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LUDOVICO ARIOSTO


SATIRE
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
I TEMI E LO STILE DELLE "SATIRE"
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LUDOVICO ARIOSTO  - SATIRE

FINE

Introduzione

Ludovico Ariosto compone le Satire a partire dal 1517, anno in cui abbandona il servizio presso il cardinale Ippolito d’Este, e prosegue fino al 1525. Si tratta di sette componimenti in terzine che nascono come una riflessione sull’esperienza personale del poeta. Le Satire partono, quindi, da un dato autobiografico per poi allargarsi ad una riflessione socio-culturale e politica sulla realtà delle corti del Cinquecento, intrecciando osservazioni psicologiche, considerazioni morali e appunti di riflessione che corrono paralleli al lavoro di revisione e di riscrittura dell’Orlando furioso. Ogni satira è indirizzata ad amici e parenti, assumendo quindi una struttura e una funzione quasi epistolare.

Modelli e stile

Diversi sono i modelli letterari di questa raccolta, ma colui che ha il ruolo principale è sicuramente l’autore latino Orazio (65-27 a.C.), con le Epistole e le Satire. Orazio, noto soprattutto per le Odi, viene recuperato da Ariosto come modello esemplare di medietas e di ironia, ovvero di capacità di affrontare le vicende umane secondo una prospettiva bilanciata tra distacco divertito e reazione ai toni troppo accesi o quelli eccessivamente seri e drammatici. Il modello classico si adatta pure bene alla finzione epistolare, per cui ogni satira, come una sorta di lettera privata ad un amico o a un confidente, è indirizzata ad un particolare destinatario, cui il poeta svela - non senza ironia - la propria visione del mondo. L’altro modello di riferimento, dal punto di vista metrico, è Dante e la sua Commedia; la terzina assicura lo sviluppo narrativo e quasi “colloquiale” dell’epistola, e si adatta assai bene allo stile medio del genere.

Lo stile di Ariosto è medio e molto controllato, non scadendo mai nella polemica, ma mantenendo sempre un tono pacato e leggero, attraverso l’ironia e una notevole vivacità stilistica. Nonostante questo dominio nello stile, emergono tra le righe le dure critiche del poeta alla società e all’ambiente della corte; nella Satira I, in cui Ariosto spiega il suo abbandono del cardinale Ippolito d'Este, per esempio, il poeta esprime le sue considerazioni sul servizio prestato presso l’ecclesiastico, rappresentandolo come un uomo duro, volubile, avaro e insensibile all’arte poetica, che lo ha trattato come un cameriere, sfruttandolo per i compiti più mediocri ed umilianti.

Il livello stilistico trova un suo parallelo strutturale e contenutistico: ogni satira ariostesca parte da un evento autobiografico (spesso semplice e modesto) per poi allargare la riflessione alla morale, ai vizi umani, alla realtà contemporanea, nell’elogio costante di una vita serena ed appartata. Le Satire appaiono allora come un’opera innovativa nel panorama letterario italiano del Cinquecento. Innanzitutto per aver ripreso lo stile di Orazio, le cui Satire non godettero di grande fortuna nel secolo precedente. In secondo luogo per la struttura epistolare e l’utilizzo del dato autobiografico per esprimere considerazioni generali sulla società.

Le tematiche delle Satire

I motivi dei componimenti sono vari: la difesa del proprio rifiuto di seguire in Ungheria il cardinale Ippolito d’Este, e il ricordo dei guai passati mentre è stato al suo servizio, la denuncia dell’adulazione, vizio della corte (Satira I); la partenza per Roma dove l'Ariosto si reca per risolvere i problemi legali connessi al beneficio ecclesiastico di Sant'Agata in Faenza (Satira II); il nuovo lavoro come salariato di Alfonso I d’Este, l’elogio della vita sobria, a casa propria nella propria città (Satira III); il bilancio del duro lavoro di Governatore del difficile territorio della Garfagnana in nome del duca d’Este, la nostalgia della sua donna, e della scrittura letteraria (Satira IV); i vantaggi e gli svantaggi del prendere moglie (Satira V); una richiesta al letterato-amico Pietro Bembo che gli procuri per il figlio Virginio, studente a Padova, un precettore di greco, raccomandandosi che sia affidabile per dottrina e costumi (Satira VI); il rifiuto della carica di ambasciatore estense presso il papa Clemente VII (Satira VII).
Se il modello, per lo stile di vita, è il grande poeta latino Orazio, inconsueto a quei tempi, lo stile letterario si eleva nei brani autobiografici dove espressione e linguaggio, si fanno ancor più incisivi, indignati e risentiti. L’analisi è tanto ampia da costituire, secondo Cesare Segre, il più autorevole studioso delle Satire ariostesche, una “rappresentazione” conforme alla realtà del bene e del male, ad esempio a proposito della corruzione politica e amministrativa dei tempi. A questa rappresentazione concorrono i famosissimi ed ancora attuali exempla delle Satire: l’apologo dell’asino entrato nel granaio per una fessura, e del topolino che, vedendolo troppo grasso per la comodità del cibo, gli consiglia di cominciare a vomitare, per far calare la pancia e tornare fuori senza rompersi le ossa (Satira I, v. 247); l’apologo sulla pazzia delle “ranocchie” che van cercando a chi scoprire il capo e piegar le “ginocchie” (Satira III. v. 19); la favola (di tradizione fedriana) della gazza, già molto apprezzata dal padrone-pastore, e della grave siccità che, obbligando tutti ad andare lontano dalla terra d’origine, e a scavare un pozzo, fa comprendere al pennuto di doversi trovare, da solo, almeno un rigagnolo, per non morire di sete, dato che, secondo le nuove regole della ristrettezza, resterà dietro gli altri, poiché egli non è parente del pastore e non lo ha aiutato a scavare il pozzo (Satira III, v. 142); la favola degli uomini che vivevano nel fondovalle e volevano la luna, la più bella e più chiara, così corsero in gara sulla cima della montagna, chi con un canestro, chi con un sacco, ma si accorsero di non averla raggiunta, mentre quelli dietro di loro credevano che stessero toccando luna e cielo (Satira III, v. 208); l’aneddoto del veneziano che, dopo aver avuto in dono dal re del Portogallo un eccellente cavallo bèrbero, per governarlo, usa la stessa tecnica del pilotare le barche (Satira IV, v. 208); la novella licenziosa del pittore (secondo alcuni, Galasso, maestro di Cosmè Tura, il grande pittore ferrarese), e del diavolo riconoscente per essere stato dipinto senza corna né artigli d’uccello al posto dei piedi (Satira V, v. 298); l’aneddoto dello spagnolo che, dopo la confessione, torna dal confessore per dirgli di aver dimenticato un “peccadiglio”, quello di non credere alla Trinità cattolica (Satira VI, v.34);l’apologo della zucca, che divenne tanto alta da coprire le cime del vicino pero, abbandonatosi a un sonno di tre mesi, dopo aver lottato per trent’anni contro afa, venti e gelo. Svegliatosi, il pero chiese alla zucca il suo nome, il luogo dov’era stata interrata e dove si trovasse quand’egli si era addormentato. La pianta, rispondendo alle domande, precisò di essersi spinta a tanta altezza in soli tre mesi, per aver saputo accelerare il passo, ma il pero le anticipò con certezza, che essa, in breve tempo inaridita, sarebbe crollata secca al suolo (Satira VII, v. 70); l’aneddoto di Paolo Emilio, il quale, a chi lo rimproverava di aver ripudiato la bella, ricca e onesta moglie, mostrò il calzare, bello d’aspetto e nuovo, di cui solo lui sapeva dove desse dolore (Satira VII, v. 145).
Nelle Satire, meglio che nelle Commedie, l’Ariosto è riuscito non solo a fissare, come detto, in forma di dialoghi confidenziali, le parole sue e di altri personaggi, storici o immaginari, ma le ha anche rese dei “condensati vocali della memoria o dell’immaginazione” che “hanno la vitalità e la precisione del giudizio acuto del poeta”.

Satira I (1517): Indirizzata ad Alessandro Ariosto, suo fratello e alll’amico Ludovico da Bagno, anch’essi al servizio di Ippolito d’Este. Il poeta spiega, tra il serio e il faceto, i motivi per cui, nonostante le difficoltà economiche, ha rifiutato il trasferimento in Ungheria al seguito del cardinale. Oltre alle scelte personali, spicca soprattutto l’ideale di libertà dell’umanista e dell’uomo rinascimentale, che, alle ambizioni professionali e ai tranelli della vita cortigiana, antepone la ricerca della serenità e la cura della passione letteraria.

Satira II (1517):
Rivolgendosi al fratello Galasso, il poeta chiede un modesto alloggio nella città di Roma, dove dovrà recarsi per degli impegni connessi al suo ruolo di ecclesiastico. La contingenza serve per contrapporre la frenesia della vita di città alla pace del locus amoenus di campagna, lontano da falsità ed ipocrisie delle corti dei potenti.

Satira III (1518):
il cugino Annibale è il destinatario di una riflessione dell’autore che, partendo dal passaggio alla corte di Alfonso d’Este, sviluppa il tema della libertà e l’amore per la vita domestica. Il ragionamento è esemplificato con due apologhi: prima, un pastore, in un periodo di siccità, fa dissetare la famiglia e gli animali secondo la loro utilità al sostentamento di tutti. Una gazza, simbolo del poeta di corte, rimane per ultima, in quanto la poesia non è ritenuta attività fondamentale a corte. Nel secondo, dei valligani vogliono toccare la luna che splende sopra la loro valle, e si dedicano così ad un’inutile scalata. Attraverso questa storiella, Ariosto denuncia ancora la superficialità e la sciocchezza delle ambizioni umane.

Satira IV (1523):
Scrivendo al cugino Sigismondo, Ariosto racconta la sua esperienza in Garfagnana, che si presenta difficile sia per la natura ostile del luogo sia per il fenomeno del brigantaggio.

Satira V (1519-1523):
Rivolta al cugino Annibale (destinatario anche della terza satira), questa satira tratta del tema del matrimonio, cui il parente si sta appunto accingendo. Il tono è prevalentemente scherzoso.

Satira VI (1524-1525):
destinatario dell’epistola è Pietro Bembo, cui il poeta si rivolge in cerca di un maestro di lingua greca per suo figlio Virginio. Il tono però è ironico ed autoironico, in quanto il poeta torna agli anni della giovinezza, e alla scelta di interrompere gli studi per trasformarsi da “poeta” a “cavallaro”.

Satira VII (1524):
il destinatario dell’ultima satira è Bonaventura Pistofilo (1470-1543), segretario del duca Alfonso. Ariosto rifiuta cortesemente la proposta di diventare ambasciatore per papa Clemente VII, riconfermando il suo ideale di vita sereno e lontano dalle inquietudini e dai problemi della vita politica e di corte.

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LE ALTRE OPERE

La produzione lirica [1502-1532]
Le poesie in latino
Sono componimenti per lo più epigrammatici di argomento vario, in particolare autobiografico e amoroso. Hanno valore documentario più che artistico, come testimonianza degli studi, dei gusti e dell’apprendistato poetico dell’autore.

Le poesie in volgare

Sono versi d’occasione dedicati per lo più all’amore per Alessandra Benucci e, in rari casi, a tematiche politiche o celebrative, e si segnalano per una dipendenza non esclusiva dal modello petrarchesco, integrato con la lezione dei classici. Ariosto non riunì mai questi materiali poetici in un canzoniere, selezionando e ordinando le liriche secondo un disegno tematico. L’autore pensò di stampare alcuni componimenti, ma il progetto non fu mai portato a termine.

La produzione teatrale [1493-1529]

Ariosto esordì come autore di teatro nel 1493 con la perduta Tragedia di Tisbe. Successivamente mise in scena per la corte volgarizzamenti di commedie di Plauto e Terenzio; fu anche attore, scenografo e regista. Per il carnevale del 1508 fece rappresentare una commedia originale, La cassaria, e l’anno seguente I suppositi, ambientati a Ferrara. Seguirono, tra il 1520 e il 1532, Il negromante, I studenti (incompiuta) e La Lena, composte in endecasillabi sdruccioli, e la riscrittura in versi delle commedie precedenti. L’autore rinuncia alle celebrazioni encomiastiche per mettere in scena un mondo subalterno di servi, prostitute e furfanti. L’ultima commedia, in particolare, offre un impietoso ritratto della società ferrarese del tempo, tesa al profitto e affetta da diffidenza ed egoismo. Con queste opere Ariosto dettò il canone della drammaturgia rinascimentale: struttura regolare del testo suddiviso in cinque atti, apparato scenografico spettacolare e sfarzoso, caratterizzato dal concorso di tutte le arti (letteratura, pittura, scultura, musica, danza), contaminazione e rielaborazione di testi della tradizione classica.

