CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS
Guido Gozzano - POESIE SPARSE




















































Il crepuscolarismo
di Guido Gozzano



I poeti crepuscolari fiorirono tra il 1905 e il 1915 in piena età giolittiana, in quel periodo che fu definito poi della belle époque. La denominazione del movimento trae origine da un saggio del critico A. Borgese intitolato Poesia crepuscolare, nel quale venivano presi in esame poeti come Marino Moretti, Fausto Maria Martini e Carlo Chiaves. Di questa corrente fanno parte però anche Corrado Govoni, Enrico Thovez e Angelo Silvio Novaro. Ma il più grande di loro, se non proprio il caposcuola, viene considerato Guido Gozzano.
Fondamentale è la raccolta intitolata Colloqui, apparsa nel 1911. Il titolo della su citata raccolta è già un elemento declarativo del crepuscolarismo gozzaniano. La parola, usata in senso etimologico nell'accezione di "parlare con", dal latino cum loquere, e che ricorda il titolo di "Sermones" dato da Orazio alle sue satire, sta a significare la volontà, che fu ampiamente condivisa da tutti poeti in di quella corrente, di sviluppare una poesia in tono minore rispetto a quella accademica e retorica dei poeti "laureati" della cultura ufficiale. È espressione cioè di una scelta per la quale i poeti crepuscolari, Gozzano in testa, si posero in diretta polemica con la poesia declamatoria, politicamente impegnata e ideologicamente connotata ad esempio di un D'Annunzio ricercando uno stile umile, quotidiano, fatto di parole usuali, di ritmi scorrevoli e quasi cantabili. Un trobar leu, potremmo dire, nascente sia da una vocazione letteraria democratica sia da un desiderio di semplicità. Egli infatti già aveva dichiarato: Chi s'adopra scrivendo, a farsi intendere con poca fatica, sarà valido e sincero…così farò. Quanto al suo stile poi, aggiunge che può sembrare quello di uno scolare corretto un po' da una serva, ma in esso tutto si riconosce, tanto da poter anche dire: Buon Dio, puro conserva questo mio stile…non ho nient'altro di bello al mondo. Naturalmente non deve sfuggire quell'aggettivo puro che ci porta su un'altra connotazione, quella cioè di una poesia che non scende a compromessi, che non conosce padroni, che non è in vendita, e, soprattutto, che riflette la purezza del poeta stesso, nella forma come nei contenuti. Una poesia che potremmo dire tutta positiva, dove non c'è mai una parola che disturbi, una nota che stoni, un'immagine che ci infastidisca, una similitudine di cattivo gusto, giacché sempre sostenuta anche da una encomiabile volontà di solidarietà sociale: un fiore gitterò dal mio rifugio, sempre a chi soffre e sogna e piange e cade…
Tipicamente crepuscolare è poi la considerazione che di sé il poeta esprime. Egli si raffigura non come colui che forgia le spade all' Avvenire, non come un vate, non come un trascinatore di folle; egli non assume atteggiamenti ieratici, non si pone su di un alto podio a rivelare alle masse profonde verità, a spargere intorno la luce, come fa un faro nella notte. Bensì come colui che vive tra il Tutto e il Niente, come una strana cosa vivente detta Guido Gozzano…un po' scimunito che tuttavia ringrazia la Natura per averlo fatto gozzano e non gabrieldannunziano perché sarebbe stato peggio! (La via del rifugio). Non un eroe, non un personaggio della vita mondana, non un viveur, bensì solo un borghese onesto che della poesia fa impegno umano e testimonianza.
A siffatta poetica si adeguano certamente i contenuti e i personaggi che la realizzano. Così l'esaltazione della vita di provincia, della classe piccolo borghese, delle buone cose di pessimo gusto quali emergono dai Colloqui.
La provincia è quella del Canavese, di Agliè, con i suoi splendidi alberi, i suoi verdi prati, le belle ville aristocratiche linde, silenziose, discrete, ordinate, la sua gente bene educata, timorata di Dio, rispettosa delle autorità, quieta e serena. Un mondo ideale dove la vita si svolge secondo ritmi naturali rapportati a quelli biologici dell'uomo, dove il giorno e la notte sono vissuti per lavorare per riposare, in una alternanza che non sfocia in monotonia. Un mondo dominato da una classe piccolo borghese onesta e laboriosa, che regola i rapporti interpersonali sui valori del rispetto, della discrezione, della fedeltà, dell'amicizia. Una umanità consapevole di sé, gelosa di ciò che ha, forse un po' chiusa, ma incapace di fare il male. Una umanità che fa della spontaneità e della semplicità un valore, della probità una virtù che ama la famiglia, le cene tra pochi amici, lo stare insieme nel salotto ove si può parlare anche di politica, ma senza passione, ove si può fumare un buon sigaro ascoltando suonare un pianoforte animato dalle bianche dita di una ragazza sognatrice. Ove la ricchezza non necessita, giacché ad ornare la casa bastano Scatole di latta senza confetti, frutti di marmo protetti da campane di vetro, scrigni fatti di valve, qualche oggetto col monito"Salve".
Quest' inno alla vita di provincia però non deve essere preso per un luogo letterario, anche se Gozzano è poeta colto che non ignora la presenza della tematica contrappositiva della città alla campagna nella nostra letteratura. Esso infatti va inteso come un canto nostalgico a ciò che è sano, fisicamente oltre che moralmente sano, in contrapposizione a ciò che è corrotto, fisicamente oltre che moralmente corrotto. La provincia è per Gozzano anche la salubrità dell'aria, la purezza delle acque, il cielo terso e cibi genuini. Oltre ad essere un'isola felice perché i rapporti umani sono autentici, perché non v'è maschera di ipocrisia, perché ancora regna la semplicità.
In questo contesto si inserisce e meglio si spiega l'esaltazione della ragazza di paese e degli amori ancillari. Non diversamente da Carducci che rimpiangeva la contadina "bionda Maria" dai ben torniti fianchi Gozzanoè attratto dalla "signorina Felicita " la protagonista, per così dire, della seconda sezione intitolata Alle soglie, descritta come quasi brutta priva di lusinga nelle vesti quasi campagnole ma con i bei capelli di color del sole con la bocca vermiglia il volto tutto sparso d'efelidi leggere e gli occhi con l'iride azzurra d'un azzurro di stoviglie. Questo tipo umano è esattamente l'opposto delle donne fatali cantate da Carducci o da D'Annunzio, dalle bellezze lussuose e corrotte delle donne cittadine, delle emancipate, delle colte e raffinate. Ma anche da quel tipo di donna che Gozzano frequentava, istruita, complicata, difficile. Singolarmente esigenza letteraria ed esigenza esistenziale scaturente da vita vissuta in quest'ideale di donna si incontrano.
A questo punto siamo in grado di meglio comprendere anche la figura di Totò Merumeni, il personaggio maschile protagonista della terza sezione dei Colloqui intitolata Il reduce. Totò vive con una madre inferma, una prozia canuta ed uno zio demente...ha 25 anni,... scarso cervello, scarsa morale, spaventosa chiaroveggenza. Egli è un buono (quello che Nietzsche derideva). Un solitario che ha per compagni una ghiandaia, un micio e una bertuccia. Egli ha sognato per anni l'amore che non venne, sognò attrici e principesse, ed alla fine ha preso per amante la sua cuoca diciottenne. Egli è un inetto, un esteta frustrato, un ormai indifferente ed estraneo alla vita, che ha scelto l'esilio e la rinuncia volontaria. In questo personaggio i critici hanno visto una figura di anti-eroe, un anti-superuomo, come difatti è. Ma esso è anche una proiezione mitica del poeta stesso, se vogliamo, una sua caricatura. Da qui discende la caratteristica stilistica predominante della raccolta, che è quella dell'ironia e che ci riporta a quanto sopra già detto riguardo alla considerazione di sé che Gozzano esprime ed alla sua poetica. E con ciò il cerchio si chiude.

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
POESIE SPARSE
2^ PARTE

Il commesso farmacista
Ho per amico un bell'originale
commesso farmacista. Mi conforta
col ragionarmi della sposa, morta
priva di nozze del mio stesso male.

"Lei guarirà: coi debiti riguardi,
lei guarirà. Lei può curarsi in ozio;
ma pensi una modista, in un negozio...
Tossiva un poco... me lo scrisse tardi.

Torna!... Tornò, sì, morta, al suo villaggio.
Pagai le spese del viaggio. E costa!
Vede quel muro bianco a mezza costa?
È il cimitero piccolo e selvaggio.

