Il Negromante è una commedia di Ludovico Ariosto scritta nel 1509 in prima stesura abbozzata, poi terminata nel 1520 per spedirne il testo a Papa Leone X ed ulteriormente riscritta nel 1528. Il primo allestimento è avvenuto a Ferrara tra il 1528 ed il 1529, mentre la pubblicazione avvenne nel 1535. L'azione della commedia è ambientata a Cremona.
Narra le vicende di un mago, un impostore ovviamente. L'unico scopo è di prendere in giro i costumi popolari e le tradizioni legate ai tarocchi.
Il Negromante, la terza commedia di Ariosto, fu compiuta nel gennaio del 1520 e narra degli espedienti impiegati da un giovane per penetrare nella casa dell'amata. Ma al centro della trama è un praticone di arti magiche che si prende gioco della credulità del prossimo. Nel disegnare il personaggio Ariosto ricorre a fonti moderne come ad esempio: - il Ruffo della commedia del Cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, la Calandria; - Callimaco, il finto medico della Mandragola di Niccolò Machiavelli. Il Negromante viene messo in scena soltanto nel 1528.
TRAMA
Presso Cremona Cintioo è stato costretto dal patrigno a sposarsi con la ricca Emilia, figlia di un suo amico, affinché la famiglia potesse risollevarsi economicamente grazie alla grande dote. Tuttavia Cintio si era già sposato segretamente con la povera Livinia, non per altri interessi che per amore, ed ora si ritrova in un gran bel guaio. Per cercare di sfuggire dalla situazione, Cintioo per qualche mese si finge impotente e nega qualsiasi soddisfazione alla sua ricca sposa che se ne lamenta col padre Abondio. Così il genitore convoca in casa un famoso "negromante" (un fattucchiero da due soldi) per risolvere la situazione. Altra stangata per il povero Cintio il quale questa volta per cacciarsi dai guai corrompe il mago affinché dichiari ai genitori e ad Emilia l'impotenza inguaribile del coniuge, vittima di un oscuro sortilegio, a meno che egli non si separi per sempre dalla ricca sposa. Così avviene e il negromante, ottenuta ora grande fama, riceve molti clienti compreso il fidanzato cornificato di Emilia. Tuttavia le cose iniziano a complicarsi quando due servi di Cintio, assolutamente cattivi e meschini, scoprono l'inganno e la situazione sembra precipitare quando Massimo, patrigno di Cintio, scopre di essere il vero padre di Livinia, concepita da un incontro extraconiugale, e così permette le nozze tra lei e Cintio; mentre il negromante e il servitore Nibbio, uno dei due che aveva smascherato l'imbroglio del padrone e di Cintio, se la danno a gambe per non essere linciati.
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LE SATIRE
Introduzione
Ludovico Ariosto compone le Satire a partire dal 1517, anno in cui abbandona il servizio presso il cardinale Ippolito d’Este, e prosegue fino al 1525. Si tratta di sette componimenti in terzine che nascono come una riflessione sull’esperienza personale del poeta. Le Satire partono, quindi, da un dato autobiografico per poi allargarsi ad una riflessione socio-culturale e politica sulla realtà delle corti del Cinquecento, intrecciando osservazioni psicologiche, considerazioni morali e appunti di riflessione che corrono paralleli al lavoro di revisione e di riscrittura dell’Orlando furioso. Ogni satira è indirizzata ad amici e parenti, assumendo quindi una struttura e una funzione quasi epistolare.
Modelli e stile
Diversi sono i modelli letterari di questa raccolta, ma colui che ha il ruolo principale è sicuramente l’autore latino Orazio (65-27 a.C.), con le Epistole e le Satire. Orazio, noto soprattutto per le Odi, viene recuperato da Ariosto come modello esemplare di medietas e di ironia, ovvero di capacità di affrontare le vicende umane secondo una prospettiva bilanciata tra distacco divertito e reazione ai toni troppo accesi o quelli eccessivamente seri e drammatici. Il modello classico si adatta pure bene alla finzione epistolare, per cui ogni satira, come una sorta di lettera privata ad un amico o a un confidente, è indirizzata ad un particolare destinatario, cui il poeta svela - non senza ironia - la propria visione del mondo. L’altro modello di riferimento, dal punto di vista metrico, è Dante e la sua Commedia; la terzina assicura lo sviluppo narrativo e quasi “colloquiale” dell’epistola, e si adatta assai bene allo stile medio del genere.