L’epistolario
[1498-1532]

Di Ariosto ci rimangono 214 lettere di carattere professionale e dettate per lo più da urgenze pratiche. Si tratta di preziosi documenti biografici, da cui emerge non tanto il letterato, quanto piuttosto il funzionario di corte.

L’Orlando furioso [1507-1533]

La genesi

L’inizio della scrittura del Furioso risale al 1502, al 1505 il disegno generale dell’opera e al 1507 la prima notizia sicura relativa alla sua avanzata composizione. In quei medesimi anni molti altri autori si stavano cimentando con la prosecuzione dell’Orlando innamorato di Boiardo, rimasto incompiuto per la morte dell’autore e pubblicato postumo in edizione definitiva nel 1495.
L’opera, pubblicata infine in quaranta canti nel 1516 e dedicata al cardinale Ippolito, ebbe un immediato e vasto successo. Negli anni successivi Ariosto ebbe diversi contatti con Pietro Bembo e iniziò a riflettere sul problema della lingua. La seconda edizione del 1521 fu il frutto di una revisione sostanzialmente stilistica, finalizzata a eliminare i tratti più scopertamente dialettali e “padani” per accogliere un modello linguistico “italiano” di matrice toscaneggiante. La terza edizione del 1532, in quarantasei canti, evidenzia una dilatazione della materia narrativa, una revisione storica e ideologica (in relazione alla mutata situazione contemporanea) e un’ulteriore revisione stilistica per adeguare la lingua del poema al canone petrarchesco, secondo il modello proposto da Bembo nelle Prose della volgar lingua (1525). La morte di Ariosto nel 1533 vanificò il progetto di una quarta edizione e lasciò come opera a sé stante i Cinque canti, lungo episodio connesso con la materia narrativa del Furioso ma da esso autonomo e distinto, anche per il tono cupo e amaro.

L’argomento

I personaggi e le vicende sono attinti dall’Orlando innamorato di Boiardo. Al motivo amoroso si intreccia quello guerresco, l’autore contamina così tradizione carolingia e tradizione arturiana. Innamorato di Angelica, il paladino Orlando ha abbandonato la guerra; respinto e tradito, finisce per impazzire. Parallelamente viene sviluppata la storia d’amore tra Ruggiero e Bradamante, all’origine della famiglia degli Este. Al blocco narrativo principale si intrecciano altre vicende ispirate a fonti diverse: romanzi francesi, cantari, tradizione novellistica, autori classici. Questo eterogeneo repertorio viene organizzato in un’opera organica e coerente, in cui l’invenzione è sempre attentamente sorvegliata.

La trama

Angelica fugge da Parigi inseguita dai suoi spasimanti (cristiani e saraceni); dopo diverse avventure è catturata dai pirati che la offrono in pasto a un’orca marina. Nel frattempo la guerriera cristiana Bradamante, con l’aiuto della maga Melissa, ha sottratto l’amato Ruggiero, cavaliere saraceno, agli incanti del mago Atlante, che lo fa però rapire dall’ippogrifo; trasportato sull’isola della maga Alcina, è sedotto dai suoi sortilegi, e solo un nuovo intervento di Melissa gli permette di fuggire. In groppa al cavallo alato Ruggiero giunge appena in tempo per salvare Angelica. Successivamente Ruggiero, Bradamante e Orlando, che a sua volta ha dimenticato la guerra e i suoi doveri verso il re per cercare Angelica, vengono fatti prigionieri da Atlante in una dimora incantata [canti I-XIII]. Agramante guida l’esercito saraceno all’assalto di Parigi, approfittando dell’assenza dei paladini di Carlo Magno. Angelica, giunta sul campo di battaglia, salva la vita al giovane guerriero saraceno Medoro e se ne innamora; dopo averlo sposato nella casa di un pastore, intraprende con lui il viaggio di ritorno verso la sua terra, il Catai. Quando Orlando viene a saperlo, impazzisce dal dolore. Nel frattempo la gelosia inquina la storia d’amore fra Ruggiero e Bradamante, che sospetta un tradimento con la bella guerriera Marfisa; dopo avere affrontato e vinto molteplici duelli, Bradamante scopre però che Marfisa è in realtà la sorella di Ruggiero [canti XIV-XXX]. Astolfo in groppa all’ippogrifo sale sulla Luna guidato da san Giovanni Evangelista; qui finisce infatti tutto ciò che si perde sulla Terra, e in particolare il senno di Orlando. Rinsavito, il paladino attacca il regno di Agramante costringendolo ad abbandonare l’assedio di Parigi. L’esito della guerra è affidato a un duello fra tre campioni saraceni e tre campioni cristiani: la vittoria va a questi ultimi, ma la gioia è funestata dalla morte di Brandimarte, amico fraterno di Orlando. Nel frattempo Ruggiero si è convertito al cristianesimo e ha conquistato il regno di Bulgaria; può così sposare Bradamante: dalla loro unione avrà origine la casata degli Este. Anche in questo caso però la festa è funestata dal sopraggiungere del guerriero saraceno Rodomonte, che sfida Ruggiero a duello e viene ucciso. Con la sua morte si conlcude il poema [canti XXXI-XLVI].


SATIRA I

A Messer Alessandro Ariosto et a Messer Ludovico da Bagno.

Io desidero intendere da voi,
Alessandro fratel, compar mio Bagno,
s’in corte è ricordanza più di noi;

se più il signor me accusa; se compagno
per me si lieva e dice la cagione
per che, partendo gli altri, io qui rimagno;

o, tutti dotti ne la adulazione
(l’arte che più tra noi si studia e cole),
l’aiutate a biasmarme oltra ragione.

Pazzo chi al suo signor contradir vole,
se ben dicesse c’ha veduto il giorno
pieno di stelle e a mezzanotte il sole.

O ch’egli lodi, o voglia altrui far scorno,
di varie voci subito un concento
s’ode accordar di quanti n’ha dintorno;

e chi non ha per umiltà ardimento
la bocca aprir, con tutto il viso applaude
e par che voglia dir: «anch’io consento».

Ma se in altro biasmarme, almen dar laude
dovete che, volendo io rimanere,
lo dissi a viso aperto e non con fraude.

Dissi molte ragioni, e tutte vere,
de le quali per sé sola ciascuna
esser mi dovea degna di tenere.

Prima la vita, a cui poche o nessuna
cosa ho da preferir, che far più breve
non voglio che ’l ciel voglia o la Fortuna.

Ogni alterazione, ancor che leve,
ch’avesse il mal ch’io sento, o ne morei,
o il Valentino e il Postumo errar deve.

Oltra che ’l dicano essi, io meglio i miei
casi de ogni altro intendo; e quai compensi
mi siano utili so, so quai son rei.

So mia natura come mal conviensi
co’ freddi verni; e costà sotto il polo
gli avete voi più che in Italia intensi.
==>SEGUE



E non mi nocerebbe il freddo solo;
ma il caldo de le stuffe, c’ho sì infesto,
che più che da la peste me gli involo.

Né il verno altrove s’abita in cotesto
paese: vi si mangia, giuoca e bee,
e vi si dorme e vi si fa anco il resto.

Che quindi vien, come sorbir si dee
l’aria che tien sempre in travaglio il fiato
de le montagne prossime Rifee?

Dal vapor che, dal stomaco elevato,
fa catarro alla testa e cala al petto,
mi rimarei una notte soffocato.

E il vin fumoso, a me vie più interdetto
che ’l tòsco, costì a inviti si tracanna,
e sacrilegio è non ber molto e schietto.

Tutti li cibi sono con pepe e canna
di amomo e d’altri aròmati, che tutti
come nocivi il medico mi danna.

Qui mi potreste dir ch’io avrei ridutti,
dove sotto il camin sedria al foco,
né piei, né ascelle odorerei, né rutti;

e le vivande condiriemi il cuoco
come io volessi, et inacquarmi il vino
potre’ a mia posta, e nulla berne o poco.

Dunque voi altri insieme, io dal matino
alla sera starei solo alla cella,
solo alla mensa come un certosino?

Bisognerieno pentole e vasella
da cucina e da camera, e dotarme
di masserizie qual sposa novella.

Se separatamente cucinarme
vorà mastro Pasino una o due volte,
quattro e sei mi farà il viso da l’arme.

S’io vorò de le cose ch’avrà tolte
Francesco di Siver per la famiglia,
potrò matina e sera averne molte.

S’io dirò: «Spenditor, questo mi piglia,
che l’umido cervel poco notrisce;
questo no, che ’l catar troppo assottiglia»

==>SEGUE


gli è perché alcuna volta io sprono e sferzo
mutando bestie e guide, e corro in fretta
per monti e balze, e con la morte scherzo.

Fa a mio senno, Maron: tuoi versi getta
con la lira in un cesso, e una arte impara,
se beneficii vuoi, che sia più accetta.

Ma tosto che n’hai, pensa che la cara
tua libertà non meno abbi perduta
che se giocata te l’avessi a zara;

e che mai più, se ben alla canuta
età vivi e viva egli di Nestorre,
questa condizïon non ti si muta.

E se disegni mai tal nodo sciorre,
buon patto avrai, se con amore e pace
quel che t’ha dato si vorà ritorre.

A me, per esser stato contumace
di non voler Agria veder né Buda,
che si ritoglia il suo sì non mi spiace

(se ben le miglior penne che avea in muda
rimesse, e tutte, mi tarpasse), come
che da l’amor e grazia sua mi escluda,

che senza fede e senza amor mi nome,
e che dimostri con parole e cenni
che in odio e che in dispetto abbia il mio nome.

E questo fu cagion ch’io me ritenni
di non gli comparire inanzi mai,
dal dì che indarno ad escusar mi vienni.

Ruggier, se alla progenie tua mi fai
sì poco grato, e nulla mi prevaglio
che li alti gesti e tuo valor cantai,

che debbio far io qui, poi ch’io non vaglio
smembrar su la forcina in aria starne,
né so a sparvier, né a can metter guinzaglio?

Non feci mai tai cose e non so farne:
alli usatti, alli spron, perch’io son grande,
non mi posso adattar per porne o trarne.


==>SEGUE







Io non ho molto gusto di vivande,
che scalco io sia; fui degno essere al mondo
quando viveano gli uomini di giande.

Non vo’ il conto di man tòrre a Gismondo;
andar più a Roma in posta non accade
a placar la grande ira di Secondo;

e quando accadesse anco, in questa etade,
col mal ch’ebbe principio allora forse,
non si convien più correr per le strade.

Se far cotai servigi e raro tòrse
di sua presenza de’ chi d’oro ha sete,
e stargli come Artofilace all’Orse;

più tosto che arricchir, voglio quïete:
più tosto che occuparmi in altra cura,
sì che inondar lasci il mio studio a Lete.

Il qual, se al corpo non può dar pastura,
lo dà alla mente con sì nobil ésca,
che merta di non star senza cultura.

Fa che la povertà meno m’incresca,
e fa che la ricchezza sì non ami
che di mia libertà per suo amor esca;

quel ch’io non spero aver, fa ch’io non brami,
che né sdegno né invidia me consumi
perché Marone o Celio il signor chiami;

ch’io non aspetto a mezza estade i lumi
per esser col signor veduto a cena,
ch’io non lascio accecarmi in questi fumi;

ch’io vado solo e a piedi ove mi mena
il mio bisogno, e quando io vo a cavallo,
le bisaccie gli attacco su la schiena.

E credo che sia questo minor fallo
che di farmi pagar, s’io raccomando
al principe la causa d’un vasallo;

o mover liti in benefici, quando
ragion non v’abbia, e facciami i pievani
ad offerir pension venir pregando.

==>SEGUE

Anco fa che al ciel levo ambe le mani,
ch’abito in casa mia commodamente,
voglia tra cittadini o tra villani;

e che nei ben paterni il rimanente
del viver mio, senza imparar nova arte,
posso, e senza rossor, far, di mia gente.

Ma perché cinque soldi da pagarte,
tu che noti, non ho, rimetter voglio
la mia favola al loco onde si parte.

Aver cagion di non venir mi doglio:
detto ho la prima, e s’io vuo’ l’altre dire,
né questo basterà né un altro foglio.

Pur ne dirò anco un’altra: che patire
non debbo che, levato ogni sostegno,
casa nostra in ruina abbia a venire.

De cinque che noi siàn, Carlo è nel regno
onde cacciaro i Turchi il mio Cleandro,
e di starvi alcun tempo fa disegno;

Galasso vuol ne la città di Evandro
por la camicia sopra la guarnaccia;
e tu sei col signore ito, Alessandro.