Mah! Più ci penso e più mi pare un sogno.
La dovevo sposare nell'aprile;
nell'aprile morì di mal sottile.
Vede che piango... non me ne vergogno."

Piangeva. O morta giovane modista,
dal cimitero pendulo fra i paschi
non vedi il pianto sopra i baffi maschi
del fedele commesso farmacista?

"Lavoro tutto il giorno: avrei bisogno
a sera, di svagarmi; lo potrei...
Preferisco restarmene con lei
e faccio versi... non me ne vergogno."

Sposa che senza nozze hai già varcato
la fiumana dell'ultima rinunzia,
vedi lo sposo che per te rinunzia
alle dolci serate del curato?


Vedi che, solo, e affaticati gli occhi
fra scatole, barattoli, cartine,
preferisce le tue veglie meschine
alle gioie del vino e dei tarocchi?

"Non glie li dico: ché una volta detti
quei versi perderebbero ogni pregio;
poi, sarebbe un'offesa, un sacrilegio
per la morta a cui furono diretti.

Mi pare che soltanto al cimitero,
protetti dalle risa e dallo scherno
i versi del mio povero quaderno
mi parlino di lei, del suo mistero."

Imaginate con che rime rozze,
con che nefandità da melodramma
il poveretto cingerà di fiamma
la sposa che morì priva di nozze!

Il cor... l'amor... l'ardor... la fera vista...
il vel... il ciel... l'augel... la sorte infida...
Ma non si rida, amici, non si rida
del povero commesso farmacista.

Non si rida alla pena solitaria
di quel poeta; non si rida, poi
ch'egli vale ben più di me, di voi
corrosi dalla tabe letteraria.

Egli certo non pensa all'euritmia
quando si toglie il camice di tela,
chiude la porta, accende la candela
e piange con la sua malinconia.

Egli è poeta più di tutti noi
che, in attesa del pianto che s'avanza,
apprestiamo con debita eleganza
le fialette dei lacrimatoi.


Vale ben più di noi che, fatti scaltri,
saputi all'arte come cortigiane,
in modi vari, con lusinghe piane
tentiamo il sogno per piacere agli altri.

Per lui soltanto il verso messaggiero
va dal finito all'infinito eterno.
"Vede, se chiudo il povero quaderno
parlo con lei che dorme in cimitero."

A lui soltanto, o gran consolatrice
poesia, tu consoli i giorni grigi,
tu che fra tutti i sogni prediligi
il sogno che si sogna e non si dice.

"Non glie li dico: ché una volta detti
quei versi perderebbero ogni pregio:
poi sarebbe un'offesa, un sacrilegio
per la morta a cui furono diretti."

Saggio, tu pensi che impallidirebbe
al mondo vano il fiore di parole
come il cielo notturno che lo crebbe
impallidisce al sorgere del sole.

Di me molto più saggio, che licenzio
i miei sogni, o fratello, tu mantieni
intatti fra le pillole e i veleni
i sogni custoditi dal silenzio!

Buon custode è il silenzio. E le tue grida
solo la morta giovane modista
ode: non altri della folla, trista
per chi fraternamente si confida.

Non si rida, compagni, non si rida
del poeta commesso farmacista.

"Historia"

E l'anno scorso è morta.
Ebbe un amante. Pare.

Ricordi? Io la rivedo,
rivedo la compagna,
la classe, la lavagna,
e lei china alla filza
dei verbi greci... Smilza
e mascula: un cinedo
molto ricciuto e bello...
Ricordi? Io la rivedo
bionda, sciocchina, gaia:
un piccolo cervello
poco intellettuale
di piccola crestaia
molto sentimentale.
Non la ricordi? Smorta,
con certe iridi chiare
dal vasto arco ciliare...

E l'anno scorso è morta.
Ebbe un amante. Pare.

Quella è la casa dove
crebbe fanciulla. Guarda
quella finestra dove
vegliava ad ora tarda;
il biondo capo chino
su pergamene rozze
di greco e di latino,
sugli assiomi nudi...
Ma poi lascia gli studi
maschi, passando a nozze
cospicue: un amico,
pare, un amico antico
della madre, uno sposo

ricchissimo ed annoso,
inglese, che la porta
in terra d'oltremare...

E l'anno scorso è morta.
Ebbe un amante. Pare.

Volsero gli anni. Ed ella
esule sul Tamigi
non dava più novella...
Pure, nei giorni grigi,
tra i miei grigi ricordi,
vedevo a quando a quando
i coniugi discordi:
lo sposo venerando
e l'esile compagna
signora in Gran Bretagna...

Quand'ecco fa ritorno
fra noi, senza marito;
e fu rivista un giorno
più bella nel vestito
cupo... Cercava intorno
col volto sbigottito,
con pupilla assorta,
chi la volesse amare...

E l'anno scorso è morta.
Ebbe un amante. Pare.

L'esperimento

"Carlotta"... Vedo il nome che sussurro
scritto in oro, in corsivo, a mezzo un fregio
ovale, sui volumi di collegio
d'un tempo, rilegati in cuoio azzurro...

Nel salone ove par morto da poco
il riso di Carlotta, fra le buone

brutte cose borghesi, nel salone
quest'oggi, amica, noi faremo un gioco.
Parla il salone all'anima corrotta,
d'un'altra età beata e casalinga:
pel mio rimpianto voglio che tu finga
una commedia: tu sarai Carlotta.

Svesti la gonna d'oggi che assottiglia
la tua persona come una guaina,
scomponi la tua chioma parigina
troppo raccolta sulle sopracciglia;
vesti la gonna di quel tempo: i vecchi
tessuti a rombi, a ghirlandette, a strisce,
bipartisci le chiome in bande lisce
custodi delle guancie e degli orecchi.

Poni a gli orecchi gli orecchini arcaici
oblunghi, d'oro lavorato a maglia,
e al collo una collana di musaici
effigïanti le città d'Italia...
T'aspetterò sopra il divano, intento
in quella stampa: Venere e Vulcano...
Tu cerca nell'immenso canterano
dell'altra stanza il tuo travestimento.
Poi, travestita dei giorni lontani,
(commediante!) vieni tra le buone
brutte cose borghesi del salone,
vieni cantando un'eco dell'Ernani,
vieni dicendo i versi delicati
d'una musa del tempo che fu già:
qualche ballata di Giovanni Prati,
dolce a Carlotta, sessant'anni fa...
...

Via per le cerule
volte stellate
più melanconica
la Luna errò.

E il lene e pallido
stuol delle fate
nel mar dell'etere
si dileguò...
Solo uno spirito
sotto quel tiglio
dev'ei si amavano
s'udia cantar.
Ahi! Fra le lacrime
di quest'esiglio
che importa vivere,
che giova amar?...
...
...
...

Che giova amar?... La voce s'avvicina,
Carlotta appare. Veste d'una stoffa
a ghirlandette, così dolce e goffa
nel cerchio immenso della crinolina.
Vieni, fantasma vano che m'appari,
qui dove in sogno già ti vidi e udii,
qui dove un tempo furono gli Zii
molto dabbene, in belli conversari.

Ah! Per te non sarò, piccola allieva
diligente, il sofista schernitore;
ma quel cugin che si premeva il cuore
e che diceva "t'amo!" e non rideva.
Oh! La collana di città! Vïaggio
lungo la filza grave di musaici:
dolce seguire i panorami arcaici,
far con le labbra tal pellegrinaggio!

Come sussulta al ritmo del tuo fiato
Piazza San Marco e al ritmo d'una vena
come sussulta la città di Siena...
Pisa... Firenze... tutto il Gran Ducato!

Seguo tra i baci molte meraviglie,
colonne mozze, golfi sorridenti:
Castellamare... Napoli... Girgenti...
Tutto il Reame delle Due Sicilie!

Dolce tentare l'ultime che tieni
chiuse tra i seni piccole cornici:
Roma papale! Palpita tra i seni
la Roma degli Stati Pontifici!
Alterno, amica, un bacio ad ogni grido
della tua gola nuda e palpitante;
Carlotta non è più! Commedïante
del mio sognare fanciullesco, rido!

Rido! Perdona il riso che mi tiene,
mentre mi baci con pupille fisse...
Rido! Se qui, se qui ricomparisse
lo Zio con la Zia molto dabbene!
Vesti la gonna, pettina le chiome,
riponi i falbalà nel canterano.
Commediante del tempo lontano,
di Carlotta non resta altro che il nome.

