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Introduzione
La b tra due vocali si raddoppia, come abbito (abito), la bbella (la bella), debbitore (debitore) ecc.
La b dopo la m si cambia in questa: cammio (cambio), cimmalo o cèmmalo (cembalo), immasciata
(ambasciata), limmo (limbo), palommo (palombo), gamma (gamba), ecc. Ciò peraltro accade quando
appresso la b venga una vocale. Se la b sia seguit da r, alcuni la mutano in m e alcuni no: per
esempio le voci imbriaco, settembre, ambra, da molti si pronunceranno senza alterazione e da taluni si
diranno immriaco, settemmre, ammra.
La c si ascolta quasi sempre alterata. Se è doppia avanti ad e o ad i, oppure ve la precede una
consonante, contrae il suono che hanno nella regolar pronuncia le sillabe cia e cio in caccia e braccio, e
lo prende ancora più turgido, che in questi due esempi non si ascolta. Preceduta poi da una vocale,
anche di separata parola, prolungasi strisciando, similare alla sc, di scémo, oscèno, scimia: per
esempio, piascére, duscènto, rèscita, la scéna, da li scento, otto scivici (piacere, duecento, recita, la cena,
dai cento, otto civici) e simili. E qui giova il ripetere aver noi prodotto in esempio un suono soltanto
similare, imperocché di simile, in questo caso la retta pronunzia non ne somministra. Pasce, pesce,
voci della buona favella, si proferiscono dal volgo come le voci viziate pasce, pesce (pace, pece) colla
differenza però che in questi ultimi vocaboli il valore della s è semplice e strisciante, laddove in que’
primi odesi doppio e contratto: di modo che, chi volesse rappresentare con la penna la differenza di
questi due suoni, dovrebbe scrivere passce, pessce (pasce, pesce) pasce, pesce (pace, pece): quattro
vocaboli che il dir romanesco possiede.
Nella lingua francese si può trovare questo secondo suono strisciante della sc romanesca, il quale
nella retta pronunzia dell’idioma italiano sarebbe vano di ricercare. Per esempio acharnement,
colifichet, la chimie, s’échapper. Per ben leggere i versi di questo libro bisogna porre in ciò molta
attenzione. I fiorentini hanno anch’essi questo suono, che coincide là appunto dove i romaneschi lo
impiegano; ma dovendosi considerare ancora in quelli come un difetto municipale ed una
alterazione del vero valor dell’alfabeto italiano, non si è da me voluto dare per esempio che potesse
servire alla intelligenza degli stranieri.
Appresso però alle isolate vocali a, e, o, e a tutti i monosillabi che non sieno articoli o segnacasi, la e
conserva bensì il suono grasso ai luoghi già detti, ma abbandona lo strascico; per esempio a cena, è
civico, o cento. Si osserva in ciò la legge stessa che impera sulla c aspirata de’ fiorentini, i quali dicono
la hasa, di hane, sette havalli, belle hamere, ecc., ed al contrario pronunziano bene e rotondamente a
casa, è cane, o cose, che cavalli, più camere. Come dunque i fiorentini diranno la hasa, di hane, le hose (la
casa, di cane, le cose) così i romaneschi diranno la scena, de scivico, li scento (la cena, di civico, i
cento); e all’opposto per lo stesso motivo che farà pronunziare da’ fiorentini a casa, è cane, o cose, si
udrà proferire a’ romaneschi a ccena, è ccivico, o ccento: imperocché in quelle isolate vocali a, e, o e ne’
monosillabi tutti (meno gli articoli, i segnacasi, di e da, e le particelle pronominali) sta latente una
potenza accentuale che obbligando ad appoggiare con vigore sulla c iniziale de’ seguenti vocaboli,
la esalta, la raddoppia, e per conseguenza n’esclude ogni possibilità di aspirazione come se fosse
preceduta da consonante. La quale identità di casi offre uno benché lieve esempio di ciò che talora
anche le lingue più diverse ritengono fra loro comune e inconvenzionale: la ragione di che deve
cercarsi nella natura e necessità delle cose.
Bisogna qui avvertire un altro ufficio della lettera c. Presso il volgo di Roma le voci del verbo avere
sono proferite in due modi. Quando serve esso verbo di ausiliare ad altri verbi, tutte le di lui
modificazioni necessarie ai tempi composti di questi si aprono col naturale lor suono, meno i vizi
delle costruzioni coniugate: per esempio hai fatto, avevo detto, averanno camminato, ecc. Allorché però
lo stesso verbo avere, preso in senso assoluto, indichi un reale possesso, i romaneschi fanno
precedere ogni sua voce dalla particella ci. Non diranno quindi hai una casa, avevo due scudi, averanno
un debito, ecc., ma bensì ci hai una casa, ci avevo du’ scudi, ci averanno un debbito, ecc. Poiché però il ci
non è da essi pronunciato isolato e distinto, ma connesso e quasi incorporato col verbo seguente,
così queste parole e altre verranno da me scritte colla particella indivisa: ciai, ciavevo, ciaveranno. E
siccome esse consteranno pur sempre dall’accoppiamento di due voci diverse, io vi porrò un
apostrofo al luogo dove cade l’unione fonica (ci’ai, ci’avevo, ci’averanno) affinché da niuno sien per
avventura credute vocaboli speciali e di particolare significazione. Se poi la combinazione della
altre parole del discorso, che vadano innanzi alle dette voci a quel modo artificiale, produrrà lo strisciamento oppure il raddoppiamento della c già da me più sopra indicato. Ecco in qual maniera
si noteranno queste altre due differenze: Io sc’iavevo du’ scudi, Tu cc’iai una casa, ecc. Se al contrario il
verbo avere non indichi un reale possesso allora le sue voci andran prive del ci: per esempio: avevo
vent’anni, hai raggione, averanno la disgrazzia, ecc.
