CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS






















































MEDUSA



SUPERI

Flagra di luce intemerata il cielo,
Beata stanza dei superni; i vivi
Fonti d’ambrosia erompono dai clivi,
Cui veste l’odorifero asfodelo.

Su per il verde corron gli ambulacri
Candidi all’ombra dei gemmati allori;
Tripudïando pargoletti Amori
Guazzano in chiari e gelidi lavacri.

Sorgon entro l’azzurro i propilei
Superbi; nelle grand’aule opulento
Sfoggia il bisso; dai tripodi d’argento
Vaporan densi i balsami sabei.

Giace sui pulvinari e i convivali
Deschi ricigne de’ beati il coro;
I dì non conta e nelle tazze d’oro
Beve esultando il pianto de’ mortali.

Dalle fulgide chiome il nardo stilla;
Fragranti serti di purpuree rose
Cingon le bianche tempie e gaudïose,
Ove l’eterna giovinezza brilla.

==>SEGUE






LIBRO SECONDO
(1880 - 1881)
INFERI

In voragini buje, in erme grotte
S’apre e vaneggia la plutonia rupe
Nel grembo della terra, orride, cupe,
Securo asil della tenaria notte.

S’alzan con archi immani le pareti
Scisse, ronchiose, affumicate ed arse;
Biancheggian qua e là, divelte e sparse,
L’ossa d’antichi, giganteschi ceti.

Sotterra s’affaccendano i Titani,
C’hanno gli antichi vincoli spezzati;
Sotto la foga dei potenti fiati
Di novi incendi flagrano i vulcani.

Ferve lor opra: con le man dal fondo
Di nere cave strappano le antraci,
Buttano intere nelle gran fornaci
Le selve morte dell’antico mondo.

Ad attizzar la bragia incandescente
Piove in copia il sudor dagli arti ignudi;
Coi magli enormi in sulle larghe incudi
Batton macigni di metal rovente.
==>SEGUE


Nell’onda immerso vaporando stride,
E in durissime tempre si rinnova,
L’ignito ferro, e cimentato a prova
Schianta il granito e il dïamante incide.

L’aria di fumo e di faville ingombra
Ne’ larghi petti sibilando scende;
Mostruosa s’accorcia e si distende,
Sulle pareti, dei gran corpi l’ombra.

Via via per le recondite latebre
Il suon dell’opre rimuggendo esala:
Taccion gli adusti fabbri, e mai non cala
Benigno il sonno sulle lor palpebre.

E alcun talora a rinfrancar l’anelo
Petto, agli atri spiracoli s’appressa,
E sparsa indietro l’arruffata e spessa
Criniera, insulta con lo sguardo il cielo.
ASTRO

O voi fulgide stelle, onde il fiorito
Etra sfavilla; e voi, diffusi e strani
Nembi di luce che nei gorghi arcani
Maturate dei soli il germe ignito;

E voi, pallide Terre; e voi, crinito,
Randagio stuol delle comete immani;
E quanti siete, astri del ciel, che in vani
Cerchi solcate il mar dell’infinito;

Un astro, un mondo al par di voi son io,
Travolto in cieco irresistibil moto,
Non so ben se del caso opra o d’un dio.

Folgorando pel freddo etra m’addentro,
Vita, lume, calor sperdo nel voto,
E dell’orbita mia non veggo il centro.
PROVOCAZIONE

O tu che madre universal ti chiami,
Arcana, imperscrutabile Natura,
In che tutto si forma e si sfigura,
Non so, non so s’io t’abborrisca o t’ami.

Perché mai di sì fitta ombra ed oscura
Circondi l’opre che in eterno trami?
Son elle turpi, di’, son elle infami,
Che sì ne celi la sottil fattura?

Io l’arcano detesto. Il capo avvolto
Discopri omai, getta la larva, ond’usa
Sei di velar l’altera fronte, abbasso.

Di te non temo: se l’orribil volto
Avessi tu d’Aletto o di Medusa
Non mi faresti indietreggiar d’un passo.
IN EXTREMIS

Chi sei? pallida il viso e la disciolta
Chioma fluente sino al piè! chi sei?
Non è questa, non è la prima volta,
Donna, che tu ti mostri agli occhi miei.

Ti conobbi? t’amai? chi mi ti ha tolta?
Volge gran tempo già che ti perdei?
Il fantasma se’ tu d’una sepolta
Cara un tempo al mio cor? se’ tu colei?

Che non favelli? un grave e tenebroso
Obblio la mia dolente anima ingombra,
E ne’ suoi lacci il bieco error la serra.

Son quasi morto, e pur non ho riposo!
Fammi aver, se tu puoi, la pace e l’ombra,
Dammi la man, conducimi sotterra.

LAMPEGGIAMENTI

Buja è la notte; su per l’erto monte
Dorme la selva; in sugli aperti campi
Ristagna l’aria; in fondo all’orizzonte
Corrusca il ciel d’abbarbagliati lampi.

Buja è l’anima mia; più non mi mordi,
Acre desio, vano desio di gloria!
Freddo è il mio cor; balenano i ricordi
Sull’orizzonte della mia memoria.
LAOCOONTE

O serpe che la vinta anima leghi
Con sì tenaci e dolorosi nodi,
O serpe che mi laceri e mi rodi
Come ch’io mi travolga e ch’io mi pieghi:

O ciel che mi stai sopra e che non odi
Il clamor del mio pianto e de’ miei preghi,
O ciel che mi stai sopra e che mi neghi
La carità della speranza e godi;

Serpe che m’avveleni e che m’uccidi,
Ciel che t’esalti in contemplar l’amara
Agonia d’un mortal, sordo a’ suoi gridi;

Vinceste, io muojo! a voi: sanguina e fuma
Per l’angoscia il cor mio quale sull’ara
L’ostia che il foco vorator consuma.


FOGLIE SECCHE

Oh, come lugubre
Veder sull’arido
Suolo cinereo
Discolorite,
Tremule, tacite
Cader dagli alberi
Le foglie morte!

==>SEGUE

Oh, come lugubre
Veder da un’anima
Cader le povere
Fedi tradite
E i segni gracili
Cui franse l’invida
Man della sorte!


TRISTO GUADAGNO

Salir l’eccelse e rovinose cime
Con l’ansia in core e la baldanza in fronte,
Bagnar di sangue e di sudor le impronte
Per cui nostra virtù s’alza sublime,

Che val? — Da più gran cerchio d’orizzonte
Più vasto bujo la mia mente opprime,
E il sonante metal delle mie rime
Sembra temprato ai gorghi d’Acheronte.

Ahi, dura cosa logorar la vita
In questa pugna inglorïosa e rea,
Versarci il sangue e non raccor mercede!

Ahi, dura cosa aver nella smarrita
Anima il sogno d’una eterna idea,
Volere il nume e non trovar la fede!

VOI SAVIO!

