marco Antonio Flaminio, il Sanga, il Berna. 13 Ecco Alessandro, il mio signor, Farnese: oh dotta compagnia che seco mena! Fedro, Capella, Porzio, il bolognese Filippo, il Volterano, il Madalena, Blosio, Pïrio, il Vida cremonese, d'alta facondia inessicabil vena, e Lascari e Mussuro e Navagero, e Andrea Marone e 'l monaco Severo. 14 Ecco altri duo Alessandri in quel drappello, dagli Orologi l'un, l'altro il Guarino. Ecco Mario d'Olvito, ecco il flagello de' principi, il divin Pietro Aretino. Duo Ieronimi veggo, l'uno è quello di Veritade, e l'altro il Cittadino. Veggo il Mainardo, veggo il Leoniceno, il Pannizzato, e Celio e il Teocreno. 15 Là Bernardo Capel, là veggo Pietro Bembo, che 'l puro e dolce idioma nostro, levato fuor del volgare uso tetro, quale esser dee, ci ha col suo esempio mostro. Guasparro Obizi è quel che gli vien dietro, ch'ammira e osserva il sì ben speso inchiostro. Io veggo il Fracastorio, il Bevazano, Trifon Gabriele, e il Tasso più lontano. 16 Veggo Nicolò Tiepoli, e con esso Nicolò Amanio in me affissar le ciglia; Anton Fulgoso ch'a vedermi appresso al lito mostra gaudio e maraviglia. Il mio Valerio è quel che là s'è messo fuor de le donne; e forse si consiglia col Barignan c'ha seco, come, offeso sempre da lor, non ne sia sempre acceso. 17 Veggo sublimi e soprumani ingegni di sangue e d'amor giunti, il Pico e il Pio. Colui che con lor viene, e da' più degni ha tanto onor, mai più non conobbi io; ma, se me ne fur dati veri segni, è l'uom che di veder tanto desio, Iacobo Sanazar, ch'alle Camene lasciar fa i monti et abitar l'arene. 18 Ecco il dotto, il fedele, il diligente secretario Pistofilo, ch'insieme con gli Acciaiuoli e con l'Angiar mio sente piacer, che più del mar per me non teme. Annibal Malaguzzo, il mio parente, veggo con l'Adoardo, che gran speme mi dà, ch'ancor del mio nativo nido udir farà da Calpe agli Indi il grido. 19 Fa Vittor Fausto, fa il Tancreti festa di rivedermi, e la fanno altri cento. Veggo le donne e gli uomini di questa mia ritornata ognun parer contento. Dunque, a finir la breve via che resta, non sia più indugio, or ch'ho propizio il vento; e torniamo a Melissa, e con che aita salvò, diciamo, al buon Ruggier la vita 20 Questa Melissa, come so che detto v'ho molte volte, avea sommo desire che Bradamante con Ruggier di stretto nodo s'avesse in matrimonio a unire; e d'ambi il bene e il male avea sì a petto, che d'ora in ora ne volea sentire. Per questo spirti avea sempre per via, che, quando andava l'un, l'altro venìa. 21 In preta del dolor tenace e forte Ruggier tra le scure ombre vide posto, il qual di non gustar d'alcuna sorte mai più vivanda fermo era e disposto, e col digiun si volea dar la morte: ma fu l'aiuto di Melissa tosto; che, del suo albergo uscita, la via tenne ove in Leone ad incontrar si venne: 22 il qual mandato, l'un a l'altro appresso, sua gente avea per tutti i luoghi intorno; e poscia era in persona andato anch'esso per trovare il guerrier dal lïcorno. La saggia incantatrice, la qual messo freno e sella a uno spirto avea quel giorno, e l'avea sotto in forma di ronzino, trovò questo figliuol di Costantino. 23 - Se de l'animo è tal la nobiltate, qual fuor, signor (diss'ella), il viso mostra; se la cortesia dentro e la bontade ben corrisponde alla presenza vostra, qualche conforto, qualche aiuto date al miglior cavallier de l'età nostra; che s'aiuto non ha tosto e conforto, non è molto lontano a restar morto. 24 Il miglior cavallier, che spada a lato e scudo in braccio mai portassi o porti; il più bello e gentil ch'al mondo stato mai sia di quanti ne son vivi o morti, sol per un'alta cortesia c'ha usato, sta per morir, se non ha chi 'l conforti. Per Dio, signor, venite, e fate prova s'allo suo scampo alcun consiglio giova. - 25 Ne l'animo a Leon subito cade che 'l cavallier di chi costei ragiona, sia quel che per trovar fa le contrade cercare intorno, e cerca egli in persona; sì ch'a lei dietro, che gli persuade sì pietosa opra, in molta fretta sprona: la qual lo trasse (e non fer gran camino) ove alla morte era Ruggier vicino. 26 Lo ritrovâr che senza cibo stato era tre giorni, e in modo lasso e vinto, ch'in piè a fatica si saria levato, per ricader, se ben non fosse spinto. Giacea disteso in terra tutto armato, con l'elmo in testa, e de la spada cinto; e guancial de lo scudo s'avea fatto, in che 'l bianco liocorno era ritratto. 27 Quivi pensando quanta ingiuria egli abbia fatto alla donna, e quanto ingrato e quanto isconoscente le sia stato, arrabbia, non pur si duole; e se n'affligge tanto, che si morde le man, morde le labbia, sparge le guance di continuo pianto; e per la fantasia che v'ha sì fissa, né Leon venir sente né Melissa; 28 né per questo interrompe il suo lamento, né cessano i sospir, né il pianto cessa. Leon si ferma, e sta ad udire intento; poi smonta del cavallo, e se gli appressa. Amore esser cagion di quel tormento conosce ben; ma la persona espressa non gli è, per cui sostien tanto martìre; ch'anco Ruggier non glie l'ha fatto udire. 29 Più inanzi, e poi più inanzi i passi muta, tanto che se gli accosta a faccia a faccia; e con fraterno affetto lo saluta, e se gli china a lato, e al collo abbraccia. Io non so quanto ben questa venuta di Leone improvisa a Ruggier piaccia; che teme che lo turbi e gli dia noia, e se gli voglia oppor, perché non muoia. 