Ecci Gabriel; ma che vuoi tu ch’ei faccia?
che da fanciullo la sua mala sorte
lo impedì de li piedi e de le braccia.

Egli non fu né in piazza mai, né in corte,
et a chi vuol ben reggere una casa
questo si può comprendere che importe.

Alla quinta sorella che rimasa
n’era, bisogna apparecchiar la dote,
che le siàn debitori, or che se accasa.

L’età di nostra matre mi percuote
di pietà il core; che da tutti un tratto
senza infamia lasciata esser non puote.

Io son de dieci il primo, e vecchio fatto
di quarantaquattro anni, e il capo calvo
da un tempo in qua sotto il cuffiotto appiatto.

==>SEGUE


La vita che mi avanza me la salvo
meglio ch’io so: ma tu che diciotto anni
dopo me t’indugiasti a uscir de l’alvo,

gli Ongari a veder torna e gli Alemanni,
per freddo e caldo segui il signor nostro,
servi per amendua, rifà i miei danni.

Il qual se vuol di calamo et inchiostro
di me servirsi, e non mi tòr da bomba,
digli: «Signore, il mio fratello è vostro».

Io, stando qui, farò con chiara tromba
il suo nome sonar forse tanto alto
che tanto mai non si levò colomba.

A Filo, a Cento, in Arïano, a Calto
arriverei, ma non sin al Danubbio,
ch’io non ho piei gagliardi a sì gran salto.

Ma se a voglier di novo avessi al subbio
li quindici anni che in servirlo ho spesi,
passar la Tana ancor non starei in dubbio.

Se avermi dato onde ogni quattro mesi
ho venticinque scudi, né sì fermi
che molte volte non mi sien contesi,

mi debbe incatenar, schiavo tenermi,
ubligarmi ch’io sudi e tremi senza
rispetto alcun, ch’io moia o ch’io me ’nfermi,

non gli lasciate aver questa credenza;
ditegli che più tosto ch’esser servo
torrò la povertade in pazïenza.

Uno asino fu già, ch’ogni osso e nervo
mostrava di magrezza, e entrò, pel rotto
del muro, ove di grano era uno acervo;

e tanto ne mangiò, che l’epa sotto
si fece più d’una gran botte grossa
fin che fu sazio, e non però di botto.

Temendo poi che gli sien péste l’ossa,
si sforza di tornar dove entrato era,
ma par che ’l buco più capir nol possa.

==>SEGUE


Mentre s’affanna, e uscire indarno spera,
gli disse un topolino: «Se vuoi quinci
uscir, tràtti; compar, quella panciera:

a vomitar bisogna che cominci
ciò c’hai nel corpo, e che ritorni macro,
altrimenti quel buco mai non vinci».

Or, conchiudendo, dico che, se ’l sacro
Cardinal comperato avermi stima
con li suoi doni, non mi è acerbo et acro

renderli, e tòr la libertà mia prima.







SATIRA II

A Messer Galasso Ariosto, suo fratello.

Perc’ho molto bisogno, più che voglia,
d’esser in Roma, or che li cardinali
a guisa de le serpi mutan spoglia;

or che son men pericolosi i mali
a’ corpi, ancor che maggior peste affliga
le travagliate menti de’ mortali:

quando la ruota, che non pur castiga
Issïon rio, si volge in mezzo Roma
l’anime a crucïar con lunga briga;

Galasso, appresso il tempio che si noma
da quel prete valente che l’orecchia
a Malco allontanar fe’ da la chioma,

stanza per quattro bestie mi apparecchia,
contando me per due con Gianni mio,
poi metti un mulo, e un’altra rózza vecchia.

Camera o buca, ove a stanzar abbia io,
che luminosa sia, che poco saglia,
e da far fuoco commoda, desio.

Né de’ cavalli ancor meno ti caglia;
che poco gioveria ch’avesser pòste,
dovendo lor mancar poi fieno o paglia.

Sia per me un mattarazzo, che alle coste
faccia vezzi, o di lana o di cottone,
sì che la notte io non abbia ire all’oste.

Provedimi di legna secche e buone;
di chi cucini, pur così alla grossa,
un poco di vaccina o di montone.

Non curo d’un che con sapori possa
de vari cibi suscitar la fame,
se fosse morta e chiusa ne la fossa.

Unga il suo schidon pur o il suo tegame
sin all’orecchio a ser Vorano il muso,
venuto al mondo sol per far lettame;

==>SEGUE


   

Fa che vi sian de’ libri, con che io passi
quelle ore che commandano i prelati
al loro uscier che alcuno entrar non lassi;

come ancor fanno in su la terza i frati,
che non li muove il suon del campanello,
poi che si sono a tavola assettati.

«Signor,» dirò (non s’usa più fratello,
poi che la vile adulazion spagnola
messe la signoria fin in bordello)

«signor,» (se fosse ben mozzo da spuola)
dirò «fate, per Dio, che monsignore
reverendissimo oda una parola.»

«Agora non si puede, et es meiore
che vos torneis a la magnana.» «Almeno,
fate ch’ei sappia ch’io son qui di fuore.»

Risponde che ’l patron non vuol gli siéno
fatte imbasciate, se venisse Pietro,
Pavol, Giovanni e il Mastro Nazereno.

Ma se fin dove col pensier penètro
avessi, a penetrarvi, occhi lincei,
o’ muri trasparesser come vetro,

forse occupati in cosa li vedrei
che iustissima causa di celarsi
avrian dal sol, non che da gli occhi miei.

Ma sia a un tempo lor agio di ritrarsi,
e a noi di contemplar sotto il camino
pei dotti libri i saggi detti sparsi.

Che mi mova a veder Monte Aventino
so che voresti intendere, e dirolti:
è per legar tra carta, piombo e lino,

sì che tener, che non mi sieno tolti,
possa, pel viver mio, certi baiocchi
che a Melan piglio, ancor che non sien molti;

e proveder ch’io sia il primo che mocchi
Santa Agata, se avien ch’al vecchio prete,
supervivendogli io, di morir tocchi.

==>SEGUE

Dunque io darò del capo ne la rete
ch’io soglio dir che ’l diavol tende a questi
che del sangue di Cristo han tanta sete?

Ma tu vedrai, se Dio vorrà che resti
questa chiesa in man mia, darla a persona
saggia e scïente e de costumi onesti,

che con periglio suo poi ne dispona:
io né pianeta mai né tonicella
né chierca vuo’ che in capo mi si pona.

Come né stole, io non vuo’ ch’anco annella
mi leghin mai, che in mio poter non tenga
di elegger sempre o questa cosa o quella.

Indarno è, s’io son prete, che mi venga
disir di moglie; e quando moglie io tolga,
convien che d’esser prete il desir spenga.

Or, perché so come io mi muti e volga
di voler tosto, schivo di legarmi
d’onde, se poi mi pento, io non mi sciolga.

Qui la cagion potresti dimandarmi
per che mi levo in collo sì gran peso,
per dover poi s’un altro scarricarmi.

Perché tu e gli altri frati miei ripreso
m’avreste, e odiato forse, se offerendo
tal don Fortuna, io non l’avessi preso.

Sai ben che ’l vecchio, la riserva avendo,
inteso di un costì che la sua morte
bramava, e di velen perciò temendo,

mi pregò ch’a pigliar venissi in corte
la sua rinuncia, che potria sol tòrre
quella speranza onde temea sì forte.

Opra feci io che si volesse porre
ne le tue mani o d’Alessandro, il cui
ingegno da la chierca non aborre;

ma né di voi, né di più giunti a lui
d’amicizia, fidar unqua si volle:
io fuor de tutti scelto unico fui.

==>SEGUE
    

Questa opinïon mia so ben che folle
diranno molti, che a salir non tenti
la via ch’uom spesso a grandi onori estolle.

Questa povere, sciocche, inutil genti,
sordide, infami, ha già levato tanto,
che fatti gli ha adorar dai re potenti.

Ma chi fu mai sì saggio o mai sì santo
che di esser senza macchia di pazzia,
o poca o molta, dar si possa vanto?

Ogniun tenga la sua, questa è la mia:
se a perder s’ha la libertà, non stimo
il più ricco capel che in Roma sia.

Che giova a me seder a mensa il primo,
se per questo più sazio non mi levo
di quel ch’è stato assiso a mezzo o ad imo?

Come né cibo, così non ricevo
più quïete, più pace o più contento,
se ben de cinque mitre il capo aggrevo.

Felicitade istima alcun, che cento
persone te accompagnino a palazzo
e che stia il volgo a riguardarte intento;

io lo stimo miseria, e son sì pazzo
ch’io penso e dico che in Roma fumosa
il signore è più servo che ’l ragazzo.

Non ha da servir questi in maggior cosa
che di esser col signor quando cavalchi;
l’altro tempo a suo senno o va o si posa.

La maggior cura che sul cor gli calchi
è che Fiammetta stia lontana, e spesso
causi che l’ora del tinel gli valchi.

A questo ove gli piace è andar concesso,
accompagnato e solo, a piè, a cavallo;
fermarsi in Ponte, in Banchi e in chiasso appresso:

piglia un mantello o rosso o nero o giallo,
e se non l’ha, va in gonnelin liggiero;
né questo mai gli è attribuito a fallo.

==>SEGUE


    


Quello altro, per fodrar di verde il nero
capel, lasciati ha i ricchi uffici e tolto
minor util, più spesa e più pensiero.

Ha molta gente a pascere e non molto
da spender, che alle bolle è già ubligato
del primo e del secondo anno il ricolto;

e del debito antico uno è passato,
et uno, e al terzo termine si aspetta
esser sul muro in publico attaccato.

Gli bisogna a San Pietro andar in fretta;
ma perché il cuoco o il spenditor ci manca,
che gli sien dietro, gli è la via interdetta.

Fuori è la mula, o che si duol d’una anca,
o che le cingie o che la sella ha rotta,
o che da Ripa vien sferrata e stanca.

Se con lui fin il guattaro non trotta,
non può il misero uscir, che stima incarco
il gire e non aver dietro la frotta.

Non è il suo studio né in Matteo né in Marco,
ma specula e contempla a far la spesa
sì, che il troppo tirar non spezzi l’arco.

«D’uffici, di badie, di ricca chiesa
forse adagiato, alcun vive giocondo,
che né la stalla, né il tinel gli pesa.»

Ah! che ’l disio d’alzarsi il tiene al fondo!
Già il suo grado gli spiace, e a quello aspira
che dal sommo Pontefice è il secondo.

Giugne a quel anco, e la voglia anco il tira
all’alta sedia, che d’aver bramata
tanto, indarno San Georgio si martira.

Che fia s’avrà la catedra beata?
Tosto vorrà gli figli o li nepoti
levar da la civil vita privata.

Non penserà d’Achivi o d’Epiroti
dar lor dominio; non avrà disegno
de la Morea o de l’Arta far despòti;

==>SEGUE



non cacciarne Ottoman per dar lor regno,
ove da tutta Europa avria soccorso
e faria del suo ufficio ufficio degno;

ma spezzar la Colonna e spegner l’Orso
per tòrgli Palestrina e Tagliacozzo,
e darli a’ suoi, sarà il primo discorso.

E qual strozzato e qual col capo mozzo
ne la Marca lasciando et in Romagna,
trionferà, del cristian sangue sozzo.

Darà l’Italia in preda a Francia o Spagna,
che sozzopra voltandola, una parte
al suo bastardo sangue ne rimagna.

L’escomuniche empir quinci le carte,
e quindi ministrar si vederanno
l’indulgenzie plenarie al fiero Marte.

Se ’l Svizzero condurre o l’Alemanno
si dee, bisogna ritrovare i nummi,
e tutto al servitor ne viene il danno.

Ho sempre inteso e sempre chiaro fummi
ch’argento che lor basti non han mai,
o veschi o cardinali o Pastor summi.

Sia stolto, indòtto, vil, sia peggio assai,
farà quel ch’egli vuol, se posto insieme
avrà tesoro; e chi baiar vuol, bai.

Perciò li avanzi e le miserie estreme
fansi, di che la misera famiglia
vive affamata, e grida indarno e freme.

Quanto è più ricco, tanto più assottiglia
la spesa; che i tre quarti si delibra
por da canto di ciò che l’anno piglia.

Da le otto oncie per bocca a mezza libra
si vien di carne, e al pan di cui la veccia
nata con lui, né il loglio fuor si cribra.

Come la carne e il pan, così la feccia;
del vin si dà, c’ha seco una puntura
che più mortal non l’ha spiedo né freccia;

==>SEGUE


o ch’egli fila e mostra la paura
ch’ebbe, a dar volta, di fiaccarsi il collo,
sì che men mal saria ber l’acqua pura.

