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MEDUSA



IN RIVA AL MARE

Il sole in un raggiro
Di nuvoli s’è spento,
Un vapor grigio e lento
Intenebra l’empiro.

Livido, sonnolento,
Il mar si stende in giro;
Muore come un sospiro
Sull’onde pigro il vento.

Fra mare e ciel smarrito
Un bastimento anela
A sconosciuto porto.

Io guardo l’infinito
Spazio e la stanca vela,
E mi rincresce di non esser morto.

MAUSOLEO

L’anima mia solinga è un mausoleo
D’austera vista e smisurata mole;
Ancor non vide il più superbo il sole,
Ancor Morte non ebbe egual trofeo.

Nei foschi marmi non le gaje fole,
Non i bei sogni dell’ingegno acheo,
Ma in chiuse cifre e in tetri emblemi il reo
Fato è scolpito dell’umana prole.

Nel mezzo un’arca di forbito argento
Supina sta su dodici colonne
Tutte d’un nero dïamante oprate.

Piange alïando pei soppalchi il vento,
E dentro all’arca dormono tre donne,
Fede, Speranza e Carità nomate.






LIBRO TERZO
(1885 - 1889)
QUIETE LUNARE

Nel gemmeo seren del firmamento
La luna tersa, radïosa, brilla,
E gli ermi campi innonda e la tranquilla
Immensità del suo lume d’argento.

Fronda non trema, e non trafiata il vento,
Muto fra l’erbe il picciol rio sfavilla;
Un usignuolo innamorato trilla
Sopra una rama il suo dolce lamento.

In fondo al ciel due nuvolette stanche
Vanno insieme alïando, e d’un leggero
Sogno in balia mutan l’aeree forme.

Laggiù laggiù, con le sue croci bianche,
Co’ suoi negri cipressi il cimitero
Nella quiete luminosa dorme.


POLVE

Prete, lo so meglio di te: siam polve
Di poco sangue maledetto intrisa,
Grave alla terra e al ciel superbo invisa,
Che fulminando sopra noi si volve.

E il tempo mai non resta, e la derisa
Nostra progenie nel suo mar travolve,
E tutt’opere nostre e noi dissolve
Morte in suo trono d’adamante assisa.

Polve noi siam; ma in questa polve esulta
Una vampa immortal che non paventa
L’ombre d’Averno e il gelido Acheronte;

Ma il ciel trascende e folgorando insulta
Nel chiuso empiro e a divorar s’avventa
Ai lieti numi le ghirlande in fronte.
STELLUZZA

Laggiù laggiù, su quella falda estrema
Di ciel che prima innanzi al dì s’inalba,
Rasente il flutto abbrividisce e trema
Una stelluzza abbacinata e scialba.

Fosforeggia soletta, erma, perduta,
Nel più profondo d’un baratro spento;
Più solinga fiammella e più minuta
Non ha, quanto si gira, il firmamento.

Fuor della buja infinità zampilla
Perennemente il suo tremolo raggio,
E guizza, e vola, ed alla mia pupilla
Giunge sfinito pel lungo vïaggio.

Giunge alla mia pupilla e nell’oscuro
Gorgo della diserta anima scende,
E, come in prisma di forbito e puro
Cristallo, una dipinta iri v’accende.

Opalescenti albe diffonde e miti
Vesperi alla diserta anima in grembo,
E di pallide larve e di smarriti
Sogni vi desta un vaporoso nembo.
ARMATA

Navighiam, navighiam, sotto al profondo
Arco de’ cieli, entro la notte bruna,
Quanti siam vivi cui la morte aduna
Sotto le smisurate ali pel mondo.

Navighiam, navighiam, stuolo errabondo
Di delusi Argonauti alla fortuna,
Fin che tutte l’oceano ad una ad una
Le navi nostre non tranghiotta al fondo.

Navighiam, navighiam, ché ’l mar le sue
Voragini spalanca, e innanzi al vento
Fuggon stridendo le raminghe prue.

Navighiam, navighiam: la vita è corta.
Ed ogni lume su nel cielo è spento,
E dentro i cori ogni speranza è morta.

ESERCITO

Contro all’obliquo sol, nell’aer crasso,
Nere dall’aste pendon le bandiere;
Sottesso il ciel, silenzïose e nere,
Le falangi s’incalzano al trapasso.

— Compagni, avanti; accelerate il passo!
Compagni avanti; serrate le schiere!
Per monti e valli, per lande e riviere,
Procedete ordinati, a capo basso.

Un infinito popolo s’accalca
A noi da tergo, e migra ai regni bui,
Dove tutto sarà sconfitto e rotto.

A noi davanti il Capitan cavalca,
Il negro Capitan che accenna altrui
Con la scarnata man senza far motto.
UCCELLO ERRABONDO

Triste uccello errabondo
Il mio spirito vaga
Dall’una all’altra piaga,
Peregrino del mondo.

Le terre e i mari indaga,
Esplora il ciel profondo,
E di nulla è giocondo,
E di nulla s’appaga.

Ei vola notte e giorno,
Gettando in alto, intorno,
Il suo querulo grido.

Dall’uno all’altro polo
Vola ansïoso e solo,
E mai non giunge al nido.


FANCIULLO

Già di mia vita affaticata io premo
La china, e pur sempre un fanciul rimango,
Triste fanciullo e di giudizio scemo,
Che le stelle vagheggia e aborre il fango.

Dietro a vani pensier l’anima stremo,
E il core in disperati impeti affrango;
Per un raggio di sol palpito e fremo,
Pel suon d’un verso abbrividisco e piango.

E quanti ha il mondo e tenebre e splendori
E mutevoli aspetti e forme erranti,
Si dipingon nell’egra anima mia.

E quanti ha il mondo gemiti e clamori
E sospiri e singhiozzi e rugghi e schianti,
Suonano nel mio core in agonia.

MORTE GUERRIERA

Mentr’io giva l’altrier per la foresta,
Mi vidi a tergo galoppar la Morte;
Venia di sbieco e galoppava forte,
Col brando in pugno e la corona in testa.

Inforcava un caval di negro pelo
Che per le nari mettea fumo e vampe;
Scagliava i crini al vento e con le zampe
Faceva volar stipule e bronchi al cielo.

Quand’io vidi venir quella ruina
Stetti com’uom che nullo schermo adopra,
E in un batter di ciglio ecco m’è sopra
La guerriera del mondo e la regina.

Ma in quella che l’acciar di sangue intriso
Già sul capo mi leva e il colpo mena,
Sostien l’arido braccio, il caval frena,
E mi ficca le cave orbite in viso.

E ghigna e grida: «O tu che non ischivi
I colpi, e mostri di morir desio,
Ti raccomanda a Satanasso o a Dio;
Non aspettar da me tal grazia: vivi!».