Beato voi, caro messer, che quando
Vi sentite un tantino il cor serrato,
Per usar d’un rimedio ottimo e blando
Vi recate fra mani un buon trattato;

E leggendo e chiosando ed ammirando
La materia e l’autore e il suo dettato,
Ogni tristo pensier mandate in bando
E vi sentite d’ogni mal sanato.

Io non lo posso usar questo rimedio,
Sia che mi manchi un po’ di scuola, sia
Perché più fiero il male in me divampa.

Io, se mi vien quel maledetto tedio,
Vorrei dar fuoco all’Enciclopedia,
E maledico chi trovò la stampa.
ORRORE

Conosci tu dell’infinito il pondo
E l’angoscia mortal? sai tu l’orrore
Di quel mar senza fine e senza fondo
Ove in eterno s’inabissan l’ore,

E si frangon l’età? l’atro, profondo,
Gelido ciel conosci ove il clamore
E la dipinta vanità del mondo
Come una nebbia si dilegua e muore?

Conosci tu lo strazio e l’agonia
D’un pugnace pensier che oppresso e franto
Risorge senza fin? sai tu che sia

Questo sentirsi sempre nella mente,
Sempre nel cor di tutti i vivi il pianto
E il gran silenzio della morta gente?

TERRORE

Quando la mente mia sogna l’eterno
E l’infinito, tal mi va per l’ossa
Un gelo, o caro focolar paterno,
Che non v’è fiamma che scaldar mi possa.

Sì che ogni altro terrore onde commossa
Fu già la mente giovanil, l’inferno
Senza riscatto, l’esecrabil fossa,
Ora di contro a quel parmi uno scherno.

Ogni più dolce e caro intimo affetto
Dentro a questo pensier mi si dissolve
Come in ciel di brumajo onda di fumo.

==>SEGUE
Così vivo e mi sfaccio e mi consumo,
La notte il bujo, il dì guardo la polve,
Piego le braccia neghittose e aspetto.

PREGHIERA

Biondo raggio di sol che squarci i biechi
Nugoli e dal fulgente etra rimovi,
Biondo raggio di sol che fai tra sbiechi
Macigni rinverdir triboli e rovi;

Tu che alla terra irrigidita arrechi
novo calor, tu ch’ogni amor rinnovi,
Tu dell’anima mia penetra i ciechi
Abissi e il tuo vital lume vi piovi.

Benigno scendi nel mio cor: del forte
Sonno i lacci e le tetre ombre disserra,
Dissipa il gel dell’odïata morte.

E tu, se tanto tua virtude avanza,
Fa rispuntar dall’indurata terra
L’odorifero fior della speranza.

ESORTAZIONE

Anima mia, come un ruscel di pura
Vena, che tragga, mormorando al vento,
Il lucente e sottil serpeggiamento
Tra le selci e la sabbia alla pianura,

Tu va pel mondo; assai aspro il cimento,
Assai la via ti parrà forte e dura;
Tu non temer, ma per la valle oscura
Traggi cantando il filo tuo d’argento.
==>SEGUE
Corri tra ’l limo e tergi la proclive
Zolla, ma l’immortal lampo del sole
Specchia nell’onde intemerate e chiaro.

Nutri dell’umor tuo sulle tue rive
Purpuree rose e pallide vïole
E senz’angoscia affretta il corso al mare.

SUPERSTITE

Della chiesa superba
Questo avanzo rimane,
Quattro livide mura, un arco immane,
La distesa scalea vestita d’erba.

Dal ciel guata la luna
L’ignudo altar, gl’inscritti
Sepolcri e il muto pulpito e i diritti
Pilastri cui la fosca edera abbruna,

E gli alti, vaneggianti
Finestroni all’ingiro,
Ove su fondi d’oro e di zaffiro
Un giorno sfavillâr madonne e santi.

Tra le deserte mura
Tutto è silenzio e morte;
D’una vita che fu, d’un’altra sorte,
Un solo e vivo testimonio or dura.

Dietro alla vota occhiaja
Dell’orïuolo incombe
Alla ruina e le forbite trombe
Ancor lo smisurato organo appaia.

==>SEGUE



Ancor grandeggia e brilla
Sotto la buja volta,
E par che intuoni a un popolo che ascolta
L’orror del Dies irae dies illa.

Ma ne’ fianchi l’intenso
Fiato più non comprime.
Più non rompe terribile e sublime
Dalle cento sue bocche il canto immenso.

E sol talora, quando
Nei cilindri sonori
S’ingorga un venticel, l’aria di fuori
Freme d’un canto doloroso e blando:

E sulla sponda estrema
Della grigia parete
Alcun pallido fior morto di sete
Sul flessuoso stel palpita e trema.

DIFESA

Che giurai? che promisi? Allor che il petto
La forsennata passïon ti morse,
Fors’io ti lusingai? ti diss’io forse:
T’amo; l’amor che prima m’offri accetto?

Tacqui: ricordi? al labbro mio non corse
La vigliacca menzogna: il novo affetto
T’ingombrava la mente, ed il sospetto
Del ver ch’io non celava in te non sorse.

Or perché piangi, e te tradita stimi,
E me sleal? guardami un tratto in volto,
Le mie parole nella mente imprimi:

==>SEGUE

Lungi da te, sott’altro ciel, nel folto
D’una selva, una tomba infra sublimi
Cipressi albeggia: — Ivi è il mio cor sepolto.



NEL PROFONDO

Dentro l’anima mia, dove ruina
Il fondo e il cieco abisso si spalanca,
Quando la notte in ciel siede regina
Suona una voce dolorosa e stanca;

E un vasto e sordo fremere di pianti
Sale pel bujo che s’addensa quivi;
Come un fiotto d’ignude anime erranti.
Come un lamento di sepolti vivi;

E sospiri pel negro aer travolti,
E fioche voci dai singhiozzi rotte:
Son l’anime dei morti e dei sepolti
Che si destan piangendo a mezzanotte.
ALLUCINAZIONE

Taci; non più; non ricordar quell’ore,
Quei brevi dì; non ricordarmi i baci,
Le folli ebbrezze, i turbamenti; oh, taci!
La memoria che langue e che si muore

Non ravvivar; le care ansie voraci
Non ridestar dall’antico sopore,
Tu che nel mezzo del mio tristo core
Sepolta come in una tomba giaci.

Morta dunque non sei? cenere muto
Io ti credeva: or come vivi? come
Parli e ridi, tu morta, ad un perduto?

O se’ tu dal tuo cenere risorta?
O non è questa Morte altro che un nome?
O sono io morto come tu se’ morta?
VIA COSTÀ!

Amarvi? e perché no? mi piace il gioco,
Sebben non troppo, per superbia, il mostri.
Proviam: ma pria fate ch’io sappia un poco
Quali sono, o signora, i pregi vostri.

Siete ricca? odo dir: bella? sarete:
Desiderata? assai! — Dite, signora,
Un’anima da darmi ce l’avete?
Non ce l’avete? andate alla malora.


