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Guido Gozzano - POESIE SPARSE











































Il crepuscolarismo
di Guido Gozzano



I poeti crepuscolari fiorirono tra il 1905 e il 1915 in piena età giolittiana, in quel periodo che fu definito poi della belle époque. La denominazione del movimento trae origine da un saggio del critico A. Borgese intitolato Poesia crepuscolare, nel quale venivano presi in esame poeti come Marino Moretti, Fausto Maria Martini e Carlo Chiaves. Di questa corrente fanno parte però anche Corrado Govoni, Enrico Thovez e Angelo Silvio Novaro. Ma il più grande di loro, se non proprio il caposcuola, viene considerato Guido Gozzano.
Fondamentale è la raccolta intitolata Colloqui, apparsa nel 1911. Il titolo della su citata raccolta è già un elemento declarativo del crepuscolarismo gozzaniano. La parola, usata in senso etimologico nell'accezione di "parlare con", dal latino cum loquere, e che ricorda il titolo di "Sermones" dato da Orazio alle sue satire, sta a significare la volontà, che fu ampiamente condivisa da tutti poeti in di quella corrente, di sviluppare una poesia in tono minore rispetto a quella accademica e retorica dei poeti "laureati" della cultura ufficiale. È espressione cioè di una scelta per la quale i poeti crepuscolari, Gozzano in testa, si posero in diretta polemica con la poesia declamatoria, politicamente impegnata e ideologicamente connotata ad esempio di un D'Annunzio ricercando uno stile umile, quotidiano, fatto di parole usuali, di ritmi scorrevoli e quasi cantabili. Un trobar leu, potremmo dire, nascente sia da una vocazione letteraria democratica sia da un desiderio di semplicità. Egli infatti già aveva dichiarato: Chi s'adopra scrivendo, a farsi intendere con poca fatica, sarà valido e sincero…così farò. Quanto al suo stile poi, aggiunge che può sembrare quello di uno scolare corretto un po' da una serva, ma in esso tutto si riconosce, tanto da poter anche dire: Buon Dio, puro conserva questo mio stile…non ho nient'altro di bello al mondo. Naturalmente non deve sfuggire quell'aggettivo puro che ci porta su un'altra connotazione, quella cioè di una poesia che non scende a compromessi, che non conosce padroni, che non è in vendita, e, soprattutto, che riflette la purezza del poeta stesso, nella forma come nei contenuti. Una poesia che potremmo dire tutta positiva, dove non c'è mai una parola che disturbi, una nota che stoni, un'immagine che ci infastidisca, una similitudine di cattivo gusto, giacché sempre sostenuta anche da una encomiabile volontà di solidarietà sociale: un fiore gitterò dal mio rifugio, sempre a chi soffre e sogna e piange e cade…
Tipicamente crepuscolare è poi la considerazione che di sé il poeta esprime. Egli si raffigura non come colui che forgia le spade all' Avvenire, non come un vate, non come un trascinatore di folle; egli non assume atteggiamenti ieratici, non si pone su di un alto podio a rivelare alle masse profonde verità, a spargere intorno la luce, come fa un faro nella notte. Bensì come colui che vive tra il Tutto e il Niente, come una strana cosa vivente detta Guido Gozzano…un po' scimunito che tuttavia ringrazia la Natura per averlo fatto gozzano e non gabrieldannunziano perché sarebbe stato peggio! (La via del rifugio). Non un eroe, non un personaggio della vita mondana, non un viveur, bensì solo un borghese onesto che della poesia fa impegno umano e testimonianza.
A siffatta poetica si adeguano certamente i contenuti e i personaggi che la realizzano. Così l'esaltazione della vita di provincia, della classe piccolo borghese, delle buone cose di pessimo gusto quali emergono dai Colloqui.
La provincia è quella del Canavese, di Agliè, con i suoi splendidi alberi, i suoi verdi prati, le belle ville aristocratiche linde, silenziose, discrete, ordinate, la sua gente bene educata, timorata di Dio, rispettosa delle autorità, quieta e serena. Un mondo ideale dove la vita si svolge secondo ritmi naturali rapportati a quelli biologici dell'uomo, dove il giorno e la notte sono vissuti per lavorare per riposare, in una alternanza che non sfocia in monotonia. Un mondo dominato da una classe piccolo borghese onesta e laboriosa, che regola i rapporti interpersonali sui valori del rispetto, della discrezione, della fedeltà, dell'amicizia. Una umanità consapevole di sé, gelosa di ciò che ha, forse un po' chiusa, ma incapace di fare il male. Una umanità che fa della spontaneità e della semplicità un valore, della probità una virtù che ama la famiglia, le cene tra pochi amici, lo stare insieme nel salotto ove si può parlare anche di politica, ma senza passione, ove si può fumare un buon sigaro ascoltando suonare un pianoforte animato dalle bianche dita di una ragazza sognatrice. Ove la ricchezza non necessita, giacché ad ornare la casa bastano Scatole di latta senza confetti, frutti di marmo protetti da campane di vetro, scrigni fatti di valve, qualche oggetto col monito"Salve".
Quest' inno alla vita di provincia però non deve essere preso per un luogo letterario, anche se Gozzano è poeta colto che non ignora la presenza della tematica contrappositiva della città alla campagna nella nostra letteratura. Esso infatti va inteso come un canto nostalgico a ciò che è sano, fisicamente oltre che moralmente sano, in contrapposizione a ciò che è corrotto, fisicamente oltre che moralmente corrotto. La provincia è per Gozzano anche la salubrità dell'aria, la purezza delle acque, il cielo terso e cibi genuini. Oltre ad essere un'isola felice perché i rapporti umani sono autentici, perché non v'è maschera di ipocrisia, perché ancora regna la semplicità.
In questo contesto si inserisce e meglio si spiega l'esaltazione della ragazza di paese e degli amori ancillari. Non diversamente da Carducci che rimpiangeva la contadina "bionda Maria" dai ben torniti fianchi Gozzanoè attratto dalla "signorina Felicita " la protagonista, per così dire, della seconda sezione intitolata Alle soglie, descritta come quasi brutta priva di lusinga nelle vesti quasi campagnole ma con i bei capelli di color del sole con la bocca vermiglia il volto tutto sparso d'efelidi leggere e gli occhi con l'iride azzurra d'un azzurro di stoviglie. Questo tipo umano è esattamente l'opposto delle donne fatali cantate da Carducci o da D'Annunzio, dalle bellezze lussuose e corrotte delle donne cittadine, delle emancipate, delle colte e raffinate. Ma anche da quel tipo di donna che Gozzano frequentava, istruita, complicata, difficile. Singolarmente esigenza letteraria ed esigenza esistenziale scaturente da vita vissuta in quest'ideale di donna si incontrano.
A questo punto siamo in grado di meglio comprendere anche la figura di Totò Merumeni, il personaggio maschile protagonista della terza sezione dei Colloqui intitolata Il reduce. Totò vive con una madre inferma, una prozia canuta ed uno zio demente...ha 25 anni,... scarso cervello, scarsa morale, spaventosa chiaroveggenza. Egli è un buono (quello che Nietzsche derideva). Un solitario che ha per compagni una ghiandaia, un micio e una bertuccia. Egli ha sognato per anni l'amore che non venne, sognò attrici e principesse, ed alla fine ha preso per amante la sua cuoca diciottenne. Egli è un inetto, un esteta frustrato, un ormai indifferente ed estraneo alla vita, che ha scelto l'esilio e la rinuncia volontaria. In questo personaggio i critici hanno visto una figura di anti-eroe, un anti-superuomo, come difatti è. Ma esso è anche una proiezione mitica del poeta stesso, se vogliamo, una sua caricatura. Da qui discende la caratteristica stilistica predominante della raccolta, che è quella dell'ironia e che ci riporta a quanto sopra già detto riguardo alla considerazione di sé che Gozzano esprime ed alla sua poetica. E con ciò il cerchio si chiude.