Se la bacchetta pur levar satollo
lasciasse il capellan, mi starei cheto,
se ben non gusta mai vitel né pollo.

«Questo» dirai «può un servitor discreto
patir; che quando monsignor suo accresce,
accresce anco egli, e n’ha da viver lieto.»

Ma tal speranza a molti non riesce;
che, per dar loco alla famiglia nuova,
più d’un vecchio d’ufficio e d’onor esce.

Camarer, scalco e secretario truova
il signor degni al grado, e n’hai buon patto
che dal servizio suo non ti rimova.

Quanto ben disse il mulatier quel tratto
che, tornando dal bosco, ebbe la sera
nuova che ’l suo padron papa era fatto:

«Che per me stesse cardinal meglio era;
ho fin qui auto da cacciar dui muli,
or n’avrò tre; che più di me ne spera,

comperi quanto io n’ho d’aver dui iuli».

SATIRA III

A Messer Annibale Malagucio.

Poi che, Annibale, intendere vuoi come
la fo col duca Alfonso, e s’io mi sento
più grave o men de le mutate some;

perché, s’anco di questo mi lamento,
tu mi dirai c’ho il guidalesco rotto,
o ch’io son di natura un rozzon lento:

senza molto pensar, dirò di botto
che un peso e l’altro ugualmente mi spiace,
e fòra meglio a nessuno esser sotto.

Dimmi or c’ho rotto il dosso e, se ’l ti piace,
dimmi ch’io sia una rózza, e dimmi peggio:
insomma esser non so se non verace.

Che s’al mio genitor, tosto che a Reggio
Daria mi partorì, facevo il giuoco
che fe’ Saturno al suo ne l’alto seggio,

sì che di me sol fosse questo poco
ne lo qual dieci tra frati e serocchie
è bisognato che tutti abbian luoco,

la pazzia non avrei de le ranocchie
fatta già mai, d’ir procacciando a cui
scoprirmi il capo e piegar le ginocchie.

Ma poi che figliolo unico non fui,
né mai fu troppo a’ miei Mercurio amico,
e viver son sforzato a spese altrui;

meglio è s’appresso il Duca mi nutrico,
che andare a questo e a quel de l’umil volgo
accattandomi il pan come mendico.

So ben che dal parer dei più mi tolgo,
che ’l stare in corte stimano grandezza,
ch’io pel contrario a servitù rivolgo.

Stiaci volentier dunque chi la apprezza;
fuor n’uscirò ben io, s’un dì il figliuolo
di Maia vorrà usarmi gentilezza.

==>SEGUE
   

Non si adatta una sella o un basto solo
ad ogni dosso; ad un non par che l’abbia,
all’altro stringe e preme e gli dà duolo.

Mal può durar il rosignuolo in gabbia,
più vi sta il gardelino, e più il fanello;
la rondine in un dì vi mor di rabbia.

Chi brama onor di sprone o di capello,
serva re, duca, cardinale o papa;
io no, che poco curo questo e quello.

In casa mia mi sa meglio una rapa
ch’io cuoca, e cotta s’un stecco me inforco
e mondo, e spargo poi di acetto e sapa,

che all’altrui mensa tordo, starna o porco
selvaggio; e così sotto una vil coltre,
come di seta o d’oro, ben mi corco.

E più mi piace di posar le poltre
membra, che di vantarle che alli Sciti
sien state, agli Indi, alli Etiopi, et oltre.

Degli uomini son varii li appetiti:
a chi piace la chierca, a chi la spada,
a chi la patria, a chi li strani liti.

Chi vuole andare a torno, a torno vada:
vegga Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna;
a me piace abitar la mia contrada.

Visto ho Toscana, Lombardia, Romagna,
quel monte che divide e quel che serra
Italia, e un mare e l’altro che la bagna.

Questo mi basta; il resto de la terra,
senza mai pagar l’oste, andrò cercando
con Ptolomeo, sia il mondo in pace o in guerra;

e tutto il mar, senza far voti quando
lampeggi il ciel, sicuro in su le carte
verrò, più che sui legni, volteggiando.

Il servigio del Duca, da ogni parte
che ci sia buona, più mi piace in questa:
che dal nido natio raro si parte.

==>SEGUE

   
Particolare di un affresco
del Ghirlandaio


per una volta o due che me ubidisce,
quattro e sei mi si scorda, o, perché teme
che non gli sia accettato, non ardisce.

Io mi riduco al pane; e quindi freme
la colera; cagion che alli dui motti
gli amici et io siamo a contesa insieme.

Mi potreste anco dir: «De li tuoi scotti
fa che ’l tuo fante comprator ti sia;
mangia i tuoi polli alli tua alari cotti».

Io, per la mala servitude mia,
non ho dal Cardinale ancora tanto
ch’io possa fare in corte l’osteria.

Apollo, tua mercé, tua mercé, santo
collegio de le Muse, io non possiedo
tanto per voi, ch’io possa farmi un manto.

«Oh! il signor t’ha dato...» io ve ’l conciedo,
tanto che fatto m’ho più d’un mantello;
ma che m’abbia per voi dato non credo.

Egli l’ha detto: io dirlo a questo e a quello
voglio anco, e i versi miei posso a mia posta
mandare al Culiseo per lo sugello.

Non vuol che laude sua da me composta
per opra degna di mercé si pona;
di mercé degno è l’ir correndo in posta.

A chi nel Barco e in villa il segue, dona,
a chi lo veste e spoglia, o pona i fiaschi
nel pozzo per la sera in fresco a nona;

vegghi la notte, in sin che i Bergamaschi
se levino a far chiodi, sì che spesso
col torchio in mano addormentato caschi.

S’io l’ho con laude ne’ miei versi messo,
dice ch’io l’ho fatto a piacere e in ocio;
più grato fòra essergli stato appresso.

E se in cancellaria m’ha fatto socio
a Melan del Constabil, sì c’ho il terzo
di quel ch’al notaio vien d’ogni negocio,

==>SEGUE




che più cerca la fame, perché giuso
mandi i cibi nel ventre, che, per trarre
la fame, cerchi aver de li cibi uso.

Il novo camerier tal cuoco inarre,
di pane et aglio uso a sfamarsi, poi
che riposte i fratelli avean le marre,

et egli a casa avea tornati i boi;
ch’or vòl fagiani, or tortorelle, or starne,
che sempre un cibo usar par che l’annoi.

Or sa che differenzia è da la carne
di capro e di cingial che pasca al monte,
da quel che l’Elisea soglia mandarne.

Fa ch’io truovi de l’acqua, non di fonte,
di fiume sì, che già sei dì veduto
non abbia Sisto, né alcun altro ponte.

Non curo sì del vin, non già il rifiuto;
ma a temprar l’acqua me ne basta poco,
che la taverna mi darà a minuto.

Senza molta acqua i nostri, nati in loco
palustre, non assaggio, perché, puri,
dal capo tranno in giù che mi fa roco.

Cotesti che farian, che son ne’ duri
scogli de Corsi ladri o d’infedeli
Greci o d’instabil Liguri maturi?

Chiuso nel studio frate Ciurla se li
bea, mentre fuori il populo digiuno
lo aspetta che gli esponga gli Evangeli;

e poi monti sul pergamo, più di uno
gambaro cotto rosso, e rumor faccia,
e un minacciar, che ne spaventi ogniuno;

et a messer Moschin pur dia la caccia,
al fra Gualengo et a’ compagni loro,
che metton carestia ne la vernaccia;

che fuor di casa, o in Gorgadello o al Moro,
mangian grossi piccioni e capon grassi,
come egli in cella, fuor del refettoro.

==>SEGUE

Per questo i studi miei poco molesta,
né mi toglie onde mai tutto partire
non posso, perché il cor sempre ci resta.

Parmi vederti qui ridere e dire
che non amor di patria né de studi,
ma di donna è cagion che non voglio ire.

Liberamente te ’l confesso: or chiudi
la bocca, che a difender la bugia
non volli prender mai spada né scudi.

Del mio star qui qual la cagion si sia,
io ci sto volentier; ora nessuno
abbia a cor più di me la cura mia.

S’io fossi andato a Roma, dirà alcuno,
a farmi uccellator de benefici,
preso alla rete n’avrei già più d’uno;

tanto più ch’ero degli antiqui amici
del papa, inanzi che virtude o sorte
lo sublimasse al sommo degli uffici;

e prima che gli aprissero le porte
i Fiorentini, quando il suo Giuliano
si riparò ne la feltresca corte,

ove col formator del cortigiano,
col Bembo e gli altri sacri al divo Appollo,
facea l’essilio suo men duro e strano;

e dopo ancor, quando levaro il collo
Medici ne la patria, e il Gonfalone,
fuggendo del Palazzo, ebbe il gran crollo;

e fin che a Roma se andò a far Leone,
io gli fui grato sempre, e in apparenza
mostrò amar più di me poche persone;

e più volte, e Legato et in Fiorenza,
mi disse che al bisogno mai non era
per far da me al fratel suo differenza.

Per questo parrà altrui cosa leggiera
che, stando io a Roma, già m’avesse posta
la cresta dentro verde e di fuor nera.

==>SEGUE

A chi parrà così farò risposta
con uno essempio: leggilo, che meno
leggerlo a te, che a me scriverlo, costa.

Una stagion fu già, che sì il terreno
arse, che ’l Sol di nuovo a Faetonte
de’ suoi corsier parea aver dato il freno;

secco ogni pozzo, secca era ogni fonte;
li rivi e i stagni e i fiumi più famosi
tutti passar si potean senza ponte.

In quel tempo, d’armenti e de lanosi
greggi io non so s’i’ dico ricco o grave,
era un pastor fra gli altri bisognosi,

che poi che l’acqua per tutte le cave
cercò indarno, si volse a quel Signore
che mai non suol fraudar chi in lui fede have;

et ebbe lume e inspirazion di core,
ch’indi lontano troveria, nel fondo
di certa valle, il desiato umore.

Con moglie e figli e con ciò ch’avea al mondo
là si condusse, e con gli ordegni suoi
l’acqua trovò, né molto andò profondo.

E non avendo con che attinger poi,
se non un vase picciolo et angusto,
disse: «Che mio sia il primo non ve annoi;

di mógliema il secondo; e ’l terzo è giusto
che sia de’ figli, e il quarto, e fin che cessi
l’ardente sete onde è ciascuno adusto:

li altri vo’ ad un ad un che sien concessi,
secondo le fatiche, alli famigli
che meco in opra a far il pozzo messi.

Poi su ciascuna bestia si consigli,
che di quelle che a perderle è più danno
inanzi all’altre la cura si pigli».

Con questa legge un dopo l’altro vanno
a bere; e per non essere i sezzai,
tutti più grandi i lor meriti fanno.

==>SEGUE

Questo una gazza, che già amata assai
fu dal padrone et in delizie avuta,
vedendo et ascoltando, gridò: «Guai!

Io non gli son parente, né venuta
a fare il pozzo, né di più guadagno
gli son per esser mai ch’io gli sia suta;

veggio che dietro alli altri mi rimagno:
morò di sete, quando non procacci
di trovar per mio scampo altro rigagno».

Cugin, con questo essempio vuo’ che spacci
quei che credon che ’l Papa porre inanti
mi debba a Neri, a Vanni, a Lotti e a Bacci.

Li nepoti e i parenti, che son tanti,
prima hanno a ber; poi quei che lo aiutaro
a vestirsi il più bel de tutti i manti.

Bevuto ch’abbian questi, gli fia caro
che beano quei che contra il Soderino
per tornarlo in Firenze si levaro.

L’un dice: «Io fui con Pietro in Casentino,
e d’esser preso e morto a risco venni».
«Io gli prestai danar», grida Brandino.

Dice un altro: «A mie spese il frate tenni
uno anno, e lo rimessi in veste e in arme,
di cavallo e d’argento gli sovenni».

Se, fin che tutti beano, aspetto a trarme
la voluntà di bere, o me di sete,
o secco il pozzo d’acqua veder parme.

Meglio è star ne la solita quïete,
che provar se gli è ver che qualunque erge
Fortuna in alto, il tuffa prima in Lete.

Ma sia ver, se ben li altri vi sommerge,
che costui sol non accostasse al rivo
che del passato ogni memoria absterge.

Testimonio sono io di quel ch’io scrivo:
ch’io non l’ho ritrovato, quando il piede
gli baciai prima, di memoria privo.

==>SEGUE

Piegossi a me da la beata sede;
la mano e poi le gote ambe mi prese,
e il santo bacio in amendue mi diede.

Di mezzo quella bolla anco cortese
mi fu, de la quale ora il mio Bibiena
espedito m’ha il resto alle mie spese.