Il nome!... Vedo il nome che sussurro,
scritto in oro, in corsivo, a mezzo fregio
ovale, sui volumi di collegio
d'un tempo, rilegati in cuoio azzurro...

Stecchetti

Perché dalla tua favola compianta -
Renzo Stecchetti, musa prediletta
dello scolaro e della feminetta -
resuscita un passato che m'incanta?

Tu mi ricordi l'ottocento e ottanta
mi ricordi la mamma giovinetta
che ti rilegge e ti ripone in fretta;
e intorno un maggio antico odora e canta.


Per quel passato, pel destino bieco
tu mi sei caro, finto morituro
che piangi e imprechi e gemi nello strazio.

Io non gemo, fratello, e non impreco:
scendo ridendo verso il fiume oscuro
che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio.

Congedo
Anche te, cara, che non salutai
di qui saluto, ultima. Coraggio!
Viaggio per fuggire altro viaggio.
In alto, in alto i cuori. E tu ben sai.

In alto, in alto i cuori. I marinai
cantano leni, ride l'equipaggio;
l'aroma dell'Atlantico selvaggio
mi guarirà, mi guarirà, vedrai.

Di qui, fra cielo e mare, o Benedetta,
io ti chiedo perdono nel tuo nome
se non cercai parole alla tua pena,

se il collo liberai da quella stretta
spezzando il cerchio della braccia, come
si spezza a viva forza una catena.

La più bella

I.
Ma bella più di tutte l'Isola Non-Trovata:
quella che il Re di Spagna s'ebbe da suo cugino
il Re di Portogallo con firma sugellata
e bulla del Pontefice in gotico latino.

L'Infante fece vela pel regno favoloso,
vide le fortunate: Iunonia, Gorgo, Hera
e il Mare di Sargasso e il Mare Tenebroso
quell'isola cercando... Ma l'isola non c'era.


Invano le galee panciute a vele tonde,
le caravelle invano armarono la prora:
con pace del Pontefice l'isola si nasconde,
e Portogallo e Spagna la cercano tuttora.

II.

L'isola esiste. Appare talora di lontano
tra Teneriffe e Palma, soffusa di mistero:
"...l'Isola Non-Trovata!" Il buon Canarïano
dal Picco alto di Teyde l'addita al forestiero.

La segnano le carte antiche dei corsari.
...Hifola da - trovarfi? ...Hifola pellegrina?...
È l'isola fatata che scivola sui mari;
talora i naviganti la vedono vicina...

Radono con le prore quella beata riva:
tra fiori mai veduti svettano palme somme,
odora la divina foresta spessa e viva,
lacrima il cardamomo, trasudano le gomme...

S'annuncia col profumo, come una cortigiana,
l'Isola Non-Trovata... Ma, se il pilota avanza,
rapida si dilegua come parvenza vana,
si tinge dell'azzurro color di lontananza...

Le non godute

Desiderate più delle devote
che lasceremmo già senza rimpianti,
amiche alcune delle nostre amanti,
altre note per nome ed altre ignote
passano, ai nostri giorni, con il viso
seminascosto dal cappello enorme,
svegliando il desiderio che dorme
col baleno degli occhi e del sorriso.


E l'affanno sottile non ci lascia
tregua; ma più si intorbida e si affina
idealmente dentro la guaina
morbida della veste che le fascia...
Desiderate e non godute - ancora
nessuna prova ci deluse - alcune
serbano come una purezza immune
dalla folla che passa e che le sfiora.

Altre, consunte, taciturne, assorte
guardano e non sorridono: ma sembra
che la profferta delle belle membra
renda l'Amore simile alla Morte;
ardenti tutte d'una febbre e cieche
di vanità; biondissime, d'un biondo
oro, le cinge il pettine, secondo
l'antica foggia delle donne greche.

Per altre, il nodo greve dell'oscura
treccia è d'insostenibile tormento;
sembra che il collo, esile troppo, a stento,
sorregga il peso dell'acconciatura;
l'opera dei veleni in altre adempie
un prodigio purpureo: le chiome
splendono di riflessi senza nome
dilatandosi ai lati delle tempie...

Belle promesse inutili d'un bene
lusingatore della nostra brama,
quando una sola donna che non s'ama
c'incatena con tutte le catene;
quando ogni giorno l'anima delusa
sente che sfugge il meglio della vita,
come sfugge la sabbia tra le dita
stretta nel cavo della mano chiusa...

Le incontrammo dovunque: nelle sere
di teatro, alla luce che c'illude;
la bella curva delle spalle ignude

ci avvinse del suo magico potere;
e quando l'ombra si abbatté su loro
addensandosi cupa entro le file
dei palchi, il freddo lampo d'un monile
fu l'indice del duplice tesoro.

E le avemmo compagne, ma per brevi
ore, in vïaggi taciti, in ritorni,
le ritrovammo dopo pochi giorni
nei rifugi dell'Alpi, tra le nevi;
le ritrovammo sulla spiaggia, al mare,
dove la brama ci ferì più acuta:
ah! Per quella signora sconosciuta
ore insonni, nella notte, lungo il mare!...

Chi sono e dove vanno? Dove vanno
le crëature nomadi? Per quanti
anni, nel tempo, furono gli amanti
presi e delusi dall'eterno inganno?
Ah! Noi saremmo lieti d'un destino
impreveduto che ce le ponesse
a fianco, tristi e pellegrine anch'esse
nel nostro malinconico cammino.

Più d'un inganno lasciò largo posto
a più d'una ferita ancora viva...
Taluna - intatta - ci attirò furtiva
seco, ma per un utile nascosto;
altre, già quasi vinte, quasi dome,
nella nostra fiducia troppo inerte,
fantasticate quali prede certe,
furono salve, non sappiamo come...

Ed altre... Ma perché tanti ricordi
salgono dall'inutile passato?
Salgono col profumo del passato
da un cofanetto pieno di ricordi?
Ed ecco i segni, ecco le cose mute,
superstiti d'amori nuovi e vecchi,

lettere stinte, nastri, fiori secchi,
delle godute e delle non godute...

Desideri e stanchezze, indizi certi
d'un avvenire dedito all'ambascia
torbida che si schianta e che ci sfascia
rendendoci più tristi e più deserti...
Eppure, un giorno, questa febbre interna
parve svanire: quando ci si accorse,
tardi, di quella che sarebbe forse
per noi la sola vera amante eterna...

Tanto l'amammo per quel solo istante
ch'ella si volse pallida su noi
nell'offerta di un attimo, ma poi,
sparve, ella pure; sparve come tante
altre donne che passano, col viso
seminascosto dal cappello enorme
inasprendo la brama che non dorme
col baleno degli occhi e del sorriso...

L'amico delle crisalidi

Una crisalide svelta e sottile
quasi monile
pende sospesa dalla cimasa
della mia casa.

Salgo talora sull'abbaino
per contemplarla
e guardo e interrogo quell'esserino
che non mi parla:

O prigioniero delle tue bende
pendulo e solo,
soffri? il tuo cuore sente che attende
l'ora del volo?


Tu ti profili dal tetto antico
sui cieli pallidi...
No, non temere: sono l'amico
delle crisalidi!

No, non temere l'orride stragi
care una volta:
mi dan rimorso gli anni malvagi
della raccolta.

Papili Arginnidi Vanesse Pieridi
Satiri Esperidi:
contemplo triste con la mia musa
la tomba chiusa.

Dormono in pace tutte le morte
sotto il cristallo;
fra tutte domina la sfinge forte
dal teschio giallo.

O prigioniero delle tue bende
pendulo e solo
soffri? Il tuo cuore sente che attende
l'ora del volo?

Ti riconosco. Profilo aguzzo,
dorso crostaceo
irto, brunito, con qualche spruzzo
madreperlaceo:

sei la crisalide d'una Vanessa:
la Policlora
che vola a Maggio. Maggio s'appressa,
tra poco è l'ora!

Tra poco l'ospite della mia casa
sarà lontana;
penderà vota dalla cimasa
la spoglia vana.


Andrai perfetta dove ti porta
l'alba fiorita;
e sarà come tu fossi morta
per altra vita.

L'ale! Si muoia, per che morendo,
sogno mortale,
s'appaghi alfine questo tremendo
sforzo dell'ale!

L'ale! Sull'ale l'uomo sopito,
sopravvissuto,
attinga i cieli dell'Infinito,
dell'Assoluto...

E tu che canti fisso nel sole,
mio cuore ansante,
e tu non credi quelle parole
che disse Dante?

Dante

Un giorno, al chiuso, il pedagogo fiacco
m'impose la sciattezza del comento
alternato alla presa di tabacco.