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
POESIE SPARSE

Primavere romantiche

Tu parlavi, Mamma: la melodia
della voce suscitava alla mia mente
la visione del tuo sogno perduto. Or
ecco: ho imprigionato il sogno con
una sottile malia di sillabe e di versi
e te lo rendo perché tu riviva le
gioie della giovinezza.

Non turbate il silenzio. Tutto tace
verso la donna rivestita a lutto:
la campagna, lo stagno, il cielo, tutto
illude la dolente... O pace! pace!

O pace, pace! Poiché nulla spera
ormai la donna declinante. Invano
fiorisce di viole il colle e il piano:
non ritorna per lei la primavera.

Oh antiche primavere! Oh i suoi vent'anni
oimè per sempre dileguati. Quanto,
oh quanto ella ha sofferto e come ha pianto!
Atroci sono stati i suoi affanni.

Nulla più spera ormai: però la bella
timida primavera che sorride
dilegua la mestizia che la uccide,
e un sogno antico in lei si rinnovella.

Non pure ieri il piede ella volgea
allo stagno che l'isola circonda?
Ella recava un libro ove la bionda
reina per il paggio si struggea:


(avea il volume incisioni rare
dove il bel paggio con la mano manca
alla donna offeria la rosa bianca
e s'inchinava in atto d'adorare).

O sogni d'altri tempi, o tanto buoni
sogni d'ingenuità e di candore,
non sapevate il vuoto e il vostro errore
o innocenti d'allor decameroni!

Ella col libro qui venia leggendo
e a quando a quando in terra s'inchinava
la mammola, l'anemone, e la flava
primula prestamente raccogliendo.

Oh tutto Ella ricorda: le turchine
rose trapunte della bianca veste,
la veste bianca in seta, e la celeste
fascia che le gonfiava il crinoline.

Poi apriva il cancello, e il ponte stesso
dove or riposa la persona stanca
allora trascorreva agile e franca
né s'indugiava come indugia adesso.

Poi entrava nell'isola, e furtiva
in fra il tronco del tremulo e del faggio
guatava se al boschivo romitaggio
l'amico del suo sogno conveniva.

Oh tutto Ella ricorda! Ecco apparire
l'Amato: giunge al margine del vallo
dell'acque, e raffrenato il suo cavallo
il cancello la supplica d'aprire.

"Non dunque accetta è l'umile dimanda
del vostro paggio, o bella castellana?
Combattuto ha per voi; fatto gualdana
egli ha per voi, magnifica Jolanda."


Egli disse per gioco. D'un soave
sorriso ella rispose: assai le piacque
il madrigale, ed al di là dell'acque,
sorridendo d'amor, getta la chiave.

Oh tutto Ella rammemora. Non fu
ieri? No, non fu ieri. Il lungo affanno
ella dunque già scorda? O atroce inganno
quel dolce aprile non verrà mai più...

Non turbate il silenzio. Tutto tace
verso la donna rivestita a lutto,
la campagna, lo stagno, il cielo, tutto
illude la dolente... O pace, pace!

La preraffaelita

Sopra lo sfondo scialbo e scolorito
surge il profilo della donna intenta,
esile il collo; la pupilla spenta
pare che attinga il vuoto e l'infinito.

Avvolta d'ermesino e di sciamito
quasi una pompa religiosa ostenta;
niuna mollezza femminile allenta
l'esilità del busto irrigidito.

Tien fra le dita de la manca un giglio
d'antico stile, la sua destra posa
sopra il velluto d'un cuscin vermiglio.

Niuna dolcezza è ne l'aspetto fiero;
emana da la bocca lussuriosa
l'essenza del Silenzio e del Mistero.


Vas voluptatis

A Voi, casta P.

Dal pavimento di musaico, snelli
colonnati surgevano a spirale
s'attorcevano in forma vegetale
li acanti d'oro sotto i capitelli.

Quivi posava un vaso - trionfale
sculptura greca - e ai dì lontani e belli
di Venere accorrean schiave a drappelli
per colmarlo di mirra e d'aromale.

E le turbe obliavano l'orrore
aspirando l'aulir dell'incensiere
lenitore d'affanni e di dolore.

Simile a l'urna Voi amo vedere,
dolce Signora, che col vostro amore,
m'offerite la coppa del Piacere.

Il Castello d'Agliè

...Princesse, pardonnez, en lisant cet ouvrage
Si vous y retrouvez, crayonnés par ma main,
Les traits charmant de votre image:
J'ai voulu de mes vers assurer le destin...
(Le chevalie de Florian
à la Sérénissime Princesse de Lamballe)

Poi che il romano Uccello lo stendardo
latino impose su l'itale terre
surgesti minaccioso baluardo.

Surgesti minaccioso e nelle guerre
che devastaron la campagna opima
gran nerbo di guerrieri entro rinserre.


Allora Duca non v'era non Reïna,
ma molti feditori e balestrieri
per il peggio dell'oste e la ruina.

Rozzo sorgevi allora, ma tra i neri
fianchi adunavi impavida coorte
d'uomini armati di coraggio e fieri.

Da i tuoi muri turriti da la forte
ossatura dei fianchi da i bastioni
le bertesche gittavano la morte

su i signori feudali, su i baroni
vogliosi di posar la man predace
su nuove terre e aver nuovi blasoni.

L'Evo Medio passò, ma non si tace
per anco il ferro: i Conti San Martino
nell'antico manier non hanno pace.

Il Torresan, secondo Attila, insino
questi colli per ordine di Francia
porta guerra con suo stuolo ferino.

Ma il Bassignana sua coorte slancia
e, mentre fra le braccia di Leonarda
meretrice quei dorme, ecco l'abbrancia.

Nel diruto castello fino a tarda
etade vive Donna Caterina
sposa esemplare in epoca beffarda.

E contro il Cardinale che Cristina
di Francia come sua suddita guarda
Don Filippo difende la Regina.

Per alcun tempo qui, quando la tarda
baronia declinò, ristette l'urna
che d'Arduino il cenere riguarda.