La d appresso alla n mutasi in questa seconda lettera. Vendetta si pronuncerà vennetta; andare, annà,
indaco, innico, mondo, monno. Allorché però le parole principiate da in non saranno semplici ma
composte, come indemoniato, indietro, indorare e simili, la d conserverà il proprio valore.
La g fra due vocali non si addolcisce mai nel modo che sogliono i buoni favellatori italiani, come in
agio, pregio, bigio, ecc., ma si aspreggia invece e si duplica. Doppia poi, o preceduta da consonante
avanti alla e ed alla i, si pronuncia turgida come la c ne’ medesimi casi. Nel resto questa lettera
ritiene la sua natura. La sillaba gli nelle parole si cambia in due jj: mojje (moglie), ajjo (aglio), mejjo,
fijjo, ecc. Ma l’articolo gli si muta in je: je disse, fajje (gli disse, fagli), ecc.
La l fra le vocali e le consonanti mute si muta in r, come Rinardo, Griserda, Mitirda, manigordo,
assarto, sverto, morto, inzurto, ferpa, corpa, quarcheduno, arbero, Argèri, arcuanto, marva, scarzo, meacurpa,
per Rinaldo, Griselda, Matilde, manigoldo, assalto, svelto, molto, insulto, felpa, malva, scalzo,
mea-culpa. Nulladimeno il vocabolo caldo e i suoi composti diconsi assai più spesso e generalmente
callo, riscallo, e non cardo e riscardo. Ancora nel nome Bertoldo la d fa l e si dice Bertollo. Olio
pronunciasi ojjo, rosolio fa rosojjo, risojjo o risorio. La medesima lettera l preceduta da un’altra
consonante in una stessa sillaba, prende parimenti il suono di r. Pertanto le voci clima, plico,
applauso, flauto, afflitto, emblema, blocco, Plutone, diverranno crima, prico, apprauso, frauto, affritto,
embrema, brocco, Prutone.
Alcuni non della infima plebe volgono l’articolo il in el, laddove la vera plebaglia dice sempre er.
La s non suona mai dolce come nella retta pronunzia di sposo, casa, rosa. Odesi sempre sibilante, e,
allorché non sibila, assume le parti di una z aspra: lo che accade ogni qual volta succeda nel
discorso ad una consonate come sarza (salsa), er zegno (il segno), penziere (pensiere), inzino (insino)
ecc.
La z nel mezzo delle parole costantemente raddopiasi. Così grazia, offizio, protezione, si
proferiranno grazzia, offizzio, protezzione. Bensì questo s’intende allorché la z rimanga fra due vocali.
Generalmente, al principio delle parole, alcune consonanti restano semplici e molte al contrario si
raddoppiano, purché la parola precedente non termini in un'altra consonante. Ma poiché pure
questa teoria, comune in gran parte alle classi più polite del popolo, va soggetta a capricciose
eccezioni, se ne mostrerà la pratica ai debiti incontri. Dopo però le finali colpite d’accento, sia
manifesto, sia potenziale (come si disse più sopra, parlando de’ monosillabi) da noi si dovrebbe
nella scrittura delle consolanti iniziali conservare il sistema della regolare ortografia. Un segno di
più è forse qui oziosa ridondanza, dacché fu avvertito come la potenza accentuale raddoppi per sé
stessa nella pronunzia le articolazioni seguenti: e il miglior proposito parrebbe quello di notar
solamente ciò che si diparte dal resto. Purtuttavia, per non indurre in equivoco i meno pratici, ai
quali potesse per avventura giungere questo scritto, seguiremo coi segni la guida del suono da essi
rappresentato.
Per le lettere vocali non dovremo fare osservazioni se non se intorno alla a alla e e alla o. La prima
esce sempre dalla bocca de’ romaneschi con un suono assai pieno e gutturale: l’acuto o il grave della
seconda e della terza seguono le regole del dir polito, meno qualche incontro che all’occasione sarà
da noi distinto con analoghi accenti. Basterà qui l’avvertire che niuna differenza si fa da e
congiunzione ed è verbo, siccome neppure tra la o congiuntivo e la ho verbale: udendosi tutte
pronunciare ugualmente con suono ben largo ed aperto.
[Giuseppe Gioachino Belli]