Mi rammento la classe, mi rammento
la scolaresca muta che si tedia
al commentare lento sonnolento;

rivedo sobbalzare sulla sedia
il buon maestro, per uno scolaro
che s'addormenta su di te, Comedia!

Attento! Attento! - Ah! più dolce sognare
con la gota premuta al frontispizio
e l'occhio intento alle finestre chiare!

Ad ora ad ora un alito propizio
alitava un effluvio di ginestre

sul comento retorico e fittizio.

La Primavera, l'esule campestre,
conturbava la gran pace scolastica
pel vano azzurro delle due finestre.

Io fissavo gli attrezzi di ginnastica,
gli olmi gemmati, l'infinito azzurro
in non so che perplessità fantastica;

e tendevo l'orecchio ad un sussurro,
ad un garrito di sperdute gaie,
in alto in alto in alto, nell'azzurro.

Guizzavano, da presso, l'operaie
affacendate in paglia in creta in piume,
riattando le case alle grondaie...

Con gli occhi abbarbagliati da quel lume
primaverile, mi chinavo stracco,
ripremevo la gota sul volume.

E riudivo il pedagogo fiacco
alternare alla chiosa d'ogni verso
la consueta presa di tabacco...

Ah! non al chiuso, ma nel cielo terso,
nel fiato novo dell'antica madre,
nella profondità dell'universo,

nell'Infinito mi parlavi, o Padre!

"Ex voto"
S'alza la neve in pace;
la valle che s'imbianca
spicca sul cielo bruno.

Il Santuario tace
nella gran pace bianca
dove non c'è nessuno.


Nessuno per guarire
del male che lo strazia
più giunge di lontano...

Sol io potrei salire,
salire per la grazia:
mi rifarebbe sano...

Ma non vedrò la faccia
nera e la mitra aguzza...
Troppo ai bei dì sereni,

avvinto a quelle braccia
baciai la medagliuzza
tepente tra i due seni...

La statua e il ragno crociato

Io so il mistero di colei che abbassa
l'antiche ciglia in vigilanza estrema,
quasi, nel marmo trepidando, tema
d'aggrovigliare un'esile matassa.

Io so. Guardate contro il sole: passa
dall'una all'altra mano e splende e trema
il filo che un'epeira diadema
conduce senza spola e senza cassa.

Aracne fu pietosa. E chi non mai
più rivedrà la terra sacra abbassa
le ciglia illuse e vede il mare Egeo,

vede una schiava al ritmo dei telai,
appenderle dal plinto una matassa:
e canta un canto dolce il gineceo.


Im Spiele der Wellen

Tra le sirene che Boecklin gittava
nel fremito dell'onde verdazzurre
una ne manca, appena adolescente,
agile più di tutte e la più bella.

Poiché non quella che supina ascolta
il Tritone soffiare nella conca,
non quella che si gode la bonaccia
con tre scherzosi albàtri affaticati,

e non quelle che fuggono al Centauro,
l'una presa alle chiome, l'altra emersa
con volto sorridente, l'altra immersa
col busto, eretta con le gambe snelle:

non tutte quelle vincono la grazia
appena adolescente che abbandona
il mare caro al grande basilese,
il mare Azzurro per il mare Grigio!

E al mare nostro più non resta viva
che l'immagine fatta di memoria,
svelta nel solco dove più ribolle
la spuma e dove l'onda è tutta gemme!

Ad un'ignota

Tutto ignoro di te: nome, cognome,
l'occhio, il sorriso, la parola, il gesto;
e sapere non voglio, e non ho chiesto
il colore nemmen delle tue chiome.

Ma so che vivi nel silenzio; come
care ti sono le mie rime: questo
ti fa sorella nel mio sogno mesto,
o amica senza volto e senza nome.


Fuori del sogno fatto di rimpianto
forse non mai, non mai c'incontreremo,
forse non ti vedrò, non mi vedrai.

Ma più di quella che ci siede accanto
cara è l'amica che non mai vedremo;
supremo è il bene che non giunge mai!

Ketty

I.
Supini al rezzo ritmico del panka.

Sull'altana di cedro, il giorno muore,
giunge dal Tempio un canto or mesto or gaio,
giungono aromi dalla jungla in fiore.

Bel fiore del carbone e dell'acciaio
Miss Ketty fuma e zufola giuliva
altoriversa nella sedia a sdraio.

Sputa. Nell'arco della sua saliva
m'irroro di freschezza: ha puri i denti,
pura la bocca, pura la genciva.

Cerulo-bionda, le mammelle assenti,
ma forte come un giovinetto forte,
vergine folle da gli error prudenti,

ma signora di sé della sua sorte
sola giunse a Ceylon da Baltimora
dove un cugino le sarà consorte.

Ma prima delle nozze, in tempo ancora
esplora il mondo ignoto che le avanza
e qualche amico esplora che l'esplora.

Error prudenti e senza rimembranza:
Ketty zufola e fuma. La virile

franchezza, l'inurbana tracotanza
attira il mio latin sangue gentile.

II.

Non tocca il sole le pagode snelle
che la notte precipita. Le chiome
delle palme s'ingemmano di stelle.

Ora di sogno! E Ketty sogna: "...or come
vivete, se non ricco, al tempo nostro?
È quotato in Italia il vostro nome?

Da noi procaccia dollari l'inchiostro..."
"Oro ed alloro!..." - "Dite e traducete
il più bel verso d'un poeta vostro..."

Dico e la bocca stridula ripete
in italo-britanno il grido immenso:
"Due cose belle ha il mon... Perché ridete?".

"Non rido. Oimè! Non rido. A tutto penso
che ci dissero ieri i mendicanti
sul grande amore e sul nessun compenso.

(Voi non udiste, Voi tra i marmi santi
irridevate i budda millenari,
molestavate i chela e gli elefanti.)

Vive in Italia, ignota ai vostri pari,
una casta felice d'infelici
come quei monni astratti e solitari.

Sui venti giri non degli edifici
vostri s'accampa quella fede viva,
non su gazzette, come i dentifrici;

sete di lucro, gara fuggitiva,
elogio insulso, ghigno degli stolti
più non attinge la beata riva;


l'arte è paga di sé, preclusa ai molti,
a quegli data che di lei si muore..."
Ma intender non mi può, benché m'ascolti,

la figlia della cifra e del clamore.

III.

Intender non mi può. Tacitamente
il braccio ignudo premo come zona
ristoratrice, sulla fronte ardente.

Gelido è il braccio ch'ella m'abbandona
come cosa non sua. Come una cosa
non sua concede l'agile persona...

- "O yes! Ricerco, aduno senza posa
capelli illustri in ordinate carte:
l'Illustrious lòchs collection più famosa.

Ciocche illustri in scienza in guerra in arte
corredate di firma o documento,
dalla Patti, a Marconi, a Buonaparte...

(mordicchio il braccio, con martirio lento
dal polso percorrendolo all'ascella
a tratti brevi, come uno stromento)

e voi potrete assai giovarmi nella
Italia vostra, per commendatizie..."
- "Dischiomerò per Voi l'Italia bella!"

"Manca D'Annunzio tra le mie primizie;
vane l'offerte furono e gl'inviti
per tre capelli della sua calvizie..."

- "Vi prometto sin d'ora i peli ambiti;
completeremo il codice ammirando:
a maggior gloria degli Stati Uniti..."


L'attiro a me (l'audacia superando
per cui va celebrato un cantarino
napolitano, dagli Stati in bando...)

Imperterrita indulge al resupino,
al temerario - o Numi! - che l'esplora
tesse gli elogi di quel suo cugino,

ma sui confini ben contesi ancora
ben si difende con le mani tozze,
al pugilato esperte... In Baltimora

il cugino l'attende a giuste nozze.

Risveglio sul Picco d'Adamo
Cantare udivo un gallo in sogno... Sognavo un villaggio
canavesano forse... L'aurora improvvisa mi desta.

Mi desta nel rifugio di stuoia sul Picco selvaggio:
d'un tremolìo d'acquario scintilla la selva ridesta.

Le felci arborescenti contendono i raggi all'aurora,
dall'uno all'altro fusto s'allaccia la flora demente,

spezzo ghirlande azzurre gialle sanguigne, m'irrora
la coppa del calladio, l'orciuolo della nepente...

Cantava un gallo in sogno... Ma un gallo ben vivo risponde.
Sobbalzo. Ascolto. Il cuore col battito colma le tregue.

