Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863) è, insieme a Trilussa (1871-1950), il più importante poeta dialettale romano. La mole di quel «monumento che è la plebe di Roma», secondo la sua stessa definizione, è impressionante: ben 2279 sonetti in romanesco, scritti prevalentemente tra il 1830 e il 1837. In queste pagine ci si occuperà dei circa 70 sonetti di argomento biblico.
1. L’antilingua: la scelta del dialetto
Proprio in quanto intende erigere un «monumento» alla plebe romana, Belli sceglie il dialetto non
perché spinto da un interesse antiquario ed erudito, ma perché vede in esso un efficace strumento
espressivo capace di far uscire da una fissità marmorea il «monumento» di cui sopra. Dice infatti
nell’Introduzione ai sonetti che il suo disegno è di «esporre le frasi del romano quali dalla bocca del
romano escono tuttora, senza ornamento, senza alterazione veruna, senza pure inversioni di
sintassi o troncamenti di licenza, eccetto quelli che il parlator romanesco usi egli stesso: insomma
cavare una regola dal caso e una grammatica dall’uso, ecco il mio scopo».
A proposito dei sonetti belliani, si potrebbe parlare, parafrasando Honoré de Balzac, di una vera e
propria comédie romaine. In essi vi è la vita quotidiana del popolo romano, i suoi caratteri e le sue
tipologie umane, i mestieri, le credenze e le superstizioni, l’immancabile coppia vino-sesso, in un
vitalismo tanto greve quanto spontaneo, la satira antiecclesiastica venata di giacobinismo,
accompagnata però da una specie di fatalismo conservatore e reazionario, ben sintetizzato dalla
deformazione del Gloria Patri: «sicu t’era tin principio nunche e ppeggio» (sonetto 598).
La plebe romana, al tempo stesso soggetto e oggetto di rappresentazione, emerge in tutta la sua
piccola grandezza, in quella mescolanza di alto e basso (sociologicamente e moralmente) che ne
costituisce il tratto distintivo. Lungi però dall’assumere atteggiamenti populistici, il Belli non fa
sconti né si sogna di proporre modelli, dichiarandolo esplicitamente: «Non casta, non pia talvolta,
sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e questo io
ricopio, non per proporre un modello, ma sì per dare una immagine fedele di cosa già esistente e
più abbandonata senza miglioramento»
2. Tra citazione e deformazione: l’Abbibbia e l’antibibbia
È evidente che l’approccio al testo biblico del Belli è di tipo tridentino: piegata a esigenze
catechetiche, la storia biblica diventa una storia sacra che parte da Adamo per giungere fino a Gesù e
alla nascita della Chiesa. Vi è infatti nei sonetti biblici del Belli una spia linguistica rivelatrice di
tale approccio: «La Bibbia ch’è una specie d’un’historia» (757. Er zagrifizzio d’Abbramo, v. 1); «Er
Vangelio, ch’è una bell’istoria» (339. Le nozze der cane de Gallileo III, v. 7). Ne risulta una conoscenza
filtrata e selettiva del testo biblico, dalla forte connotazione ecclesiastica e cristianocentrica (e
quindi, visto il periodo, antiebraica).
Ma nel Belli c’è qualcosa in più. L’uso del dialetto infatti, nella sua qualità di antilingua (lingua del
popolo), trasforma l’Abbibbia in un’antibibbia, cioè in un testo riletto secondo caratteri (in senso sia
grammaticale sia morale) romaneschi. Ridetti dalla voce popolare, i personaggi biblici diventano
delle figurine moralmente monocromatiche o unidimensionali, non molto diverse dai tipi della
commedia plautina o della commedia dell’arte. Così si spiegano anche gli anacronismi tipici della
cultura popolare, alle prese con una quotidianità liturgicamente immutabile e metastorica.
Lo si vede subito nel sonetto che apre, non a caso, la serie dei sonetti biblici, una rilettura popolare
di Genesi 1–3: «L’anno che Ggesucristo impastò er monno, / ché pe impastallo ggià cc’era la pasta,
/ verde lo vorze fa [lo volle fare], ggrosso e rritonno / all’uso d’un cocommero de tasta [da assaggio].
// Fesce un zole, una luna, e un mappamonno, / ma de le stelle poi di’ una catasta: / sù uscelli,
bbestie immezzo, e ppessci in fonno: / piantò le piante, e ddoppo disse: Abbasta. // Me scordavo
de dì che ccreò ll’omo, / e ccoll’omo la donna, Adamo e Eva; / e jje proibbì de nun toccajje un
pomo. // Ma appena che a mmaggnà ll’ebbe viduti, / strillò per Dio con cuanta vosce aveva: /
“Ommini da vienì, ssete futtuti”» (165. La creazzione der Monno). La deformazione del sotto-testo
biblico culmina nell’espressione finale (con gesto sottinteso) che abbassa Dio a livello di un
panettiere o di un fruttivendolo, secondo un antropomorfismo non estraneo al dettato biblico.