Indi col seno e con la falda piena
di speme, ma di pioggia molle e brutto,
la notte andai sin al Montone a cena.

Or sia vero che ’l Papa attenga tutto
ciò che già offerse, e voglia di quel seme
che già tanti anni i’ sparsi, or darmi il frutto;

sie ver che tante mitre e dïademe
mi doni, quante Iona di Cappella
alla messa papal non vede insieme;

sia ver che d’oro m’empia la scarsella,
e le maniche e il grembio, e, se non basta,
m’empia la gola, il ventre e le budella;

serà per questo piena quella vasta
ingordigia d’aver? rimarrà sazia
per ciò la sitibonda mia cerasta?

Dal Marocco al Catai, dal Nilo in Dazia,
non che a Roma, anderò, se di potervi
saziare i desiderii impetro grazia;

ma quando cardinale, o de li servi
io sia il gran Servo, e non ritrovino anco
termine i desiderii miei protervi,

in ch’util mi risulta essermi stanco
in salir tanti gradi? meglio fòra
starmi in riposo o affaticarmi manco.

Nel tempo ch’era nuovo il mondo ancora
e che inesperta era la gente prima
e non eran l’astuzie che sono ora,

a piè d’un alto monte, la cui cima
parea toccassi il cielo, un popul, quale
non so mostrar, vivea ne la val ima;

==>SEGUE

che più volte osservando la inequale
luna, or con corna or senza, or piena or scema,
girar il cielo al corso naturale;

e credendo poter da la suprema
parte del monte giungervi, e vederla
come si accresca e come in sé si prema;

chi con canestro e chi con sacco per la
montagna cominciar correr in su,
ingordi tutti a gara di volerla.

Vedendo poi non esser giunti più
vicini a lei, cadeano a terra lassi,
bramando in van d’esser rimasi giù.

Quei ch’alti li vedean dai poggi bassi,
credendo che toccassero la luna,
dietro venian con frettolosi passi.

Questo monte è la ruota di Fortuna,
ne la cui cima il volgo ignaro pensa
ch’ogni quïete sia, né ve n’è alcuna.

Se ne l’onor si trova o ne la immensa
ricchezza il contentarsi, i’ loderei
non aver, se non qui, la voglia intensa;

ma se vediamo i papi e i re, che dèi
stimiamo in terra, star sempre in travaglio,
che sia contento in lor dir non potrei.

Se di ricchezze al Turco, e s’io me agguaglio
di dignitate al Papa, et ancor brami
salir più in alto, mal me ne prevaglio.

Convenevole è ben ch’i’ ordisca e trami
di non patire alla vita disagio,
che più di quanto ho al mondo è ragion ch’io ami.

Ma se l’uomo è sì ricco che sta ad agio
di quel che la natura contentarse
dovria, se fren pone al desir malvagio;

che non digiuni quando vorria trarse
l’ingorda fame, et abbia fuoco e tetto
se dal freddo o dal sol vuol ripararse;

==>SEGUE

né gli convenga andare a piè, se astretto
è di mutar paese; et abbia in casa
chi la mensa apparecchi e acconci il letto,

che mi può dare o mezza o tutta rasa
la testa più di questo? ci è misura
di quanto puon capir tutte le vasa.

Convenevole è ancor che s’abbia cura
de l’onor suo; ma tal che non divenga
ambizïone e passi ogni misura.

Il vero onore è ch’uom da ben te tenga
ciascuno, e che tu sia; che, non essendo,
forza è che la bugia tosto si spenga.

Che cavalliero o conte o reverendo
il populo te chiami, io non te onoro,
se meglio in te che ’l titol non comprendo.

Che gloria ti è vestir di seta e d’oro,
e, quando in piazza appari o ne la chiesa,
ti si lievi il capuccio il popul soro;

poi dica dietro: «Ecco che diede presa
per danari a’ Francesi Porta Giove
che il suo signor gli avea data in difesa»?

Quante collane, quante cappe nuove
per dignità si comprano, che sono
publici vituperii in Roma e altrove!

Vestir di romagnuolo et esser bono,
al vestir d’oro et aver nota o macchia
di baro o traditor sempre prepono.

Diverso al mio parere il Bomba gracchia,
e dice: «Abb’io pur roba, e sia l’acquisto
o venuto pel dado o per la macchia:

sempre ricchezze riverire ho visto
più che virtù; poco il mal dir mi nòce:
se riniega anco e si biastemia Cristo».

Pian piano, Bomba; non alzar la voce:
biastemian Cristo li uomini ribaldi,
peggior di quei che lo chiavaro in croce;

==>SEGUE
ma li onesti e li buoni dicon mal di
te, e dicon ver; che carte false e dadi
ti dànno i beni c’hai, mobili e saldi.

E tu dài lor da dirlo, perché radi
più di te in questa terra straccian tele
d’oro e broccati e veluti e zendadi.

Quel che devresti ascondere, rivele:
a’ furti tuoi, che star dovrian di piatto,
per mostrar meglio, allumi le candele:

e dài materia ch’ogni savio e matto
intender vuol come ville e palazzi
dentro e di fuori in sì pochi anni hai fatto,

e come così vesti e così sguazzi;
e rispondere è forza, e a te è avviso
esser grande uomo, e dentro ne gavazzi.

Pur che non se lo veggia dire in viso,
non stima il Borna che sia biasmo, s’ode
mormorar dietro che abbia il frate ucciso.

Se bene è stato in bando un pezzo, or gode
l’ereditate in pace, e chi gli agogna
mal, freme indarno e indarno se ne rode.

Quello altro va se stesso a porre in gogna
facendosi veder con quella aguzza
mitra acquistata con tanta vergogna.

Non avendo più pel d’una cuccuzza,
ha meritato con brutti servigi
la dignitate e ’l titolo che puzza

a’ spirti umani, alli celesti e a’ stigi.

SATIRA IV

A Messer Sismondo Malegucio.

Il vigesimo giorno di febraio
chiude oggi l’anno che da questi monti,
che dànno a’ Toschi il vento di rovaio,

qui scesi, dove da diversi fonti
con eterno rumor confondon l’acque
la Tùrrita col Serchio fra duo ponti;

per custodir, come al signor mio piacque,
il gregge garfagnin, che a lui ricorso
ebbe, tosto che a Roma il Leon giacque;

che spaventato e messo in fuga e morso
gli l’avea dianzi, e l’avria mal condotto
se non venia dal ciel iusto soccorso.

E questo in tanto tempo è il primo motto
ch’io fo alle dee che guardano la pianta
de le cui frondi io fui già così giotto.

La novità del loco è stata tanta,
c’ho fatto come augel che muta gabbia,
che molti giorni resta che non canta.

Maleguzzo cugin, che tacciuto abbia
non ti maravigliar, ma maraviglia
abbi che morto io non sia ormai di rabbia

vedendomi lontan cento e più miglia,
e da neve, alpe, selve e fiumi escluso
da chi tien del mio cor sola la briglia.

Con altre cause e più degne mi escuso
con gli altri amici, a dirti il ver; ma teco
liberamente il mio peccato accuso.

Altri a chi lo dicessi, un occhio bieco
mi volgerebbe a dosso, e un muso stretto:
«Guata poco cervel!» poi diria seco

«degno uom da chi esser debbia un popul retto,
uom che poco lontan da cinquanta anni
vaneggi nei pensier di giovinetto!».

==>SEGUE

E direbbe il Vangel di san Giovanni;
che, se ben erro, pur non son sì losco
che ’l mio error non conosca e ch’io nol danni.

Ma che giova s’io ’l danno e s’io ’l conosco,
se non ci posso riparar, né truovi
rimedio alcun che spenga questo tòsco?

Tu forte e saggio, che a tua posta muovi
questi affetti da te, che in noi, nascendo,
natura affige con sì saldi chiovi!

Fisse in me questo, e forse non sì orrendo
come in alcun c’ha di me tanta cura
chi non può tolerar ch’io non mi emendo;

e fa come io so alcun, che dice e giura
che quello e questo è becco, e quanto lungo
sia il cimer del suo capo non misura.

Io non uccido, io non percuoto o pungo,
io non do noia altrui, se ben mi dolgo
che da chi meco è sempre io mi dilungo:

perciò non dico né a difender tolgo
che non sia fallo il mio; ma non sì grave
che di via più non me perdoni il volgo.

Con manco ranno il volgo, non che lave
maggior macchia di questa, ma sovente
titolo al vizio di virtù dato have.

Ermilïan sì del danaio ardente
come d’Alessio il Gianfa, e che lo brama
ogni ora, in ogni loco, da ogni gente,

né amico né fratel né se stesso ama,
uomo d’industria, uomo di grande ingegno,
di gran governo e gran valor si chiama.

Gonfia Rinieri, et ha il suo grado a sdegno;
esser gli par quel che non è, e più inanzi
che in tre salti ir non può si mette il segno.

Non vuol che in ben vestire altro lo avanzi;
spenditor, scalco, falconiero, cuoco,
vuol chi lo scalzi, chi gli tagli inanzi.

==>SEGUE

Oggi uno e diman vende un altro loco;
quel che in molti anni acquistar gli avi e i patri
getta a man piene, e non a poco a poco.

Costui non è chi morda o che gli latri,
ma liberal, magnanimo si noma
fra li volgar giudici oscuri et atri.

Solonnio di facende sì gran soma
tolle a portar, che ne saria già morto
il più forte somier che vada a Roma.

Tu ’l vedi in Banchi, alla dogana, al porto,
in Camera apostolica, in Castello,
da un ponte all’altro a un volgier d’occhi sorto.

Si stilla notte e dì sempre il cervello,
come al Papa ognor dia freschi guadagni
con novi dazii e multe e con balzello.

Gode fargli saper che se ne lagni
e dica ognun che all’util del padrone
non riguardi parenti né compagni.

Il popul l’odia, et ha di odiar ragione,
se di ogni mal che la città flagella
gli è ver ch’egli sia il capo e la cagione.

E pur grande e magnifico se appella,
né senza prima discoprirsi il capo
il nobile o il plebeo mai gli favella.

Laurin si fa de la sua patria capo,
et in privato il publico converte;
tre ne confina, a sei ne taglia il capo;

comincia volpe, indi con forze aperte
esce leon, poi c’ha ’l popul sedutto
con licenze, con doni e con offerte:

l’iniqui alzando, e deprimendo in lutto
li buoni, acquista titolo di saggio,
di furti, stupri e d’omicidi brutto.

Così dà onore a chi dovrebbe oltraggio,
né sa da colpa a colpa scerner l’orbo
giudizio, a cui non mostra il sol mai raggio

==>SEGUE

e stima il corbo cigno e il cigno corbo;
se sentisse ch’io amassi, faria un viso
come mordesse allora allora un sorbo.

Dica ogniun come vuole, e siagli aviso
quel che gli par: in somma ti confesso
che qui perduto ho il canto, il gioco, il riso.

Questa è la prima; ma molt’altre appresso
e molt’altre ragion posso allegarte,
che da le dee m’ha tolto di Permesso.

Già mi fur dolci inviti a empir le carte
li luoghi ameni di che il nostro Reggio,
il natio nido mio, n’ha la sua parte.

Il tuo Mauricïan sempre vagheggio,
la bella stanza, il Rodano vicino,
da le Naiade amato ombroso seggio,

il lucido vivaio onde il giardino
si cinge intorno, il fresco rio che corre,
rigando l’erbe, ove poi fa il molino;

non mi si può de la memoria tòrre
le vigne e i solchi del fecondo Iaco,
la valle e il colle e la ben posta tórre.

Cercando or questo et or quel loco opaco,
quivi in più d’una lingua e in più d’un stile
rivi traea sin dal gorgoneo laco.

Erano allora gli anni miei fra aprile
e maggio belli, ch’or l’ottobre dietro
si lasciano, e non pur luglio e sestile.

Ma né d’Ascra potrian né di Libetro
l’amene valli, senza il cor sereno,
far da me uscir iocunda rima o metro.

Dove altro albergo era di questo meno
convenïente a i sacri studi, vuoto
d’ogni iocundità, d’ogni orror pieno?

La nuda Pania tra l’Aurora e il Noto,
da l’altre parti il giogo mi circonda
che fa d’un Pellegrin la gloria noto.

==>SEGUE

Questa è una fossa, ove abito, profonda,
donde non muovo piè senza salire
del silvoso Apennin la fiera sponda.

O stiami in Ròcca o voglio all’aria uscire,
accuse e liti sempre e gridi ascolto,
furti, omicidii, odi, vendette et ire;

sì che or con chiaro or con turbato volto
convien che alcuno prieghi, alcun minacci,
altri condanni, altri ne mandi assolto;

ch’ogni dì scriva et empia fogli e spacci,
al Duca or per consiglio or per aiuto,
sì che i ladron, c’ho d’ogni intorno, scacci.