Regna il Re dei cortili le vergini selve profonde?
M'illude un negromante per gioco? Il mio sogno prosegue?

Non il Re dei cortili qui regna, ma l'avo selvaggio
(già cantava sul Picco d'Adamo che Adamo non era).

Canta il "gallo bankywa" l'aurora del Tropico, il raggio
d'oro che scende obliquo dove la jungla è più nera.



La bella preda

I.

Fanciullo formidabile: soldato
dell'Alpi e tu mi chiedi
ch'io celebri il tuo gesto in versi miei!
Non trovo ritmi - oimè! - non trovo rime
così come vorrei
al tuo gesto sublime!
Ma sai tu quanto sia bello il tuo gesto,
simbolica la spoglia
dell'aquila regale che t'offerse
l'Altissimo - redento! - a guiderdone
della baldanza tua liberatrice?
La vittima che dice:
Terra d'Italia è questa!
a consenso palese
dei cieli sommi nella santa gesta?

II.

Tu non sapevi. Solo con te stesso
e coi fratelli in una forza sola,
sostavi sulla gola
vertiginosa, l'anima in vedetta,
protetto dalla vetta
signoreggiata. Il cuore
batteva impaziente dell'assalto.
Il cielo era di smalto
cerulo, nel silenzio intatto come
quando non era l'uomo ed il dolore...
Era il meriggio alpino,
splendeva il sole nella valle sgombra.
In larghe rote s'annunciò dall'alto
l'olocausto divino,
la messaggiera, disegnando un'ombra.


III.

Che pensasti nell'attimo? Colpisti.
Bene colpisti. Il vortice dell'ale
precipitò ventandoti sul viso.
E l'aquila regale
ecco immolasti sul granito alpino
come sull'ara sacra alla riscossa
del popolo latino.
E la tua mano rossa
fu del sangue ricchissimo aquilino.
Battezzasti così la tua mano,
nella stretta che tutti ebbero a gara,
commentando l'augurio e la bravura,
battezzasti così con la tua mano
tutti i compagni tuoi,
dal giovinetto imberbe al capitano!

IV.

Sarcasmo inconsapevole! E tu mandi
oggi la spoglia a noi che con bell'arte
le si ridoni immagine di vita;
ma quale arte iscaltrita
può simulare l'irto palpitare
di penne e piume, il demone gagliardo
tutto rostro ed artigli e grido e sguardo
nell'ora che si scaglia?
Nessuna sorte è triste
in questi giorni rossi di battaglia:
fuorché la sorte di colui che assiste...
E - sarcasmo indicibile per noi
scelti ai congegni ed alla vettovaglia -
tu strappasti l'emblema degli eroi
ed a noi mandi un'aquila di paglia!...

[Ah! Difettivi sillogismi!]

Ah! Difettivi sillogismi! L'io
che c'è sì caro, muore ad ogni istante
senza rimpianto. Muore nel riposo
e nella veglia. Un calice di vino
un grano d'oppio, uno sbigottimento
una ferita, basta a dileguarlo.
Ma ci acqueta il pensiero che al risveglio
ritroveremo intatto e vigilante
il buono fanciulletto interïore
che ci ripete d'esser sempre noi...
Ah! Fanciullesca è veramente questa
anima semplicetta che riduce
alla nostra stadera l'infinito;
nutre speranze, chiede privilegi
più spaventosi del più spaventoso
nulla, ché il nulla è non poter morire.
Come pensare senz'abbrividire
tutta l'eternità chiusa nell'io
in quest'angusto carcere terreno?
Quasi bramosi fantolini e vani
preghiamo un bene e non sappiamo quale.
Quando per anni o per follia s'offusca
l'altrui cervello, quella decadenza
più non c'inquieta della decadenza
corporea. Permane la speranza
che l'io del caro sopravviva ancora
mentre è già come se non fosse più.
Ora se quasi ci si acqueta in vita
allo sfacelo della mente immemore
che mai vogliamo dalla morte immune?
Questa cosa di noi che vuol persistere
indefinita, è dunque indefinibile
come il raggio ch'emana dalla lampada,
come il suono che emana dal lïuto;
lampada e lïuto sono tra gli arredi

più famigliari e semplici che posso
scomporre ricomporre con le mani;
il mistero m'appare se mi chiedo
che sia, di dove venga, dove vada
il prodigio del suono e della luce...
Oimè! L'essenza che rivibra in noi
non può per intelletto esser compresa
da poi che l'io solo con se stesso,
soggetto, oggetto della conoscenza,
come uno specchio vano si moltiplica
inutilmente ed infinitamente
e nel riflesso è prigioniero il raggio
di verità che l'occhio non discerne.
Giova quindi sottrarci all'incantesimo
alla voce che implora di rivivere
come a un morbo insanabile terrestre.
Negli attimi di grazia, quando l'io
dilegua nei pensier contemplativi
quando l'istinto tace e si compiace
nella gioia dell'utile non nostro
o freme ad una strofe ad una musica
nell'ebrezza senz'utile dell'arte,
forse ci giunge il pallido riflesso
d'una luce remota, della vita
che ci attende al di là, nel puro spirito,
nel non essere noi, nell'ineffabile.
È la fede che Socrate morente
predicava all'alunno: "Datti pace!
Non morirò: seppelliranno l'altro".
È la luce che Baghava Purana
rivelava sul tronco del palmizio:
"Solo eterno è lo spirito. Non piangere
su te su me su altri. Perché l'io
ed il non io son frutto d'ignoranza.
Desideravi un figlio, o Re; l'avesti;
oggi provi lo strazio del distacco,
strazio che dànno tutte le fortune

a chi s'illude e pensa durature
l'apparenze caduche della vita.
Solo eterno è lo spirito. Nei tempi
chi fu per te quel figlio che tu piangi?
Chi tu fosti per lui? Che voi sarete
l'uno per l'altro nell'ignoto andare?
Sabbia del mare, foglie date al vento...
Solo eterno è lo spirito. Consolati".
Ma il re singhiozza disperato ancora
e pel prodigio d'uno di quei rishy
l'anima si ridesta nel cadavere,
si guarda intorno sbigottita, dice:
"In quale delle innumeri apparenze
d'animali, di uomini, di devhas
m'ebbi per padre questo che m'abbraccia?
Non mi toccare: io non ti riconosco.
O tu che piangi su di me non piangere.
Solo eterno è lo spirito. Consolati!".
Così parlato il giovinetto muore
un'altra volta. L'anima s'invola
eternamente. E il Re non piange più.

La ballata dell'Uno

L'Uno è tutto esaurito,
non lo trova più nessuno,
a chi dà copia dell'Uno
un milione è profferito.

Col più gran caffè concerto
vien Giolitti un poco male
per un male un poco incerto,
vien con tutto il personale
del Suffragio Universale.
Ma - pagliaccio o rosso o bruno -
tutti chiedono dell'Uno,
l'Uno già tutto esaurito.


Finalmente il Vaticano
lascia il Papa ed il Concilio,
balla il tango col sovrano
dal garofano vermiglio.
Tutti vanno in visibilio:
il prelato col tribuno,
tutti chiedono dell'Uno:
l'Uno - ahimè - tutto esaurito!

Trema all'Uno e terra e mare!
la San Giorgio per isbaglio
si rimette a galleggiare,
perciò grato l'ammiraglio
contro un già prossimo incaglio
contro i tiri di Nettuno
premunirsi vuol dell'Uno,
l'Uno - ohimè - tutto esaurito!

Stanco d'essere il fantoccio
d'un insipido frasario
grida Verdi: Alfin mi scoccio
di cotesto centenario.
Qui m'annoio solitario.
Ecco il Numero. Ma l'Uno?
L'Uno - ohimè - non l'ha nessuno,
l'Uno è già tutto esaurito!

Levigandosi l'alloro
Gabriele inquieto appare:
un mistero: il Pomo d'oro
ben volevo ricercare
sul rarissimo esemplare.
Gabriele andrà digiuno;
splende il numero, ma l'Uno,
l'Uno è già tutto esaurito.

Vien Mascagni truce in vista
ché su l'Uno spera già

e già teme un'intervista
"Poiché io sono - ognun lo sa -
mammoletta d'umiltà..."
- Che voi siate un fiore o un pruno,
gran maestro, fa tutt'uno,
l'Uno è già tutto esaurito.

Térésah, Carola, Amalia,
l'altre insigni letterate,
che oggi infiammano l'Italia,
si presentano infiammate
come tante forsennate:
un prurito inopportuno
tutte sentono dell'Uno,
l'Uno - ohimè - tutto esaurito.