Lo stile di Ariosto è medio e molto controllato, non scadendo mai nella polemica, ma mantenendo sempre un tono pacato e leggero, attraverso l’ironia e una notevole vivacità stilistica. Nonostante questo dominio nello stile, emergono tra le righe le dure critiche del poeta alla società e all’ambiente della corte; nella Satira I, in cui Ariosto spiega il suo abbandono del cardinale Ippolito d'Este, per esempio, il poeta esprime le sue considerazioni sul servizio prestato presso l’ecclesiastico, rappresentandolo come un uomo duro, volubile, avaro e insensibile all’arte poetica, che lo ha trattato come un cameriere, sfruttandolo per i compiti più mediocri ed umilianti.
Il livello stilistico trova un suo parallelo strutturale e contenutistico: ogni satira ariostesca parte da un evento autobiografico (spesso semplice e modesto) per poi allargare la riflessione alla morale, ai vizi umani, alla realtà contemporanea, nell’elogio costante di una vita serena ed appartata. Le Satire appaiono allora come un’opera innovativa nel panorama letterario italiano del Cinquecento. Innanzitutto per aver ripreso lo stile di Orazio, le cui Satire non godettero di grande fortuna nel secolo precedente. In secondo luogo per la struttura epistolare e l’utilizzo del dato autobiografico per esprimere considerazioni generali sulla società.
Satira I (1517): Indirizzata ad Alessandro Ariosto, suo fratello e alll’amico Ludovico da Bagno, anch’essi al servizio di Ippolito d’Este. Il poeta spiega, tra il serio e il faceto, i motivi per cui, nonostante le difficoltà economiche, ha rifiutato il trasferimento in Ungheria al seguito del cardinale. Oltre alle scelte personali, spicca soprattutto l’ideale di libertà dell’umanista e dell’uomo rinascimentale, che, alle ambizioni professionali e ai tranelli della vita cortigiana, antepone la ricerca della serenità e la cura della passione letteraria.
Satira II (1517):
Rivolgendosi al fratello Galasso, il poeta chiede un modesto alloggio nella città di Roma, dove dovrà recarsi per degli impegni connessi al suo ruolo di ecclesiastico. La contingenza serve per contrapporre la frenesia della vita di città alla pace del locus amoenus di campagna, lontano da falsità ed ipocrisie delle corti dei potenti.
Satira III (1518):
il cugino Annibale è il destinatario di una riflessione dell’autore che, partendo dal passaggio alla corte di Alfonso d’Este, sviluppa il tema della libertà e l’amore per la vita domestica. Il ragionamento è esemplificato con due apologhi: prima, un pastore, in un periodo di siccità, fa dissetare la famiglia e gli animali secondo la loro utilità al sostentamento di tutti. Una gazza, simbolo del poeta di corte, rimane per ultima, in quanto la poesia non è ritenuta attività fondamentale a corte. Nel secondo, dei valligani vogliono toccare la luna che splende sopra la loro valle, e si dedicano così ad un’inutile scalata. Attraverso questa storiella, Ariosto denuncia ancora la superficialità e la sciocchezza delle ambizioni umane.
Satira IV (1523):
Scrivendo al cugino Sigismondo, Ariosto racconta la sua esperienza in Garfagnana, che si presenta difficile sia per la natura ostile del luogo sia per il fenomeno del brigantaggio.
Satira V (1519-1523):
Rivolta al cugino Annibale (destinatario anche della terza satira), questa satira tratta del tema del matrimonio, cui il parente si sta appunto accingendo. Il tono è prevalentemente scherzoso.
Satira VI (1524-1525):
destinatario dell’epistola è Pietro Bembo, cui il poeta si rivolge in cerca di un maestro di lingua greca per suo figlio Virginio. Il tono però è ironico ed autoironico, in quanto il poeta torna agli anni della giovinezza, e alla scelta di interrompere gli studi per trasformarsi da “poeta” a “cavallaro”.