Mi ributta col gomito e sghignazza,
E nel ventre al caval figge gli sproni;
Sfolgora per dirupi e per burroni,
E quanti incontra in suo cammin stramazza.
STRIGE

Sulle squallide mura
D’una chiesa in rovina
Si posa a notte scura
Una strige indovina,

E in voce di sciagura
Di cantar non rifina
La mia morte immatura,
La mia morte vicina.

Io di mia vita il tedio
E le fosche vicende
Vo ripensando intanto;

E l’oscuro epicedio
Più dolce in cor mi scende
Che d’usignuolo innamorato il canto.

TRAMONTO TRAGICO

Come un antico gladiator morente
Il sol procombe, e dall’estremo lembo
Del ciel, sbarrando la pupilla ardente,
Al glauco flutto si trabocca in grembo.

Accatervate nubi fumolente
Gli fanno in giro di minacce un nembo;
Egli col raggio tremolo e rovente
Ancor le fiede saettando a sghembo.

Un lividor di nebbie e di paura
Via pel ciel, su pel mar si stende a volo,
S’abbruna il mondo della gran sciagura.

Immane uccel di preda, orrida, scura,
Dall’algid’Orsa e dall’immobil polo
Piomba la notte in grembo alla natura.
PENSIERO AVVOLTOJO

Tu che con sibilante ala l’orrore
E i silenzii del voto etra scompigli,
Tenebroso pensier, bieco avvoltore,
Dal curvo rostro e dai ferrati artigli;

Tu, quando in ciel volgon più buje l’ore,
E ingombra il sonno della creta i figli,
Su me fulmineo piombi e m’arroncigli
La stanca mente e l’angosciato core.

L’adunco artiglio nel mio sangue intridi,
L’acuto rostro dentro il cor mi vibri,
Mi dilanii e mi scerpi e non m’uccidi.

E quando il sol squarcia alla notte il velo,
Sopra le smisurate ali ti libri
E lentamente ti dilegui in cielo.



LA FINE E IL FONDO

Sulle mie labbra avvelenate il riso
Per sempre inaridì; le dilettose
E pie menzogne che fiorîr nascose
Dentro il mio core hanno il mio core ucciso.

Invan tra ’l verde s’accendon le rose,
Invan raggia d’amore un dolce viso,
Invano il sol sfolgora il ciel conquiso;
Il fondo io vidi e la fin delle cose.

La fine e il fondo io vidi e il sempre e il mai;
E all’amara tua coppa, a fronte prona,
O sacra Morte, ancor vivo libai.

Sfasciarsi i mondi negli spazii io scerno,
E l’oriuol del tempo odo che tuona
L’ore nel vuoto e i secoli in eterno.

ROMANZA ESILE

I.
Fumida e tonda
Fuori dell’onda
La luna appar,

E obliqua versa
La mal detersa
Luce sul mar.

Con le spiegate
Vele innalzate
Nel glauco ciel,

Visïon bruna
Sotto la luna
Passa un vascel.

Molle di pianto
Tremando un canto
Da bordo vien,

E lento lento
Lo spande il vento
Via pel seren:
==>SEGUE

— O mia diletta,
Come soletta
Resti laggiù!

O amor supremo,
Non ci vedremo
Mai più, mai più.

II.
Stemprata e scialba
Si spande l’alba
Nel freddo ciel;

Il fior del prato
Trema assonnato
Sovra lo stel.

A un faggio in vetta
La lodoletta
Trillando va;

Geme e si lagna
Per la compagna
Che più non ha.

==>SEGUE
Dal sonno desta
In cui la mesta
Cura sopì,

L’innamorata
Fanciulla guata
Nel novo dì.

Pensa il saluto
Scorato e muto
Del suo fedel,

E in uno schianto
Rompe di pianto
Guardando il ciel.
MAI PIÙ

Mai più, mai più non la vedrò: la bella
Innamorata immagin di colei
Che al procelloso viver mio fu stella
In eterno sparì dagli occhi miei.

Più di quel crin le luminose anella
Non bacerò, transumanato in lei;
Più non udrò quella dolce favella
Che tutti in me spegneva i pensier rei.

Mai più, mai più! di gigli e di vïole
Son vedovati i campi, e sonnolenta
Sulla terra e sul mar l’aria ristagna.

Mai più, mai più! trascolorato il sole
Agonizza ne’ cieli, e in una spenta
Vacuità l’anima mia si lagna.

SEMPRE PIÙ SCOLORITA

Sempre più scolorita,
Sempre più fredda e vile,
La mia povera vita
Muore di mal sottile.

Segue al verno l’aprile,
Che ai dolci sogni invita,
E mai non muta stile
La mia povera vita.

Ahi, come lente, uggiose
L’ore, i dì foschi e soli!
Ahimè, come m’annojo!

Rifioriscon le rose,
Cantano gli usignuoli,
E di tristezza io muojo.
SOGNO

Sempre mi torna come un sogno in mente
Una sera d’està, dolce e serena,
Un poggio, un bosco, una pianura amena,
Distesa in giro interminabilmente.

In uno sfondo di mirabil scena
Cadea, cinto di nubi, il sol rovente;
Vaporavano i campi, e la fremente
Brezza auliva di spigo e di verbena.

D’una fanciulla innamorata il canto
Venia da lungi, e que’ teneri lai
Di dolcezza m’empieano il core affranto.

Sempre mi torna il luminoso e blando
Sogno alla mente, né potrò giammai
Saper dov’io l’abbia sognato e quando.
NULLA

Sole, padre fecondo,
Il tuo favor dispensa,
Illumina l’immensa
Stupidità del mondo.

E tu, di vie più densa
Notte smarrito in fondo,
Spirito fremebondo,
Sogna, spasima, pensa.

Sogna, nel bujo immerso,
E, mondi ignoti e dei
Sognando, ti trastulla.

Un sogno è l’universo,
Ed un sogno tu sei,
E l’infinito è nulla.
CENERE

Fredda polve in angusta urna rinchiusa,
Il tuo nome qual fu? chi fosti viva?
Forse un protervo eroe? forse una schiva
Fanciulla amante e dall’amor delusa?

O vate che in sonanti inni profusa
L’anima ai venti e al sordo ciel largiva?
O scioperato illustre a cui poltriva
Nell’infingardo cor l’anima ottusa?

E che giova saperlo? o cener spento,
T’invita il sol! di questo carcer fuori
Esula ormai, vola in balia del vento.

Caldo e fremente di novelli ardori,
Rientra e pugna nel vital tormento,
Rinasci senza fin, vivi, rimuori.

LE VERGINI MORTE

Sotto il mite baglior della luna
Il lago sfavilla;
La campagna d’intorno s’impruna,
Deserta, tranquilla.

Come nebbia, nel liquido grembo
Dell’aria che dorme,
Si raccoglie, s’agglomera un nembo
Di gracili forme.

Sono larve di donne ravvolte
In candide stole,
Infiorate le chiome disciolte
Di gigli e vïole.