COSCIENZA

La coscïenza mia, usa al cimento,
Era uno scudo di temprato acciaro,
Lucido e forte, invulnerato e chiaro;
Squillava il suo metal come l’argento.

Sorgendo, l’orbe suo vinceva in poco
Spazio l’orror della più fitta notte,
E tra le nubi sgominate e rotte
Sedea come un superbo astro di foco.

Tal fu, tal più non è: sopra il suo disco
Immobil ora si distende un’ombra.
Che la mia mente di paura ingombra
Ogni qual volta di guardarvi ardisco.

E fuor del suo metal temprato e forte
Scoppia una voce d’ira e di flagello
Che per l’anima mia suona a martello
La rovina e il terror, l’odio e la morte.

POVERO CORE

O mio povero cor, morta è la pace,
Morto è l’amor; di novo a che sussulti?
Morta è la fede; a che più la vorace
Fiamma di vita nel tuo grembo occulti?

O mio povero cor, quando più tace
La fredda notte e dei patiti insulti
Grave su te la rimembranza giace,
Udir mi sembra i tuoi sordi singulti.

O mio povero cor, fossi tu morto!
Così di gel, così d’angoscia stretto,
Onde vuo’ tu sperar gioja o conforto?

O mio povero cor, non rinvenire;
O mio povero cor, del chiuso petto
Fatti una tomba e lasciati morire.
PAESAGGIO

Si stende a guisa d’un deserto mare
La steppa verde di silenzio piena;
Alcune macchie rabbuffate e rare
Sull’uniforme pian crescono appena.

Come un liquido vetro in sulle avare
Zolle diffuso da sorgente vena
Uno stagno di brune acque ed amare
Si sprazza d’oro e contro al sol balena.

Lungo la sponda la flessibil canna
Alla brezza autunnal rabbrividisce
E l’aria d’un sottil sibilo affanna.

Dal varco occidental la rubiconda
Ruota del sol le nuvole sdrucisce
E come nave in mar lenta s’affonda.
ULTIMO SOLE

Dagli alti gorghi e dal profondo gelo
Della mia mente un picciol astro emerge
Che di sua luce moribonda asperge
L’opaco flutto e il nebuloso cielo.

Per brevi istanti di lontan la scissa
Oscurità contempla e novamente,
A mo’ d’una meteora sparente,
Entro l’immobil onda s’inabissa.

Ogni dì più lo scarso orbe s’affuma
E più da presso l’orizzonte rade;
Così fa il sol nell’artiche contrade
Quando lo incalza la nevosa bruma.

O mio pallido sole, o mio conforto
Ultimo! un dì tu pur mi lascerai:
Allora il bujo e il gel, spenti i tuoi rai,
M’invaderanno il core e sarò morto.
MARINA

Un oceano d’asfalto e di bitume,
Squallido, muto, senza movimento!
Póltron sovr’esso le viscose spume,
Poltre nell’aria soffocato il vento.

Sull’orizzonte il sol come un portento
Squarcia l’orror delle fumose brume,
E sbarrando l’enorme occhio cruento
Folgora in giro il formidabil lume.

Via pel livido ciel fugge uno stuolo
Di negri uccelli, a più lieta dimora
Silenzïosi dirizzando il volo.

Sola in mezzo al terrifico deserto
Galleggia immota una vetusta prora
Col ponte raso e col gran fianco aperto.
LEGGENDO DANTE

Bujo d’inferno e di notte privata
D’ogni pianeta sotto pover cielo,
Quant’esser può di nuvol tenebrata,
Quant’esser può d’orror piena e di gelo!

Bujo d’inferno che ad ogni creata
Cosa fai denso impenetrabil velo;
Bujo d’inferno e di notte esecrata
Che covi in sen la morte e lo sfacelo!

Notte della mia mente e del cor mio,
Che al sole in ciel la chiara fronte abbui,
Spegni la gloria e lo splendor di Dio!

Notte della mia mente e del mio core,
In cui vaneggia l’infinito, in cui
Stridendo il mondo s’inabissa e muore!

MOSTRO

Non so quando né come,
Non so da chi sia stato al mondo messo
Un mostro senza nome
Che divora se stesso.       ==>SEGUE


Non so come né quando,
Non so da chi sia stato il maledetto
Demone abbominando
Rinchiuso nel mio petto.

PITTURA INTERIORE

Un’alta, brulla, livida pianura,
Sparsa di sepolcreti e di rovine,
Seminata di triboli e di spine,
Cinta dal mare intorno alla bassura;

Un negro mar senza fondo né fine,
Pien d’orror, di silenzio e di paura,
Che quanto il ciel, quanto lo spazio dura
Stende le addormentate acque supine;

Un torbo ciel che mai non si serena,
Ad ogni cosa che abbia vita infesto,
Dato di perniciosi astri in balia.

Una tetra, deserta, orribil scena
Del gelo ingombra della morte: è questo
Il paesaggio dell’anima mia.
RIMPIANTO

Come degli anni più m’accascia il pondo
E mi soverchia il tedio e lo sconforto,
Più mi rincresce di non esser morto
Quando in sen mi brillava il cor giocondo.

Nave dannata a non toccar mai porto
Sia grata al mar se la tranghiotte al fondo;
Grato al caso i’ sarei se fuor del mondo
Tratto m’avesse pel cammin più corto.

Ch’or non sarei, qual son, venuto a tale
Che la vita e la morte odio egualmente,
E non so come uscir del tristo passo.

E non avrei, conforto estremo al male,
Sempre il pensier confitto entro la mente
Ch’io non posso oramai scender più basso.


AZZURRO

Formidabile azzurro! io guardo e penso
Tal jer, tal oggi, tal sarai domani:
Quanti secoli son che degli umani
Volgi sul capo il lucid’arco immenso?

Gli dei morir, ch’eran di noi più vani,
E tu, privo d’amor, privo di senso,
Tu sol l’omaggio del fumante incenso,
Tu le preci accogliesti e i voti insani.

Ogni cosa che vive a una fatale
Corruzïon soggiace, e nel soverchio
Della sciagura si travolge al fondo.

Tu sol, tu solo incolume, immortale,
Incorrotto, glacial, come un coverchio
Smisurato d’avel pesi sul mondo.
Arturo Graf - MEDUSA - Libro II
TEMPO VERRÀ

O mia piccola reggia,
O caro nido degli amori miei,
Tu cui lambe il torrente e il bosco ombreggia,
Beata un dì della beltà di lei;

Tempo verrà che veda
Crescerti addosso una letal verzura,
E il tuo gracile tetto e le tue mura
Date alla morte e alla ruina in preda.

Allor nelle deserte
Stanze dall’alto guarderan le stelle,
E mugolando i venti e le procelle
Irromperan dalle finestre aperte.

E a mano a man sul molle
Strato delle fiorenti erbe cadrai,
E sulle pietre ond’or ti reggi e stai
Esuberanti cresceran le zolle.