30 Leon con le più dolci e più soavi parole che sa dir, con quel più amore che può mostrar, gli dice: - Non ti gravi d'aprirmi la cagion del tuo dolore; che pochi mali al mondo son sì pravi, che l'uomo trar non se ne possa fuore, se la cagion si sa; né debbe privo di speranza esser mai, fin che sia vivo. 31 Ben mi duol che celar t'abbi voluto da me, che sai s'io ti son vero amico, non sol dipoi ch'io ti son sì tenuto, che mai dal nodo tuo non mi districo, ma fin allora ch'avrei causa avuto d'esserti sempre capital nimico; e déi sperar ch'io sia per darti aita con l'aver, con gli amici e con la vita. 32 Di meco conferir non ti rincresca il tuo dolore, e lasciami far prova, se forza, se lusinga, acciò tu n'esca, se gran tesor, s'arte, s'astuzia giova. Poi, quando l'opra mia non ti riesca, la morte sia ch'al fin te ne rimuova: ma non voler venir prima a quest'atto, che ciò che si può far, non abbi fatto. - 33 E seguitò con sì efficaci prieghi, e con parlar sì umano e sì benigno, che non può far Ruggier che non si pieghi; che né di ferro ha il cor né di macigno, e vede, quando la risposta nieghi, che farà discortese atto e maligno. Risponde; ma due volte o tre s'incocca prima il parlar, ch'uscir voglia di bocca. 34 - Signor mio (disse al fin), quando saprai colui ch'io son (che son per dirtel ora), mi rendo certo che di me sarai non men contento, e forse più, ch'io muora. Sappi ch'io son colui che sì in odio hai: io son Ruggier ch'ebbi te in odio ancora; e che con intenzion di porti a morte, già son più giorni, usci' di questa corte; 35 acciò per te non mi vedessi tolta Bradamante, sentendo esser d'Amone la voluntade a tuo favor rivolta. Ma perché ordina l'uomo, e Dio dispone, venne il bisogno ove mi fe' la molta tua cortesia mutar d'opinïone; e non pur l'odio ch'io t'avea, deposi, ma fe' ch'esser tuo sempre io mi disposi. 36 Tu mi pregasti, non sapendo ch'io fossi Ruggier, ch'io ti facessi avere la donna; ch'altretanto saria il mio cor fuor del corpo, o l'anima volere. Se sodisfar più tosto al tuo disio, ch'al mio, ho voluto, t'ho fatto vedere. Tua fatta è Bradamante; abbila in pace: molto più che 'l mio bene, il tuo mi piace. 37 Piaccia a te ancora, se privo di lei mi son, ch'insieme io sia di vita privo; che più tosto senz'anima potrei, che senza Bradamante restar vivo. Appresso, per averla tu non sei mai legitimamente, fin ch'io vivo: che tra noi sponsalizio è già contratto, né duo mariti ella può avere a un tratto. - 38 Riman Leon sì pien di maraviglia, quando Ruggiero esser costui gli è noto, che senza muover bocca o batter ciglia o mutar piè, come una statua, è immoto: a statua, più ch'ad uomo, s'assimiglia, che ne le chiese alcun metta per voto. Ben sì gran cortesia questa gli pare, che non ha avuto e non avrà mai pare. 39 E conosciutol per Ruggier, non solo non scema il ben che gli voleva pria; ma sì l'accresce, che non men del duolo di Ruggiero egli, che Ruggier, patia. Per questo, e per mostrarsi che figliuolo d'imperator meritamente sia, non vuol, se ben nel resto a Ruggier cete, ch'in cortesia gli metta inanzi il piede. 40 E dice: - Se quel dì, Ruggier, ch'offeso fu il campo mio dal valor tuo stupendo, ancor ch'io t'avea in odio, avessi inteso che tu fossi Ruggier, come ora intendo; così la tua virtú m'avrebbe preso, come fece anco allor, non lo sapendo; e così spinto dal cor l'odio, e tosto questo amor ch'io ti porto, v'avria posto. 41 Che prima il nome di Ruggiero odiassi, ch'io sapessi che tu fosse Ruggiero, non negherò: ma ch'or più inanzi passi l'odio ch'io t'ebbi, t'esca del pensiero. E se, quando di carcere io ti trassi, n'avesse, come or n'ho, saputo il vero; il metesimo avrei fatto anco allora, ch'a benefizio tuo son per far ora. 42 E s'allor volentier fatto l'avrei, ch'io non t'era, come or sono, obligato; quant'or più farlo debbo, che sarei, non lo facendo, il più d'ogn'altro ingrato; poi che negando il tuo voler, ti sei privo d'ogni tuo bene, e a me l'hai dato. Ma te lo rendo, e più contento sono renderlo a te, ch'aver io avuto il dono. 43 Molto più a te, ch'a me, costei conviensi, la qual, ben ch'io per li suoi merit'ami, non è però, s'altri l'avrà, ch'io pensi, come tu, al viver mio romper li stami. Non vo' che la tua morte mi dispensi, che possi, sciolto ch'ella avrà i legami che son del matrimonio ora fra voi, per legitima moglie averla io poi. 44 Non che di lei, ma restar privo voglio di ciò c'ho al mondo, e de la vita appresso, prima che s'oda mai ch'abbia cordoglio per mia cagion tal cavalliero oppresso. De la tua difidenzia ben mi doglio; che tu che puoi, non men che di te stesso, di me dispor, più tosto abbi voluto morir di duol, che da me avere aiuto. - 45 Queste parole et altre suggiungendo, che tutte saria lungo riferire, e sempre le ragion redarguendo, ch'in contrario Ruggier gli potea dire; fe' tanto, ch'al fin disse: - Io mi ti rendo, e contento sarò di non morire. Ma quando ti sciorrò l'obligo mai, ché due volte la vita dato m'hai? - 46 Cibo soave e precïoso vino Melissa ivi portar fece in un tratto; e confortò Ruggier, ch'era vicino, non s'aiutando, a rimaner disfatto. Sentito in questo tempo avea Frontino cavalli quivi, e v'era accorso ratto. Leon pigliar da li scudieri suoi lo fe' e sellare, et a Ruggier dar poi; 47 il qual con gran fatica, ancor ch'aiuto avesse da Leon, sopra vi salse: così quel vigor manco era venuto, che pochi giorni inanzi in modo valse, che vincer tutto un campo avea potuto, e far quel che fe' poi con l'arme false. Quindi partiti, giunser, che più via non fêr di mezza lega, a una badia: 48 ove posaro il resto di quel giorno, e l'altro appresso, e l'altro tutto intero, tanto che 'l cavallier dal lïocorno tornato fu nel suo vigor primiero. Poi con Melissa e con Leon ritorno alla città real fece Ruggiero, e vi trovò che la passata sera l'imbasciaria de' Bulgari giunt'era. 49 Che quella nazïon, la qual s'avea Ruggiero eletto re, quivi a chiamarlo mandava questi suoi, che si credea d'averlo in Francia appresso al magno Carlo: perché giurargli fedeltà volea, e dar di sé dominio, e coronarlo. Lo scudier di Ruggier, che si ritrova con questa gente, ha di lui dato nuova. 