Splendon gli occhi nei pallidi visi
Siccome monili,
Si dischiudon le labbra sottili
A strani sorrisi.

Son fanciulle che intatto alla Notte
Dimisero il fiore,
E morîr, disperate incorrotte,
Sognando l’amore.
==>SEGUE


Qual da tacito soffio sospinte,
Si prendon per mano,
E fugaci, leggiere, discinte,
Trasvolan pel piano.

Si distendono in riga, si accolgono
Fluendo, in volute
Serpentine per l’aria s’avvolgono,
Estatiche, mute.

Come spuma di lente cascate
Discendon nei cupi,
Come nuvole bianche d’estate
Coronan le rupi.

E se scontran, menando lor balli,
Smarrito garzone,
Via per campi, per monti, per valli,
Lo traggon prigione.

Ed ai lombi gli avventano, al petto
Le braccia rapaci,
E lo spirto, premendolo stretto,
Gli bevon coi baci. —


==>SEGUE
Quando sfolgora il sol dell’aperto
Levante la soglia,
Vede stesa sul campo deserto
L’esanime spoglia.

MALEDIZIONE

O tenebroso di mia mente intrico,
O inferno ove per sempre io mi dannai,
Ti maledico; d’ogni ben tu m’hai,
Tu m’hai d’ogni virtù fatto mendico.

Sciagurato mio cor, tu che nemico
Sempre mi fosti, e che di pace mai
Un giorno, un’ora pur non mi darai,
Sciagurato mio cor, ti maledico.

E maledico te, vano, superbo
Lusingator di mia sterile vita,
Sogno fatal che di desio m’asseti.

E te, che stremi di mia vita il nerbo,
Squillante rima, e nel bujo smarrita,
L’angoscia che m’uccide invan ripeti.


BENEDIZIONE

O morbi esizïali, o stuolo amico,
Che circuendo vai le nostre porte,
Ti benedico; in noi tu della sorte
Il danno cessi ed il ludibrio antico.

Vorticoso tifon, tu che all’aprico
Deserto imperi, e sull’erranti scorte,
Ululando, il terror soffii e la morte,
Vorticoso tifon, ti benedico.

E benedico te, voraginoso
Mare sterminator, che mai da quando
Ti vede il sol non avesti riposo.

E te, foco divin, ch’ebbro t’avventi,
Sfolgori, incenerisci, ed esultando
Il fumo sperdi e le faville ai venti.
Arturo Graf - MEDUSA - Libro III
UCCELLI MIGRATORI

Si leva incontro al ciel l’immane scoglio
Ignudo e del color della lavagna;
Tutto intorno la verde onda lo bagna,
Fiotta e si frange con cupo gorgoglio.

Io, dalla cima a cui pensoso incombo,
Guardo del mar la solitudin vasta,
E il cinereo ciel che gli sovrasta
Come un’immensa cupola di piombo.

Là da ponente lacera una cruda
Lingua di fuoco i nugoli profondi,
Rade l’orlo dell’acque, e par che a mondi
Ignoti un luminoso adito schiuda.

Una solinga e tenebrosa vela
Appar come in un sogno entro a quel foco;
Che si mova non sembra, e a poco a poco
Scema e nella supina onda si cela.

Sotto la nube grigia e solitaria
Passa di bianchi uccelli un largo stuolo,
Passa obliquo e sublime, a lento volo,
Con tacit’ale flagellando l’aria.
==>SEGUE



— Aerei naviganti, o voi che andate
Cercando a volo la celeste rota,
Chi siete? e a quale incognita, remota
Piaga il vïaggio col desio drizzate?

— Noi siamo i tuoi pensier teneri e gai,
Le tue speranze, i sogni tuoi noi siamo:
Dal tuo povero cor ci dipartiamo,
E in avvenir mai più non ci vedrai. —

Volan sempre più su, sempre più su,
Volan verso ponente, e ancor da lunge
Fioco per l’aria il lor grido mi giunge:
Mai più non ci vedrai, mai più, mai più.
INFERNO

L’anima disperata e fremebonda
Ch’io sono e ch’io sarò, credo, in eterno,
È una cieca voragine profonda,
È un procelloso, inespugnato inferno;

Ove, nel bujo che tutto circonda,
Cozzano senza fin, con moto alterno,
Come in travolto mare onda contr’onda,
L’odio, l’amore, la pietà, lo sdegno.

Quivi, in mezzo al perpetuo conflitto,
E al ruinar dell’anime dannate,
Un immobile sta Satana invitto.

Di fuor, tra bieche nuvole squarciate,
Sopra la porta maledetta è scritto:
Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate.


CUORE STRANO

Il mio povero core
Ha una natura strana,
Non so dir se migliore,
O peggior dell’umana.

Ferito, esso non muore,
Ma più non si risana,
Vive col suo dolore,
Ed ogni cura è vana.

Mutan speranze e inganni
Quali in campo le spiche,
Ma il suo mal più non langue.

Passano i mesi e gli anni,
E le ferite antiche
Nel silenzio dan sangue.

MORTE REGINA

Diritta al ciel, di mezzo al mar sonante,
Una montagna smisurata sale,
Negra nel baglior vasto siderale,
Fatta di mura di cittadi infrante.

Sull’erta cima, incontro al sol raggiante,
Sfolgora glorïoso e trïonfale
Un tempio che la cupola ha d’opale
E le colonne immani d’adamante.

Rotondo è il tempio e d’ogni banda aperto,
Ed ha nel mezzo un trono alto e rotondo
Di tenebrosa porpora coverto.

E in mezzo ai tempio, e sull’immobil trono,
Siede la morte coronata e il mondo
Guata all’ingiro soggiogato e prono.
NON PIANGERE

Non pianger, no; s’io muojo, e tu vivrai,
Di gioventù fiorente e di bellezza,
E il breve duol nel riso e nell’ebbrezza
D’un più felice amor consolerai.

Amori e vite e rimembranze, il sai,
Urta col piè la negra morte e spezza
Inesorabilmente, e gran stoltezza
È il pianger sempre e non chetarsi mai.

Io giacerò soletto in camposanto,
Sognando ancor sotto alle zolle e all’erba
I tuoi grand’occhi, i tuoi capelli d’oro.

Tu lieta gli anni tuoi vivrai frattanto,
Ed a me ripensando andrai superba
Di tua beltà che pur morendo adoro.
PICCIOL LAGO ROTONDO

Picciol lago rotondo,
Che in solitaria altura,
Fra i sassi e la verzura
Dormi terso e profondo;

Salve! Di te non cura
L’affaccendato mondo;
Tu riposi giocondo
In tua quiete oscura.

