Introduzione
Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un
tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la
credenza, i pregiudizi, le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene un’impronta che
assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo. Né Roma è tale, che la
plebe di lei non faccia parte di un gran tutto, di una città cioè di sempre solenne ricordanza. Oltre a
ciò, mi sembra la mia idea non iscompagnarsi da novità. Questo disegno così colorito, checché ne
sia del soggetto, non trova lavoro da confronto che lo abbiano preceduto.
I nostri popolani non hanno arte alcuna, non di oratoria, non di poetica: come niuna plebe n’ebbe
mai. Tutto esce spontaneo dalla natura loro, viva sempre ed energica perché lasciata libera nello
sviluppo di qualità non fattizie. Direi delle loro idee ed abitudini, direi del parlare loro ciò che non
può vedersi nelle fisionomie. Perché tanto queste diverse nel volgo di una città da quelle
degl’individui di ordini superiori? Perché non frenati i muscoli del volto alla immobilità comandata
dalla civile educazione, si lasciano alle contrazioni della passione che domina e dall’affetto che
stimola; e prendono quindi un diverso sviluppo, corrispondente per solito alla natura dello spirito
che que’ corpi informa e determina. Così i volti diventano specchio dell’anima. Che se fra i cittadini,
subordinati a positive discipline, non risulta una completa uniformità di fisionomia, ciò dipende da
differenze essenzialmente organiche e fondamentali, e dal non aver mai la natura formato due
oggetti di matematica identità.
Vero però sempre mi par rimanere che la educazione che accompagna la parte dell’incivilimento,
fa ogni sforzo per ridurre gli uomini alla uniformità: e se non vi riesce quanto vorrebbe, è forse
questo uno de’ beneficii della creazione. Il popolo quindi mancante di arte, manca di poesia. Se mai
cedendo all’impeto della rozza e potente sua fantasia, una pure ne cerca, lo fa sforzandosi di imitare
la illustre. Allora il plebeo non è più lui, ma un fantoccio male e goffamente ricoperto di vesti non
attagliate al suo dosso. Poesia propria non ha: e in ciò errarono quanti il dir romanesco vollero sin
qui presentare in versi che tutta palesarono la lotta dell’arte colla natura e la vittoria della natura
sull’arte.
Esporre le frasi del romano quali dalla bocca del romano escono tuttora, senza ornamento, senza
alterazione veruna, senza pure inversioni di sintassi o troncamenti di licenza, eccetto quelli che il
parlator romanesco usi egli stesso: insomma cavare una regola dal caso e una grammatica dall’uso,
ecco il mio scopo. Io non vo’ gia presentare nelle mie carte la poesia popolare, ma i popolari discorsi
svolti nella mia poesia. Il numero poetico e la rima debbono uscire come accidente
dall’accozzamento, in apparenza casuale, di libere frasi e correnti parole non iscomposte giammai,
non corrette, né modellate, né acconciate con modo differente da quello che ci manda il testimonio
delle orecchie: attalché i versi gettati con simigliante artificio non paiano quasi suscitare impressioni
ma risvegliare reminiscenze. E dove con tal corredo di colori nativi io giunga a dipingere la morale,
la civile e la religiosa vita del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere non
al tutto spregevole da chi non guardi le cose attraverso la lente del pregiudizio.
Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il
popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello, ma sì per dare una immagine
fedele di cosa già esistente e, più abbandonata senza miglioramento.
Nulladimeno io non m’illudo circa alle disposizioni d’animo colle quali sarebbe accolto questo
mio lavoro, quando dal suo nascondiglio uscisse mai al cospetto degli uomini. Bene io preveggo
quante timorate e pudiche anime, quanti zelosi e pazienti sudditi griderebber la croce contro lo
spirito insubordinato e licenzioso che qua e là ne traspare, quasiché nascondendomi perfidamente
dietro la maschera del popolano abbia io voluto prestare a lui le mie massime e i principii miei,
onde esaltare il mio proprio veleno sotto l’egida della calunnia. Né a difendermi da tanta accusa già
mi varrebbe il testo d’Ausonio, messo quasi a professione di fede in fronte al mio libro. Da ogni
parte io mi udrei rinfacciare di ipocrisia e rispondermi con Salvator Rosa:
A che mandar tante ignominie fuore,
E far proteste tutto quanto il die
Che s’è oscena la lingua è casto il cuore?