Ma invidïosa poi ladra notturna
viene coi bravi antica Marchesana,
l'urna si toglie e fugge taciturna.

O quante larve vivono d'arcana
vita in miei sogni! Parlano gli abeti
del grande parco, s'anima la piana

dei prati illustri. Appare fra i laureti
bella ospite del Re Carlo Felice
Maria Luisa da i grandi occhi inquieti

ed ecco il Re che un'era nuova indice,
ecco Maria Cristina sua consorte,
ecco risorta l'epoca felice.

Così mentre m'aggiro e su le morte
foglie premo col piede lungo il viale
mille imagini son da me risorte.

E tutto tace. Non il sepolcrale
silenzio rompe il suono delli squilli
non latrato di veltri. L'autunnale

luce è silente. Non canto di grilli
estivo e roco. Solo indefinito
fievole viene un suono di zampilli.

È il ferro di cavallo. Quivi ardito
sul delfino cavalca ancor Nettuno
di verdi-gialli licheni vestito.

Le sirene lapidee dal bruno
manto di musco accennano al ferrigno
Signor del luogo. E non risponde alcuno.

Però su l'acque in tempo eguale il Cigno
muove le palme con ritmo silente
e volge attorno l'occhio fiero e arcigno.


Sogna ancor forse Leda nelle intente
pupille nere lungo la divina
sponda d'Eurota? Ahimè, la Dea è assente.

Ma fra i mirti, fra i lauri la Regina
del luogo appare cavalcante e bionda
come bianca matrona bizantina.

Avanza il baio fino su la sponda
del bacino. Si specchia trepidante
la signora nell'acqua. E il sol la inonda.

E l'erme antiche memori di tante
Iddie pagane del bel mito assente
la rediviva Diana cavalcante

guatano immote, misteriosamente.

Laus Matris

Laudato sii, mi Domine, cum tucte le criature
(FRATE SERAFICO: Cantico del sole)

O figlio, canta anche il tuo alloro!
Laus vitae - GABRIELE D'ANNUNZIO)

Laudata sii dal figlio
che, compiuti vent'anni
oggi lascia li inganni
ritorna come giglio.
Oggi il candor riceve
sull'anima perduta
della bianca caduta
in terra prima neve,
se la tua mano fina
sì tenera e sì affranta
recando l'Ostia Santa
verso di lui s'inchina.
Egli che tu ben sai

per motivo nessuno
ai ginocchi d'alcuno
non si prostese mai,
ai tuoi ginocchi indice
l'umilicordia e attende
mentre i labbri protende
all'ostia redentrice.
Oggi, lasciati i gaudi
e i canti del Piacere,
solleva l'incensiere
di tutte le sue laudi.
Laudata per l'amore
- il solo di sua vita -
per sua dolce infinita
pazienza nel dolore.
Eretta sullo stelo
o Rosa adamantina
invitta a la ruina,
invitta a lo sfacelo,
la casa il gran valore
sorregge di sue vene,
come i solchi trattiene
la radice di un fiore.
Più che la laboriosa
femina dell'Ebreo,
Madre di Galileo,
o madre mia dogliosa,
voglio esaltarti: voglio
su le tempie che adoro
recingere l'alloro
del mio protervo orgoglio.
Laudata sii. Il greve
peso dell'esser mio
nel mese che un iddio
nasceva su la neve
tu desti in luce. Forse
venne l'Annunciatore

e il bacio del Signore
anche al tuo labbro porse?
O sogno! Allora anch'io
(il supremo che agogno
sogno è raggiunto. O sogno!)
son figlio d'un iddio?

Ho un biasimo solo dal quale
saprai la mia gioia di vita.
Perché non mi hai fatto immortale?
Parabola dei frutti

Ecce Ancilla Domini.
Fiat mihi secundum verbum tuum.
(Salmo dell'Immacolata Concezione)
Il volto un poco inchina
- né triste né giocondo -
sopra il seno infecondo
la Donna sibillina.

Il piucheumano mesto
volto sacerdotale
l'assembra una vestale
senza parola e gesto.

Da lunga data tiene
i frutti contro il seno,
né i polsi vengon meno
nella fatica lene.

Ardon di pari ardore
i frutti della Terra
ch'Ella commisti serra
con quelli dell'Amore.

E nel suo cuore ascoso
un brivido la scuote:
pensa dolcezze ignote
in braccio dello Sposo.


Quando l'Annunciatore
verrà nel suo cospetto
recando il bacio e il detto
del dolce suo Signore,

allor su l'origliere
per Lui tutti disserra
e i frutti della Terra
e i frutti del Piacere.

L'incrinatura

Perché nel vetro di Boemia antica,
dopo un'ora, già langue l'aromale
fior che m'offerse la mia dolce Amica?

Ché la verbena vi languisce, quale
la Donna amante il biondo Garcilaso
già martoriata dal segreto male.

Io so quel male: il calice del vaso
la bella mano - o gran disavventura! -
col ventaglio d'avorio urtò per caso.

E pur bastò. La lieve incrinatura
è insanabile ormai; il morituro
fiore s'inchina, stanco, nell'arsura,

ché la ferita del cristallo duro
tacitamente compie tutto il giro
per cammino invisibile e sicuro.

Vanisce l'acqua e muore il fiore. Io miro
il calice mortifero che serba
quasi non traccia di ferita in giro,

e una assai trista simiglianza e acerba
sento fra il vetro e il calice d'un cuore
sfiorato a pena da una man superba.


La ferita da sé, senza romore,
il calice circonda nel rotondo
e il fior d'amore a poco a poco muore.

Il cuor che sano e forte pare al mondo
sèrpere senta la segreta pena
in cerchio inesorabile e profondo.

E pur la mano l'ha sfiorata a pena...
Perché nel vetro di Boemia antica,
dopo un'ora, già langue la verbena

che vi compose la mia dolce Amica?

La falce

I.
Giugno. Per le finestre il sole inonda
la bella stanza d'una luce aurina:
freme la messe ai solchi della china,
la messe ormai matureggiante e bionda.

La bruna sposa sede alla vicina
cuna ancor vuota: pare ch'Ella asconda
un gran segreto quando l'occhio inchina
al seno stanco che l'amor feconda.

È la cuna ancor vuota, ma Ella sente
che l'ora dell'avvento è assai vicina
che ben presto il Messia sarà presente.

E a quel pensiero il bruno capo inchina
al lavoro sottil, le mani adopra
su le fasce su i lini su la trina.
II.
Ottobre. Per i vetri Autunno inonda
la bella stanza delle luci estreme:
vanno i bifolchi cospargendo il seme
su per la china con canzon gioconda.


La sposa agonizzante in su la sponda
del letto sta riversa e più non geme
e accanto a lei nato e morto insieme
è il bambino difforme. Una profonda

quiete è d'intorno: sopra il lin vermiglio
tutto di sangue che un baglior rischiara
la sposa muore, bianca come un giglio.

La Morte, intanto, il feretro prepara:
e l'alba di diman la madre e il figlio
saran racchiusi nella stessa bara.