Io, di negri pensier l’anima ingombra,
Seggo dove più tace
Sulla tua riva l’ombra,

E mi punge un desio
Di finir nella pace
Del tuo gelido grembo il dolor mio.
PENSIER CHE MATURA

Dentro l’anima mia, dove più scura
La notte incombe e più s’accupa il voto,
Separato dal mondo, al mondo ignoto,
Un orrendo pensier cresce e matura;

Simile a frutto di letal natura,
Che in fosca valle, sotto a ciel remoto,
Dall’aer pigro e dal putrido loto
Sugge d’amari toschi atra mistura.

Cresce e matura il rio pensier nell’ombra
Tacitamente, e a poco a poco tutto
Di sé l’esterrefatto animo ingombra.

E già s’appressa il di, già scocca l’ora,
Che del veleno onde l’orribil frutto
S’impregna e turge converrà ch’io mora.
INVANO, INVANO, INVANO

Se i miei pensieri in trama
Laborïosa allaccio,
Se di sopita brama
Eccitator mi faccio,

Se onor vagheggio e fama,
Se neghittoso giaccio,
Se riamo chi m’ama,
Se favello, se taccio;

Se, qual pavida e muta
Fiera che il bracco snida,
Fuggo al monte od al piano;

Sempre una voce acuta
Nell’orecchio mi grida:
Invano, invano, invano!

I DÈMONI E LA CROCE

Sull’erta cuspide, nella tranquilla
Alba lunare,
Diritta, immobile, la salutare
Croce sfavilla.

Da cinque secoli salda si drizza
Sopra quel culmine,
Sfidando il turbine, sfidando il fulmine
Che intorno guizza.

Ecco, per l’aere silenzïoso,
Con sordo mugolo,
Di foschi spiriti s’avventa un nugolo
Vertiginoso.

Nembo di démoni arrovellati,
Di ferrei magli,
Di adunchi forcipi, di gran battagli
Bronzei armati.

In largo vortice prima il veloce
Nodo sparpagliano,
Poi con orribile ringhio si scagliano
Contro la croce.
==>SEGUE
— Cozzate, o spiriti, l’odiato regno
Vogliam dissolvere:
Giù da quest’apice, giù nella polvere
L’infausto segno. —

Infuria l’opera; squassan, percotono,
Svelgono a gara;
Di rugghii assordano la notte chiara,
La terra scotono.

Le spranghe ferree sotto l’immane
Sforzo si spiombano;
Commosse tremano, fremono, rombano
Giù le campane.

— Cozzate, o spiriti, l’odiato regno
Vogliam dissolvere:
Giù da quest’apice, giù nella polvere
L’infausto segno. —

Infuria l’opera; l’aspro metallo
Percosso squilla;
La croce trepida, balza, vacilla
Sul piedestallo.

==>SEGUE

Ma già le vitree porte s’allumano
Dell’Orïente;
La croce e i dèmoni tacitamente
Nell’aria sfumano.

Tingono eteree rose e vïole
I cieli roridi;
Sull’acque nitide, sui campi floridi
Sfolgora il sole.
DRAMMA INTERNO

Un curioso e sconosciuto drama
Dentro l’anima mia si rappresenta,
Un drama di fattura vïolenta,
D’irto soggetto e inestricabil trama.

Molti e varii gli attor: questi s’avventa,
Quei fugge; tace l’un, l’altro declama:
L’azïon s’inviluppa e si dirama,
Or veloce e serrata, or sciolta e lenta.

Muta la scena: una deserta e brulla
Pianura, un fosco mare in traversia,
Una vasta ruina, un bujo inferno.

Io muto guardo e ascolto, e non discerno
Se tragedia o commedia il drama sia,
E non v’intendo un maledetto nulla.
EPIFONEMA

Degno d’invidia e virtuoso e saggio
Chi dalla morte fu strozzato in cuna,
E sprofondò nel nulla, e insiem l’oltraggio
E il favore cessò della fortuna;

Né seppe di che triboli s’impruna
Ai vivi questo inutile viaggio,
Né contò le miserie una per una
Che van del sole maturando al raggio.

Non patì, non peccò; vana baldanza
Non chiuse in cor, né seguitò con vani
Passi il vano baglior della speranza;

Né conobbe, maggior d’ogni dolore
Che affatichi ed affranga i petti umani,
Il disperato spasimo d’amore.
NINFEA

Un soave mattin di primavera,
Un luminoso ciel come di seta,
Su per il monte l’antica pineta
Immobilmente taciturna e nera.

E in vetta al monte, dove più secreta
La foresta s’addensa e più severa,
Chiusa in angusto margine una spera
Di lucid’acqua ammalïata e cheta.

E solitaria, in mezzo al trasparente
Vetro dell’acqua, una bianca ninfea,
Che nel riso del sole apresi ignuda;

Come un sogno d’amor vivo e fiorente,
Che al radïar d’una superna idea
Nel sen di verginale alma si schiuda.

È MORTA LA VITA

L’ora suprema incombe,
Son mature le sorti,
La progenie dei forti
Morituri procombe.

O angeliche coorti,
Squillate pur le trombe,
Non v’odono le tombe,
Non si destano i morti.

Vedete? è un cimitero
Vasto, silenzioso,
La terra isterilita.

Simile a un drappo nero
Pende il ciel tenebroso,
Ed è morta la vita.

BELLEZZA

I.
O tu che vivi e regni, e del giocondo
Tuo riso irradii il ciel, la terra allieti;
Tu che di casti ardori irrequïeti
Accendi alla natura il sen fecondo;

Tu che le solitarie anime asseti;
Tu che innebbrii ed angosci il cor profondo,
Pura fiamma vital, luce del mondo,
Sogno d’innamorati e di poeti;

O santa, inviolabile bellezza,
Dacché con gli occhi e col pensier ti vidi
Mia dolce brama, mia soave ebbrezza;

Io rido e fremo e piango ove tu ridi;
Io languo e muojo della tua carezza;
Tu m’avvampi d’amore e tu m’uccidi.
II.
In queste membra mie chiuse natura
Un rïottoso spirito superbo,
A lei nemico ed a se stesso acerbo,
Nato per propria e per altrui sciagura;

Che menzogna raccolta in sacro verbo,
E falsi numi, e stolti onor non cura,
E a quanto il volgo affascina o spaura
Di sua forte ragion non piega il nerbo.

Ma te, bellezza, te, dolce signora,
Per quanto ciel, per quanta terra alluma
Il pianeta maggior, te sola adora;

E come più s’invola il tempo e sfuma
La speranza gentil, più s’innamora,
Più di desio s’accende e si consuma.
GHIRIBIZZO

Un desiderio antico
Nell’anima mi cova,
E sempre nell’intrico
De’ sogni miei rispunta e si rinnova.

Nulla in esso si trova
D’iniquo o d’impudico;
È una voglia un po’ nova,
Null’altro, un ghiribizzo: or ve lo dico.

Vorrei, quando la messe
A raccoglier s’affretta
Sugli arsi campi il mietitor sfinito,

Vorrei che mi cogliesse
In capo una saetta,
E mi lasciasse lì morto stecchito.