Allor su te da mane
A sera il rozzo ed avido bifolco
A trar verrà l’interminabil solco,
E a seminarvi stornellando il pane.
==>SEGUE

E imprecherà se avvenga
Che alcuna pietra del mio dolce asilo
Al vomere crudel frangendo il filo
Il passo al bue lavorator trattenga.

E da gran tempo i cuori
Che in te d’amore, di piacer, d’affanno
Palpitâr, saran polve e non avranno
Le ignote fosse lor croci né fiori.

HYBRIS

Invan sopra il mio capo urla sospesa
L’ignea folgore, invan la terra trema:
Ancor vinto non son, benché mi prema
Già l’ora bieca da gran tempo attesa.

Morrò ma senz’ambascia e senza tema;
Né tregua mai, né chiederò difesa;
Né lascerò la disperata impresa
Fin che nel petto l’anima mi frema.

O nume ignoto, ancor ti sfido! occulto
Tu combatti; nell’ombra che t’avvolve
De’ tuoi passi, cadendo, io spio le impronte.

==>SEGUE
E tanto che il mio core abbia un sussulto
Tu mi vedrai dalla percossa polve
Risollevar la fulminata fronte.

OMNIA RUUNT

I.
Solo nume l’abisso? e l’universo
Altro dunque non è che un naufragio
Disperato ed immane, ove sommerso
Quanto vive morrà senza suffragio?

Col più degno il più vil? col più malvagio
Chi si fa specchio di virtù? col terso
Ciel stellato l’inferno, ogni presagio
Di giusta legge sbugiardato e sperso?

Se questo è il ver, sia maledetto il vero!
Non v’è ragion, non v’è poter che faccia
Di tal ver pazïente il mio pensiero.

Se questo è il ver, stolta ogni nostra impresa,
Stolto ogni amor! pieghiam le stanche braccia,
E piangendo esecriam l’iniqua offesa.


II.
Piangere!... No! vano saria. Già tanto
Piangemmo e il ciel l’ha comportato in pace;
Tanto piangemmo che del nostro pianto
Ormai credo si nutra il mar vorace.

Esecrare!... E che mai? travolto e franto
D’ogni nume oppressor l’idolo giace,
E quanto vive a noi d’intorno e quanto
Muor, l’empia legge umil patisce e tace.

Taciam noi pur! regni il silenzio dove
Regna destino forsennato, e immenso
Empia di sé l’inesorabil etra.

E se in noi cosa alcuna anco si move,
Diamole morte: soffochiamo il senso,
Estinguiamo il pensier, mutiamci in pietra.
SILENZIO

In mezzo alla pianura erma e tranquilla,
Bruno, diritto culmina un cipresso,
In sua gramaglia immobile; sott’esso
Fuor da una pietra un fonticel zampilla.

Come un gelido pianto in sullo spesso
Letto dell’erbe il chiaro umor distilla,
Poi, fatto rivo, al sol tremola e brilla,
Corre tra’ fiori e mormora sommesso.

A piè del tronco bruno, a canto al fonte
Che la bagna di lacrime, una croce.
Sorge fra cespi d’odorato assenzio.

Vacuo, smisurato l’orizzonte
Si gira intorno, e suon d’umana voce
Non turba il formidabile silenzio.

IO TEL DICEVA

Io tel diceva: Non farà suo corso
Due volte il sol che te ne pentirai;
Altro dall’amor mio non coglierai
Che spine acute e sterile rimorso.

Di racquistar la pace indi più mai
Non isperar, non isperar soccorso;
Tutto della sciagura a sorso a sorso
Votar l’amaro calice dovrai.

Io tel dicea; ma tu, schernendo i tristi
Presagi, tutta al lusinghiero errore
T’abbandonavi, onde mal frutto acquisti.

Te felice, e felice il nostro amore,
Se il dì che prima il tuo pensier m’apristi
Dato t’avessi d’un pugnal nel core.
RAGNI

Davanti a un foro per lungo e per largo
Distende il ragno la sua fragil tela;
Ed io de’ miei pensier la tela spargo
Sopra l’abisso che ogni cosa cela.

Ei nella rete onde si cinge intorno
Acchiappa il moscherin che in aria frulla:
Io sto sui miei pensier la notte e il giorno
E non ci colgo un maledetto nulla.


FEBBRI TITANICHE

I.
Chi di vita immortal sé degno sente
Mal si piega alla morte; è troppo oscura
Prigion la fossa alla superba mente
Che folgorando affronta la natura.

Oggi il mondo pensar, men che niente
Esser doman! legge insensata e dura!
Il turpe fato delle cose spente,
Divin lampo del sol, mi fa paura.

Io non voglio morir: rovini il cielo
Sovra il mio capo e nell’orror m’inghiotta
Della sua notte il lurido Acheronte.

Ancor, vinta la morte e lo sfacelo,
Mi vedrai provocante a nova lotta,
Sfinge del mondo, erigermiti a fronte.
II.
Per sempre non morrò! se pur m’opprima
Con le fumanti sue macerie il mondo,
Risorgerò dall’Erebo profondo
Più temerario e più vital di prima.

A’ miei pensier tumultuosi un biondo
Raggio di sol va sfolgorando in cima,
E dell’anima mia passa per l’ima
Region più buja un fremito giocondo!

Per sempre non morrò! dall’esecrando
Silenzio e dall’orror del vinto inferno
Incontro al ciel risorgerò cantando.

E di morte e di vita in un alterno
Fato travolto andrò risuscitando
Dalla stessa mia polve in sempiterno.
UN PENSIERO

Come un’antica belva in suo riparo,
Dentro l’anima mia,
Dov’è più fitto bujo e più silenzio,
Si nasconde un pensiero,
Più della morte angustïoso, amaro
Più dell’assenzio.

Non vide il mondo mai cosa sì scura,
Che a voler dir qual sia
Mi sento in capo brulicar le chiome
Orrido mostro e fiero,
Spettro pien di terror, senza figura
E senza nome!
ESTASI ARCANA

Il cor mi batte, l’anima mi trema:
Io sento in fondo al ciel, nell’infinita
Dello spazio immortal pace suprema
Scrosciar cantando i fonti della vita.

L’armonia prodigiosa or cresce or scema,
Di mille voci incognite nodrita,
E quando par che in suon di pianto frema,
E quando in un sonante inno rapita

Sembra d’amor. Estasi arcana! un novo
Ardor mi corre per le stanche membra
E non so dir la voluttà ch’io provo;

E di speranze antiche mi rimembra,
E fedi morte nel mio cor ritrovo,
E il gran mistero di capir mi sembra.

ESTASI AMOROSA

Sogno non è? m’intenerisce il core
Una dolcezza inusitata e schietta,
E il gelo ond’era la mia mente stretta
Si scioglie a un fiato di gentil tepore.