Suprema quies

Serrati i pugni bianchi come cera
giace supino in terra arrovesciato
e la faccia pel rivo insanguinato
è quasi nera.

Con orrido rilievo l'apertura
della ferita tutto il sangue aduna
su la nuca, sul collo, su la bruna
capellatura.

Giace supino. E non sembra dolere
la bella bocca. Quasi ch'Egli avvinga
ancor la Donna e la sua bocca attinga
tutto il piacere.

Due lumi sopra un cofano. Quei lumi
rischiarano il silenzio sepolcrale:
allineati stan nello scaffale
mille volumi

che alluminava un mastro fiorentino
d'orifiamme e d'armille in cento nodi.
Aperti sul divano soni i "Modi"
dell'Aretino


e sul divano è un guanto che rimosse
qui, nell'entrar, la Donna del Convito
ed un mazzo sfasciato ed avvizzito
di rose rosse.

Guata con gli occhi di mestizia pieni
in capo al letto sull'arazzo infisso
dolentemente immoto il crocifisso
di Guido Reni.

Notte e silenzio intorno. Tutto tace.
Come in un sogno d'armonia perplessa
al Poeta ventenne è già concessa
l'ultima pace.

A Massimo Bontempelli

Il passato obliar, veder sagace
in un dolce avvenir, forse non vero
ma che rinnova quanto è più fallace...
BONTEMPELLI: Egloghe ("Le Compagne")

I.

Poeta, or che più lieto arride Maggio
ritornerai al verde nido ombroso
"con Quella che d'Amor ti tiene ostaggio".

E lieto più che mai ti sia il riposo
però che al tuo fratello hai dato il bene
del libro salutifero e gioioso.

Il senso della Vita alle mie vene
ritorna ed alla mente il dolce lume
e fuggonsi i fantasmi di mie pene

se vado rileggendo il tuo volume.


II.
Ma tu non sa ch'io sia: io son la trista
ombra di un uomo che divenne fievole
pel veleno dell'"altro evangelista".

Mia puerizia, illusa dal ridevole
artificio dei suoni e dagli affanni
di un sogno esasperante e miserevole,

apprestò la cicuta ai miei vent'anni:
amai stolidamente, come il Fabro,
le musiche composite e gl'inganni

di donne belle solo di cinabro.

III.
Or troppo il sole aperto mi commuove
tanto fui uso alla penombra esigua
che avvolgon le cortine delle alcove.

Tu mi richiami alla campagna irrugua?
Troppo m'illuse il sogno di Sperelli,
troppo mi piacque nostra vita ambigua.

O benedetti siate voi, ribelli,
che verso la salute e verso il vero
ritemprate le sorti dei fratelli.

Per me nulla tentar. Più nulla spero.

IV.
Me non solleverai. Forse già sono
troppo malato e forse più non vale
temprarmi alle terzine del tuo dono.

Però senti e rispondimi: già un tale
morbo tenne te pur? Tu pur malato
fosti e guaristi del mio stesso male?




Sorella Terra dunque t'ha sanato?
Io pure ne andrò a lei, ma le mie smorte
membra distenderò, come il Beato,

per aspettare la sorella Morte.

L'Antenata

Nel fino cerchio di chelonia e d'oro -
ove un ignoto artefice costrinse
il bel sembiante, poi che lo dipinse
sopra l'avorio, con sottil lavoro -

per qual virtù la dama antica avvinse
il pallido nipote? In qual tesoro
di sogni fu che il giovinetto attinse
la mestizia più dolce dell'alloro?

L'Ava mi guata. - Nella manca ha un giglio
di stile antico; la sua destra posa
sopra il velluto d'un cuscin vermiglio.

Nïuna dolcezza è nell'aspetto fiero:
emana dalla bocca disdegnosa
l'orgoglio, la tristezza ed il mistero.

Il viale delle Statue

...le bianche antiche statue
acefale o camuse,
di mistero soffuse
nelle pupille vacue:

Stagioni che le copie
dei fiori e delle ariste
arrecano commiste
entro le cornucopie,

Diane reggenti l'arco
e le braccia protese

e le pupille intese
verso le prede al varco,

Leda che si rimira
nell'acque con il reo
candido cigno, Orfeo
che accorda la sua lira,

Giunone, Ganimede,
Mercurio, Deucalione
e tutta la legione
di un'altra morta fede:

erme tutelatrici
di un bello antico mito,
del mio tedio infinito
sole consolatrici,

creature sublimi
di marmo, care antiche
compagne e sole amiche
dei miei dolci anni primi;

ecco: ritorno a Voi
dopo una lunga assenza
senza più vita, senza
illusïoni, poi

che tutto m'ha tentato,
tutto: anche l'immortale
Gloria, e il Bene ed il Male,
e tutto m'ha tediato.

La bisavola mia
voi già consolavate
ed ora consolate
pur la malinconia

del pallido nipote.
Parlategli dell'Ava

quando pellegrinava
nell'epoche remote

recando i suoi affanni
per questi stessi viali
all'ombre sepolcrali,
or è più di cent'anni.

È certo che la stessa
mia pena la teneva
però che un senso aveva
fine di poetessa.

Soltanto a dolorare
veniva a questa volta
oppure qualche volta
piacevale rimare

cantando il suo dolore
tra Voi, erme, lungh'essi
i bussi ed i cipressi,
e il suo lontano amore?

Era la sua figura
meravigliosa e fina,
la bocca piccolina
qual nella miniatura?

Divisi i bei capelli
in due bande ondulate
siccome le beate
di Sandro Botticelli?

Aveva un peplo bianco
di seta adamascata
e che la grazia usata
apriva un po' di fianco?

(In vano l'apertura
fermavan tre borchiati

finissimi granati,
ché la camminatura

lenta scopriva all'occhio
il polpaccio scultorio
e la gamba d'avorio
fino quasi al ginocchio.)

Portava un cinto a belle
Meduse in ciel sereno
che costringeva il seno
fin sopra delle ascelle?

Ed ostentava i bei
piedini incipriati
da i diti costellati
di gemme e di cammei?

Io rivedo così la solitaria
lenta innalzare ancora tra gli spessi
mirti e fra l'urne e l'erme ed i cipressi
la candida persona statuaria.

I fauni si piegavano a guatarne
cupidi la bellezza; al suo passare
volgevansi le iddie, a riguardare
la sorella magnifica di carne.

Ma non sempre fu sola. Un dì riscosso
sembrò il ricordo delle antiche larve:
la Poetessa in quel mattino apparve
tutta vestita di broccato rosso.

Anche recava, contro il suo costume,
due rose rosse nelle nere chiome:
lucevan le pupille azzurre come
rinnovellate da inconsueto lume.

Scende nel parco e pone sovra un coro
due libri: Don Giovanni e Parisina.

Poi trascolora: un'ombra s'avvicina
fra i boschetti del mirto e dell'alloro.