50 De la battaglia ha detto, ch'in favore de' Bulgari a Belgrado egli avea fatta, ove Leon col padre imperatore vinto, e sua gente avea morta e disfatta; e per questo l'avean fatto signore, messo da parte ogni uomo di sua schiatta: e come a Novengrado era poi stato preso da Ungiardo, e a Teodora dato: 51 e che venuta era la nuova certa, che 'l suo guardian s'era trovato ucciso, e lui fuggito, e la prigione aperta: che poi ne fosse, non v'era altro avviso. Entrò Ruggier per via molto coperta ne la città, né fu veduto in viso. La seguente mattina egli e 'l compagno Leone appresentossi a Carlo Magno. 52 S'appresentò Ruggier con l'augel d'oro che nel campo vermiglio avea due teste, e come disegnato era fra loro, con le medesme insegne e sopraveste che, come dianzi ne la pugna fôro, eran tagliate ancor, forate e peste; sì che tosto per quel fu conosciuto, ch'avea con Bradamante combattuto. 53 Con ricche vesti e regalmente ornato Leon senz'arme a par con lui venìa; e dinanzi e di dietro e d'ogni lato avea onorata e degna compagnia. A Carlo s'inchinò, che già levato se gli era incontra; e avendo tuttavia Ruggier per man, nel qual intente e fisse ognuno avea le luci, così disse: 54 - Questo è il buon cavalliero il qual difeso s'è dal nascer del giorno al giorno estinto; e poi che Bradamante o morto o preso o fuor non l'ha de lo steccato spinto, magnanimo signor, se bene inteso ha il vostro bando, è certo d'aver vinto, e d'aver lei per moglie guadagnata; e così viene, acciò che gli sia data. 55 Oltre che di ragion, per lo tenore del bando, non v'ha altr'uom da far disegno: se s'ha da meritarla per valore, qual cavallier più di costui n'è degno? s'aver la dee chi più le porta amore, non è chi 'l passi o ch'arrivi al suo segno. Et è qui presto contra a chi s'oppone, per difender con l'arme sua ragione. - 56 Carlo e tutta la corte stupefatta, questo udendo, restò; ch'avea creduto che Leon la battaglia avesse fatta, non questo cavallier non conosciuto. Marfisa, che con gli altri quivi tratta s'era ad udire, e ch'a pena potuto avea tacer fin che Leon finisse il suo parlar, si fece inanzi e disse: 57 - Poi che non c'è Ruggier, che la contesa de la moglier fra sé e costui discioglia; acciò per mancamento di difesa così senza rumor non se gli toglia, io che gli son sorella, questa impresa piglio contra a ciascun, sia chi si voglia, che dica aver ragione in Bradamante, o di merto a Ruggiero andare inante. - 58 E con tant'ira e tanto sdegno espresse questo parlar, che molti ebber sospetto, che senza attender Carlo che le desse campo, ella avesse a far quivi l'effetto. Or non parve a Leon che più dovesse Ruggier celarsi, e gli cavò l'elmetto; e rivolto a Marfisa: - Ecco lui pronto a rendervi di sé (disse) buon conto. - 59 Quale il canuto Egeo rimase, quando si fu alla mensa scelerata accorto, che quello era il suo figlio, al quale, instando l'iniqua moglie, avea il veneno pòrto; e poco più che fosse ito indugiando di conoscer la spada, l'avria morto: tal fu Marfisa, quando il cavalliero ch'odiato avea, conobbe esser Ruggiero. 60 E corse senza indugio ad abbracciarlo, né dispiccar se gli sapea dal collo. Rinaldo, Orlando, e di lor prima Carlo di qua e di là con grand'amor baciollo. Né Dudon né Olivier d'accarezzarlo, né 'l re Sobrin si può veder satollo. Dei paladini e dei baron nessuno di far festa a Ruggier restò digiuno. 61 Leone, il qual sapea molto ben dire, finiti che si fur gli abbracciamenti, cominciò inanzi a Carlo a riferire, udendo tutti quei ch'eran presenti, come la gagliardia, come l'ardire (ancor che con gran danno di sue genti) di Ruggier, ch'a Belgrado avea veduto, più d'ogni offesa avea di sé potuto; 62 sì ch'essendo di poi preso e condutto a colei ch'ogni strazio n'avria fatto, di prigione egli, mal grado di tutto il parentado suo, l'aveva tratto; e come il buon Ruggier, per render frutto e mercede a Leon del suo riscatto, fe' l'alta cortesia che sempre a quante ne furo o saran mai, passarà inante. 63 E seguendo narrò di punto in punto ciò che per lui fatto Ruggiero avea; e come poi da gran dolor compunto, che di lasciar la moglie gli premea, s'era disposto di morire; e giunto v'era vicin, se non si soccorrea. E con sì dolci affetti il tutto espresse, che quivi occhio non fu ch'asciutto stesse. 64 Rivolse poi con sì efficaci preghi le sue parole all'ostinato Amone, che non sol che lo muova, che lo pieghi, che lo faccia mutar d'opinïone; ma fa ch'egli in persona andar non nieghi a supplicar Ruggier che gli perdone, e per padre e per suocero l'accette; e così Bradamante gli promette. 65 A cui là dove, de la vita in forse, piangea i suoi casi in camera segreta, con lieti gridi in molta fretta corse per più d'un messo la novella lieta: onde il sangue ch'al cor, quando lo morse prima il dolor, fu tratto da la pieta, a questo annunzio il lasciò solo in guisa, che quasi il gaudio ha la donzella uccisa. 66 Ella riman d'ogni vigor sì vòta, che di tenersi in piè non ha balìa; ben che di quella forza ch'esser nota vi debbe, e di quel grande animo sia. Non più di lei, chi a ceppo, a laccio, a ruota sia condannato o ad altra morte ria, e che già agli occhi abbia la benda negra, gridar sentendo grazia, si rallegra. 67 Si rallegra Mongrana e Chiaramonte, di nuovo nodo i dui raggiunti rami: altretanto si duol Gano col conte Anselmo, e con Falcon Gini e Ginami; ma pur coprendo sotto un'altra fronte van lor pensieri invidïosi e grami; e occasïone attendon di vendetta, come la volpe al varco il lepre aspetta. 68 Oltre che già Rinaldo e Orlando ucciso molti in più volte avean di quei malvagi; ben che l'ingiurie fur con saggio avviso dal re acchetate, et i commun disagi; avea di nuovo lor levato il riso l'ucciso Pinabello e Bertolagi: ma pur la fellonia tenean coperta, dissimulando aver la cosa certa. 