Satira VII (1524):
il destinatario dell’ultima satira è Bonaventura Pistofilo (1470-1543), segretario del duca Alfonso. Ariosto rifiuta cortesemente la proposta di diventare ambasciatore per papa Clemente VII, riconfermando il suo ideale di vita sereno e lontano dalle inquietudini e dai problemi della vita politica e di corte.
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LE ALTRE OPERE
La produzione lirica [1502-1532]
Le poesie in latino
Sono componimenti per lo più epigrammatici di argomento vario, in particolare autobiografico e amoroso. Hanno valore documentario più che artistico, come testimonianza degli studi, dei gusti e dell’apprendistato poetico dell’autore.
Le poesie in volgare
Sono versi d’occasione dedicati per lo più all’amore per Alessandra Benucci e, in rari casi, a tematiche politiche o celebrative, e si segnalano per una dipendenza non esclusiva dal modello petrarchesco, integrato con la lezione dei classici. Ariosto non riunì mai questi materiali poetici in un canzoniere, selezionando e ordinando le liriche secondo un disegno tematico. L’autore pensò di stampare alcuni componimenti, ma il progetto non fu mai portato a termine.
La produzione teatrale [1493-1529]
Ariosto esordì come autore di teatro nel 1493 con la perduta Tragedia di Tisbe. Successivamente mise in scena per la corte volgarizzamenti di commedie di Plauto e Terenzio; fu anche attore, scenografo e regista. Per il carnevale del 1508 fece rappresentare una commedia originale, La cassaria, e l’anno seguente I suppositi, ambientati a Ferrara. Seguirono, tra il 1520 e il 1532, Il negromante, I studenti (incompiuta) e La Lena, composte in endecasillabi sdruccioli, e la riscrittura in versi delle commedie precedenti. L’autore rinuncia alle celebrazioni encomiastiche per mettere in scena un mondo subalterno di servi, prostitute e furfanti. L’ultima commedia, in particolare, offre un impietoso ritratto della società ferrarese del tempo, tesa al profitto e affetta da diffidenza ed egoismo. Con queste opere Ariosto dettò il canone della drammaturgia rinascimentale: struttura regolare del testo suddiviso in cinque atti, apparato scenografico spettacolare e sfarzoso, caratterizzato dal concorso di tutte le arti (letteratura, pittura, scultura, musica, danza), contaminazione e rielaborazione di testi della tradizione classica.
L’epistolario
[1498-1532]
Di Ariosto ci rimangono 214 lettere di carattere professionale e dettate per lo più da urgenze pratiche. Si tratta di preziosi documenti biografici, da cui emerge non tanto il letterato, quanto piuttosto il funzionario di corte.
L’Orlando furioso [1507-1533]
La genesi
L’inizio della scrittura del Furioso risale al 1502, al 1505 il disegno generale dell’opera e al 1507 la prima notizia sicura relativa alla sua avanzata composizione. In quei medesimi anni molti altri autori si stavano cimentando con la prosecuzione dell’Orlando innamorato di Boiardo, rimasto incompiuto per la morte dell’autore e pubblicato postumo in edizione definitiva nel 1495.
L’opera, pubblicata infine in quaranta canti nel 1516 e dedicata al cardinale Ippolito, ebbe un immediato e vasto successo. Negli anni successivi Ariosto ebbe diversi contatti con Pietro Bembo e iniziò a riflettere sul problema della lingua. La seconda edizione del 1521 fu il frutto di una revisione sostanzialmente stilistica, finalizzata a eliminare i tratti più scopertamente dialettali e “padani” per accogliere un modello linguistico “italiano” di matrice toscaneggiante. La terza edizione del 1532, in quarantasei canti, evidenzia una dilatazione della materia narrativa, una revisione storica e ideologica (in relazione alla mutata situazione contemporanea) e un’ulteriore revisione stilistica per adeguare la lingua del poema al canone petrarchesco, secondo il modello proposto da Bembo nelle Prose della volgar lingua (1525). La morte di Ariosto nel 1533 vanificò il progetto di una quarta edizione e lasciò come opera a sé stante i Cinque canti, lungo episodio connesso con la materia narrativa del Furioso ma da esso autonomo e distinto, anche per il tono cupo e amaro.