Chi viene? Ecco nel folto delle verdi piante
un giovane bellissimo avanzare
(Anima, non tremare, non tremare.)
ed il suo passo è un poco claudicante.

Chi viene dunque ai sogni ed all'oblio?
(Anima, non tremare, non tremare.)
Ha l'iridi color di verde mare;
nelle sembianze è simile ad un dio.

È Lui, è Lui che vien per la maestra
strada dei lauri. Or ecco, è già da presso
(ed era questo il luogo? questo stesso?)
Vedo già l'Ava porgergli la destra

e il Poeta ribelle dei Britanni
la bianca mano inchinasi a baciare
(Anima, non tremare, non tremare)
fra questi bussi... Or è quasi cent'anni.

Il frutteto

Anche né malinconico né lieto
(forse la consuetudine assecondo
cara d'un tempo al bel fanciullo biondo)
oggi varco la soglia del frutteto.

Ah! Vedo, vedo! Come lo ravviso!
È bene questo il luogo; in questa calma
conchiusa, certo l'intangibil salma
giacque per sempre dell'amor ucciso,

del vero antico Amore ch'io cercai
malinconicamente per l'inquieta
mia giovinezza, la raggiante mèta
sì perseguìta e non raggiunta mai.


Or mi soffermo con pupille intente:
le cose mi ritornano lontano
nel Tempo - irrevocabile richiamo! -
mi rivedo fanciullo, adolescente.

O belle, belle come i belli nomi,
Simona e Gasparina, le gemelle!
Pur vi rivedo in vesta d'angelelle
dolce-ridenti in mezzo a questi pomi.

Ed anche qui le statue e le siepi
ed il busso ribelle alle cesoie.
(Natali dell'infanzia, o buone gioie,
quando n'ornavo i colli dei presepi!)

Ma sull'erme, sui cori, sopra il busso
simmetrico, sui lauri, sugli spessi
carpini, sulle rose, sui cipressi,
sulle vestigia dell'antico lusso

da cento anni un folto si compose
di pomi e peri; il regno statuario
ricoperse; nel florido sudario
sfiorirono le siepi delle rose;

nell'ombre il musco ricoperse i cori
curvi di marmo intatto (l'Antenata
non vede lo sfacelo, contristata?)
e nell'ombre languirono gli allori.

Son l'ombre di una gran pace tranquille:
il sole, trasparendo dall'intrico,
segna la ghiaia del giardino antico
di monete, di lunule, d'armille.

M'avanzo pel sentiero ormai distrutto
dalla gramigna e dal navone folto;
ascolto il gran silenzio, intento, ascolto
il tonfo malinconico d'un frutto.


Ma quanti frutti! Cadono in gran copia
in terra, sui busseti, sui rosai:
sire Autunno, quest'anno come mai,
munifico vuotò la cornucopia.

O gioco strano! Pur nella faretra
di Diana cadde una perfetta pera,
così perfetta che non sembra vera
ma sculturata nell'istessa pietra.

Il frutto altorecato assai mi tenta:
balzo sul plinto, il dono della Terra
tolgo alli acuti simboli di Guerra,
avvincendomi all'erma sonnolenta.

S'adonta ella, forse, ch'io la tocchi,
l'erma dal guardo gelido e sinistro?
(il tempo edace lineò di bistro
le palpebre lapidee delli occhi).

Ma un sorriso ermetico, ha la faccia
attirante, soffuso di promesse,
- O miti elleni! - s'ella mi stringesse
d'improvviso, così, tra le sue braccia! -

E tolgo e mordo il frutto avventurato
e mi pare di suggere dal frutto
un'infinita pace, un bene, tutto
tutto l'oblio del tedio e del passato.

Ma guardo in torno. Vedo teoria
d'erme ridenti in loro bianche clamidi,
ridendi tra le squallide piramidi
del busso. - Torna la malinconia:

Ridevano così quando mio padre
esalò la grande anima e pur tali
(udranno allor le mie grida mortali?)
sorrideranno e morirà mia madre.


Ridevano così che nella culla
dormivo inconsapevole d'affanno:
implacabili ancor sorrideranno
quando di me non resterà più nulla.

Domani

per l'amico
Silla Martini de Valle Aperta

I.
Il corruscante cielo d'Oriente
a gran distesa lodano gli uccelli,
Aurora arrossa i bianchi capitelli
sul tempietto di Leda, intensamente.

Tolgon commiato tra le faci spente
gli ospiti stanchi. Un servo aduna i belli
fiori che inghirlandano i capelli
e li gitta allo stagno, indifferente.

Le rose aulenti nella notte insonne,
le rose agonizzanti, morte ai baci
nelle capellature delle donne,

scendon piano con l'alighe tenaci,
in su la melma livida e profonda,
con le viscide larve dei batraci.

II.
Pace alle rose in fondo dello stagno,
in loro fredda orrenda sepoltura;
pur anche la sua gran capellatura
dischioma l'olmo il pioppo ed il castagno.

Il cigno guata, mutolo e grifagno,
lo stagno ricolmarsi di frondura.
Silla, sognamo. Tutto ci assicura
l'ultima pace e l'ultimo guadagno.


Guarda, fratello: innumeri le foglie
attorte e rosse e gialle, senza strazio,
distaccansi dal ramo, lentamente;

la Madre antica in sé tutte le accoglie.
Sognamo, Silla, memori d'Orazio,
quel sogno confortante che non mente.

III.

Perché morire? La città risplende
in Novembre di faci lusinghiere;
e molli chiome avrem per origliere,
bendati gli occhi dalle dolci bende.

Dopo la tregua è dolce risapere
coppe obliate e trepide vicende -
bendati gli occhi dalle dolci bende -
novellamente intessere al Piacere.

Ma pur cantando il canti di Mimnerno
sento che morta è l'Ellade serena
in questo giorno triste ed autunnale.

L'anima trema sull'enigma eterno;
fratello, soffro la tua stessa pena:
attendo un'Alba e non so dirti quale.

IV.

Che giovò dunque il gesto di chi disse:
"Il gran Pan non è morto! Ecco la via
dell'allegrezze nove. Ovunque sia
dato l'annunzio del novello Ulisse!

Il flavo Galileo che ci afflisse
di tenebrore e di malinconia
e quella scialba vergine Maria
e quella croce diamo alle favisse!"?



Nulla giovò. L'impavide biasteme
non rianimeran lo spento sguardo
dei numi elleni sugli antichi marmi.

"Lor giuventude vive sol nei carmi."
Secondo la parola del Vegliardo
il fato ineluttabile li preme.

I Fratelli

Nell'impero dell'acque e delle nubi
dove regnava il pecoraio e il gregge,
o Numero, già fatta è la tua legge
dalla potenza delli ordegni indubi.

Conduce un filo il moto che tu rubi
all'acqua e vola cento miglia e regge
gli opifici rombanti di pulegge
e di magli terribili e di tubi.

Ben riconosco il Verso tuo fratello
onnipossente Numero! Tu fai
a noi men disagevole il sentiero.