Non resiste la Gioconda,
balla fuori arguta e gaia
con la sua facciona tonda
di perfetta giornalaia.
Cento quindici migliaia
mi richiedono dell'Uno!
A chi dà copia dell'Uno
un milione è profferito.

Oh successo inopportuno!
L'Uno è già tutto esaurito!

La messaggiera senza ulivo

Bene scegliesti l'unico rifugio,
trepida messaggiera insanguinata!
(Sangue d'amico? Sangue di nemico?
Ah! Che il sangue è tutt'uno, oltre la soglia!)

Palpiti esausta e sfuggi la carezza
e temi il rombo... È il rombo del tuo cuore.
Socchiudi gli occhi dove trema ancora
lo spaventoso tuo pellegrinare.



Ah! Sarcasmo indicibile! Tu sacra
dai tempi delle origini alla pace
la novella ci rechi - ah, senza ulivo! -
del flagello di Dio sopra la Terra.

Ma non del Dio Signore Nostro: il dio
feticcio irsuto della belva bionda:
- Rinascono le donne ed i fanciulli,
uccideremo ciò che non rinasce! -

E le trine di marmo, le corolle
di bronzo, gli edifici unici al mondo,
i vetri istoriati, i palinsesti
alluminati, i codici ammirandi,

ciò che un popolo mite ebbe in retaggio
dalla Fede e dall'Arte in un millennio
ritorna al nulla sotto i nuovi barbari:
non più barbari, no: ladri del mondo!

Tu non tremare, messaggiera bianca;
bene scegliesti l'unico rifugio:
la spalla manca della bella Donna
eretta in pace nel suo bel giardino.

La riconosci? Dolce ti sorride
piegando il capo sotto la corona
turrita a vellicarti con la gota
e con l'ulivo ti ravvia le penne.

Ma tien la destra all'elsa e le pupille
chiaroveggenti fissano il destino;
non fu mai così forte e così bella
e palpitante dalla nuca al piede.

La riconosci? Non ti dico il nome
troppo già detto, sacro all'ora sacra!
Bene sciegliesti l'unico rifugio,
trepida messaggiera insanguinata!



La basilica notturna

Pax tibi, Marce, Evangelista meus

I.

D'oro si fanno brune le cupole stupende,
ma sotto il cielo illune il cielo d'oro splende.

Splende l'emblema come nel codice ammirando:
Venezia trepidando nel sacrosanto nome.

Sta l'Angelo di Dio, sta col fatale incarco
lassù "Pace a Te, Marco, Evangelista mio!"

Intorno gli fan coro tutti i Profeti, in rari
musaici millenari. Palpita il cielo d'oro.

Il palpito millenne corre Santi e Madonne;
vivono le colonne, le fragili transenne.

Ma quale antica Ambascia il Tempio oggi ricorda,
difeso nella sorda materia che lo fascia?

II.

Pei ciechi balaustri, per le navate ingombre
passano grigie l'ombre di tutti i dogi illustri.

Dice uno Zani: Vissi pel tempio apparituro.
Quale nemico oscuro sale dai ciechi abissi?

Dov'è l'icona fine di quattromila perle,
mirabili a vederle tra l'opre bizantine?

Dove le croci greche, sante in Gerusalemme,
i codici, le gemme, i calici, le teche?

E dice un Selvo: Tolsi i marmi d'oltremare:
posi con questi polsi la pietra dell'altare.


La Bibbia m'ammoniva. Sculpii divotamente.
La pietra fu vivente: dov'è la pietra viva?

Gli Zorzi i Mocenigo i Vanni i Contarini
i Gritti i Morosini i Celsi i Gradenigo

guatano il legno greggio che cela marmi ed ori.
- Minacciano i tesori i barbari e il saccheggio?

- Risorgono al reame i Turchi gli Unni i Galli?
Tornarono i cavalli all'ippodromo infame?

III.
Sta l'Angelo di Dio, sta col fatale incarco
lassù "Pace, a Te, Marco, Evangelista mio!"

Santo dei Santi eroi guerrieri e marinai,
o Santo, o tu che fai che "noi si dica noi",

quale remota ambascia il Tempio tuo ricorda,
difeso nella sorda materia che lo fascia?

Minacciano i tuoi beni, la Chiesa disadorna
Barbari e Saraceni! Ah! Ciò che fu ritorna!

Ai soldati alladiesi combattenti
O tu, che d'odio sacrosanto avvampi
i confini del Barbaro cancella!
Con l'anno sorga una migliore stella
a consolar gli insanguinati campi!

Tu che combatti per l'Italia bella,
tra cupi rombi e balenar di lampi,
salve! Ed il cielo provvido ti scampi
alla sposa, alla madre, alla sorella!

Il tuo paese attende il tuo ritorno.
Tempi migliori ti saran concessi,
se in dolce pace finirà la guerra.


I nostri voti affrettano quel giorno;
tra belle vigne e biondeggiar di messi,
ritornerete, figli della terra!

Prologo

Dice il Sofista amaro: ...il Passato è passato;
è come un'ombra, è come se non fosse mai stato.
Impossibile è trarlo dal sempiterno oblio;
impossibile all'uomo, impossibile a Dio!
Il Passato è passato... Il buon Sofista mente:
basta un accordo lieve e il Passato è presente.
Basta una mano bianca sulla tastiera amica
ed ecco si ridesta tutta la grazia antica!
Anche se il tempo edace o il barbaro cancella
i tesori che all'arte diede l'Italia bella,
v'è un'arte più del marmo, del bronzo duratura
fatta di suoni, fatta di una bellezza pura,
un'arte che sussiste pur fra i tesori infranti
finché una corda vibri e una fanciulla canti!
Il Seicento rivive con la sua grazia ornata
in Orazio dell'Arpa od in Mazzaferrata;
s'eterna il Settecento più che in marmi o ritratti,
in un motivo lieve di Blangini... Scarlatti...

Melodrammi, oratorii, messe, vespri, mottetti:
odor sacro e profano d'incensi e belletti!
La musica da camera risorge in guardinfante
tra una dama che ride e un abate galante!
Né il Settecento solo, ma noi risaliremo
all'origini prime, fino al limite estremo,
quando non anche noto era il cembalo e l'ale
scioglieva il canto al ritmo del liuto provenzale.
Ad evocare il sogno che l'anima riceve
s'alterni la parola nella cornice breve.
Ché pei Maestri antichi non fu la scena immota,
ma sognarono "vive" la sillaba e la nota.
Rivivano quai furono. E dell'età passate

risorgano, col canto, le fogge disusate.
Non per arte femminea, né per vezzo leggiadro,
ma perché il vero viva nell'armonia del quadro.

Questo è l'intento nostro. Coi Maestri più noti
e men noti rivivere i secoli remoti.
Nostre canzoni, gemme dei nostri orafi insigni
un po' dimenticate nei loro antichi scrigni!
Tutti i motivi italici noi tratteremo in parte
se fortuna è propizia al nostro sogno d'arte.
Questo è l'intento nostro. E ci valga l'intento,
se le forze non sempre son pari all'argomento.
E - se faremo bene - decretate il successo...
e... se male faremo... applaudite lo stesso!

Carolina di Savoia

Dopo un anno moriva quella che usciva sposa
da questa Reggia... Visse la vita d'una rosa:
un mattino! Bel fiore non sedicenne ancora
colto da mano ignota in sulla prima aurora!

"Principessa Maria Carolina Antonietta
di Savoia! Lo sposo da me scelto v'aspetta:
il Duca di Sassonia: Marcantonio Clemente."
...Così parlava il padre, il Re, solennemente.

- Cognata Carolina - le disse quel mattino -
giunto è l'ambasciatore di Sassonia a Torino!
Verso il promesso sposo tra poco te ne andrai!
- Verso il promesso sposo? Non l'ho veduto mai! -
- Ha visto il tuo ritratto, hai visto il suo: ti piace? -
- Mi piace? È un po' di tela dipinta, che tace...
Oh! sposerei ben meglio un umile artigiano
che il Duca di Sassonia - oimè - così lontano! -
- Un umile artigiano! Son miti le pretese! -
- Oh sposerei ben meglio un povero borghese!... -
- Un povero borghese! Cognata mia bizzosa!... -

E le adattava intanto la ghirlanda di sposa.
Le cameriere intente all'opra delicata
guardavano la bimba pensosa ed accorata.
- Duchessa di Sassonia! Se questo è il mio destino,
non rivedrò l'Italia, non rivedrò Torino!...