Analogo discorso per un’altra delle pagine più note della Bibbia. L’annuncio a Maria (Luca 1,26-38)
avviene in un “romano” contesto di estrema povertà, che rende la scena più viva e parlante. Anche
la battuta finale (sorta di parafrasi del poco comprensibile «non conosco uomo»), lungi dall’essere
una volgarità gratuita, rivela l’ingenuo stupore di una ragazza del popolo di fronte a un fatto
inspiegabile: «Ner mentre che la Verginemmaria / se magnava un piattino de minestra, /
l’Angiolo Grabbiello via via / vieniva com’un zasso de bbalestra. // Per un vetro sfasciato de
finestra / j’entrò in casa er curiero [messaggero] der Messia; / e co ’na rama immano de gginestra /
prima je rescitò ’na Vemmaria. // Poi disse a la Madonna: “Sora spósa, / sete gravida lei senza
sapello / pe ppremission de ddio da pascua-rosa” [Pentecoste]. // Lei allora arispose ar Grabbiello:
/ “Come pò esse mai sta simir cosa / s’io nun zo mmanco cosa sia l’uscello?”» (330. La Nunziata).
Nel sonetto 973. La prima cummuggnone, la deformazione del testo biblico raggiunge addirittura
vertici surrealistici nell’immagine di Gesù che, quasi a volersi dimostrare più cristiano dei cristiani,
arriva ad auto-mangiarsi, ovviamente dopo essersi confessato: «Terminata che ffu ll’urtima scena
[cena], / Cristo diede de piccio [diede di piglio] a una paggnotta, / la conzagrò, la róppe [ruppe], e,
appena rotta, / cummunicò un e ll’antro [tutti] a ppanza piena. // E ss’ha da dí cche ppropio stassi
[stesse] in vena, / pe ddà la su’ fettina a cquer marmotta / de Ggiuda (vojjo dí Ggiuda Scariotta), /
che annò a ffa cquer tantin de cannofiena [andò a fare quel po’ di altalena; allusione all’impiccagione].
// Poi lui puro [pure], viscino a la passione, / pe mmorí cco li santi sagramenti, / se maggnò da
sestesso in cummuggnone. // S’intenne [si intende] ggià cco ttutti l’ingredienti; / ciovè [cioè]
ddoppo una bbona confessione, / pe rregola dell’antri [altri] pinitenti».
Ci sono però esempi in cui la deformazione del sotto-testo biblico è solo apparente,
mimetizzandosi in citazione e/o mescolandosi con essa. Lo si può vedere nel sonetto 276. Er giorno
der giudizzio, che sta a La creazzione der Monno come l’omega sta all’alfa o come l’Apocalisse sta alla
Genesi: «Cuattro angioloni co le tromme in bocca / se metteranno uno pe cantone [uno per lato] / a
ssonà: poi co ttanto de voscione / cominceranno a ddì: ffora a cchi ttocca. // Allora vierà ssù una
filastrocca [fila] / de schertri da la terra a ppecorone [a carponi], / pe rripijjà ffigura de perzone, /
come purcini attorno de la bbiocca [chioccia]. // E sta bbiocca sarà ddio bbenedetto, / che ne farà
du’ parte, bbianca, e nnera: / una pe annà in cantina, una sur tetto. // All’urtimo usscirà ’na
sonajjera [formicaio] / d’Angioli, e, ccome si ss’annassi a lletto, / smorzeranno li lumi, e bbona
sera».
I «Cuattro angioloni» dell’incipt, dal sapore michelangiolesco, sono una citazione quasi letterale di
Apocalisse 7,1, come pure il loro «voscione» che rimanda a Matteo 24, 31 nella traduzione della
Vulgata («mittet angelos suos cum tuba et voce magna») e ad Apocalisse 7,2. Anche Dio trasformato
in una chioccia non è reinvenzione popolare, bensì citazione esplicita di Matteo 23,37 («Quante
volte ho tentato di raccogliere i tuoi figli, come la gallina raduna i suoi pulcini sotto le ali»). È il finale, però, a ribaltare la prospettiva biblica, perché, come fa notare Gibellini, «al di là del premio
e del castigo, “in cantina” o “sur tetto”, esiste uno spazio escatologico ulteriore in cui il male […] è
imparzialmente riservato a tutti, nel regno delle ombre dove i lumi sono per sempre “smorzati, e
“bbona sera” è l’unico perenne augurio» (La Bibbia del Belli, p. 180).
3. Una Bibbia pop: il “biblista” da osteria
Le chiese, le piazze e le osterie sono i luoghi tipici e topici del sottoproletariato romano. Sembra
quasi che, uscito dalla messa e ritrovatosi nella bettola, il plebeo belliano si lanci in una sorta di
esegesi attualizzante del testo biblico, dovuta certo alle abbondanti libagioni, ma non estranea alla
predica udita la mattina (magari nella chiesa del Gesù dove predicavano i “colti” gesuiti). Ecco
come viene ridetta la figura di Davide (si notino, in particolare, gli anacronismi biblici e culturali):
«Chi vvò ssapé er re Ddàvide chi ffu, / fu er Casamia [un astrologo del tempo] der tempo de Novè, /
che pparlava co Ddio a ttu pper tu, / e bbeveva ppiú vvino che ccaffè. // Chi ppoi cuarc’antra
cosa vò ssapé, / vadi a ssentí la predica ar Gesú [alla chiesa del Gesù], / e imparerà che pprima
d’èsse re / era un carciofolà [suonatore d’arpa] dder re Esaú [si intenda: Saul]. //
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