E il tuo parente più leggiadro e snello
ci fiorisce le soste di rosai
e di menzogne dolci più del Vero.

Garessio

Dalle finestre medioevali e oscure
non più le dame guardano i cavalli
e i cavalier passar per queste valli,
corruscanti di lucide armature.

Dalle finestre medioevali e oscure
non più ridon le dame ai bei vassalli,
ma i garofani bianchi, rossi, gialli
protendono le gran capigliature...


Pace e Silenzio! Fiori alle finestre
che invitano a piacevoli pensieri!
Ed ecco in alto, nel dirupo alpestre

fra le balze dei ripidi sentieri
Voi, o Maria, Voi che date al vento
il dolce riso e i bei capelli neri!

L'esilio

per una "demi-vierge"

I.

Non ti conobbi mai. Ti riconosco.
Perché già vissi; e quando fui ministro
d'un rito osceno, agitator di sistro
t'ho posseduta al limite d'un bosco.

Bene ravviso il sopracciglio fosco
le bande fulve... Chi segnò di bistro
l'occhio caprino gelido sinistro?
Or ti rivedo in un giardino tosco,

vergine impura, dopo mille e mille
anni d'esilio. Tu, fatta Britanna,
scendi in Italia a ricercarvi il sogno.

Sono tre mila anni che t'agogno!
Ma com'è lungi il sogno che m'affanna!
Dove sono la tunica e le armille?

II.

Dove sono la tunica e le armille
d'elettro che portavi a Siracusa?
E le fontane e i templi d'Aretusa
e l'erme e gli oleandri delle ville?


Del tempo ti restò nelle pupille
soltanto la lussuria che t'accusa,
vergine impura dalla fronte chiusa
tra le due bande lucide e tranquille.

E questa sera tu lasci le danze
(per quel ricordo al limite d'un bosco?)
tutta fremendo, come un'arpa viva.

Giungono i suoni dalle aperte stanze
fin nel giardino... O bocca! Riconosco
bene il profumo della tua genciva!

La loggia

I.

Noi ci vedemmo sotto cieli tetri,
vite di Cipro, al tempo che tu arricci
pochi rimasti pampini ed arsicci
sui tralci immiseriti come spetri.

Ci rivediamo che ricopri i vetri
di verde folto, allacci di viticci
e attingi coi tuoi grappoli biondicci
la loggia, in alto, più di venti metri.

Chi vede le tue prime foglie vizze,
o loggia solatia, in Vigna Colta,
come un'amica dolce ti ricorda.

Tu fosti che indulgesti alle sue bizze,
quando Centa vietava la raccolta
alla piccola mano troppo ingorda.

II.

M'è caro, loggia, poi che le tue pigne
la nuova luna di settembre invaia,

piluccare i bei chicchi a centinaia
fra le grandi compagini rossigne.

Più mi compiaccio in te che nelle vigne,
ma, poiché getto i fiocini ne l'aia,
Centa s'avvede, Centa la massaia
mi ricerca con l'iridi benigne.

"Bevesti il latte che non è mezz'ora!
Uva e latte dispandon per le membra
tossico fino! Quella gola stolta!..."

Sgridami, Centa! Sali come allora
a condurmi pel braccio via! mi sembra
che tu debba allevarmi un'altra volta...

A un demagogo

Tu dici bene: è tempo che consacri
ai fratelli la mente che si estolle
anche il poeta, citaredo folle
rapido negli antichi simulacri!

Non più le tempie coronate d'acri
serti di rose alla Bellezza molle;
venga all'aperto! Canti tra le folle,
stenda la mano ai suoi fratelli sacri!

E tu non mi perdoni se m'indugio,
poiché di rose non si fanno spade
per la lotta dei tuoi sogni vermigli.

Ma un fiore gitterò dal mio rifugio
sempre a chi soffre e sogna e piange e cade.
Eccoti un fiore, o tu che mi somigli!


Il modello

Perché non tenteremo la fortuna
d'un bel sonetto biascicante in ore
e dove il core rimi con amore
e dove luna rimi con laguna?

Pensiero! - E non bellezza inopportuna.
Sincerità! - Il tema delle "otto ore".
Amore! - Un tal che si trapassa il core
per una sarta, al chiaro della luna.

"Ma che arte, che lima!... Chi s'adopra,
scrivendo, a farsi intendere con poca
fatica, sarà valido e sincero..."

Così farò. Così, lasciata l'opra
del paiolo e del mestolo, la cuoca
dirà con te: "Ma qui c'è del pensiero!".

Mammina diciottenne

Non mai - dico non mai - così m'infiamma
il senso d'una vita bella e forte
come quando apparite nelle corte
gonnelle d'alpinista, esile damma!

Non m'irridete! Ché nessuna fiamma
come costoro che vi fan coorte
m'invita a seguitar la vostra sorte,
o Margherita, giovinetta Mamma!

O Margherita, mamma diciottenne,
chinatevi sul bimbo vostro e ad ogni
bacio s'unisca l'oro delle teste.

Guardandovi così fu che mi venne
come un rimorso di cattivi sogni
e un desiderio di parole oneste.


L'invito

Uscite, o capre, or che la luna attinga
la prateria! Il pecoraio dorme.
Giunge sul vento, nella pace enorme
il suono della mitica siringa.

Dolce richiamo! Il dèmone vi cinga
danzando erette. Andate orme su l'orme
dell'amatore musico biforme,
inebbriate dalla sua lusinga.

Danzate, o capre! Steso sulla madia,
chiusi gli orecchi nel berretto frigio
il pecoraio dorme alle Capanne.

O risognate i monti dell'Arcadia,
dimenticate l'onta ed il servigio
sulla dolcezza delle sette canne!

Elogio del sonetto

Lodati, o Padri, che per le Madonne
amate nel platonico supplizio,
edificaste il nobile edifizio
eretto su quattordici colonne!

Nulla è più dolce al vivere fittizio
di te, compenso della notte insonne,
non la capellatura delle donne,
non metri novi in gallico artifizio.

Nessuna forma dà questa che dai
al sognatore ebbrezza non dicibile
quand'egli con sagacia ti prepari!

O forma esatta più che ogni altra mai,
prodigio di parole indistruttibile,
come i vecchi gioielli ereditari!



La beata riva
Quegli che sazio della vita grigia
navigò verso l'isole custodi
una levarsi intese fra melodi
voce più dolce della canna frigia:

"Uomo! Ritorna sulle tue vestigia
al dolce mondo! Pel tuo bene m'odi!
Ché l'acqua stessa dei canori approdi
quella è che nutre la palude stigia".

"Con un fiore il passato si cancella!"
"Cancellerai la faccia della Madre
e della Sposa?" - "Tu sola mi piaci!"

"L'amarsi è bello!" - "Ma tu sei più bella!"
"Fra queste braccia soffrirai!" - "Leggiadre!"
"Verrà la Morte." - "Pur che tu mi baci!"

"Non radice, sed vertice..."

a Golia
per la molto fogazzariana Circe famelica
che tu sai...