La Regina Maria, Re Vittorio Amedeo,
la Corte, il Clero, i Nobili aprivano il corteo.
Le carrozze di gala avanzavano lente
per Torino infiorata, tra la folla piangente.

- La Bela Carôlin (la folla la chiamava
così, familiarmente, la folla che l'amava!)
La Bela Carôlin ci lascia e va lontano!
Il Duca di Sassonia ha chiesto la sua mano!
L'Ambasciatore è giunto e se la porta via...
Nozze senza lo sposo! Oh! che malinconia! -
Malinconiche nozze ed allegrezze vane:
archi di fiori, canti, clangori di campane...
Mille mani plebee cercavano la stretta
della mano ducale, la mano prediletta...
- Ti segua il voto nostro! Ti benedica Iddio! -
Carolina piangeva a quel supremo addio.
La figlia dalla madre divisa fu - che pena! -
a viva forza, come si spezza una catena...
- Piangete cittadini, piangete il mio destino!
Non rivedrò mia madre, non rivedrò Torino!

Dopo un anno moriva quella che usciva sposa
da questa Reggia. Visse la vita d'una rosa:
un mattino! E si spense nel paese lontano
senza una mano amica nella piccola mano!
Oggi rivive. Il popolo che l'adorava tanto
la canta. E non è morto chi rivive nel canto!


La culla vuota

(Una madre giovinetta veglia sulla grande
culla velata, accompagnando il dondolìo della
mano col ritmo del canto.)

Ninna-nanna, bimbo mio!
Ninna-nanna, dolce Re!
Mentre Mamma pensa a Dio,
c'è il buon Dio che pensa a te!
Quando tu nascesti venne
la Madonna a contemplare,
si fermarono le penne
dei Cherùbi ad adorare!
E nel cielo fu la Stella
e s'udirono parole
e più fulgido fu il Sole
e la Terra fu più bella!
Ninna-nanna, pupo biondo,
Ninna-nanna, dolce Re!
Non si trova in tutto il mondo
pupo bello come te!...

(Solleva i veli della culla vuota.
La fruga. Balza in piedi, indietreggia
barcollando: poi passa le mani sul volto
atterrito, quasi per sentirsi ben viva.)

Vuota è la culla... È vero od è menzogna?
Menzogna atroce, incubo fugace!
Togli al martirio il cuore di chi sogna!

(Giunge la voce della Morte invisibile.
Prima fioca e remota, indi più cruda e
distinta.)
LA MORTE INVISIBILE

Sogno non è! Non incubo fugace.

Tuo figlio non è più! Ma datti pace!
Ma datti pace! Non lagnarti forte,
non ti lagnare a voce così sciolta,
va il tuo lamento, ma nessun l'ascolta.
Povera donna taci! È cosa stolta
cercar d'opporsi a me che son la Morte!

LA MADRE

Oh! voce roca, funebre sul vento
sei tu, la Morte? che m'hai tolto il figlio?
Ah! L'odo urlare, urlare di spavento,
bianco lo vedo com'è bianco un giglio,
un giglio chiuso dall'ossuto artiglio...

(Breve silenzio. Il volto di lei è
come quello di una demente.)

No! Non è vero! È il mio vaneggiamento...

LA MORTE

Non è vaneggiamento! Il bimbo giace
sotto la terra ancor molle e smossa
ma l'alba nuova sorge e si compiace
d'educar fiori su l'angusta fossa
e l'anima innocente s'è già mossa
verso le stelle per l'eterna pace!

LA MADRE

O Morte, dammi l'angioletto biondo
che tu celasti nella terra oscura;
l'abisso dove giace è troppo fondo
la pietra che lo copre è troppo dura;
scampalo, Morte, dalla sepoltura,
poi manda in sepoltura tutto il mondo!


LA MORTE

Ti rendo il figlio, o donna, ma rammenta
che ti sarà martirio l'avvenire.

LA MADRE

Soffrir pel figlio mio! Non mi spaventa
l'ammonimento ch'io dovrò soffrire;
per veder vivo lui vorrei morire
e nel morire riderei contenta!

LA MORTE

Ti rendo il figlio, o donna, ma t'avverto
che gli scorre il delitto entro le vene!
l'occhio avrà torvo, il cuor di frode esperto...

LA MADRE

Rendimi il figlio! So che mi conviene
col buon consiglio di condurlo al bene,
farne un cuor saggio ed uno sguardo aperto.

LA MORTE

Il figlio tuo ti verrà reso, ma
non ti scordare mai di questo giorno;
egli dormiva già felice là
donde nessuno fece mai ritorno.
Donna, è ben meglio il funebre soggiorno,
meglio la pace dell'eternità.

LA MADRE

Io ti ringrazio, o Morte! Infine il povero
figliolo mio torna alle mie braccia;
su questo seno troverà ricovero,
su questo seno celerà la faccia,

e farà il bene sotto la minaccia
dell'amoroso tenero rimprovero...

LA MORTE

Io te lo rendo, ma non tarderai
a lacerarti il cuor dallo sconforto.
Mi supplicavi, o donna, e t'ascoltai.
Ti feci lieta, ma per tempo corto;
e un giorno tu dirai: fosse pur morto
e non si fosse ridestato mai.

LA MADRE

Perché, perché codesto tuo parlare,
s'egli sarà per sempre a me vicino?
Se ogni mattin lo guiderò all'altare,
se foggerò più bello il suo destino?

LA MORTE

Appena il braccio sarà forte al remo
lascerà la sua madre e il casolare;
dalla deserta riva sentiremo
dì e notte, notte e giorno il tuo gridare;
e forse un giorno lancerai sul mare
invano, invano il tuo lamento estremo.
Ed egli dove il cielo di turchese
scende nell'onda, ove s'estingue il sole,
rimpiangerà il minuscolo paese,
rimpiangerà le tue buone parole.
E griderà nell'anima che duole;
griderà: Morte! Con me sii cortese!
Chiederà morte! E appagherò mie brame
non lui sopendo sopra un letto molle,
tra dolci preci e candide corolle...
Morrà sul palco, infamia del reame,
morrà sul palco. Maleoprando volle

rendersi degno della morte infame!

(La madre si copre con le mani il volto disfatto
dalla visione spaventosa.)

Io te lo rendo. Ma tu sappi ancora...

LA MADRE

(con un brivido d'orrore)
No! taci! taci!

(La madre s'accascia; con un moto d'orrore cre-
scente si fa difesa con le braccia, come sotto
una percossa. Lungo silenzio. Poi alza il volto
trasfigurata.)

No! taci! taci! non mi dir più nulla!
Non mi ridire ciò che m'addolora...

LA MORTE

Io te lo rendo. Ma tu sappi ancora...

LA MADRE

Lasciami sola sopra questa culla
a piangere quest'anima fanciulla
che tramontò nel sorger dell'aurora!

Natale
La pecorina di gesso,
sulla collina in cartone,
chiede umilmente permesso
ai Magi in adorazione.

Splende come acquamarina
il lago, freddo e un po' tetro,
chiuso fra la borraccina,
verde illusione di vetro.


Lungi nel tempo, e vicino
nel sogno (pianto e mistero)
c'è accanto a Gesù Bambino,
un bue giallo, un ciuco nero.

Pasqua

A festoni la grigia parietaria
come una bimba gracile s'affaccia
ai muri della casa centenaria.

Il ciel di pioggia è tutto una minaccia
sul bosco triste, ché lo intrica il rovo
spietatamente, con tenaci braccia.

Quand'ecco dai pollai sereno e nuovo
il richiamo di Pasqua empie la terra
con l'antica pia favola dell'ovo.

La Befana
Discesi dal lettino
son là presso il camino,
grandi occhi estasiati,
i bimbi affaccendati

a metter la scarpetta
che invita la Vecchietta
a portar chicche e doni
per tutti i bimbi buoni.

Ognun, chiudendo gli occhi,
sogna dolci e balocchi;
e Dori, il più piccino,
accosta il suo visino

alla grande vetrata,
per veder la sfilata
dei Magi, su nel cielo,
nella notte di gelo.


Quelli passano intanto
nel lor gemmato manto,
e li guida una stella
nel cielo, la più bella.

Che visione incantata
nella notte stellata!
E la vedono i bimbi,
come vedono i nimbi

degli angeli festanti
ne' lor candidi ammanti.
Bambini! Gioia e vita
son la vision sentita

nel loro piccolo cuore
ignaro del dolore.