E nel silenzio della mia stanzetta
Odo voci cantar chiare e sonore:
Sia benedetta la virtù d’amore,
La clemenza d’amor sia benedetta!

Pace all’anima tua! dalla memoria
Sgombra il dolor; tergi le amare stille;
È giunta l’ora della tua vittoria. —

E mi par di morire, e alfin tranquille
In una immensa visïon di gloria
Chiuder ridendo l’umide pupille.
ULTIMO AMORE

I.
Era il suo primo amor, l’ultimo mio!
Gli anni senza mercè faccian lor corso,
Dieno pur nel mio cor, dieno di morso;
Esso trionferà gli anni e l’obblio.

Dolce ricordo, angustïoso e pio;
Mia suprema sciagura e mio conforto!
Meco vivrà, morrà quand’io sia morto:
Era il suo primo amor, l’ultimo mio!

II.
Di sua persona ell’era esile e sciolta,
Tutta una gentilezza ed un candore;
A volerla abbracciar solo una volta
Temuto avresti di spezzarne il fiore.

Un soave nitor di fiordaliso
Nel suo volto di vergine splendeva;
Breve e di rado l’allegrava un riso,
Ma inteneriva il cor quando rideva.

==>SEGUE
Era la fronte sua d’un velo ingombra
Di dolor consueto, intimo, arcano;
Tremar parea ne’ suoi grand’occhi l’ombra
D’alcuna cosa sospirata invano.

E spesso, senza usar d’altra favella,
Lo sguardo nell’altrui volto fissava,
Seria, sicura: l’anima cercava
Inconsciamente l’anima sorella.

E della prima volta mi rammento
Che così gli occhi nel mio volto mise:
Quando li richinò dopo un momento
Arrossì leggermente e poi sorrise.

III.
L’anima giovinetta ancor non era
liberamente nel suo fior dischiusa
E già d’una ineffabile, severa
Mestizia tutta si vedea suffusa.

Ombra d’arcane ritrosie, secreto
Antiveder di tenebrosi eventi,
Un terror della vita, un inquïeto
Senso d’inevitabili cimenti,

==>SEGUE

Di villanie codarde, ove smarrita,
Senza difesa, nell’altrui balia,
Miseramente la sua stanca vita,
Il suo povero cor sciupato avria.

IV.
Come m’amò? perché m’amò, che lesse
Sulla mia fronte impallidita e china?
Indovinò l’abisso e la ruina?
Vide nel cor le cicatrici impresse?

Vide e sentì quella che l’alme lega
Comunïon d’affetto e di pensiero?
Chi mel dirà? chi gliel dirà? mistero
È supremo d’amor, nessun lo spiega.

V.
Ma io tra me diceva: I pensier miei
Sono una landa desolata e scura;
Dove porrò, dove porrò costei
Che di gel non vi muoja e di paura?

Nel mio cor c’è la morte e l’abbandono;
Una bruciata selce, ecco il mio core!
Dove trapianterò, tristo ch’io sono,
Questo leggiadro e delicato fiore?



VI.
E un dì (come m’avvenne?) un dì m’accorsi
Di cominciare a riamar; nel petto
Sentii rifar la vita e a lunghi sorsi
Bevvi la voluttà del novo affetto.

E fui lieto e sperai! ma già da tergo
M’incalzava il destin: tremando infransi
Il mio vano pensier, ruppi l’usbergo
Delle speranze mal temprate e piansi.

VII.
Giunta la sera ch’ebbi a dirle addio,
Noi l’un dell’altro sedevamo a fronte:
Moriva il sol fra mezzo a un turbinio
Di sanguinose nubi all’orizzonte.

Pallida ell’era e fredda e sbigottita,
E tutto in un pensier l’animo assorto,
Convulsamente fra le bianche dita
Volgea non so che fior gracile e smorto,

E indietro alquanto il bel capo travolto,
Ambe le man congiunte in sui ginocchi,
Senza dir verbo mi fissava in volto
E mi beveva l’anima con gli occhi.


VIII.
Più non contemplo il suo leggiadro viso,
Più ’l dolce e schietto favellar non odo,
Più non m’allieto del soave riso,
Più del gentile suo stupor non godo;

Ma della immagin sua l’anima ho piena,
Ma del ricordo il mio pensier trabocca;
Sempre in mezzo del core ho la sua pena,
Sempre il suo nome benedetto ho in bocca.

E quando in ciel regna la notte, o quando
M’occupa un greve sonno il corpo affranto,
Come un lamento soffocato e blando
Ne’ travolti miei sogni odo il suo pianto.

IX.
Poveri versi miei, nati e cresciuti
Dove raggio di sol più non arriva,
Ben sapete s’io v’ho con la più viva
Parte di me medesimo tessuti.

Poveri versi miei, s’unqua si dia
Ch’ella oda il mesto suon che in voi si frange,
Potrà saper come si strugge e piange
Lunge da lei l’afflitta anima mia.
FIOR DI SPERANZA

Magico fior, quale ignorato, incolto
Suolo ti nutre? io ti cercai sull’erto
Giogo dell’Alpi, io ti cercai nel folto
Delle brune foreste, e in sull’aperto

Lido ove rompe immenso il mar travolto,
E sullo scoglio d’alighe coperto,
E dove più da’ turbini sconvolto
Stende le sabbie il livido deserto.

Tra rose e gigli ed umili vïole
Io ti cercai, ma indarno; onde presumo
Che te non vegga il chiaro occhio del sole.

E pur del tuo vivifico profumo
M’ansia un desio pien di leggiadre fole
In cui la vita ed il pensier consumo.



MADRE NOTTE

In principio era il bujo. O Madre Notte,
Prima, invitta, superba, ultima dea!
Quanto vive nel tuo grembo si crea,
Quanto vive nel tuo grembo s’inghiotte.

Tu pietosa e crudel, tu santa e rea,
Tu d’attonite paci empi e di lotte
Formidabili il tempo e le incorrotte
Vacuità della tua buja idea.

Con lo sdegnoso piè tu calchi i vinti
Secoli, ed il lor numero non sai,
E con gli astri la tua man si trastulla.

Tu con l’anime nostre e co’ dipinti
Nostri pensieri arabescando vai
La disperata immensità del nulla.
UMANA TRAGEDIA

Quand’io contemplo la funesta arena
In cui men perde chi più presto muore,
Asil di colpe e stanza di dolore,
Sparsa di sangue e di spavento piena;

Quando de’ casi in me, quando dell’ore
Volgo e degli anni la fatal catena,
E veggo immani sull’orribil scena
Passeggiar, biechi numi, Onta ed Errore;

D’odio, d’angoscia, di pietà, di sdegno
Sento stringermi il cor, sento più scura
Farsi la notte dello stanco ingegno;

Ed un pensiero immobile m’assedia,
E prorompo in un grido: Empia Natura,
Quanto ha mai da durar questa tragedia?