Déi saper la licenzia in che è venuto
questo paese, poi che la Pantera,
indi il Leon l’ha fra gli artigli avuto.

Qui vanno li assassini in sì gran schiera
ch’un’altra, che per prenderli ci è posta,
non osa trar del sacco la bandiera.

Saggio chi dal Castel poco si scosta!
Ben scrivo a chi più tocca, ma non torna
secondo ch’io vorrei mai la risposta.

Ogni terra in se stessa alza le corna,
che sono ottantatre, tutte partite
da la sedizïon che ci soggiorna.

Vedi or se Appollo, quando io ce lo invite,
vorrà venir, lasciando Delfo e Cinto,
in queste grotte a sentir sempre lite.

Dimandar mi potreste chi m’ha spinto
dai dolci studi e compagnia sì cara
in questo rincrescevol labirinto.

Tu déi saper che la mia voglia avara
unqua non fu, ch’io solea star contento
di quel stipendio che traea a Ferrara;

ma non sai forse come uscì poi lento,
succedendo la guerra, e come volse
il Duca che restasse in tutto spento.

==>SEGUE

Fin che quella durò, non me ne dolse;
mi dolse di veder che poi la mano
chiusa restò, ch’ogni timor si sciolse.

Tanto più che l’ufficio di Melano,
poi che le leggi ivi tacean fra l’armi,
bramar gli affitti suoi mi facea invano.

Ricorsi al Duca: «O voi, signor, levarmi
dovete di bisogno, o non vi incresca
ch’io vada altra pastura a procacciarmi».

Grafagnini in quel tempo, essendo fresca
la lor rivoluzion, che spinto fuori
avean Marzocco a procacciar d’altra ésca,

con lettere frequenti e imbasciatori
replicavano al Duca, e facean fretta
d’aver lor capi e lor usati onori.

Fu di me fatta una improvisa eletta,
o forse perché il termine era breve
di consigliar chi pel miglior si metta,

o pur fu appresso il mio signor più leve
il bisogno de’ sudditi che il mio,
di ch’obligo gli ho quanto se gli deve.

Obligo gli ho del buon voler, più ch’io
mi contenti del dono, il quale è grande,
ma non molto conforme al mio desio.

Or se di me a questi omini dimande,
potrian dir che bisogno era di asprezza,
non di clemenzia, all’opre lor nefande.

Come né in me, così né contentezza
è forse in lor; io per me son quel gallo
che la gemma ha trovata e non l’apprezza.

Son come il Veneziano, a cui il cavallo
di Mauritania in eccellenzia buono
donato fu dal re di Portogallo;

il qual, per aggradir il real dono,
non discernendo che mistier diversi
volger temoni e regger briglie sono,

==>SEGUE
sopra vi salse, e cominciò a tenersi
con mani al legno e co’ sproni alla pancia:
«Non vuo’» seco dicea «che tu mi versi.»

Sente il cavallo pungersi, e si lancia;
e ’l buon nocchier più allora preme e stringe
lo sprone al fianco, aguzzo più che lancia,

e di sangue la bocca e il fren gli tinge:
non sa il cavallo a chi ubedire, o a questo
che ’l torna indietro, o a quel che l’urta e spinge;

pur se ne sbriga in pochi salti presto.
Rimane in terra il cavallier col fianco,
co la spalla e col capo rotto e pesto.

Tutto di polve e di paura bianco
si levò al fin, dal re mal satisfatto,
e lungamente poi si ne dolse anco.

Meglio avrebbe egli, et io meglio avrei fatto,
egli il ben del cavallo, io del paese,
a dir: «O re, o signor, non ci sono atto;

sie pur a un altro di tal don cortese».

SATIRA V

A Messer Annibale Malegucio.

Da tutti li altri amici, Annibale, odo,
fuor che da te, che sei per pigliar moglie:
mi duol che ’l celi a me, che ’l facci lodo.

Forse mel celi perché alle tue voglie
pensi che oppor mi debbia, come io danni,
non l’avendo tolta io, s’altri la toglie.

Se pensi di me questo, tu te inganni:
ben che senza io ne sia, non però accuso
se Piero l’ha, Martin, Polo e Giovanni.

Mi duol di non l’avere, e me ne iscuso
sopra varii accidenti che lo effetto
sempre dal buon voler tennero escluso;

ma fui di parer sempre, e così detto
l’ho più volte, che senza moglie a lato
non puote uomo in bontade esser perfetto.

Né senza si può star senza peccato;
che chi non ha del suo, fuor accattarne,
mendicando o rubandolo, è sforzato;

e chi s’usa a beccar de l’altrui carne,
diventa giotto, et oggi tordo o quaglia,
diman fagiani, uno altro dì vuol starne;

non sa quel che sia amor, non sa che vaglia
la caritade: e quindi avien che i preti
sono sì ingorda e sì crudel canaglia.

Che lupi sieno e che asini indiscreti
mel dovreste saper dir voi da Reggio,
se già il timor non vi tenesse cheti.

Ma senza che ’l dicate, io me ne aveggio;
de la ostinata Modona non parlo,
che, tutto che stia mal, merta star peggio.

Pigliala, se la vuoi; fa, se déi farlo;
e non voler, come il dottor Buonleo,
alla estrema vecchiezza prolungarlo.

==>SEGUE
Quella età più al servizio di Lieo
che di Vener conviensi: si dipinge
giovane fresco, e non vecchio, Imeneo.

Il vecchio, allora che ’l desir lo spinge,
di sé prosume e spera far gran cose;
si sganna poi che al paragon si stringe.

Non voglion rimaner però le spose
nel danno; sempre ci è mano adiutrice
che soviene alle pover’ bisognose.

E se non fosse ancor, pur ognun dice
che gli è così: non pòn fuggir la fama,
più che del ver, del falso relatrice,

la qual patisce mal chi l’onor ama;
ma questa passïon debole e nulla,
verso un’altra maggior, ser Iorio chiama.

«Peggio è» dice «vedersi un ne la culla,
e per casa giocando ir duo bambini,
e poco prima nata una fanciulla:

et esser di sua età giunto a’ confini,
e non aver che doppo sé lor mostri
la via del bene, e non li fraudi e uncini.»

Pigliala, e non far come alcuni nostri
gentiluomini fanno, e molti féro,
ch’or giaccion per le chiese e per li chiostri

di mai non la pigliar fu il lor pensiero,
per non aver figliuoli che far pezzi
debbian di quel che a pena basta intiero.

Quel che acerbi non fér, maturi e mézzi
fan poi con biasmo: truovan ne le ville
e ne le cucine anco a chi far vezzi.

Nascono figli e crescon le faville,
et al fin, pusillanimi e bugiardi,
s’inducono a sposar villane e ancille,

perché i figli non restino bastardi.
Quindi è falsificato di Ferrara
in gran parte il buon sangue, se ben guardi;

quindi la gioventù vedi sì rara
che le virtudi e li bei studi, e molta
che degli avi materni i stili impara.
==>SEGUE
Cugin, fai bene a tòr moglier; ma ascolta:
pensaci prima; non varrà poi dire
di non, s’avrai di sì detto una volta.

In questo il mio consiglio proferire
ti vuo’, e mostrar, se ben non lo richiedi,
quel che tu déi cercar, quel che fuggire.

Tu ti ridi di me forse, e non vedi
come io ti possa consigliar, ch’avuto
non ho in tal nodo mai collo né piedi.

Non hai, quando dui giocano, veduto
che quel che sta a vedere ha meglio spesso
ciò che s’ha a far, che ’l giocator, saputo?

Se tu vedi che tocchi, o vada appresso
il segno il mio parer, dàgli il consenso;
se non, riputal sciocco, e me con esso.

Ma prima ch’io ti mostri altro compenso,
t’avrei da dir che, se amorosa face
ti fa pigliar moglier, che segui il senso.

Ogni virtude è in lei, s’ella ti piace:
so ben che né orator latin, né greco,
saria a dissuadertilo efficace.

Io non son per mostrar la strada a un cieco;
ma se tu il bianco e il rosso e il ner comprendi,
essamina il consiglio ch’io te arreco.

Tu che vuoi donna, con gran studio intendi
qual sia stata e qual sia la madre, e quali
sien le sorelle, s’all’onore attendi.

S’in cavalli, se ’n boi, se ’n bestie tali
guardian le razze, che faremo in questi,
che son fallaci più ch’altri animali?

Di vacca nascer cerva non vedesti,
né mai colomba d’aquila, né figlia
di madre infame di costumi onesti.

Oltre che il ramo al ceppo s’assimiglia,
il dimestico essempio, che le aggira
pel capo sempre, ogni bontà sgombiglia.

Se la madre ha duo amanti, ella ne mira
a quattro e a cinque, e spesso a più di sei,
et a quanti più può la rete tira:
==>SEGUE


e questo per mostrar che men di lei
non è leggiadra, e non le fur del dono
de la beltà men liberali i dèi.

Saper la balia e le compagne è buono:
se appresso il padre sia nodrita o in corte,
al fuso, all’ago, o pur in canto e in suono.

Non cercar chi più dote, o chi ti porte
titoli e fumi e più nobil parenti
che al tuo aver si convenga e alla tua sorte;

ché difficil sarà, se non ha venti
donne poi dietro e staffieri e un ragazzo
che le sciorini il cul, tu la contenti.

Vorrà una nana, un bufoncello, un pazzo,
e compagni da tavola e da giuoco
che tutto il dì la tengano in solazzo.

Né tòr di casa il piè, né mutar loco
vorrà senza carretta; ben ch’io stimi,
fra tante spese, questa spesa poco:

che se tu non la fai, che sei de’ primi
e di sangue e d’aver ne la tua terra,
non la faràn già quei che son degli imi.

E se matina e sera ondeggiando erra
con cavalli a vettura la Giannicca
che farà chi del suo li pasce e ferra?

Ma se l’altre n’han dui, ne vuol la ricca
quattro; se le compiaci, più che ’l conte
Rinaldo mio la te aviluppa e ficca;

se le contrasti, pon la pace a monte,
e come Ulisse al canto, tu l’orecchia
chiudi a pianti, a lamenti, a gridi et onte;

ma non le dir oltraggio, o t’apparecchia
cento udirne per uno, e che ti punga
più che punger non suol vespe né pecchia.

Una che ti sia ugual teco si giunga,
che por non voglia in casa nuove usanze,
né più del grado aver la coda lunga.

Non la vuo’ tal che di bellezze avanze
l’altre, e sia in ogni invito, e sempre vada
capo di schiera per tutte le danze.
==>SEGUE


Fra bruttezza e beltà truovi una strada
dove è gran turba, né bella né brutta,
che non t’ha da spiacer, se non te aggrada.

Che quindi esce, a man ritta truova tutta
la gente bella, e dal contrario canto
quanta bruttezza ha il mondo esser ridutta.

Quinci più sozze, e poi più sozze quanto
tu vai più inanzi; e quindi truovi i visi
più di bellezza e più tenere il vanto.

S’ove déi tòr la tua vuoi ch’io te avisi,
o ne la strada, o a man ritta nei campi
dirò, ma non di là troppo divisi.

Non ti scostar, non ir dove tu inciampi
in troppo bella moglie, sì che ognuno
per lei d’amor e di desire avampi.

Molti la tenteranno, e quando ad uno
repugni, o a dui, o a tre, non star in speme
che non ne debbia aver vittoria alcuno.

Non la tòr brutta; che torresti insieme
perpetua noia; medïocre forma
sempre lodai, sempre dannai le estreme.

Sia di buona aria, sia gentil, non dorma
con gli occhi aperti; che più l’esser sciocca
d’ogni altra ria deformità deforma.

Se questa in qualche scandalo trabocca,
lo fa palese, in modo che dà sopra
li fatti suoi facenda ad ogni bocca.

L’altra, più saggia, si conduce all’opra
secretamente, e studia, come il gatto,
che la immondizia sua la terra copra.

Sia piacevol, cortese, sia d’ogni atto
di superbia nimica, sia gioconda,
non mesta mai, non mai col ciglio attratto.

Sia vergognosa; ascolti e non risponda
per te dove tu sia; né cessi mai,
né mai stia in ozio; sia polita e monda.

De dieci anni o di dodici, se fai
per mio consiglio, fia di te minore;
di pare o di più età non la tòr mai:
==>SEGUE


perché passando, come fa, il megliore
tempo e i begli anni in lor prima che in noi,
ti parria vecchia, essendo anco tu in fiore.

Però vorrei che ’l sposo avesse i suoi
trent’anni, quella età che ’l furor cessa
presto al voler, presto al pentirse poi.