Oroscopo

Alla mamma
per la nascita del fratello Renato

La bionda fata sollevò le mani
sopra la culla in atto di preghiera
e nel chiaro mattin di primavera
suonò la bella voce in ritmi arcani:

"Spiriti eterni, Geni sovrumani
viventi dove il sol non ha mai sera,
scendete dalla vostra eccelsa sfera...
Venite, o Geni, dai regni lontani.

Donategli la forza e la saviezza,
la nobiltà dell'animo e del core;
ch'io l'ho predestinato alla bellezza:

e dategli la grazia delicata
della sua Mamma, dategli l'amore..."
Disse: e in ciel dileguò la bionda fata!



Dolci rime

a Luisa Giusti, amica minuscola,
con un cartoccio di cioccolatto

Sola bellezza al mondo
che l'anima non sazia,
fiore infantile, biondo
miracolo di grazia;

grazia di capinera
che canta e tutto ignora,
grazia che attende ancora
la terza primavera!

Tu credi ch'io commerci
(poi che poeto un poco)
in chi sa quali merci
buone alla gola o al gioco!

- Dammi una poesia! -
Così, come un confetto,
mi chiedi... E t'hanno detto
che sia?... Non sai che sia!

Che sia, come va fatto
il dono che vorresti,
ti spiegherò con questi
dischi di cioccolatto.

Due volte quattro metti
undici dischi in fila
(già dolce si profila
sonetto dei sonetti).

Due volte tre componi
undici dischi alfine
(compiute in versi "buoni"
quartine ecco e terzine).


Color vari di rime
(tu ridi e n'hai ben onde)
poni: terze e seconde
concordi, ultime e prime.

Molto noioso? O quanto
noioso più se fatto
di sillabe soltanto
e non di cioccolatto!

Di qui potrai vedere
la mia tristezza immensa:
piccola amica, pensa
che questo è il mio mestiere!

Prima delusione
La bionda bimba coi capelli al vento
correva per i viali del giardino
rossa nel volto, respirando a stento
per sfuggire al suo bruno fratellino.

"Mamma!": era giunta all'albero di pesco,
calpestandone i fiori scossi dal vento:
poi rise, del suo riso argenteo e fresco,
al fratellino giunto in quel momento.

"Non mi prendesti!" disse e rise ancora
al fratellino un po' mortificato;
e il sol, che traversava i rami allora,
baciò quel capo piccolo e dorato.

"Fulvio, perché la bamboletta parla?
Dici che sia una bambina vera?"
"Chissà! Bisognerebbe un po' osservarla,
guardarle il viso che pare di cera."

"Vai a prenderla: è dentro nella serra."
Il fratellino corse, e lei rimase
coll'occhio fisso all'ombre, che per terra

formava il sol nell'ultima sua fase.

Tornò il fratello con la bamboletta:
"Guardala, Fulvio, a me par proprio viva,
se tiri quello spago parla, e, aspetta,
se la bacio e la lodo si ravviva.

Sì, sì! Se io le parlo mi comprende,
se la rimbrotto subito s'attrista;
quando la bacio, il bacio lei mi rende
e poi, del resto, ridere l'ho vista".

L'accarezzava intanto, la bimbetta,
sui bei capelli morbidi e ricciuti,
ma ad una mossa falsa la pupetta
cadde e s'infranse in cocci assai minuti.

Turbata in cuore da lacrime ardenti
la bimba curva cerca in mezzo ai cocci:
occhi di vetro, due piccoli denti
e le manine simili a due bocci.

Le lacrime le scendon, sul visino,
su la parrucca che trattiene in mano;
cerca di consolarla il fratellino:

"Ti do il mio cerchio, e anche quel buffo nano".

Ma no: non è la bambola perduta
che fa piangere tanto la bambina:
vera, parlante, sempre l'ha creduta;
invece è sol di porcellana fina.

Piange la bimba perché fu delusa.
L'aveva tanto amata come viva
e che la ricambiasse s'era illusa,
povera bimba! e l'illusion finiva.

Il sole tramontava tutto fuoco,
da lungi si sentiva batter l'ore


ed in quel giorno destinato al gioco
pianse la bimba il primo suo dolore.

La canzone di Piccolino
(dal bretone)

Piccolino, morta mamma,
non ha più di che campare;
resta solo con la fiamma
del deserto focolare;
poi le poche robe aduna,
mette l'abito più bello
per venirsene in città.
Invocando la fortuna
con il misero fardello,
Piccolino se ne va.

E cammina tutto il giorno,
si presenta ad un padrone:
- "Buon fornaio al vostro forno
accoglietemi garzone". -
Ma il fornaio con la moglie
ride ride trasognato:
- "Piccolino, in verità
il mio forno non accoglie
un garzone appena nato!
Non sei quello che mi va". -

Giunge al re nel suo palagio,
si presenta ardito e fiero:
- "Sono un piccolo randagio,
Sire, fatemi guerriero". -
Il buon Re sorride: - "Omino,
vuoi portare lancia e màlia?
Un guerriero? In verità
tu hai bisogno della balia!
Tu sei troppo piccolino:
Non sei quello che mi va". -


Vien la guerra, dopo un poco,
sono i campi insanguinati;
Piccolino corre al fuoco
tra le schiere dei soldati.
Ma le palle nell'assalto
lo sorvolano dall'alto
quasi n'abbiano pietà.
- "È carino quell'omino,
ma per noi troppo piccino:
non è quello che ci va!" -

Finalmente una di loro
lo trafora in mezzo al viso;
esce l'anima dal foro,
vola vola in Paradiso.
Ma San Pietro: - "O Piccolino,
noi s'occorre d'un Arcangelo
ben più grande, in verità.
Tu non fai nemmeno un Angelo
e nemmeno un Cherubino...
Non sei quello che ci va". -

Ma dal trono suo divino
Gesù Cristo scende intanto,
e sorride a Piccolino
e l'accoglie sotto il manto:
- "Perché parli in questo metro,
o portiere d'umor tetro?
Piccolino resti qua.
Egli è piccolo e mendico
senza tetto e senz'amico:
egli è quello che mi va...
O San Pietro, te lo dico,
te lo dico in verità!..."


La Notte Santa

(Melologo popolare)

- Consolati, Maria, del tuo pellegrinare!
Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei.
Presso quell'osteria potremo riposare,
ché troppo stanco sono e troppo stanca sei.

Il campanile scocca
lentamente le sei.

- Avete un po' di posto, o voi del Caval Grigio?
Un po' di posto per me e per Giuseppe?
- Signori, ce ne duole: è notte di prodigio;
son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe
Il campanile scocca
lentamente le sette.

- Oste del Moro, avete un rifugio per noi?
Mia moglie più non regge ed io son così rotto!
- Tutto l'albergo ho pieno, soppalchi e ballatoi:
Tentate al Cervo Bianco, quell'osteria più sotto.

Il campanile scocca
lentamente le otto.

- O voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno
avete per dormire? Non ci mandate altrove!
- S'attende la cometa. Tutto l'albergo ho pieno
d'astronomi e di dotti, qui giunti d'ogni dove.

Il campanile scocca
lentamente le nove.

- Ostessa dei Tre Merli, pietà d'una sorella!
Pensate in quale stato e quanta strada feci!
- Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella.
Son negromanti, magi persiani, egizi, greci...


Il campanile scocca
lentamente le dieci.

- Oste di Cesarea... - Un vecchio falegname?
Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente?
L'albergo è tutto pieno di cavalieri e dame
non amo la miscela dell'alta e bassa gente.

Il campanile scocca
le undici lentamente.

La neve! - ecco una stalla! - Avrà posto per due?
- Che freddo! - Siamo a sosta - Ma quanta neve, quanta!
Un po' ci scalderanno quell'asino e quel bue...
Maria già trascolora, divinamente affranta...

Il campanile scocca
La Mezzanotte Santa.

È nato!

Alleluja! Alleluja!

È nato il Sovrano Bambino.
La notte, che già fu sì buia,
risplende d'un astro divino.
Orsù, cornamuse, più gaje
suonate; squillate, campane!
Venite, pastori e massaie,
o genti vicine e lontane!
Non sete, non molli tappeti,
ma, come nei libri hanno detto
da quattro mill'anni i Profeti,
un poco di paglia ha per letto.
Per quattro mill'anni s'attese
quest'ora su tutte le ore.
È nato! È nato il Signore!
È nato nel nostro paese!

Risplende d'un astro divino
La notte che già fu sì buia.
È nato il Sovrano Bambino.
È nato!

Alleluja! Alleluja!

GUIDO GOZZANO