EPITAFIO

Quando morto io sarò non mi piangete,
Non gittate per me fiori né preci;
Riti io non vo’ né latini né greci,
Né scampanio, né strascico, né prete.

Né vo’ discorsi: il ben ch’io mai non feci,
Le sovrumane mie virtù segrete,
Non istate a lodar; non concludete:
Egli era un uom che ne valeva dieci.

Ma portatemi dritto al cimitero,
E in una buca, tramontato il sole,
Fatemi ruzzolar come vi piace.

Poi sopra uno scheggion di marmo nero
Scrivete queste semplici parole:
CHI MAI NON L'EBBE FINALMENTE HA PACE.

MORTE MIETITRICE

Nell’immensa del sol luce gioconda
Sparsi pei clivi ridono i vigneti,
Ridono i campi cui la messe abbonda:
O Morte, arrota la tua falce e mieti.

Florida messe avrai, florida e bionda:
Vergini innamorate, e baldi e lieti
Garzoni, e spose cui l’amor feconda,
Pargoli ignudi e gracili poeti.

Mieti, Morte, e col frutto abbiti il fiore;
Mieti la messe che per te matura,
Mieti la gioventù, mieti l’amore.

Mieti, Morte, me pur, prima che il gelo
Degli anni curvi sulla gleba oscura
Della mia vita lo sfrondato stelo.
L’ABETE SOLITARIO

Dalla trachite eccelsa, vestito di gramaglia,
Il solitario abete smisurato si scaglia
Siccome un dardo nel profondo ciel;
Tutto solo dell’Alpe sulla pendente balza,
Dove più furïosa la tramontana incalza,
Dove più morde nel silenzio il gel.

Sott’esso uno sgomento di traboccate rupi,
D’irte lacche; di baratri caliginosi e cupi,
E un confuso di prone arbori stuol;
Sopr’esso in luminoso giro l’etere immenso
E le nuvole bianche via per l’azzurro intenso
E sfolgorante nell’azzurro il sol.

Lontan, nella bassura, il solitario abete
Vede colli ubertosi, vede pianure liete
Di messi e d’acque, di paschi e di fior;
Vede come sognando, e tra le selci ignude,
In sua triste gramaglia più rigido si chiude,
Muto, superbo, nell’alpino algor.

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
Arturo Graf
(1848-1913) e
Giacomo Leopardi (1798-1837)
_________

di Ayleen Boon
__________________
Arturo Graf, poeta marino

A differenza di Leopardi, Graf cerca il suo conforto nel mare fermandosi alla sua  superficie. Lo scrittore propone a se stesso un viaggio mentale, un viaggio verso la  morte, la quale viene impersonificata nella Medusa. Analizzerò in questo capitolo tre poesie della raccolta Medusa (1880) e studierò come nelle poesie il poeta ha descritto e  usato il suo topos.
Graf si è fatto ispirare fortemente dalle tendenze romantiche  ottocentesche e dal profondo pessimismo di Leopardi; egli cantò gli aspetti più tragici e  angosciosi della vita con una predilezione per il tema del dolore desolato, della morte e  del vuoto che cerchiamo di analizzare nelle sue poesie nel prossimo capitolo. La  posizione dell'uomo contro la natura mostra il dubbio del poeta nel capire l'universo.
Questi pensieri sono allora gli stessi come da Leopardi: tutti e due mettono la natura in  contrasto con l'uomo e vedono che l'uomo è impotente in confronto con la natura. La  differenza è che Leopardi ci riesce ancora a godere la bellezza della natura, e Graf no.  L'ultimo poeta ha fresca nella sua mente l'eruzione del Vesuvio nel 1826 e vede la  natura semplicemente come un mostro. Non ammira più, come da Leopardi, delle piante  tipiche (pensiamo alla poesie „La Ginestra., in cui ammira una tipica pianta, gialla e  forte) e dei bei colori naturali. Da Graf, i paesaggi sono sempre tetri e misteriosi; Il mare  è impenetrabile e le descrizioni della barca e il paesaggio sono infernali e squallidi.  Queste descrizioni dei paesaggi tardo-romantici evocano sentimenti di solitudine, paura  e un presagio infausto.
Graf non sempre ci riusciva a trasmettere il suo sgomento in immagini poetiche, perché  spesso bloccava la sua ispirazione e veniva preso dall'ansia di chiarire a se stesso il  destino della vita e la miseria umana. Egli era convinto che la vita era senza scopo o  significato. Neanche la fede, a cui anelava per liberarsi dai dubbi e superare il dolore, riuscì mai a calmarne l'anima e l'intelletto. Questi tipi di immagini e pensieri  presentano un allontanamento dalla fusione romantica dell'uomo e la natura ed erano  già presenti nei lavori di Leopardi: la natura non è più un testimone per l'essere del  poeta, ma una presenza indifferente e contraddittoria. La solitudine dell'uomo (e  anche di Graf) è centrale, si potrebbe dire una solitudine Leopardiana.. Lo stile poetico  di Graf rivela l'influenza del pathos malinconico dei poeti decadenti, specialmente  Baudelaire. Graf ha avuto sempre una componente malinconica, forse perché si è  trasferito continuamente e ha avuto una gioventù molto inquieta, oppure forse a causa di  una malattia psichica che bilancia con la disciplina e con lo studio. I versi giovanili   della sua raccolta Medusa (1880, prima edizione) - uno dei lavori più importanti del  poeta- ci mostrano tanti aspetti del simbolismo: la poesia è intesa come storia di eventi  spirituali ed eco di misteriosi movimenti cosmici, e questi eventi e movimenti formano  per Graf oggetti simbolici che hanno tutti un significato magico, come per esempio il  vascello fantasma che rappresenta la ricerca della verità. Per il poeta agli uomini le cose  sembrano luminose e serene ma in realtà portano distruzione e morte. Quest'ultima  faccia delle cose la si arriva a comprendere solo alla fine del percorso della conoscenza,  quando cioè si arriva a guardare la realtà nel loro essere, dunque senza qualcosa che le  nasconda: è l'annullamento dell'essere. Graf riprende spesso il tema della Medusa, la  quale è il principio di morte e pietrifica la persona che osa guardarla.
A parte le influenze romantiche e decadentistiche, la sua poesia è stata anche influenzata  dai poeti della Scapigliatura e contiene caratteristiche come la morbosità, la tristezza e  l'ironia malinconica. Graf sviluppa l'elemento malinconico sviluppato dai poeti della  Scapigliatura: le poesie di Graf sembrano essere di un carattere più serio e grave, senza  una attenuazione ironica o passaggi fortemente drammatici. Graf così genera uno stile  poetico unico che combina un mondo antico con uno moderno che sta cambiando  velocemente e armonizza le influenze del passato per esprimere la sua voce  malinconica. Per il suo periodo Graf è unico ed è avanti nel modo di trasformare le forme naturali in  immagini o simboli. Ma proprio per questo motivo, nella sua poesia l.altra caratteristica  del decadentismo, l.estetismo, viene dimenticata: i simbolisti cercavano la realtà  nascosta, il perché della vita, esprimendosi nelle sue poesie. Invece dai Decadenti  l'estetismo, la bellezza nella poesie che deve esser realizzata su tutti i fronti (forma e  contesto) senza pensare troppo ai pensieri interiori o la verità, è centrale. Graf si fa  ispirare dal pittore svizzero e simbolista Arnold Böcklin, che include nei suoi lavori  anche il tema della morte orrenda. Il decadentismo in Graf è allora molto particolare.  Ma, inaspettatamente, egli non rispetta sempre lo stile del classicismo bockliniano ma  usa anche frasi degli scrittori come Dante; Dante preferisce il pathos sopra l'estetica  nella poesia, che è una caratteristica che appartiene più al romanticismo. Quindi si  potrebbe dire che Graf non trae solo elementi da una corrente. In effetti non è proprio un  romantico perché nella poesia di Graf si tratta di quella sensibilità complicata che i  simbolisti usano per descrivere la verità: come accennato prima, i simbolisti avevano  l'idea fondamentale che sotto la realtà si nasconda una realtà più profonda e misteriosa  quindi nella poesia usano degli oggetti simbolici che hanno tutti un significato magico,  e le descrizioni dei paesaggi sono più vaghe e indefinite. Esprimono le proprie emozioni  e stati d'animo, cercando la verità nascosta della vita umana. Quindi sembra di essere un  mix. tra il Romanticismo e un Decadentismo con le caratteristiche del Simbolismo,  però senza l'elemento dell'estetica. Graf rappresenta, come Leopardi, immagini  notturne, le quali vanno dal reale all'ultraterreno e all'immagine simbolica della nave  (che simboleggia la ricerca alla verità della vita) con le vele ammainate, vagando senza  meta. Il pessimismo di Leopardi era per Graf determinato dalla lirica, da motivi  filosofici, civili: Leopardi, nel suo pessimismo, cantò gli aspetti più tragici e angosciosi  della vita con una predilezione per il tema del dolore desolato, della morte e della  natura. Egli mette in contrasto l'uomo e la natura che è anche tipico romantico come ho  spiegato prima. In Graf c'è la crisi del positivismo (una corrente nella seconda metà di  Novecento che caratterizza la positività della scienza), la coscienza della contraddizione  tra memoria delle idee e dei sentimenti, tra bello e vero, tra realtà e finzione, come in  Leopardi la crisi dell'Illuminismo.