Un tulle, verdognolo d'alga,
l'avvolge: bellissimo all'occhio,
ed Ella m'accenna dal cocchio -
si sfolla il teatro - ch'io salga:

"Positivista irredento
un'ora fraterna e un the raro
a casa vo' darle e il commento
dell'opere di Fogazzaro".

Sì! Vengo! Ideale, convertirci
gli ardori dell'anime calme;
uniscile come le palme
toccantesi solo coi vertici.


Le forme bellissime sue
non curo, o Signora! Il Maestro
(non so se pudìco o maldestro)
ci vieta servircene a due.

Daniele non bacia la bocca,
ma fugge per Fede e Speranza,
vaporeggiando a distanza
l'amor della Donna non tocca.

Ah! Lungi l'orrore dei sensi!
E noi penseremo, o Signora,
l'azzurreggiante d'incensi
Cappella Sistina canora.

Papaveri! E l'ora più blanda
faremo, Signora, con quella
del Sonno tremenda sorella:
(prodigio di versi!...) Miranda.

Dispongo le carni compunte,
Marchesa, mia pura sorella,
la palma pensando, che snella
non lega le basi alle punte.

Le basi... le punte incorrotte...
il the... Fogazzaro... Marchesa!
Ma questo sparato mi pesa!
Non ho la camicia da notte...

L'altro

L'Iddio che a tutto provvede
poteva farmi poeta
di fede; l'anima queta
avrebbe cantata la fede.

Mi è strano l'odore d'incenso:
ma pur ti perdono l'aiuto

che non mi desti, se penso
che avresti anche potuto,

invece di farmi gozzano
un po' scimunito, ma greggio,
farmi gabrieldannunziano:
sarebbe stato ben peggio!

Buon Dio, e puro conserva
questo mio stile che pare
lo stile d'uno scolare
corretto un po' da una serva.

Non ho nient'altro di bello
al mondo, fra crucci e malanni!
M'è come un minore fratello,
un altro gozzano: a tre anni.

Gli devo le ore di gaudi
più dolci! Lo tengo vicino;
non cedo per tutte Le Laudi
quest'altro gozzano bambino!

Gli prendo le piccole dita,
gli faccio vedere pel mondo
la cosa che dicono Mondo,
la cosa che dicono Vita...

Le golose

Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie.

Signore e signorine -
le dita senza guanto -
scelgon la pasta. Quanto
ritornano bambine!

Perché nïun le veda,

volgon le spalle, in fretta,
sollevan la veletta,
divorano la preda.

C'è quella che s'informa
pensosa della scelta;
quella che toglie svelta,
né cura tinta e forma.

L'una, pur mentre inghiotte,
già pensa al dopo, al poi;
e domina i vassoi
con le pupille ghiotte.

un'altra - il dolce crebbe -
muove le disperate
bianchissime al giulebbe
dita confetturate!

Un'altra, con bell'arte,
sugge la punta estrema:
invano! ché la crema
esce dall'altra parte!

L'una, senz'abbadare
a giovine che adocchi,
divora in pace. Gli occhi
altra solleva, e pare

sugga, in supremo annunzio,
non crema e cioccolatte,
ma superliquefatte
parole del D'Annunzio.

Fra questi aromi acuti,
strani, commisti troppo
di cedro, di sciroppo,
di creme, di velluti,


di essenze parigine,
di mammole, di chiome:
oh! le signore come
ritornano bambine!

Perché non m'è concesso -
o legge inopportuna! -
il farmivi da presso,
baciarvi ad una ad una,

o belle bocche intatte
di giovani signore,
baciarvi nel sapore
di crema e cioccolatte?

Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie.

Al mio Adolfo

Ofo ha il naso a patatina
Nani fatto a pisellino
Si risveglian la mattina
stretti insiem vicino vicino

Ofo dice scimiottino
Nani dice scimiottina
E posando la testina
fa la nanna in l'angolino.

Nell'Abazia di San Giuliano

Buon Dio nel quale non credo, buon Dio che non esisti,
(non sono gli oggetti mai visti più cari di quelli che vedo?)

Io t'amo! Ché non c'è bisogno di creder in te per amarti
(e forse che credo nell'arti? E forse che credo nel sogno?)


Io t'amo, Purissima Fonte che non esisti, e t'anelo!
(Esiste l'azzurro del cielo? Esiste il profilo del monte?)

M'accolga l'antica Abazia; è ricca di luci e di suoni.
Mi piacciono i frati; son buoni pel cuore in malinconia.

Son buoni. "Non credi? Che importa? Riposati un poco sui banchi.
Su, entra, su, varca la porta. Si accettano tutti gli stanchi."

Vi seggo - la mente suasa - ma come potrebbe sedervi
un tale invitato dai servi e non dal padrone di casa.

- "Riposati, o anima sazia! Riposati, piega i ginocchi!
Chissà che il Signore ti tocchi, chissà che ti faccia la grazia."

- "Mi piace il Signore, mi garba il volto che gli avete fatto.
Oh, il Nonno! Lo stesso ritratto! Portava pur egli la barba!"

"O Preti, ma è assurdo che dòmini sul tutto inumano ed amorfo
quell'essere antropomorfo che hanno creato gli uomini!"

- "E non ragionare! L'indagine è quella che offùscati il lume.
Inchìnati sopra il volume, ma senza voltarne le pagine,

o anima senza conforti, e pensa che solo una fede
rivede la vita, rivede il volto dei poveri morti."

- "O Prete, l'amore è un istinto umano. Si spegne alle porte
del Tutto. L'amore e la morte son vani al tomista convinto."


L'ipotesi

I.

Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,
se già la Signora vestita di nulla non fosse per via...

E penso pur quale Signora m'avrei dalla sorte per moglie,
se quella tutt'altra Signora non già s'affacciasse alle soglie.

II.

Sposare vorremmo non quella che legge romanzi, cresciuta
tra gli agi, mutevole e bella, e raffinata e saputa...

Ma quella che vive tranquilla, serena col padre borghese
in un'antichissima villa remota del Canavese...

Ma quella che prega e digiuna e canta e ride, più fresca
dell'acqua, e vive con una semplicità di fantesca,

ma quella che porta le chiome lisce sul volto rosato
e cuce e attende al bucato e vive secondo il suo nome:

un nome che è come uno scrigno di cose semplici e buone,
che è come un lavacro benigno di canfora spigo e sapone...

un nome così disadorno e bello che il cuore ne trema;
il candido nome che un giorno vorrò celebrare in poema,


il fresco nome innocente come un ruscello che va:
Felìcita! Oh! Veramente Felìcita!... Felicità...

III.

Quest'oggi il mio sogno mi canta figure, parvenze tranquille
d'un giorno d'estate, nel mille e... novecento... quaranta.

(Adoro le date. Le date: incanto che non so dire,
ma pur che da molto passate o molto di là da venire.)

Sfioriti sarebbero tutti i sogni del tempo già lieto
(ma sempre l'antico frutteto darebbe i medesimi frutti).