69 Gli imbasciatori bulgari che in corte di Carlo eran venuti, come ho detto, con speme di trovare il guerrier forte del lïocorno, al regno loro eletto; sentendol quivi, chiamar buona sorte la lor, che dato avea alla speme effetto; e riverenti ai piè se gli gittaro, e che tornassi in Bulgheria il pregaro; 70 ove in Adrïanopoli servato gli era lo scettro e la real corona: ma venga egli a difendersi lo stato; ch'a danni lor di nuovo si ragiona che più numer di gente apparecchiato ha Costantino, e torna anco in persona: et essi, se 'l suo re ponno aver seco, speran di tôrre a lui l'imperio greco. 71 Ruggiero accettò il regno, e non contese ai preghi loro, e in Bulgheria promesse di ritrovarsi dopo il terzo mese, quando Fortuna altro di lui non fêsse. Leone Augusto che la cosa intese, disse a Ruggier, ch'alla sua fede stesse, che, poi ch'egli de' Bulgari ha il domìno, la pace è tra lor fatta e Costantino: 72 né da partir di Francia s'avrà in fretta, per esser capitan de le sue squadre; che d'ogni terra ch'abbiano suggetta, far la rinunzia gli farà dal padre. Non è virtú che di Ruggier sia detta, ch'a muover sì l'ambizïosa madre di Bradamante, e far che 'l genero ami, vaglia, come ora udir, che re si chiami. 73 Fansi le nozze splendide e reali, convenïenti a chi cura ne piglia: Carlo ne piglia cura, e le fa quali farebbe, maritando una sua figlia. I merti de la donna erano tali, oltre a quelli di tutta sua famiglia, ch'a quel signor non parria uscir del segno, se spendesse per lei mezzo il suo regno. 74 Libera corte fa bandire intorno, ove sicuro ognun possa venire; e campo franco sin al nono giorno concete a chi contese ha da partire. Fe' alla campagna l'apparato adorno di rami intesti e di bei fiori ordire, d'oro e di seta poi, tanto giocondo, che 'l più bel luogo mai non fu nel mondo. 75 Dentro a Parigi non sariano state l'innumerabil genti peregrine, povare e ricche e d'ogni qualitate, che v'eran, greche, barbare e latine. Tanti signori, e imbascierie mandate di tutto 'l mondo, non aveano fine: erano in padiglion, tende e frascati con gran commodità tutti alloggiati. 76 Con eccellente e singulare ornato la notte inanzi avea Melissa maga il maritale albergo apparecchiato, di ch'era stata già gran tempo vaga. Già molto tempo inanzi desiato questa copula avea quella presaga: de l'avvenir presaga, sapea quanta bontade uscir dovea da la lor pianta. 77 Posto avea il genïal letto fecondo in mezzo un padiglione amplo e capace, il più ricco, il più ornato, il più giocondo che già mai fosse o per guerra o per pace, o prima o dopo, teso in tutto 'l mondo; e tolto ella l'avea dal lito trace: l'avea di sopra a Costantin levato, ch'a diporto sul mar s'era attendato. 78 Melissa di consenso di Leone, o più tosto per dargli maraviglia, e mostrargli de l'arte paragone, ch'al gran vermo infernal mette la briglia, e che di lui, come a lei par, dispone, e de la a Dio nimica empia famiglia; fe' da Costantinopoli a Parigi portare il padiglion dai messi stigi. 79 Di sopra a Costantin ch'avea l'impero di Grecia, lo levò da mezzo giorno, con le corde e col fusto, e con l'intero guernimento ch'avea dentro e d'intorno: lo fe' portar per l'aria, e di Ruggiero quivi lo fece alloggiamento adorno. Poi, finite le nozze, anco tornollo miraculosamente onde levollo. 80 Eran degli anni appresso che duo milia che fu quel ricco padiglion trapunto. Una donzella de la terra d'Ilia, ch'avea il furor profetico congiunto, con studio di gran tempo e con vigilia lo fece di sua man di tutto punto. Cassandra fu nomata, et al fratello inclito Ettòr fece un bel don di quello. 81 Il più cortese cavallier che mai dovea del ceppo uscir del suo germano (ben che sapea, da la radice assai che quel per molti rami era lontano) ritratto avea nei bei ricami gai d'oro e di varia seta, di sua mano. L'ebbe, mentre che visse, Ettorre in pregio per chi lo fece, e pel lavoro egregio. 82 Ma poi ch'a tradimento ebbe la morte, e fu 'l popul troian da' Greci afflitto; che Sinon falso aperse lor le porte, e peggio seguitò, che non è scritto; Menelao ebbe il padiglione in sorte, col quale a capitar venne in Egitto, ove al re Proteo lo lasciò, se vòlse la moglie aver, che quel tiran gli tolse. 83 Elena nominata era colei per cui lo padiglione a Proteo diete; che poi successe in man de' Tolomei, tanto che Cleopatra ne fu erete. Da le genti d'Agrippa tolto a lei nel mar Leucadio fu con altre prede: in man d'Augusto e di Tiberio venne, e in Roma sin a Costantin si tenne; 84 quel Costantin di cui doler si debbe la bella Italia, fin che giri il cielo. Costantin, poi che 'l Tevero gl'increbbe, portò in Bisanzio il prezïoso velo: da un altro Costantin Melissa l'ebbe. Oro le corde, avorio era lo stelo; tutto trapunto con figure belle, più che mai con pennel facesse Apelle. 85 Quivi le Grazie in abito giocondo una regina aiutavano al parto: sì bello infante n'apparia, che 'l mondo non ebbe un tal dal secol primo al quarto. Vedeasi Iove, e Mercurio facondo, Venere e Marte, che l'avevano sparto a man piene e spargean d'eterei fiori, di dolce ambrosia e di celesti odori. 86 Ippolito diceva una scrittura sopra le fasce in lettere minute. In età poi più ferma l'Aventura l'avea per mano, e inanzi era Virtute. Mostrava nòve genti la pittura con veste e chiome lunghe, che venute a domandar la parte di Corvino erano al padre il tenero bambino. 87 Da Ercole partirsi riverente si vede, e da la madre Leonora; e venir sul Danubio, ove la gente corre a vederlo, e come un Dio l'adora. Vedesi il re degli Ungari prudente, che 'l maturo sapere ammira e onora in non matura età tenera e molle, e sopra tutti i suoi baron l'estolle. 