Il ruolo del mare in Medusa e il mare come un luogo di conforto

Graf sta sempre cercando la verità, il perché. della vita. Sperando di trovarla, va spesso  ai margini di una città presso un lago (siccome si è trasferito spesso, non trovava sempre  il mare, soprattutto il suo Mare Nero), visto come luogo in cui compiere la sua ricerca  alternativa alla verità della vita. Graf usa l'acqua per riflettere; fa un viaggio mentale  guardando la superficie dell'acqua. Un viaggio, come lo fanno in realtà una barca e i  suoi marinai. Egli guarda nell'acqua e vede che essa non è ferma quindi i contorni delle  cose riflesse si muovono. Mostra le immagini dell'effimero, rivela le forme fuggitive di  cui si perde traccia.. Anche se realizza questo, trova conforto in quel luogo perché lì  può riflettere e fare questo tipo di viaggio mentale. Per di più, il lago conserva gli echi  soffocati e confusi di ciò che un tempo fu riflesso; tutte le cose e le persone che nel  corso del tempo sono passate di lì, come lui stesso ora, sono state riflesse. E il lago ne  conserva la memoria, anche se gli echi (quindi oltre a cose e persone anche voci) sono  soffocati perché è passato del tempo. Sembra che in quel momento il tempo si fermasse  lì. Cioè l'acqua non è vista solo in senso negativo (l'acqua che simboleggia la vita senza  scopo), ma anche in un certo senso positivo -per quanto possibile- perché appunto  l'acqua ha la funzione di uno specchio ed è capace di richiamare il passato.
Mentre si sedeva ai margini di un lago, pensava ad una barca, un vascello fantasma, che  simboleggia la vita dell'uomo. Graf vede la vita come un viaggio in mare, andando –in  qualunque modo- verso la morte. Per l'uomo ci sono due opzioni: naufragare, quindi  schiantarsi contro il Nulla, la qual cosa è preferita da Graf, oppure restare in una fase  come di attesa, appunto come una nave con le vele ammainate, ferma. Potremmo fare  un paragone con l'Infinito.(pubblicata nel 1826) ne I Canti di Leopardi, in cui si parla  anche del naufragare nel mare. In quella poesia il senso dell'indefinito dello spazio è la  siepe, la quale impedisce al poeta di guardare oltre il giardino e vedere cosa si trova di  fronte a lui. Per questo Leopardi si è immaginato tutti i giorni cosa potrebbe esserci  dietro di essa. Pensa all'eternità, al mondo infinito che comincia dopo la siepe ma pensa  anche al tempo passato e quello presente. La frase il naufragar m'è dolce in questo  mare. mostra il suo pensiero che tutte le cose reali naufragano nell'infinito e tutte le loro  imperfezioni sono contenute nelle perfezioni di quest'ultimo. Questo smarrirsi  nell'immensità dell'infinito è come un naufragare in un mare aperto, soltanto in questo  modo l'anima del poeta trova la sua quiete in questo immergersi nell'infinito. C'è una  differenza nell'uso di naufragare nel mare.. Entrambi realizzano che l'acqua del mare  mostra le immagini dell'effimero , che scompaiono nell'infinito del mare. Ma mentre  Leopardi si gode il momento del pensiero infinito, senza esser bloccato dalle cose reali e  godersi il momento del viaggio al passato, Graf con la sua mente più razionale, viene  rimesso con i piedi sulla terra e conclude con l'idea pessimistica che la vita sulla terra  è solo lo schantarsi contro il nulla. Anche se tendenzialmente andrebbe a schiantarsi  contro il nulla, Graf non lo fa perché ha anche una grande paura della morte e per questo  gli appare spesso la faccia di Medusa, che è simbolo di morte. Quindi la gente è  obbligata a prendere la seconda strada, a stare lì ferma con le vele ammainate. Graf non  trova quest'ultima una buona soluzione perché in questo modo la vita viene prolungata  e si è obbligati a vivere per un tempo ancora più lungo una vita noiosa; una vita senza  scopo che rovina la mentalità dell.uomo. Per di più, anche in quel modo si incontra la  morte è solo un viaggio più lento. Quindi egli disprezza l'esistenza ma l'unico modo per sopravvivere è stare lì nelle sue acque come una nave con le vele ammainate.