Tema Dio, ma che udir più d’una messa
voglia il dì non mi piace; e vuo’ che basti
s’una o due volte l’anno si confessa.

Non voglio che con gli asini che basti
non portano abbia pratica, né faccia
ogni dì tórte al confessore e pasti.

Voglio che se contenti de la faccia
che Dio le diede, e lassi il rosso e il bianco
alla signora del signor Ghinaccia.

Fuor che lisciarsi, uno ornamento manco
d’altra ugual gentildonna ella non abbia;
liscio non vuo’, né tu credo il vogli anco.

Se sapesse Erculan dove le labbia
pon quando bacia Lidia, avria più a schivo
che se baciasse un cul marzo di scabbia.

Non sa che ’l liscio è fatto col salivo
de le giudee che ’l vendon; né con tempre
di muschio ancor perde l’odor cattivo.

Non sa che con la merda si distempre
di circoncisi lor bambini il grasso
d’orride serpi che in pastura han sempre.

Oh quante altre spurcizie a dietro lasso,
di che s’ungono il viso, quando al sonno
se acconcia il steso fianco, e il ciglio basso!

Sì che quei che le baciano, ben ponno
con men schivezza e stomachi più saldi
baciar lor anco a nuova luna il conno.

Il sollimato e gli altri unti ribaldi,
di che ad uso del viso empion gli armari,
fan che sì tosto il viso lor s’affaldi;

o che i bei denti, che già fur sì cari,
lascian la bocca fetida e corrotta,
o neri e pochi restano, e mal pari.
==>SEGUE


Segua le poche, e non la volgar frotta;
né sappia far la tua bianco né rosso,
ma sia del filo e de la tela dotta.

Se tal la truovi, consigliar ti posso
che tu la prenda; se poi cangia stile,
e che se tiri alcun galante adosso,

o faccia altra opra enorme, e che simìle
il frutto, in tempo del ricor, non esca
ai molti fior ch’avea mostrato aprile;

de la tua sorte, e non di te t’incresca,
che per indiligenza e poca cura
gusti diverso all’apetito l’ésca.

Ma chi va cieco a prenderla a ventura,
o chi fa peggio assai, che la conosce,
e pur la vuol, sia quanto voglia impura,

se poi pentito si batte le cosce,
altro che sé non de’ imputar del fallo,
né cercar compassion de le sue angosce.

Poi ch’io t’ho posto assai bene a cavallo,
ti voglio anco mostrar come lo guidi,
come spinger lo déi, come fermallo.

Tolto che moglie avrai, lascia li nidi
degli altri, e sta sul tuo; che qualche augello,
trovandol senza te, non vi si annidi.

Falle carezze, et amala con quello
amor che vuoi ch’ella ami te; aggradisci,
e ciò che fa per te paiati bello.

Se pur tal volta errasse, l’ammonisci
sanza ira, con amore; e sia assai pena
che la facci arrossir senza por lisci.

Meglio con la man dolce si raffrena
che con forza il cavallo, e meglio i cani
le lusinghe fan tuoi che la catena.

Questi animal, che son molto più umani,
corregger non si dén sempre con sdegno,
né, al mio parer, mai con menar de mani.

Ch’ella ti sia compagna abbi disegno;
non come in comperata per tua serva
reputa aver in lei dominio e regno.
==>SEGUE


Cerca di sodisfarle ove proterva
non sia la sua domanda, e, compiacendo,
quanto più amica puoi te la conserva.

Che tu la lasci far non te commendo,
senza saputa tua, ciò ch’ella vuole;
che mostri non fidarti anco riprendo.

Ire a conviti e publiche carole
non le vietar, né, alli suoi tempi, a chiese,
dove ridur la nobiltà si suole:

gli adùlteri né in piazza né in palese,
ma in case de vicini e de commatri,
balie e tal genti, han le lor reti tese.

Abbile sempre, ai chiari tempi e agli atri,
dietro il pensier, né la lasciar di vista:
che ’l bel rubar suol far gli uomini latri.

Studia che compagnia non abbia trista:
a chi ti vien per casa abbi avvertenza,
che fuor non temi, e dentro il mal consista;

ma studia farlo cautamente, senza
saputa sua; che si dorria a ragione
s’in te sentisse questa diffidenza.

Lievale quanto puoi la occasïone
d’esser puttana, e pur se avien che sia,
almen che ella non sia per tua cagione.

Io non so la miglior di questa via
che già t’ho detta, per schivar che in preda
ad altri la tua donna non se dia.

Ma s’ella n’avrà voglia, alcun non creda
di ripararci: ella saprà ben come
far ch’al suo inganno il tuo consiglio ceda.

Fu già un pittor, Galasso era di nome,
che dipinger il diavolo solea
con bel viso, begli occhi e belle chiome;

né piei d’augel né corna gli facea,
né facea sì leggiadro né sì adorno
l’angel da Dio mandato in Galilea.

Il diavol, riputandosi a gran scorno
se fosse in cortesia da costui vinto,
gli apparve in sogno un poco inanzi il giorno,
==>SEGUE


e gli disse in parlar breve e succinto
ch’egli era, e che venia per render merto
de l’averlo sì bel sempre dipinto;

però lo richiedesse, e fosse certo
di subito ottener le sue domande,
e di aver più che non se gli era offerto.

Il meschin, ch’avea moglie d’admirande
bellezze, e ne vivea geloso, e n’era
sempre in sospetto et in angustia grande,

pregò che gli mostrasse la maniera
che s’avesse a tener, perché il marito
potesse star sicur de la mogliera.

Par che ’l diavolo allor gli ponga in dito
uno annello, e ponendolo gli dica:
«Fin che ce ’l tenghi, esser non puoi tradito».

Lieto ch’omai la sua senza fatica
potrà guardar, si sveglia il mastro, e truova
che ’l dito alla moglier ha ne la fica.

Questo annel tenga in dito, e non lo muova
mai chi non vuol ricevere vergogna
da la sua donna; e a pena anco gli giova,

pur ch’ella voglia, e farlo si dispogna.
SATIRA VI

A Messer Pietro Bembo.

Bembo, io vorrei, come è il commun disio
de’ solliciti padri, veder l’arti
che essaltan l’uom, tutte in Virginio mio;

e perché di esse in te le miglior parti
veggio, e le più, di questo alcuna cura
per l’amicizia nostra vorrei darti.

Non creder però ch’esca di misura
la mia domanda, ch’io voglia tu facci
l’ufficio di Demetrio o di Musura

(non si dànno a’ par tuoi simili impacci),
ma sol che pensi e che discorri teco,
e saper dagli amici anco procacci

s’in Padova o in Vinegia è alcun buon greco,
buono in scïenzia e più in costumi, il quale
voglia insegnarli, e in casa tener seco.

Dottrina abbia e bontà, ma principale
sia la bontà: che, non vi essendo questa,
né molto quella alla mia estima vale.

So ben che la dottrina fia più presta
a lasciarsi trovar che la bontade:
sì mal l’una ne l’altra oggi s’inesta.

O nostra male aventurosa etade,
che le virtudi che non abbian misti
vizii nefandi si ritrovin rade!

Senza quel vizio son pochi umanisti
che fe’ a Dio forza, non che persüase,
di far Gomorra e i suoi vicini tristi:

mandò fuoco da ciel, ch’uomini e case
tutto consumpse; et ebbe tempo a pena
Lot a fugir, ma la moglier rimase.

Ride il volgo, se sente un ch’abbia vena
di poesia, e poi dice: «È gran periglio
a dormir seco e volgierli la schiena».

Et oltra questa nota, il peccadiglio
di Spagna gli dànno anco, che non creda
in unità del Spirto il Padre e il Figlio.
==>SEGUE


Non che contempli come l’un proceda
da l’altro o nasca, e come il debol senso
ch’uno e tre possano essere conceda;

ma gli par che non dando il suo consenso
a quel che approvan gli altri, mostri ingegno
da penetrar più su che ’l cielo immenso.

Se Nicoletto o fra Martin fan segno
d’infedele o d’eretico, ne accuso
il saper troppo, e men con lor mi sdegno:

perché, salendo lo intelletto in suso
per veder Dio, non de’ parerci strano
se talor cade giù cieco e confuso.

Ma tu, del qual lo studio è tutto umano
e son li tuoi suggetti i boschi e i colli,
il mormorar d’un rio che righi il piano,

cantar antiqui gesti e render molli
con prieghi animi duri, e far sovente
di false lode i principi satolli,

dimmi, che truovi tu che sì la mente
ti debbia aviluppar, sì tòrre il senno,
che tu non creda come l’altra gente?

Il nome che di apostolo ti denno
o d’alcun minor santo i padri, quando
cristiano d’acqua, e non d’altro ti fenno,

in Cosmico, in Pomponio vai mutando;
altri Pietro in Pïerio, altri Giovanni
in Iano o in Iovïan va riconciando;

quasi che ’l nome i buon giudici inganni,
e che quel meglio t’abbia a far poeta
che non farà lo studio de molti anni.

Esser tali dovean quelli che vieta
che sian ne la republica Platone,
da lui con sì santi ordini discreta;

ma non fu tal già Febo, né Anfïone,
né gli altri che trovaro i primi versi,
che col buon stile, e più con l’opre buone,

persuasero gli uomini a doversi
ridurre insieme, e abandonar le giande
che per le selve li traean dispersi;
==>SEGUE


e fér che i più robusti, la cui grande
forza era usata alli minori tòrre
or mogli, or gregge et or miglior vivande,

si lasciaro alle leggi sottoporre,
e cominciar, versando aratri e glebe,
del sudor lor più giusti frutti accòrre.

Indi i scrittor féro all’indotta plebe
creder ch’al suon de le soavi cetre
l’un Troia e l’altro edificasse Tebe;

e avesson fatto scendere le petre
dagli alti monti, et Orfeo tratto al canto
tigri e leon da le spelonche tetre.

Non è, s’io mi coruccio e grido alquanto
più con la nostra che con l’altre scole,
ch’in tutte l’altre io non veggio altretanto,

d’altra correzïon che di parole
degne; né del fallir de’ suoi scolari,
non pur Quintilïano è che si duole.

Ma se degli altri io vuo’ scoprir gli altari,
tu dirai che rubato e del Pistoia
e di Petro Aretino abbia gli armari.

Degli altri studi onor e biasmo, noia
mi dà e piacer, ma non come s’io sento
che viva il pregio de’ poeti e moia.

Altrimenti mi dolgo e mi lamento
di sentir riputar senza cervello
il biondo Aonio e più leggier che ’l vento,

che se del dottoraccio suo fratello
odo il medesmo, al quale un altro pazzo
donò l’onor del manto e del capello.

più mi duol ch’in vecchiezza voglia il guazzo
Placidïan, che gioven dar soleva,
e che di cavallier torni ragazzo,

che di sentir che simil fango aggreva
il mio vicino Andronico, e vi giace
già settant’anni, e ancor non se ne lieva.

Se mi è detto che Pandaro è rapace,
Curio goloso, Pontico idolatro,
Flavio biastemator, via più mi spiace
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che se per poco prezzo odo Cusatro
dar le sentenzie false, o che col tòsco
mastro Battista mescole il veratro;

o che quel mastro in teologia ch’al tósco
mesce il parlar fachin si tien la scroffa,
e già n’ha dui bastardi ch’io conosco;

né per saziar la gola sua gaglioffa
perdona a spesa, e lascia che di fame
langue la madre e va mendica e goffa;

poi lo sento gridar, che par che chiame
le guardie, ch’io digiuni e ch’io sia casto,
e che quanto me stesso il prossimo ame.

Ma gli error di questi altri così il basto
di miei pensier non gravano, che molto
lasci il dormir o perder voglia un pasto.

Ma per tornar là donde io mi son tolto,
vorrei che a mio figliuolo un precettore
trovassi meno in questi vizii involto,

che ne la propria lingua de l’autore
gli insegnasse d’intender ciò che Ulisse
sofferse a Troia e poi nel lungo errore,

ciò che Apollonio e Euripide già scrisse,
Sofocle, e quel che da le morse fronde
par che poeta in Ascra divenisse,

e quel che Galatea chiamò da l’onde,
Pindaro, e gli altri a cui le Muse argive
donar sì dolci lingue e sì faconde.

Già per me sa ciò che Virgilio scrive,
Terenzio, Ovidio, Orazio, e le plautine
scene ha vedute, guaste e a pena vive.

Omai può senza me per le latine
vestigie andar a Delfi, e de la strada
che monta in Elicon vedere il fine;

ma perché meglio e più sicur vi vada,
desidero ch’egli abbia buone scorte,
che sien de la medesima contrada.