Facile però è la censura, siccome è comune la probità di parole. Quindi, perdonate io di buon grado
le smaniose vociferazioni a quanti Curios simulant et bacchanalia vivunt, mi rivolgerò invece ai pochi
sinceri virtuosi fra le cui mani potessero un giorno capitare i miei scritti, e dirò loro: Io ritrassi la
verità. Omne aevum Clodios fert, sed non omne tempus Catones producit. Del resto, alle gratuite
incolpazioni delle quali io divenissi oggetto replicherò il tenor della mia vita e il testimonio di chi la
vide scorrere e terminare tanto ignuda di gloria quanto monda d’ogni nota di vituperio.
Molti altri scrittori ne’ dialetti o ne’ patrii vernacoli abbiam noi veduti sorgere in Italia, e vari di
questi meritar laude anche fra i posteri. Però un più assai vasto campo che a me non si presenta era
loro aperto da parlari non esclusivamente appartenenti a tale o tal plebe o frazione di popolo, ma
usate da tutte insieme le classi di una peculiare popolazione: donde nascono le lingue municipali.
Quindi la facoltà delle figure, le inversioni della sintassi, le risorse della cultura e dell’arte. Non così
a me si concede dalla mia circostanza. Io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in
gran parte concettosa ed arguta, e le ritraggo, dirò, col soccorso di un idiotismo continuo, di una
favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca.
Questi idioti o nulla sanno o quasi nulla: e quel pochissimo che imparano per tradizione serve
appunto a rilevare la ignoranza loro: in tanto buio di fallacie si ravvolge. Sterili pertanto d’idee,
limitate ne sono le forme del dire e scarsi i vocaboli. Alcuni termini di senso generale e di frequente
ricorso vi suppliscono a molto.
Ed errato andrebbe chi giudicasse essersi da me voluto porre in iscena questo piuttosto che quel
rione, ed anzi una che un’altra special condizione d’uomini della nostra città. Ogni quartiere di
Roma, ogni individuo fra’ suoi cittadini dal ceto medio in giù, mi ha somministrato episodii pel mio
dramma: dove comparirà sì il bottegaio che il servo, e il nudo pitocco farà di sé mostra fra la
credula femminetta e il fiero guidatore di carra. Così, accozzando insieme le vari classi dell’intiero
popolo, e facendo dire a ciascun popolano quanto sa, quanto pensa e quanto opera, ho io
compendiato il cumulo del costume e delle opinioni di questo volgo, presso il quale spiccano le più
strane contraddizioni. Dati i popolani nostri per indole al sarcasmo, all’epigramma, al dir
proverbiale e conciso, ai risoluti modi di un genio manesco, non parlano a lungo in discorso
regolare ed espositivo. Un dialogo inciso, pronto ed energico: un metodo di esporre vibrato ed
efficace: una frequenza di equivoci ed anfibologie, risponde ai loro bisogni e alle loro abitudini,
siccome conviene alla loro inclinazione e capacità.
Di qui la inopportunità nel mio libro di filastrocche poetiche. Distinti quadretti, e non fra loro
congiunti fuorché dal filo occulto della macchina, aggiungeranno assai meglio al fine principale,
salvando insieme i lettori dal tedio di una lettura troppo unita e monotona. Il mio è un volume da
prendersi e lasciarsi, come si fa de’ sollazzi, senza bisogno di progressivo riordinamento d’idee.
Ogni pagina è il principio del libro, ogni pagina la fine.
L’ortoepia ne’ Romaneschi non cede in vizio alla grammatica: il suono della voce cupo e gutturale:
la cantilena molto sensibile e varia. Tradotta la prima nella ortografia de’ miei versi, mostrerà
sommo abuso di lettere.
Nel mio lavoro io non presento la scrittura de’ popolani. Questa lor manca; né in essi io la cerco,
benché pur la desideri come essenziale principio d’incivilimento. La scrittura è mia, e con essa tento
d’imitare la loro parola. Perciò del valore de’ segni cogniti io mi valgo ad esprimere incogniti suoni.
Dalle vocali si avrà discorso più tardi. Parliamo intanto delle consonanti.
==> SEGUE