Sopita quell'ansia dei venti anni, sopito l'orgoglio
(ma sempre i balconi ridenti sarebbero di caprifoglio).

Lontano i figli che crebbero, compiuti i nostri destini
(ma sempre le stanze sarebbero canore di canarini).

Vivremo pacifici in molto agiata semplicità;
riceveremmo talvolta notizie della città...

la figlia: "...l'evento s'avanza, sarete Nonni ben presto:
entro fra poco nel sesto mio mese di gravidanza..."

il figlio: "...la Ditta ha ripreso le buone giornate. Precoci
guadagni. Non è più dei soci quel tale ingegnere svedese".

Vivremmo, diremmo le cose più semplici, poi che la Vita
è fatta di semplici cose, e non d'eleganza forbita.

IV.

Da me converrebbero a sera il Sindaco e gli altri ottimati,
e nella gran sala severa si giocherebbe, pacati.


Da me converrebbe il Curato, con gesto canonicale.
Sarei - sui settanta - tornato nella gioventù clericale,

poi che la ragione sospesa a lungo sul nero Infinito
non trova migliore partito che ritornare alla Chiesa.

V.

Verreste voi pure di spesso, da lungi a trovarmi, o non vinti
ma calvi grigi ritinti superstiti amici d'adesso...

E tutta sarebbe per voi la casa ricca e modesta;
si ridesterebbero a festa le sale ed i corridoi...

Verreste, amici d'adesso, per ritrovare me stesso,
ma chi sa quanti me stesso sarebbero morti in me stesso!

Che importa! Perita gran parte di noi, calate le vele,
raccoglieremmo le sarte intorno alla mensa fedele.

Però che compita la favola umana, la Vita concilia
la breve tanto vigilia dei nostri sensi alla tavola.

Ma non è senza bellezza quest'ultimo bene che avanza
ai vecchi! Ha tanta bellezza la sala dove si pranza!

La sala da pranzo degli avi più casta d'un refettorio
e dove, bambino, pensavi tutto un tuo mondo illusorio.

La sala da pranzo che sogna nel meriggiar sonnolento
tra un buono odor di cotogna, di cera da pavimento,

di fumo di zigaro, a nimbi... La sala da pranzo, l'antica
amica dei bimbi, l'amica di quelli che tornano bimbi!


VI.

Ma a sera, se fosse deserto il cielo e l'aria tranquilla
si cenerebbe all'aperto, tra i fiori, dinnanzi alla villa.

Non villa. Ma un vasto edifizio modesto dai piccoli e tristi
balconi settecentisti fra il rustico ed il gentilizio...

Si cenerebbe tranquilli dinnanzi alla casa modesta
nell'ora che trillano i grilli, che l'ago solare s'arresta

tra i primi guizzi selvaggi dei pippistrelli all'assalto
e l'ultime rondini in alto, garrenti negli ultimi raggi.

E noi ci diremmo le cose più semplici poi che la vita
è fatta di semplici cose e non d'eleganza forbita:

"Il cielo si mette in corruccio... Si vede più poco turchino..."
"In sala ha rimesso il cappuccio il monaco benedettino."

"Peccato!" - "Che splendide sere!" - "E pur che domani si possa..."
"Oh! Guarda!... Una macroglossa caduta nel tuo bicchiere!"

Mia moglie, pur sempre bambina tra i giovani capelli bianchi,
zelante, le mani sui fianchi andrebbe sovente in cucina.

"Ah! Sono così malaccorte le cuoche... Permesso un istante
per vigilare la sorte d'un dolce pericolante..."

Riapparirebbe ridendo fra i tronchi degli ippocastani
vetusti, altoreggendo l'opera delle sua mani.


E forse il massaio dal folto verrebbe del vasto frutteto,
recandone con viso lieto l'omaggio appena raccolto.

Bei frutti deposti dai rami in vecchie fruttiere custodi
ornate a ghirlande, a episodi romantici, a panorami!

Frutti! Delizia di tutti i sensi! Bellezza concreta
del fiore! Ah! Non è poeta chi non è ghiotto dei frutti!

E l'uve moscate più bionde dell'oro vecchio; le fresche
susine claudie, le pesche gialle a metà rubiconde,

l'enormi pere mostruose, le bianche amandorle, i fichi
incisi dai beccafichi, le mele che sanno di rose

emanerebbero, amici, un tale aroma che il cuore
ricorderebbe il vigore dei nostri vent'anni felici.

E sotto la volta trapunta di stelle timide e rare
oh! dolce resuscitare la giovinezza defunta!

Parlare dei nostri destini, parlare di amici scomparsi
(udremmo le sfingi librarsi sui cespi di gelsomini...)

Parlare d'amore, di belle d'un tempo... Oh! breve la vita!
(la mensa ancora imbandita biancheggierebbe alle stelle).

Parlare di letteratura, di versi del secolo prima:
"Mah! Come un libro di rima dilegua, passa, non dura!"

"Mah! Come son muti gli eroi più cari e i suoni diversi!
È triste pensare che i versi invecchiano prima di noi!"

"Mah! Come sembra lontano quel tempo e il coro febeo
con tutto l'arredo pagano, col Re-di-Tempeste Odisseo..."

Or mentre che il dialogo ferve mia moglie, donnina che pensa,

per dare una mano alle serve sparecchierebbe la mensa.

Pur nelle bisogna modeste ascolterebbe curiosa;
- "Che cosa vuol dire, che cosa faceva quel Re-di-Tempeste?"

Allora, tra un riso confuso (con pace d'Omero e di Dante)
diremmo la favola ad uso della consorte ignorante.

Il Re di Tempeste era un tale
che diede col vivere scempio
un bel deplorevole esempio
d'infedeltà maritale,
che visse a bordo d'un yacht
toccando tra liete brigate
le spiaggie più frequentate
dalle famose cocottes...
Già vecchio, rivolte le vele
al tetto un giorno lasciato,
fu accolto e fu perdonato
dalla consorte fedele...
Poteva trascorrere i suoi
ultimi giorni sereni,
contento degli ultimi beni
come si vive tra noi...
Ma né dolcezza di figlio,
né lagrime, né pietà
del padre, né il debito amore
per la sua dolce metà
gli spensero dentro l'ardore
della speranza chimerica
e volse coi tardi compagni
cercando fortuna in America...
- Non si può vivere senza
danari, molti danari...
Considerate, miei cari

compagni, la vostra semenza! -
Vïaggia vïaggia vïaggia
vïaggia nel folle volo
vedevano già scintillare
le stelle dell'altro polo...
vïaggia vïaggia vïaggia
vïaggia per l'alto mare:
si videro innanzi levare
un'alta montagna selvaggia...
Non era quel porto illusorio
la California o il Perù,
ma il monte del Purgatorio
che trasse la nave all'in giù.
E il mare sovra la prora
si fu rinchiuso in eterno.
E Ulisse piombò nell'Inferno
dove ci resta tuttora...

Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,
se già la Signora vestita di nulla non fosse per via.
Io penso talvolta...