Non vuol la mia pigrizia o la mia sorte
che del tempio di Apollo io gli apra in Delo,
come gli fei nel Palatin, le porte.
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Ahi lasso! quando ebbi al pegàseo melo
l’età disposta, che le fresche guancie
non si vedeano ancor fiorir d’un pelo,

mio padre mi cacciò con spiedi e lancie,
non che con sproni, a volger testi e chiose,
e me occupò cinque anni in quelle ciancie.

Ma poi che vide poco fruttüose
l’opere, e il tempo invan gittarsi, dopo
molto contrasto in libertà mi pose.

Passar venti anni io mi truovavo, et uopo
aver di pedagogo: che a fatica
inteso avrei quel che tradusse Esopo.

Fortuna molto mi fu allora amica
che mi offerse Gregorio da Spoleti,
che ragion vuol ch’io sempre benedica.

Tenea d’ambe le lingue i bei secreti,
e potea giudicar se meglior tuba
ebbe il figliuol di Venere o di Teti.

Ma allora non curai saper di Ecuba
la rabbiosa ira, e come Ulisse a Reso
la vita a un tempo e li cavalli ruba;

ch’io volea intender prima in che avea offeso
Enea Giunon, che ’l bel regno da lei
gli dovesse d’Esperia esser conteso;

che ’l saper ne la lingua de li Achei
non mi reputo onor, s’io non intendo
prima il parlar de li latini miei.

Mentre l’uno acquistando, e diferrendo
vo l’altro, l’Occasion fuggì sdegnata,
poi che mi porge il crine, et io nol prendo

Mi fu Gregorio da la sfortunata
Duchessa tolto, e dato a quel figliuolo
a chi avea il zio la signoria levata.

Di che vendetta, ma con suo gran duolo,
vide ella tosto, ahimè!, perché del fallo
quel che peccò non fu punito solo.

Col zio il nipote (e fu poco intervallo)
del regno e de l’aver spogliati in tutto,
prigioni andar sotto il dominio gallo.
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Gregorio a’ prieghi d’Isabella indutto
fu a seguir il discepolo, là dove
lasciò, morendo, i cari amici in lutto.

Questa iattura e l’altre cose nove
che in quei tempi successeno, mi féro
scordar Talia et Euterpe e tutte nove.

Mi more il padre, e da Maria il pensiero
drieto a Marta bisogna ch’io rivolga,
ch’io muti in squarci et in vacchette Omero;

truovi marito e modo che si tolga
di casa una sorella, e un’altra appresso,
e che l’eredità non se ne dolga;

coi piccioli fratelli, ai quai successo
ero in luogo di padre, far l’uffizio
che debito e pietà avea commesso;

a chi studio, a chi corte, a chi essercizio
altro proporre, e procurar non pieghi
da le virtudi il molle animo al vizio.

Né questo è sol che alli miei studii nieghi
di più avanzarsi, e basti che la barca,
perché non torni a dietro, al lito leghi;

ma si truovò di tanti affanni carca
allor la mente mia, ch’ebbi desire
che la cocca al mio fil fésse la Parca.

Quel, la cui dolce compagnia nutrire
solea i miei studi, e stimulando inanzi
con dolce emulazion solea far ire,

il mio parente, amico, fratello anzi
l’anima mia, non mezza non, ma intiera,
senza ch’alcuna parte me ne avanzi,

morì, Pandolfo, poco dopo: ah fera
scossa ch’avesti allor, stirpe Arïosta,
di ch’egli un ramo, e forse il più bello, era!

In tanto onor, vivendo, t’avria posta,
ch’altra a quel né in Ferrara né in Bologna,
onde hai l’antiqua origine, s’accosta.

Se la virtù dà onor, come vergogna
il vizio, si potea sperar da lui
tutto l’onor che buono animo agogna.
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Alla morte del padre e de li dui
sì cari amici, aggiunge che dal giogo
del Cardinal da Este oppresso fui;

che da la creazione insino al rogo
di Iulio, e poi sette anni anco di Leo,
non mi lasciò fermar molto in un luogo,

e di poeta cavallar mi feo:
vedi se per le balze e per le fosse
io potevo imparar greco o caldeo!

Mi maraviglio che di me non fosse
come di quel filosofo, a chi il sasso
ciò che inanzi sapea dal capo scosse.

Bembo, io ti prego insomma, pria che ’l passo
chiuso gli sia, che al mio Virginio porga
la tua prudenza guida, che in Parnasso,

ove per tempo ir non seppi io, lo scorga.
SATIRA VII

A Messere Bonaventura Pistofilo ducale secretario.

Pistofilo, tu scrivi che, se appresso
papa Clemente imbasciator del Duca
per uno anno o per dui voglio esser messo,

ch’io te ne avisi, acciò che tu conduca
la pratica; e proporre anco non resti
qualche viva cagion che me vi induca:

che lungamente sia stato de questi
Medici amico, e conversar con loro
con gran dimestichezza mi vedesti,

quando eran fuorusciti, e quando fòro
rimessi in stato, e quando in su le rosse
scarpe Leone ebbe la croce d’oro;

che, oltre che a proposito assai fosse
del Duca, estimi che tirare a mio
utile e onor potrei gran pòste e grosse;

che più da un fiume grande che da un rio
posso sperar di prendere, s’io pesco.
Or odi quanto acciò ti rispondo io.

Io te rengrazio prima, che più fresco
sia sempre il tuo desir in essaltarmi,
e far di bue mi vogli un barbaresco;

poi dico che pel fuoco e che per l’armi
a servigio del Duca in Francia e in Spagna
e in India, non che a Roma, puoi mandarmi:

ma per dirmi ch’onor vi si guadagna
e facultà, ritruova altro cimbello,
se vuoi che l’augel caschi ne la ragna.

Perché, quanto all’onor, n’ho tutto quello
ch’io voglio: assai mi può parer ch’io veggio
a più di sei levarmisi il capello,

perché san che talor col Duca seggio
a mensa, e ne riporto qualche grazia
se per me o per li amici gli la chieggio.

E se, come d’onor mi truovo sazia
la mente, avessi facultà a bastanza,
il mio desir si fermeria, ch’or spazia.
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Sol tanta ne vorrei, che viver sanza
chiederne altrui mi fésse in libertade,
il che ottener mai più non ho speranza,

poi che tanti mie’ amici podestade
hanno avuto di farlo, e pur rimaso
son sempre in servitude e in povertade.

Non vuo’ più che colei che fu del vaso
de l’incauto Epimeteo a fuggir lenta
mi tiri come un bufalo pel naso.

Quella ruota dipinta mi sgomenta
ch’ogni mastro di carte a un modo finge:
tanta concordia non credo io che menta.

Quel che le siede in cima si dipinge
uno asinello: ognun lo enigma intende,
senza che chiami a interpretarlo Sfinge.

Vi si vede anco che ciascun che ascende
comincia a inasinir le prime membre,
e resta umano quel che a dietro pende.

Fin che de la speranza mi rimembre,
che coi fior venne e con le prime foglie,
e poi fuggì senza aspettar settembre

(venne il dì che la Chiesa fu per moglie
data a Leone, e che alle nozze vidi
a tanti amici miei rosse le spoglie;

venne a calende, e fuggì inanzi agli idi),
fin che me ne rimembr, esser non puote
che di promessa altrui mai più mi fidi.

La sciocca speme alle contrade ignote
salì del ciel, quel dì che ’l Pastor santo
la man mi strinse, e mi baciò le gote;

ma, fatte in pochi giorni poi di quanto
potea ottener le esperïenze prime,
quanto andò in alto, in giù tornò altretanto.

Fu già una zucca che montò sublime
in pochi giorni tanto, che coperse
a un pero suo vicin l’ultime cime.

Il pero una matina gli occhi aperse,
ch’avea dormito un lungo sonno, e visti
li nuovi frutti sul capo sederse,
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le disse: «Che sei tu? come salisti
qua su? dove eri dianzi, quando lasso
al sonno abandonai questi occhi tristi?».

Ella gli disse il nome, e dove al basso
fu piantata mostrolli, e che in tre mesi
quivi era giunta accelerando il passo.

«Et io» l’arbor soggiunse «a pena ascesi
a questa altezza, poi che al caldo e al gielo
con tutti i vènti trenta anni contesi.

Ma tu che a un volger d’occhi arrivi in cielo,
rendite certa che, non meno in fretta
che sia cresciuto, mancherà il tuo stelo.»

Così alla mia speranza, che a staffetta
mi trasse a Roma, potea dir chi avuto
pei Medici sul capo avea la cetta

o ne l’essilio avea lor sovenuto,
o chi a riporlo in casa o chi a crearlo
leon d’umil agnel gli diede aiuto.

Chi avesse avuto lo spirito di Carlo
Sosena allora, avria a Lorenzo forse
detto, quando sentì duca chiamarlo;

et avria detto al duca di Namorse,
al cardinal de’ Rossi et al Bibiena
(a cui meglio era esser rimaso a Torse),

e detto a Contessina e a Madalena,
alla nora, alla socera, et a tutta
quella famiglia d’allegrezza piena:

«Questa similitudine fia indutta
più propria a voi, che come vostra gioia
tosto montò, tosto sarà distrutta:

tutti morrete, et è fatal che muoia
Leone appresso, prima che otto volte
torni in quel segno il fondator di Troia».

Ma per non far, se non bisognan, molte
parole, dico che fur sempre poi
l’avare spemi mie tutte sepolte.

Se Leon non mi diè, che alcun de’ suoi
mi dia, non spero; cerca pur questo amo
coprir d’altr’ésca, se pigliar me vuoi.
==>SEGUE


Se pur ti par ch’io vi debbia ire, andiamo;
ma non già per onor né per ricchezza:
questa non spero, e quel di più non bramo.

Più tosto di’ ch’io lascierò l’asprezza
di questi sassi, e questa gente inculta,
simile al luogo ove ella è nata e avezza;

e non avrò qual da punir con multa,
qual con minaccie, e da dolermi ogni ora
che qui la forza alla ragione insulta.

Dimmi ch’io potrò aver ozio talora
di riveder le Muse, e con lor sotto
le sacre frondi ir poetando ancora.

Dimmi che al Bembo, al Sadoletto, al dotto
Iovio, al Cavallo, al Blosio, al Molza, al Vida
potrò ogni giorno, e al Tibaldeo, far motto;

tòr di essi or uno e quando uno altro guida
pei sette Colli, che, col libro in mano,
Roma in ogni sua parte mi divida.

«Qui» dica «il Circo, qui il Foro romano,
qui fu Suburra, e questo è il sacro clivo;
qui Vesta il tempio e qui il solea aver Iano.»

Dimmi ch’avrò, di ciò ch’io leggo o scrivo,
sempre consiglio, o da latin quel tòrre
voglia o da tósco, o da barbato argivo.

Di libri antiqui anco mi puoi proporre
il numer grande, che per publico uso
Sisto da tutto il mondo fe’ raccorre.

Proponendo tu questo, s’io ricuso
l’andata, ben dirai che triste umore
abbia il discorso razional confuso.

Et io in risposta, come Emilio, fuore
porgerò il piè, e dirò: «Tu non sa’ dove
questo calciar mi prema e dia dolore».

Da me stesso mi tol chi mi rimove
da la mia terra, e fuor non ne potrei
viver contento, ancor che in grembo a Iove.

E s’io non fossi d’ogni cinque o sei
mesi stato uno a passeggiar fra il Domo
e le due statue de’ Marchesi miei,
==>SEGUE


da sì noiosa lontananza domo
già sarei morto, o più di quelli macro
che stan bramando in purgatorio il pomo.

Se pur ho da star fuor, mi fia nel sacro
campo di Marte senza dubbio meno
che in questa fossa abitar duro et acro.

Ma se ’l signor vuol farmi grazia a pieno,
a sé mi chiami, e mai più non mi mandi
più là d’Argenta, o più qua del Bondeno.

Se perché amo sì il nido mi dimandi,
io non te lo dirò più volentieri
ch’io soglia al frate i falli miei nefandi;

che so ben che diresti: «Ecco pensieri
d’uom che quarantanove anni alle spalle
grossi e maturi si lasciò l’altro ieri!».

Buon per me ch’io me ascondo in questa valle,
né l’occhio tuo può correr cento miglia
a scorger se le guancie ho rosse o gialle;

che vedermi la faccia più vermiglia,
ben che io scriva da lunge, ti parrebbe,
che non ha madonna Ambra né la figlia,

o che ’l padre canonico non ebbe
quando il fiasco del vin gli cadde in piazza,
che rubò al frate, oltre li dui che bebbe.

S’io ti fossi vicin, forse la mazza
per bastonarmi piglieresti, tosto
che m’udissi allegar che ragion pazza

non mi lasci da voi viver discosto.