88 V'è che negli infantili e teneri anni lo scettro di Strigonia in man gli pone: sempre il fanciullo se gli vede a' panni, sia nel palagio, sia nel padiglione: o contra Turchi, o contra gli Alemanni quel re possente faccia espedizione, Ippolito gli è appresso, e fiso attende a' magnanimi gesti, e virtú apprende. 89 Quivi si vede, come il fior dispensi de' suoi primi anni in disciplina et arte. Fusco gli è appresso, che gli occulti sensi chiari gli espone de l'antiche carte. - Questo schivar, questo seguir conviensi, se immortal brami e glorïoso farte, - par che gli dica: così avea ben finti i gesti lor chi già gli avea dipinti. 90 Poi cardinale appar, ma giovinetto, setere in Vaticano a consistoro, e con facondia aprir l'alto intelletto, e far di sé stupir tutto quel coro. - Qual fia dunque costui d'età perfetto? (parean con maraviglia dir tra loro). Oh se di Pietro mai gli tocca il manto, che fortunata età! che secol santo! - 91 In altra parte i liberali spassi erano e i giuochi del giovene illustre. Or gli orsi affronta sugli alpini sassi, ora i cingiali in valle ima e palustre: or s'un gianetto par che 'l vento passi, seguendo o caprio o cerva multilustre, che giunta par che bipartita cada in parti uguali a un sol colpo di spada. 92 Di filosofi altrove e di poeti si vede in mezzo un'onorata squadra. Quel gli dipinge il corso de' pianeti, questi la terra, quello il ciel gli squadra: questi meste elegie, quel versi lieti, quel canta eroici, o qualche oda leggiadra. Musici ascolta, e varii suoni altrove; né senza somma grazia un passo muove. 93 In questa prima parte era dipinta del sublime garzon la puerizia. Cassandra l'altra avea tutta distinta di gesti di prudenza, di iustizia, di valor, di modestia, e de la quinta che tien con lor strettissima amicizia, dico de la virtú che dona e spende; de le qual tutte illuminato splende. 94 In questa parte il giovene si vede col duca sfortunato degl'Insubri, ch'ora in pace a consiglio con lui siete, or armato con lui spiega i colubri; e sempre par d'una medesma fede, o ne' felici tempi o nei lugubri: ne la fuga lo segue, lo conforta ne l'afflizion, gli è nel periglio scorta. 95 Si vede altrove a gran pensieri intento per salute d'Alfonso e di Ferrara; che va cercando per strano argumento, e trova, e fa veder per cosa chiara al giustissimo frate il tradimento che gli usa la famiglia sua più cara: e per questo si fa del nome erede, che Roma a Ciceron libera diede. 96 Vedesi altrove in arme relucente, ch'ad aiutar la Chiesa in fretta corre; e con tumultuaria e poca gente a un esercito istrutto si va opporre; e solo il ritrovarsi egli presente tanto agli Ecclesïastici soccorre, che 'l fuoco estingue pria ch'arder comince: sì che può dir, che viene e vede e vince. 97 Vedesi altrove da la patria riva pugnar incontra la più forte armata, che contra Turchi o contra gente argiva da' Veneziani mai fosse mandata: la rompe e vince, et al fratel captiva con la gran preta l'ha tutta donata; né per sé vedi altro serbarsi lui, che l'onor sol, che non può dare altrui. 98 Le donne e i cavallier mirano fisi, senza trarne costrutto, le figure; perché non hanno appresso che gli avvisi che tutte quelle sien cose future. Prendon piacere a riguardare i visi belli e ben fatti, e legger le scritture. Sol Bradamante da Melissa instrutta gode tra sé; che sa l'istoria tutta. 99 Ruggiero, ancor ch'a par di Bradamante non ne sia dotto, pur gli torna a mente che fra i nipoti suoi gli solea Atlante commendar questo Ippolito sovente. Chi potria in versi a pieno dir le tante cortesie che fa Carlo ad ogni gente? Di vari giochi è sempre festa grande, e la mensa ognor piena di vivande. 100 Vedesi quivi chi è buon cavalliero; che vi son mille lance il giorno rotte: fansi battaglie a piedi e a destriero, altre accoppiate, altre confuse in frotte. Più degli altri valor mostra Ruggiero, che vince sempre, e giostra il dì e la notte; e così in danza, in lotta et in ogni opra sempre con molto onor resta di sopra. 101 L'ultimo dì, ne l'ora che 'l solenne convito era a gran festa incominciato; che Carlo a man sinistra Ruggier tenne, e Bradamante avea dal destro lato; di verso la campagna in fretta venne contra le mense un cavalliero armato, tutto coperto egli e 'l destrier di nero, di gran persona, e di sembiante altiero. 102 Quest'era il re d'Algier, che per lo scorno che gli fe' sopra il ponte la donzella, giurato avea di non porsi arme intorno, né stringer spada, né montare in sella, fin che non fosse un anno, un mese e un giorno stato, come eremita, entro una cella. Così a quel tempo solean per se stessi punirsi i cavallier di tali eccessi. 103 Se ben di Carlo in questo mezzo intese e del re suo signore ogni successo; per non disdirsi, non più l'arme prese, che se non pertenesse il fatto ad esso. Ma poi che tutto l'anno e tutto 'l mese vede finito, e tutto 'l giorno appresso con nuove arme e cavallo e spada e lancia alla corte or ne vien quivi in Francia. 104 Senza smontar, senza chinar la testa, e senza segno alcun di riverenzia, mostra Carlo sprezzar con la sua gesta, e de tanti signor l'alta presenza. Maraviglioso e attonito ognun resta, che si pigli costui tanta licenzia. Lasciano i cibi e lascian le parole per ascoltar ciò che 'l guerrier dir vuole. 105 Poi che fu a Carlo et a Ruggiero a fronte, con alta voce et orgoglioso grido: - Son (disse) il re di Sarza, Rodomonte, che te, Ruggiero, alla battaglia sfido; e qui ti vo', prima che 'l sol tramonte, provar ch'al tuo signor sei stato infido; e che non merti, che sei traditore, fra questi cavallieri alcun onore. 