Conclusione

Arturo Graf è un poeta eccezionale; come Leopardi abbiamo osservato che non è  possibile inquadrare neanche Graf in una sola corrente. Cerchiamo di riassumere tutte  le diversi correnti dalle quali Graf ha preso degli elementi. Come ho detto all'inizio,  Graf scrive traendo spunti dalla poesia leopardiana; si è fatto ispirare dal profondo  pessimismo di Leopardi che appartiene al Romanticismo; egli ha cantato gli aspetti più  tragici e angosciosi della vita con una predilezione per il tema del dolore desolato, della  morte e della natura. Egli mette in contrasto l'uomo e la natura che è anche tipicamente  romantico. Graf mette in dubbio lo scopo della vita terrena. Non è solo la sua  descrizione di paesaggi desolati e cupi, ma anche l'ammirazione per poeti come Dante.  Egli usa versi della sua poesia per rendere le sue descrizioni più dolci, perché tanti  passaggi contengono un'altra atmosfera, che presenta un allontanamento dalla idea  romantica: spesso descrive la natura come un mostro con le descrizioni tetre, scure,  terribili e tristi. Come ho spiegato prima, è anche diverso da Leopardi, la natura non è  più un testimone per l'essere del poeta, ma una presenza indifferente e contraddittoria.
Una corrente che ha chiaramente influenzato Graf, è il simbolismo. Come ho detto  prima, i simbolisti avevano l'idea fondamentale che sotto la realtà si nasconda una realtà  più profonda e misteriosa quindi nella poesia usano oggetti simbolici che hanno tutti un  significato magico, le descrizioni dei paesaggi sono più vaghe e indefinite. I simbolisti  esprimono le proprie emozioni e stati d'animo, cercando la verità nascosta della vita  umana. Queste caratteristiche tornano spesso nella poesia di Graf, come abbiamo visto. Il vascello fantasma come il simbolo per la ricerca della verità, una verità più profonda e  misteriosa. L'altra e l'ultima corrente di cui ho parlato prima, è la Scapigliatura.  Caratteristiche degli Scapigliati come la tristezza, l'ironia malinconica e la morbosità  tornano nella poesia di Graf. Potrei concludere qui allora che in Graf ci sono tante  contraddizioni: tra le idee e dei sentimenti, tra il bello e il vero, tra la realtà e il sogno. 
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LA CAMPANA

Sotto un ciel di dïaspro, e nel profondo
Silenzio che sui campi ermi si spiana,
Rangola trafelato e gemebondo
Il lontano clamor d’una campana.

Ebbra d’angoscia, scaturir dal fondo
Sembra del ciel l’esile voce arcana,
E voce par d’un altro e ignoto mondo,
Tanto è fioca e sottil, tanto è lontana.

Tramonta il sole e nell’aer silente,
D’onde vanisce a poco a poco il lume,
Piange la stanca voce e implora e freme.

E chiama a lungo, disperatamente,
E chiama in vano il dileguato nume,
La morta fede, e la tradita speme.


IL CANTO DEL CIPRESSO

Un oscuro cipresso,
Nella brezza d’aprile,
Va cantando sommesso
Una canzon gentile:

— Io son l’arbore antica
Sacra al pallido Lete,
Dell’eterna quiete
E del silenzio amica.

La negra arbore io sono
Cui non isfronda il verno,
L’arbore del perdono
E del riposo eterno.

O voi che per la via
Mute e stanche passate,
Anime addolorate,
Venite all’ombra mia.

Sdrajatevi al mio piede,
Ov’è più fitta l’erba,
E troverà mercede
La vostra doglia acerba.
==>SEGUE


L’umil vostro soggiorno
Io parerò dal sole,
Anemoni e vïole
Vi crescerò d’intorno.

Voi dormirete un blando
Sonno, e perché v’annoi
Meno il tempo, cantando
Io veglierò su voi. —

Nella brezza d’aprile
Un oscuro cipresso
Va cantando sommesso
Questa canzon gentile.
DALL’ORIENTE

Disse Sciahìd, il cui pensier non erra:
Se fumasse il dolore al par del foco,
Di densissimo fumo in ogni loco;
Ottenebrata si vedria la terra.

Disse Chájjam, che molto ai savii aggrada:
Io come l’acqua venni, e al par del vento,
Che soffia e passa, dileguar mi sento;
E non so d’ond’io venga e dov’io vada.

E disse un altro buon poeta accorto,
Che mai le labbra non aperse al riso:
Meglio assiso che in piè, meglio che assiso
Sdrajato, e meglio che sdrajato, morto.
DAL LIBRO DEI RICORDI

I.
La città dove io nacqui è in Orïente,
Ad un monte marmoreo vicina,
E vede di lontan, vasta, splendente,
Stendersi dell’Egeo l’onda turchina.

Ebbra d’aria e di sol, tacitamente
Sogna un’antica visïon divina,
E fra le rose, e fra gli ulivi sente
Fremer non morta la sua gran rovina.

La città dov’io nacqui ebbe più lieti
Giorni, e solcò vittrice il mar profondo,
E di sé popolò lontane arene;

E fu d’eroi, di saggi e di poeti
Madre superba, e fu maestra al mondo:
La città dov’io nacqui ha nome Atene.
II.
Nell’antica città di Norimberga,
La qual di sé tutta Alemagna onora,
Nacque mio padre, ed ivi alcun tuttora
A me non noto, di suo sangue alberga.

Degli anni m’arridea la prima aurora
Quand’egli in terra riposò le terga;
Ma il pio ricordo ch’esti fogli verga
Vivo dinanzi mel conduce ancora.

Biond’era e bello e di gentile aspetto;
Nell’alta fronte e nel sereno sguardo
Tutto svelava altrui l’animo eletto.

Triste egli fu com’uom cui il mondo annoi,
E fu nemico di ciascun codardo:
Onde morì nel fior degli anni suoi.
III.
In riva all’adriatica marina,
Ov’è d’Ancona il nobil monte assiso,
Nacque d’antica gente fiorentina
La cara madre ond’io piango diviso.

Gli occhi di foco e la chioma corvina
Ell’ebbe, e sparso di pallore il viso,
Altere ciglia in fronte di regina,
In rosee labbra pien di grazia il riso.

D’avite gare un lievito sottile
E un acre ardor nel rïottoso ingegno
Serbava e nel latin sangue gentile.

Gioconda fu nel suo tempo migliore,
E sempre alla pietà pronta e allo sdegno,
Cieca sempre nell’odio e nell’amore.


IV.
Sorgea la dolce casa, ove il primiero
Vagito io diedi e apersi gli occhi al sole,
Del clivo al piè, sulla cui cima altero
Il Partenon drizza la sacra mole.

Avea presso un giardin, triste e severo,
Benché di rose pieno e di vïole,
E un gran cipresso, avviluppato e nero,
Aduggiava di fredda ombra le ajuole.