XXVIII AGOSTO MDCCCLXXX

— The rest is silence

Ho nell’anima il bujo, ho il gel nell’ossa,
Sul capo ignudo mi balena il sole:
A me davanti fra le verdi ajuole
Si spalanca una fossa.

A destra, a manca un popolo di croci,
Sulla steppa di fronte un polverio,
Nell’aria, a me d’intorno, un brontolio
Di lamentose voci.

Tronco il respir, l’occhio sbarrato e fisso,
Guardo senza pensier: fossa, che attendi?...
Oh madre, oh madre mia, sei tu che scendi
Nel disperato abisso?

O vitupero d’eterno consiglio,
O vïolenza che il pensier rivolta!
La madre morta, la madre sepolta
Sotto gli occhi del figlio!


Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
Arturo Graf
(1848-1913) e
Giacomo Leopardi (1798-1837)
_________

di Ayleen Boon
__________________
Arturo Graf, poeta marino

A differenza di Leopardi, Graf cerca il suo conforto nel mare fermandosi alla sua  superficie. Lo scrittore propone a se stesso un viaggio mentale, un viaggio verso la  morte, la quale viene impersonificata nella Medusa. Analizzerò in questo capitolo tre poesie della raccolta Medusa (1880) e studierò come nelle poesie il poeta ha descritto e  usato il suo topos.
Graf si è fatto ispirare fortemente dalle tendenze romantiche  ottocentesche e dal profondo pessimismo di Leopardi; egli cantò gli aspetti più tragici e  angosciosi della vita con una predilezione per il tema del dolore desolato, della morte e  del vuoto che cerchiamo di analizzare nelle sue poesie nel prossimo capitolo. La  posizione dell'uomo contro la natura mostra il dubbio del poeta nel capire l'universo.
Questi pensieri sono allora gli stessi come da Leopardi: tutti e due mettono la natura in  contrasto con l'uomo e vedono che l'uomo è impotente in confronto con la natura. La  differenza è che Leopardi ci riesce ancora a godere la bellezza della natura, e Graf no.  L'ultimo poeta ha fresca nella sua mente l'eruzione del Vesuvio nel 1826 e vede la  natura semplicemente come un mostro. Non ammira più, come da Leopardi, delle piante  tipiche (pensiamo alla poesie „La Ginestra., in cui ammira una tipica pianta, gialla e  forte) e dei bei colori naturali. Da Graf, i paesaggi sono sempre tetri e misteriosi; Il mare  è impenetrabile e le descrizioni della barca e il paesaggio sono infernali e squallidi.  Queste descrizioni dei paesaggi tardo-romantici evocano sentimenti di solitudine, paura  e un presagio infausto.
Graf non sempre ci riusciva a trasmettere il suo sgomento in immagini poetiche, perché  spesso bloccava la sua ispirazione e veniva preso dall'ansia di chiarire a se stesso il  destino della vita e la miseria umana. Egli era convinto che la vita era senza scopo o  significato. Neanche la fede, a cui anelava per liberarsi dai dubbi e superare il dolore, riuscì mai a calmarne l'anima e l'intelletto. Questi tipi di immagini e pensieri  presentano un allontanamento dalla fusione romantica dell'uomo e la natura ed erano  già presenti nei lavori di Leopardi: la natura non è più un testimone per l'essere del  poeta, ma una presenza indifferente e contraddittoria. La solitudine dell'uomo (e  anche di Graf) è centrale, si potrebbe dire una solitudine Leopardiana.. Lo stile poetico  di Graf rivela l'influenza del pathos malinconico dei poeti decadenti, specialmente  Baudelaire. Graf ha avuto sempre una componente malinconica, forse perché si è  trasferito continuamente e ha avuto una gioventù molto inquieta, oppure forse a causa di  una malattia psichica che bilancia con la disciplina e con lo studio. I versi giovanili   della sua raccolta Medusa (1880, prima edizione) - uno dei lavori più importanti del  poeta- ci mostrano tanti aspetti del simbolismo: la poesia è intesa come storia di eventi  spirituali ed eco di misteriosi movimenti cosmici, e questi eventi e movimenti formano  per Graf oggetti simbolici che hanno tutti un significato magico, come per esempio il  vascello fantasma che rappresenta la ricerca della verità. Per il poeta agli uomini le cose  sembrano luminose e serene ma in realtà portano distruzione e morte. Quest'ultima  faccia delle cose la si arriva a comprendere solo alla fine del percorso della conoscenza,  quando cioè si arriva a guardare la realtà nel loro essere, dunque senza qualcosa che le  nasconda: è l'annullamento dell'essere. Graf riprende spesso il tema della Medusa, la  quale è il principio di morte e pietrifica la persona che osa guardarla.
A parte le influenze romantiche e decadentistiche, la sua poesia è stata anche influenzata  dai poeti della Scapigliatura e contiene caratteristiche come la morbosità, la tristezza e  l'ironia malinconica. Graf sviluppa l'elemento malinconico sviluppato dai poeti della  Scapigliatura: le poesie di Graf sembrano essere di un carattere più serio e grave, senza  una attenuazione ironica o passaggi fortemente drammatici. Graf così genera uno stile  poetico unico che combina un mondo antico con uno moderno che sta cambiando  velocemente e armonizza le influenze del passato per esprimere la sua voce  malinconica. Per il suo periodo Graf è unico ed è avanti nel modo di trasformare le forme naturali in  immagini o simboli. Ma proprio per questo motivo, nella sua poesia l.altra caratteristica  del decadentismo, l.estetismo, viene dimenticata: i simbolisti cercavano la realtà  nascosta, il perché della vita, esprimendosi nelle sue poesie. Invece dai Decadenti  l'estetismo, la bellezza nella poesie che deve esser realizzata su tutti i fronti (forma e  contesto) senza pensare troppo ai pensieri interiori o la verità, è centrale. Graf si fa  ispirare dal pittore svizzero e simbolista Arnold Böcklin, che include nei suoi lavori  anche il tema della morte orrenda. Il decadentismo in Graf è allora molto particolare.  Ma, inaspettatamente, egli non rispetta sempre lo stile del classicismo bockliniano ma  usa anche frasi degli scrittori come Dante; Dante preferisce il pathos sopra l'estetica  nella poesia, che è una caratteristica che appartiene più al romanticismo. Quindi si  potrebbe dire che Graf non trae solo elementi da una corrente. In effetti non è proprio un  romantico perché nella poesia di Graf si tratta di quella sensibilità complicata che i  simbolisti usano per descrivere la verità: come accennato prima, i simbolisti avevano  l'idea fondamentale che sotto la realtà si nasconda una realtà più profonda e misteriosa  quindi nella poesia usano degli oggetti simbolici che hanno tutti un significato magico,  e le descrizioni dei paesaggi sono più vaghe e indefinite. Esprimono le proprie emozioni  e stati d'animo, cercando la verità nascosta della vita umana. Quindi sembra di essere un  mix. tra il Romanticismo e un Decadentismo con le caratteristiche del Simbolismo,  però senza l'elemento dell'estetica. Graf rappresenta, come Leopardi, immagini  notturne, le quali vanno dal reale all'ultraterreno e all'immagine simbolica della nave  (che simboleggia la ricerca alla verità della vita) con le vele ammainate, vagando senza  meta. Il pessimismo di Leopardi era per Graf determinato dalla lirica, da motivi  filosofici, civili: Leopardi, nel suo pessimismo, cantò gli aspetti più tragici e angosciosi  della vita con una predilezione per il tema del dolore desolato, della morte e della  natura. Egli mette in contrasto l'uomo e la natura che è anche tipico romantico come ho  spiegato prima. In Graf c'è la crisi del positivismo (una corrente nella seconda metà di  Novecento che caratterizza la positività della scienza), la coscienza della contraddizione  tra memoria delle idee e dei sentimenti, tra bello e vero, tra realtà e finzione, come in  Leopardi la crisi dell'Illuminismo.