106 Ben che tua fellonia si vegga aperta, perché essendo cristian non pòi negarla; pur per farla apparere anco più certa, in questo campo vengoti a provarla: e se persona hai qui che faccia offerta di combatter per te, voglio accettarla. Se non basta una, e quattro e sei n'accetto; e a tutte manterrò quel ch'io t'ho detto. - 107 Ruggiero a quel parlar ritto levosse, e con licenza rispose di Carlo, che mentiva egli, e qualunqu'altro fosse, che traditor volesse nominarlo; che sempre col suo re così portosse, che giustamente alcun non può biasmarlo; e ch'era apparecchiato sostenere che verso lui fe' sempre il suo dovere: 108 e ch'a difender la sua causa era atto, senza tôrre in aiuto suo veruno; e che sperava di mostrargli in fatto, ch'assai n'avrebbe e forse troppo d'uno. Quivi Rinaldo, quivi Orlando tratto, quivi il marchese, e 'l figlio bianco e 'l bruno, Dudon, Marfisa, contra il pagan fiero s'eran per la difesa di Ruggiero; 109 mostrando ch'essendo egli nuovo sposo, non dovea conturbar le proprie nozze. Ruggier rispose lor: - State in riposo; che per me fôran queste scuse sozze. - L'arme che tolse al Tartaro famoso, vennero, e fur tutte le lunghe mozze. Gli sproni il conte Orlando a Ruggier strinse, e Carlo al fianco la spada gli cinse. 110 Bradamante e Marfisa la corazza posta gli aveano, e tutto l'altro arnese. Tenne Astolfo il destrier di buona razza, tenne la staffa il figlio del Danese. Feron d'intorno far subito piazza Rinaldo, Namo et Olivier marchese: cacciaro in fretta ognun de lo steccato a tal bisogni sempre apparecchiato. 111 Donne e donzelle con pallida faccia timide a guisa di columbe stanno, che da' granosi paschi ai nidi caccia rabbia de' venti che fremendo vanno con tuoni e lampi, e 'l nero aer minaccia grandine e pioggia, e a' campi strage e danno: timide stanno per Ruggier; che male a quel fiero pagan lor parea uguale. 112 Così a tutta la plebe e alla più parte dei cavallieri e dei baron parea; che di memoria ancor lor non si parte quel ch'in Parigi il pagan fatto avea; che, solo, a ferro e a fuoco una gran parte n'avea distrutta, e ancor vi rimanea, e rimarrà per molti giorni il segno: né maggior danno altronde ebbe quel regno. 113 Tremava, più ch'a tutti gli altri, il core a Bradamante; non ch'ella credesse che 'l Saracin di forza, e del valore che vien dal cor, più di Ruggier potesse; né che ragion, che spesso dà l'onore a chi l'ha seco, Rodomonte avesse: pur stare ella non può senza sospetto; che di temere, amando, ha degno effetto. 114 Oh quanto volentier sopra sé tolta l'impresa avria di quella pugna incerta, ancor che rimaner di vita sciolta per quella fosse stata più che certa! Avria eletto a morir più d'una volta, se può più d'una morte esser sofferta, più tosto che patir che 'l suo consorte si ponesse a pericol de la morte. 115 Ma non sa ritrovar priego che vaglia, perché Ruggiero a lei l'impresa lassi. A riguardare adunque la battaglia con mesto viso e cor trepido stassi. Quinci Ruggier, quindi il pagan si scaglia, e vengonsi a trovar coi ferri bassi. Le lance all'incontrar parver di gielo; i tronchi, augelli a salir verso il cielo. 116 La lancia del pagan, che venne a côrre lo scudo a mezzo, fe' debole effetto: tanto l'acciar, che pel famoso Ettorre temprato avea Vulcano, era perfetto. Ruggier la lancia parimente a porre gli andò allo scudo, e gliele passò netto; tutto che fosse appresso un palmo grosso, dentro e di fuor d'acciaro, e in mezzo d'osso. 117 E se non che la lancia non sostenne il grave scontro, e mancò al primo assalto, e rotta in schegge e in tronchi aver le penne parve per l'aria, tanto volò in alto; l'osbergo apria (si furïosa venne), se fosse stato adamantino smalto, e finia la battaglia; ma si roppe: posero in terra ambi i destrier le groppe. 118 Con briglia e sproni i cavallieri instando, risalir feron subito i destrieri; e donde gittâr l'aste, preso il brando, si tornato a ferir crudeli e fieri: di qua di là con maestria girando gli animosi cavalli atti e leggieri, con le pungenti spade incominciaro a tentar dove il ferro era più raro. 119 Non si trovò lo scoglio del serpente, che fu sì duro, al petto Rodomonte, né di Nembrotte la spada tagliente, né 'l solito elmo ebbe quel dì alla fronte; che l'usate arme, quando fu perdente contra la donna di Dordona al ponte, lasciato avea sospese ai sacri marmi, come di sopra avervi detto parmi. 120 Egli avea un'altra assai buona armatura, non come era la prima già perfetta: ma né questa né quella né più dura a Balisarda si sarebbe retta; a cui non osta incanto né fattura, né finezza d'acciar né tempra eletta. Ruggier di qua di là sì ben lavora, ch'al pagan l'arme in più d'un loco fora. 121 Quando si vide in tante parti rosse il pagan l'arme, e non poter schivare che la più parte di quelle percosse non gli andasse la carne a ritrovare; a maggior rabbia, a più furor si mosse, ch'a mezzo il verno il tempestoso mare: getta lo scudo, e a tutto suo potere su l'elmo di Ruggiero a due man fere. 122 Con quella estrema forza che percuote la machina ch'in Po sta su due navi, e levata con uomini e con ruote cader si lascia su le aguzze travi; fere il pagan Ruggier, quanto più puote, con ambe man sopra ogni peso gravi: giova l'elmo incantato; che senza esso, lui col cavallo avria in un colpo fesso. 123 Ruggiero andò due volte a capo chino, e per cadere e braccia e gambe aperse. Raddoppia il fiero colpo il Saracino, che quel non abbia tempo a rïaverse: poi vien col terzo ancor; ma il brando fino sì lungo martellar più non sofferse; che volò in pezzi, et al crudel pagano disarmata lasciò di sé la mano. 124 Rodomonte per questo non s'arresta, ma s'aventa a Ruggier che nulla sente; in tal modo intronata avea la testa, in tal modo offuscata avea la mente. Ma ben dal sonno il Saracin lo desta: gli cinge il collo col braccio possente; e con tal nodo e tanta forza afferra, che de l'arcion lo svelle, e caccia in terra. 125 Non fu in terra sì tosto, che risorse, via più che d'ira, di vergogna pieno; però che a Bradamante gli occhi torse, e turbar vide il bel viso sereno. Ella al cader di lui rimase in forse, e fu la vita sua per venir meno. Ruggiero ad emendar presto quell'onta, stringe la spada, e col pagan s'affronta. 