L’argomento
I personaggi e le vicende sono attinti dall’Orlando innamorato di Boiardo. Al motivo amoroso si intreccia quello guerresco, l’autore contamina così tradizione carolingia e tradizione arturiana. Innamorato di Angelica, il paladino Orlando ha abbandonato la guerra; respinto e tradito, finisce per impazzire. Parallelamente viene sviluppata la storia d’amore tra Ruggiero e Bradamante, all’origine della famiglia degli Este. Al blocco narrativo principale si intrecciano altre vicende ispirate a fonti diverse: romanzi francesi, cantari, tradizione novellistica, autori classici. Questo eterogeneo repertorio viene organizzato in un’opera organica e coerente, in cui l’invenzione è sempre attentamente sorvegliata.
La trama
Angelica fugge da Parigi inseguita dai suoi spasimanti (cristiani e saraceni); dopo diverse avventure è catturata dai pirati che la offrono in pasto a un’orca marina. Nel frattempo la guerriera cristiana Bradamante, con l’aiuto della maga Melissa, ha sottratto l’amato Ruggiero, cavaliere saraceno, agli incanti del mago Atlante, che lo fa però rapire dall’ippogrifo; trasportato sull’isola della maga Alcina, è sedotto dai suoi sortilegi, e solo un nuovo intervento di Melissa gli permette di fuggire. In groppa al cavallo alato Ruggiero giunge appena in tempo per salvare Angelica. Successivamente Ruggiero, Bradamante e Orlando, che a sua volta ha dimenticato la guerra e i suoi doveri verso il re per cercare Angelica, vengono fatti prigionieri da Atlante in una dimora incantata [canti I-XIII]. Agramante guida l’esercito saraceno all’assalto di Parigi, approfittando dell’assenza dei paladini di Carlo Magno. Angelica, giunta sul campo di battaglia, salva la vita al giovane guerriero saraceno Medoro e se ne innamora; dopo averlo sposato nella casa di un pastore, intraprende con lui il viaggio di ritorno verso la sua terra, il Catai. Quando Orlando viene a saperlo, impazzisce dal dolore. Nel frattempo la gelosia inquina la storia d’amore fra Ruggiero e Bradamante, che sospetta un tradimento con la bella guerriera Marfisa; dopo avere affrontato e vinto molteplici duelli, Bradamante scopre però che Marfisa è in realtà la sorella di Ruggiero [canti XIV-XXX]. Astolfo in groppa all’ippogrifo sale sulla Luna guidato da san Giovanni Evangelista; qui finisce infatti tutto ciò che si perde sulla Terra, e in particolare il senno di Orlando. Rinsavito, il paladino attacca il regno di Agramante costringendolo ad abbandonare l’assedio di Parigi. L’esito della guerra è affidato a un duello fra tre campioni saraceni e tre campioni cristiani: la vittoria va a questi ultimi, ma la gioia è funestata dalla morte di Brandimarte, amico fraterno di Orlando. Nel frattempo Ruggiero si è convertito al cristianesimo e ha conquistato il regno di Bulgaria; può così sposare Bradamante: dalla loro unione avrà origine la casata degli Este. Anche in questo caso però la festa è funestata dal sopraggiungere del guerriero saraceno Rodomonte, che sfida Ruggiero a duello e viene ucciso. Con la sua morte si conlcude il poema [canti XXXI-XLVI].
Il punto di vista del narratore
Leggendo la vita e la realtà attraverso il filtro dell’ironia, Ariosto intende smascherare le false certezze e denunciare gli inganni e le ipocrisie dell’umanità. Mantenendo un atteggiamento distaccato e dissacrante nei confronti dei propri personaggi, il poeta mette a nudo i limiti e le contraddizioni del pensare e dell’agire umano. In particolare negli esordi dei vari canti, Ariosto si riserva uno spazio per esplicite e personali riflessioni e giudizi in campo morale, storico e antropologico. Così pure la voce dell’autore interviene sovente nel corso della narrazione con osservazioni e commenti che ricollegano la materia romanzesca alla realtà contemporanea, sollecitando la riflessione del lettore.
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