Il ruolo del mare in Medusa e il mare come un luogo di conforto

Graf sta sempre cercando la verità, il perché. della vita. Sperando di trovarla, va spesso  ai margini di una città presso un lago (siccome si è trasferito spesso, non trovava sempre  il mare, soprattutto il suo Mare Nero), visto come luogo in cui compiere la sua ricerca  alternativa alla verità della vita. Graf usa l'acqua per riflettere; fa un viaggio mentale  guardando la superficie dell'acqua. Un viaggio, come lo fanno in realtà una barca e i  suoi marinai. Egli guarda nell'acqua e vede che essa non è ferma quindi i contorni delle  cose riflesse si muovono. Mostra le immagini dell'effimero, rivela le forme fuggitive di  cui si perde traccia.. Anche se realizza questo, trova conforto in quel luogo perché lì  può riflettere e fare questo tipo di viaggio mentale. Per di più, il lago conserva gli echi  soffocati e confusi di ciò che un tempo fu riflesso; tutte le cose e le persone che nel  corso del tempo sono passate di lì, come lui stesso ora, sono state riflesse. E il lago ne  conserva la memoria, anche se gli echi (quindi oltre a cose e persone anche voci) sono  soffocati perché è passato del tempo. Sembra che in quel momento il tempo si fermasse  lì. Cioè l'acqua non è vista solo in senso negativo (l'acqua che simboleggia la vita senza  scopo), ma anche in un certo senso positivo -per quanto possibile- perché appunto  l'acqua ha la funzione di uno specchio ed è capace di richiamare il passato.
Mentre si sedeva ai margini di un lago, pensava ad una barca, un vascello fantasma, che  simboleggia la vita dell'uomo. Graf vede la vita come un viaggio in mare, andando –in  qualunque modo- verso la morte. Per l'uomo ci sono due opzioni: naufragare, quindi  schiantarsi contro il Nulla, la qual cosa è preferita da Graf, oppure restare in una fase  come di attesa, appunto come una nave con le vele ammainate, ferma. Potremmo fare  un paragone con l'Infinito.(pubblicata nel 1826) ne I Canti di Leopardi, in cui si parla  anche del naufragare nel mare. In quella poesia il senso dell'indefinito dello spazio è la  siepe, la quale impedisce al poeta di guardare oltre il giardino e vedere cosa si trova di  fronte a lui. Per questo Leopardi si è immaginato tutti i giorni cosa potrebbe esserci  dietro di essa. Pensa all'eternità, al mondo infinito che comincia dopo la siepe ma pensa  anche al tempo passato e quello presente. La frase il naufragar m'è dolce in questo  mare. mostra il suo pensiero che tutte le cose reali naufragano nell'infinito e tutte le loro  imperfezioni sono contenute nelle perfezioni di quest'ultimo. Questo smarrirsi  nell'immensità dell'infinito è come un naufragare in un mare aperto, soltanto in questo  modo l'anima del poeta trova la sua quiete in questo immergersi nell'infinito. C'è una  differenza nell'uso di naufragare nel mare.. Entrambi realizzano che l'acqua del mare  mostra le immagini dell'effimero , che scompaiono nell'infinito del mare. Ma mentre  Leopardi si gode il momento del pensiero infinito, senza esser bloccato dalle cose reali e  godersi il momento del viaggio al passato, Graf con la sua mente più razionale, viene  rimesso con i piedi sulla terra e conclude con l'idea pessimistica che la vita sulla terra  è solo lo schantarsi contro il nulla. Anche se tendenzialmente andrebbe a schiantarsi  contro il nulla, Graf non lo fa perché ha anche una grande paura della morte e per questo  gli appare spesso la faccia di Medusa, che è simbolo di morte. Quindi la gente è  obbligata a prendere la seconda strada, a stare lì ferma con le vele ammainate. Graf non  trova quest'ultima una buona soluzione perché in questo modo la vita viene prolungata  e si è obbligati a vivere per un tempo ancora più lungo una vita noiosa; una vita senza  scopo che rovina la mentalità dell.uomo. Per di più, anche in quel modo si incontra la  morte è solo un viaggio più lento. Quindi egli disprezza l'esistenza ma l'unico modo per sopravvivere è stare lì nelle sue acque come una nave con le vele ammainate.

Conclusione

Arturo Graf è un poeta eccezionale; come Leopardi abbiamo osservato che non è  possibile inquadrare neanche Graf in una sola corrente. Cerchiamo di riassumere tutte  le diversi correnti dalle quali Graf ha preso degli elementi. Come ho detto all'inizio,  Graf scrive traendo spunti dalla poesia leopardiana; si è fatto ispirare dal profondo  pessimismo di Leopardi che appartiene al Romanticismo; egli ha cantato gli aspetti più  tragici e angosciosi della vita con una predilezione per il tema del dolore desolato, della  morte e della natura. Egli mette in contrasto l'uomo e la natura che è anche tipicamente  romantico. Graf mette in dubbio lo scopo della vita terrena. Non è solo la sua  descrizione di paesaggi desolati e cupi, ma anche l'ammirazione per poeti come Dante.  Egli usa versi della sua poesia per rendere le sue descrizioni più dolci, perché tanti  passaggi contengono un'altra atmosfera, che presenta un allontanamento dalla idea  romantica: spesso descrive la natura come un mostro con le descrizioni tetre, scure,  terribili e tristi. Come ho spiegato prima, è anche diverso da Leopardi, la natura non è  più un testimone per l'essere del poeta, ma una presenza indifferente e contraddittoria.
Una corrente che ha chiaramente influenzato Graf, è il simbolismo. Come ho detto  prima, i simbolisti avevano l'idea fondamentale che sotto la realtà si nasconda una realtà  più profonda e misteriosa quindi nella poesia usano oggetti simbolici che hanno tutti un  significato magico, le descrizioni dei paesaggi sono più vaghe e indefinite. I simbolisti  esprimono le proprie emozioni e stati d'animo, cercando la verità nascosta della vita  umana. Queste caratteristiche tornano spesso nella poesia di Graf, come abbiamo visto. Il vascello fantasma come il simbolo per la ricerca della verità, una verità più profonda e  misteriosa. L'altra e l'ultima corrente di cui ho parlato prima, è la Scapigliatura.  Caratteristiche degli Scapigliati come la tristezza, l'ironia malinconica e la morbosità  tornano nella poesia di Graf. Potrei concludere qui allora che in Graf ci sono tante  contraddizioni: tra le idee e dei sentimenti, tra il bello e il vero, tra la realtà e il sogno. 
______________________
IDEA FISSA

Un chiaro, fisso, attonito pensiero,
Sempre confitto in mezzo della mente,
Come un chiodo d’acciajo aspro e lucente
Battuto a forza in un assito nero.