126 Quel gli urta il destrier contra, ma Ruggiero lo cansa accortamente, e si ritira, e nel passare, al fren piglia il destriero con la man manca, e intorno lo raggira; e con la destra intanto al cavalliero ferire il fianco o il ventre o il petto mira; e di due punte fe' sentirgli angoscia, l'una nel fianco, e l'altra ne la coscia. 127 Rodomonte, ch'in mano ancor tenea il pome e l'elsa de la spada rotta, Ruggier su l'elmo in guisa percotea, che lo potea stordire all'altra botta. Ma Ruggier ch'a ragion vincer dovea, gli prese il braccio, e tirò tanto allotta, aggiungendo alla destra l'altra mano, che fuor di sella al fin trasse il pagano. 128 Sua forza o sua destrezza vuol che cada il pagan sì, ch'a Ruggier resti al paro: vo’ dir che cadde in piè; che per la spada Ruggiero averne il meglio giudicaro. Ruggier cerca il pagan tenere a bada lungi da sé, né di accostarsi ha caro: per lui non fa lasciar venirsi adosso un corpo così grande e così grosso. 129 E insanguinargli pur tuttavia il fianco vede e la coscia e l'altre sue ferite. Spera che venga a poco a poco manco, sì che al fin gli abbia a dar vinta la lite. L'elsa e 'l pome avea in mano il pagan anco, e con tutte le forze insieme unite da sé scagliolli, e sì Ruggier percosse, che stordito ne fu più che mai fosse. 130 Ne la guancia de l'elmo, e ne la spalla fu Ruggier colto, e sì quel colpo sente, che tutto ne vacilla e ne traballa, e ritto se sostien difficilmente. Il pagan vuole entrar, ma il piè gli falla, che per la coscia offesa era impotente: e 'l volersi affrettar più del potere, con un ginocchio in terra il fa cadere. 131 Ruggier non perde il tempo, e di grande urto lo percuote nel petto e ne la faccia; e sopra gli martella, e tien sì curto, che con la mano in terra anco lo caccia. Ma tanto fa il pagan che gli è risurto; si stringe con Ruggier sì, che l'abbraccia: l'uno e l'altro s'aggira, e scuote e preme, arte aggiungendo alle sue forze estreme. 132 Di forza a Rodomonte una gran parte la coscia e 'l fianco aperto aveano tolto. Ruggiero avea destrezza, avea grande arte, era alla lotta esercitato molto: sente il vantaggio suo, né se ne parte; e donde il sangue uscir vede più sciolto, e dove più ferito il pagan vede, puon braccia e petto, e l'uno e l'altro piede. 133 Rodomonte pien d'ira e di dispetto Ruggier nel collo e ne le spalle prende: or lo tira, or lo spinge, or sopra il petto sollevato da terra lo sospende, quinci e quindi lo ruota, e lo tien stretto, e per farlo cader molto contende. Ruggier sta in sé raccolto, e mette in opra senno e valor, per rimaner di sopra. 134 Tanto le prese andò mutando il franco e buon Ruggier, che Rodomonte cinse: calcògli il petto sul sinistro fianco, e con tutta sua forza ivi lo strinse. La gamba destra a un tempo inanzi al manco ginocchio e all'altro attraversògli e spinse; e da la terra in alto sollevollo, e con la testa in giú steso tornollo. 135 Del capo e de le schene Rodomonte la terra impresse; e tal fu la percossa, che da le piaghe sue, come da fonte, lungi andò il sangue a far la terra rossa. Ruggier, c'ha la Fortuna per la fronte, perché levarsi il Saracin non possa, l'una man col pugnal gli ha sopra gli occhi, l'altra alla gola, al ventre gli ha i ginocchi. 136 Come talvolta, ove si cava l'oro là tra' Pannoni o ne le mine ibere, se improvisa ruina su coloro che vi condusse empia avarizia, fere, ne restano sì oppressi, che può il loro spirto a pena, onde uscire, adito avere: così fu il Saracin non meno oppresso dal vincitor, tosto ch'in terra messo. 137 Alla vista de l'elmo gli appresenta la punta del pugnal ch'avea già tratto; e che si renda, minacciando, tenta, e di lasciarlo vivo gli fa patto. Ma quel, che di morir manco paventa, che di mostrar viltade a un minimo atto, si torce e scuote, e per por lui di sotto mette ogni suo vigor, né gli fa motto. 138 Come mastin sotto il feroce alano che fissi i denti ne la gola gli abbia, molto s'affanna e si dibatte invano con occhi ardenti e con spumose labbia, e non può uscire al pretator di mano, che vince di vigor, non già di rabbia: così falla al pagano ogni pensiero d'uscir di sotto al vincitor Ruggiero. 139 Pur si torce e dibatte sì, che viene ad espetirsi col braccio migliore; e con la destra man che 'l pugnal tiene, che trasse anch'egli in quel contrasto fuore, tenta ferir Ruggier sotto le rene: ma il giovene s'accorse de l'errore in che potea cader, per differire di far quel empio Saracin morire. 140 E due e tre volte ne l'orribil fronte, alzando, più ch'alzar si possa, il braccio, il ferro del pugnale a Rodomonte tutto nascose, e si levò d'impaccio. Alle squalide ripe d'Acheronte, sciolta dal corpo più freddo che giaccio, bestemmiando fuggì l'alma sdegnosa, che fu sì altiera al mondo e sì orgogliosa. FINIS. PRO BONO MALUM.
La maga Melissa, che ha sempre a cuore la sorte di Ruggiero e Bradamante e per questo si tiene sempre informata delle loro avventure, vede che il cavaliere si è inoltrato all’interno di un fitto bosco ed è deciso a morire di fame. Decide quindi di intervenire subito in suo aiuto. La donna va incontro a Leone, partito alla ricerca del cavaliere misterioso, e lo convince a seguirla per portare aiuto al miglior cavaliere di tutti i tempi, prima che sia troppo tardi e muoia. La maga ed il giovane ritrovano in poco tempo Ruggiero. L’uomo è stremato dal digiuno, continua a piangere e a dolersi per la sua sorte. Leone gli si avviciana e convince il cavaliere a esporgli la ragione del suo dolore, dicendogli che c’è una soluzione per ogni problema e che farà di tutto per aiutarlo. Il cavaliere rivela così al figlio dell’imperatore di essere Ruggiero, gli racconta quindi la sua storia e