Un’immobile angoscia, un insistente
Dolor che tutti i dì si fa più fiero;
Non so qual vago orror pien di mistero,
Non so che oppressïon cupa e latente.

Sempre così; fulgido il sol risplenda
Che la vita del mondo ha in sua balia,
O la notte pel ciel tetra si stenda.

Sempre così; dovunque io vada, o stia,
Checché mediti, o faccia, o dica, o intenda;
Fin tra le braccia della donna mia.


APOCALISSI

Un orrendo fragor pien di spavento
Da sommo ad imo l’anima mi fende.
Con ingente ruina il firmamento
Della mia mente s’apre e si scoscende.

Il chiaro sol che già vi fulse è spento;
Fitto d’intorno un tenebror si stende,
E per la buja immensità cruento
Un balenio di folgori s’accende.

Nembi di larve e tumide procelle
Passan di mostri in vortici ravvolte,
Pugnan sovversi i liquidi elementi.

E i miei pensier come crinite stelle
Fuori delle lor orbite travolte
Si disperdon nel nulla ai quattro venti.
I petti, cui giammai cura non presse,
Venere Cipria d’immortali infiamma
Concupiscenze: il glorioso dramma
Del ciel d’amori e di piacer s’intesse.

Vibra pel luminoso etra il tintinno
Dell’auree cetre, e via per gli echeggïanti
Peristilii, con larghe onde sonanti
Esulta e vola de’ celesti l’inno.

Sotto ai lor piè l’immensurabil spera
S’arca di terso, adamantino vetro,
Che inesorata ed inconcussa indietro
Verbera la bestemmia e la preghiera.

E braveggiando, e minacciando, in seno
Di cava nube, con orribil suono,
Urla sul capo ai Prometidi il tuono,
Guizza e corrusca il liquido baleno.


Arturo Graf – nato nel 1848 ad Atene, da padre tedesco e madre italiana, e morto nel  1913 a Torino - è un poeta eccezionale per il suo tempo: era l'unico in quel periodo che  non seguiva le tendenze del carduccianesimo. Giosué Carducci era un poeta italiano,  importante nell'Ottocento, che rappresenta nel suo lavoro temi come l'antichità classica  e la storia politica. Graf si è fatto ispirare fortemente dalle tendenze romantiche  ottocentesche e dal profondo pessimismo di Leopardi; egli cantò gli aspetti più tragici e  angosciosi della vita con una predilezione per il tema del dolore desolato, della morte e  del vuoto. La posizione dell'uomo contro la natura mostra il dubbio del poeta nel capire l'universo.  Questi pensieri sono allora gli stessi come da Leopardi: tutti e due mettono la natura in contrasto con l'uomo e vedono che l'uomo è impotente in confronto con la natura. La  differenza è che Leopardi ci riesce ancora a godere la bellezza della natura, e Graf no.  L'ultimo poeta ha fresca nella sua mente l'eruzione del Vesuvio nel 1826 e vede la  natura semplicemente come un mostro. Non ammira più, come da Leopardi, delle piante  tipiche (pensiamo alla poesia La Ginestra., in cui ammira una tipica pianta, gialla e  forte e dai bei colori naturali. Da Graf, i paesaggi sono sempre tetri e misteriosi; Il mare  è impenetrabile e le descrizioni della barca e il paesaggio sono infernali e squallidi.  Queste descrizioni dei paesaggi tardo-romantici evocano sentimenti di solitudine, paura  e un presagio infausto.
Graf non sempre ci riusciva a trasmettere il suo sgomento in immagini poetiche, perché  spesso bloccava la sua ispirazione e veniva preso dall'ansia di chiarire a se stesso il  destino della vita e la miseria umana. Egli era convinto che la vita era senza scopo o  significato. Neanche la fede, a cui anelava per liberarsi dai dubbi e superare il dolore,  riuscì mai a calmarne l'anima e l'intelletto. Questi tipi di immagini e pensieri  presentano un allontanamento dalla fusione romantica dell'uomo e la natura ed erano  già presenti nei lavori di Leopardi: la natura non è più un testimone per l'essere del  poeta, ma una presenza indifferente e contraddittoria. La solitudine dell'uomo (e anche di Graf) è centrale, si potrebbe dire una solitudine Leopardiana.. Lo stile poetico  di Graf rivela l'influenza del pathos malinconico dei poeti decadenti, specialmente  Baudelaire. Graf ha avuto sempre una componente malinconica, forse perché si è  trasferito continuamente e ha avuto una gioventù molto inquieta, oppure forse a causa di  una malattia psichica che bilancia con la disciplina e con lo studio. I versi giovanili  della sua raccolta Medusa (1880, prima edizione) - uno dei lavori più importanti del  poeta - ci mostrano tanti aspetti del simbolismo: la poesia è intesa come storia di eventi  spirituali ed eco di misteriosi movimenti cosmici, e questi eventi e movimenti formano  per Graf oggetti simbolici che hanno tutti un significato magico, come per esempio il  vascello fantasma che rappresenta la ricerca della verità. Per il poeta agli uomini le cose  sembrano luminose e serene ma in realtà portano distruzione e morte. Quest'ultima  faccia delle cose la si arriva a comprendere solo alla fine del percorso della conoscenza, quando cioè si arriva a guardare la realtà nel loro essere, dunque senza qualcosa che le  nasconda: è l'annullamento dell'essere. Graf riprende spesso il tema della Medusa, la  quale è il principio di morte e pietrifica la persona che osa guardarla. A parte le influenze romantiche e decadentistiche, la sua poesia è stata anche influenzata  dai poeti della Scapigliatura e contiene caratteristiche come la morbosità, la tristezza e  l'ironia malinconica. Graf sviluppa l'elemento malinconico sviluppato dai poeti della  Scapigliatura: le poesie di Graf sembrano essere di un carattere più serio e grave, senza  una attenuazione ironica o passaggi fortemente drammatici. Graf così genera uno stile  poetico unico che combina un mondo antico con uno moderno che sta cambiando  velocemente e armonizza le influenze del passato per esprimere la sua voce  malinconica.