conclude chiedendogli di essere contento per la sua morte, dal momento che è l’unico modo in cui la promessa di matrimonio tra lui e Bradamante può essere annullata. Ascoltata la confessione dell’amico, Leone rimane come impietrito. Il futuro imperatore non vuole essere da meno di Ruggiero per cortesia, tanto vuole bene al cavaliere, gli comunica quindi subito che la sua identità non può cambiare il sentimento che prova per lui e dichiara infine la propria intenzione a rinunciare a Bradamante in suo favore. Leone rimprovera anche molto Ruggiero di aver preferito la morte al suo aiuto. L’insistenza del giovane piega infine la volontà di Ruggiero, che abbandona così ogni proposito suicida. Melissa ristora il cavaliere con cibo e vino. Leone recupera il destriero Frontino ed aiuta Ruggiero a risalire in sella. Si mettono infine tutti insieme in viaggio per tornare a Parigi. A Parigi Ruggiero troverà ad aspettarlo una ambasciata bulgara, giunta in Francia per incoronarlo re e consegnargli il dominio dei loro territori. Ruggiero, nascondendo la propria identità, si presenta al cospetto di Carlo Magno con le stesse insegne e la stessa sopraveste che aveva tenuto durante il combattimento contro Bradamante. Leone lo presenta quindi al re come colui che ha pieno diritto, stando a quanto dichiarava il bando, di ricevere per moglie la donna. Il giovane dichiara infine che quel cavaliere misterioso è disposto a sostenere con la spada ogni suo diritto acquisito. Marfisa, in assenza del fratello, si prende carico dell’impresa e, mossa dall’ira, è anche pronta a passare subito dalle parole ai fatti. Leone non esita però oltre e toglie l’elmo al cavaliere misterioso, rivelandone così l’identità. Riconosciuto Ruggiero, tutti corrono subito ad abbracciarlo. Leone racconta le vicende del cavaliere, infine si rivolge ad Amone e non solo riesce a fargli cambiare opinione, ma anche a fargli chiedere perdono a Ruggiero, pregandolo di accettarlo come padre e suocero. Saputa la notizia, Bradamante rishia quasi di morire per l’improvvisa gioia. Gli ambasciatori bulgari si gettano ai piedi di Ruggiero, lo pregano di diventare il loro nuovo re e quindi di correre subito in loro aiuto contro l’imperatore Costantino. Il cavaliere accetta la corona; Leone, dal canto suo, si dichiara amico del popolo bulgaro e garantisce anche che nessuna guerra verrà più mossa contro loro dal suo esercito. Le nozze vengono organizzate dallo stesso re Carlo e sono maestose. Giungono signori ed ambasciate da ogni parte del mondo per festeggiare gli sposi. La maga Melissa si occupa di allestire la stanza matrimoniale e, sfruttando i suoi poteri magici, si impossessa del padiglione dell’imperatore Costantino, togliedoglielo di fatto da sopra la testa, e lo fa quindi trasportare a Parigi da alcuni demoni. Cassandra, capace di prevedere il futuro, aveva ricamato quel padiglione duemila anni prima e l’aveva dato poi in dono al fratello Ettore. Cassandra aveva ritratto sul tessuto tutta la vita del cardinale Ippolito d’Este, discendente del fratello Ettore. Guardano tutti con ammirazione le immagini ritratte sul padiglione, sebbene nessuno le comprenda, a parte Bradamante, istruita da Melissa nella tomba di Merlino, e Rugiero, istruito dal mago Atlante in giovane età. L’ultimo giorno dei festeggiamenti, nel momento del banchetto, dalla campagna si vede arrivare a cavallo un cavaliere vestito completamente di nero. Si tratta di Rodomonte. Il feroce guerriero, dopo che Bradamante gli aveva tolto le armi, aveva vissuto come un eremita per un anno, un mese ed un giorno, e terminata la sua punizione, subito si era poi riarmato ed avviato verso Parigi. Rodomonte sfida Ruggiero a duello, dicendogli di voler dimostrare con le armi, di fronte a tutti, la sua infedeltà verso Agramante. Il cavaliere cristiano accetta subito la sfida dicendo di essere disposto a combattere contro chiunque lo chiami traditore. Ruggiero indossa la corazza di Ettore e si mette al fianco la sua famosa spada Balisarda. La battaglia ha inizio. Al primo scontro le lancie vanno in mille pezzi ed i cavalli finiscono a terra. I cavalieri fanno rialzare i destrieri, impugnano le spade e subito tornano a combattere. Il guerriero pagano non ha indosso la sua corazza realizzata con scaglie invulnerabili di drago, avendola lasciata appesa al monumento funebre in onore di Zerbino ed Isabella. In ogni caso, nessuna armatura incantata avrebbe potuto resistere alla spada Balisarda e Ruggiero riesce così in poco tempo a ferire in più punti l’avversario. Rodomonte si accende d’ira, lancia lo scudo, impugna la propria spada con entrambe le mani e la scaglia con tutta la sua forza sulla testa dell’avversario. Ruggiero rimane stordito dal colpo ed il pagano ne aprofitta per portare a segno anche un secondo ed un terzo colpo. Le spada di Rodomonte va infine in mille pezzi. Il guerriero pagano rimane disarmato ma non per questo si ferma, afferra per il collo il cristiano e lo butta a terra. Ruggiero subito si rialza e torna a ferire l’avversario con la spada per poi farlo cadere da cavallo. Rodomonte risce infine a scagliarsi sull’avversario, ma è indebolito dalle ferite e Ruggiero è troppo abile nel combattimento corpo a corpo. Il valoroso cavaliere cristiano riesce infine a immobilizzare a terra l’avversario, tenendogli un pugnale puntato contro gli occhi. Ruggiero chiede all’avversario di arrendersi. Il pagano, che teme di più il disonore della morte, non smette però di dibattersi, finché riesce a liberare un braccio e ad afferrare il proprio pugnale con l’intenzione di ferire il cristiano. Ruggiero non esita oltre ed uccide Rodomonte. PRO BONO MALUM – il male in cambio del bene
Pagina a cura di
Nino Fiorillo
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