V'era, pien d’acqua, e di figure adorno,
Un sarcofago antico, alla cui sponda
Veniano a ber le rondini dal cielo.

Alto silenzio tenea l’aria intorno,
E nella pace estatica e profonda
Non si vedea crollar foglia né stelo.
AZIONE DI GRAZIE

O mio dolce Signore,
Ti lodo e ti ringrazio,
Consumato è lo strazio
Del mio povero core.

Ahi, come stanco e sazio
Del tedio e del dolore,
Dell’odio e dell’amore,
Del tempo e dello spazio!

Pria che dei giorni brevi
Sia colma la misura,
Via di qua, via di qua!

Nel tuo sen mi ricevi,
Silenzïosa, scura,
Gelida eternità.

PRECE SUPREMA

Dentro la chiesa
Gelida e vota,
Nell’aria immota,
Un formidabile silenzio pesa;
Con un bagliore
D’astro che muore
Raggia nel buio l’altar maggiore.

Un crocifisso
Lordo di sangue
Sovr’esso langue,
Squarciato il petto, lo sguardo fisso
In firmamento
D’oro e d’argento
Idol funereo, dio semispento.

Presso l’altare
Una figura
Dogliosa e scura
Di genuflessa piangente appare,
E una blasfema
Prece suprema
Nel formidabile silenzio trema.
==>SEGUE
O Gesù confitto in croce,
Porgi ascolto alla mia voce,
Guarda al mio dolore atroce!

O Gesù mio benedetto,
Dall’angoscia oppresso e stretto
Mi si schianta il cor nel petto!

Il tuo nome dolce e santo
Ho invocato nello schianto
Del dolore, ho pianto tanto!

Ma fûr vane le preghiere,
Ma le lacrime sincere
Non commossero le sfere.

Se tu sei pietoso e buono,
Se i tuoi detti veri sono,
Perché lasci in abbandono

Chi commette alla tua fede
Corpo ed anima, chi crede
Fuor di te non sia mercede?

Parla! è forse una menzogna
Quel tuo cielo, e desto sogna
Chi vi crede e chi v’agogna?
==>SEGUE


Non mi vedi? non m’ascolti?
O Gesù, dove son volti
Quei tuoi grandi occhi stravolti?

Com’è pallido il tuo viso!
Com’è bujo il paradiso!
O Gesù, t’han proprio ucciso?

A te invan chiedo conforto;
Tu non sei mai mai risorto,
Tu sei morto, morto, morto!

Vincitore dell’inferno,
Si dilegua fra lo scherno
Il tuo regno sempiterno;

E sovrasta allo spergiuro
Popol tuo più bieco e scuro
L’inscrutabile futuro.


==>SEGUE


La prece muore,
Mutata in gemito
Con lungo fremito
Sotto le immobili volte sonore;
A poco a poco
Si fa più fioco
Entro le pendule lampade il foco.

Giù dalle volte,
Fuor dai cancelli,
D’in su gli avelli,
Dove si sfasciano l’ossa sepolte,
Da tutti i canti,
Muti, anelanti,
Interroriti guatano i santi.

Di sangue intriso,
Nella penombra,
Che già l’ingombra,
Del crocifisso biancheggia il viso;
Viso contratto
D’esterrefatto,
Orribilmente morto e disfatto.


IN ALTO

Fuor della tenebrosa aspra boscaglia
Che s’inerpica su senza un sospiro,
Bianca di neve nel terso zaffiro
Del ciel la smisurata alpe si scaglia.

Dal vertice che i nugoli frastaglia,
Di tra le nevi immacolate io miro
L’immenso ciel che si profonda in giro,
L’immenso pian che sotto a me s’agguaglia.

Tra bieche nubi sfolgorando cade
Il sol travolto, e dell’eterno gelo
A poco a poco lo stupor m’invade.

Con lente rote un tacito avvoltojo
Sovra il mio capo si raggira in cielo: —
Son troppo solo e troppo in alto: io muojo.

ISOLA ARCANA

Sovra un tacito mar, che del catrame
Più buje le assonnate acque distende,
Come uno smisurato orbe di rame
Obliquo il sol dall’orizzonte splende.

Quivi (se il ver si narra) in sovrumana
Quiete sorge al dubbio dì, remota
Da tutte genti, a tutte genti ignota,
Una miracolosa isola arcana.

Il neghittoso marinar, che in sua
Muta contemplazïon smarrito siede
Sul mar, dinanzi all’errabonda prua,
Come un sogno talor splender la vede.

Vede su lieti poggi, entro giardini
Meravigliosi, sfavillar palazzi
D’oro e dïaspro, e nitidi terrazzi,
E scalee che d’argento hanno i gradini.

Ode vagar sopra l’immobil onda,
Pel cheto ciel, con lente ali sonore,
Una soave melodia profonda,
Ebbra di voluttà, ebbra d’amore.
==>SEGUE



==>SEGUE
Ascolta come trasognato e guarda,
Acceso il cor di brama e di speranza,
E verso quella fulgida sembianza
Drizza la prora affaticata e tarda.

Vano desio, speme fugace e vana!
Sul mar che senza termine s’adegua
Scorre l’isola ignota e s’allontana,
Poi repentinamente si dilegua.

Volge il deluso marinar la fronte,
E il ciel con gli occhi, e il mar d’intorno scruta,
E come un sogno, dietro a sé, perduta
L’isola vede in fondo all’orizzonte.

COMPAGNA

Sempre, dovunque io vada,
Il dì, la notte, sento,
Or frettoloso, or lento,
Seguirmi un passo in casa e per la strada.

È la morte, che sola
Vien meco in compagnia,
Ed il momento spia
D’avventarmi le adunche ugne alla gola.
FATO

Non fra gli astri di foco, o in più lontano
Ignoto ciel, d’astri e di numi orbato,
In sideral quiete e in sovrumano
Silenzio veglia l’immutabil Fato;

Ma in noi, nel core che di flagellato
Sangue rigorga, e nel recesso arcano
Ove di buja notte avviluppato
Guizza e brilla il pensier, siede sovrano.

Siede sovrano, e irrivelato regge
Con muto cenno, inesorabilmente,
Di nostra vita sciagurata il corso.

Siede sovrano, di sua dura legge
Dittator tenebroso, indifferente
Al dolor che ne strazia ed al rimorso.
PROGENITORE IGNOTO

Nella tiepida stanza, al queto raggio
Della notturna lampada seduto,
Io di te vo sognando, o sconosciuto
Progenitor di mio triste lignaggio;

Di te che, fatto polve, a cieco obblio
Da mille e mille secoli soggiaci,
E pur t’agiti ancora e ancor non taci
Nel mio fosco pensier, nel sangue mio.

Alta è la notte e nel silenzio greve
L’angosciato mio cor palpita e trema;
Dall’agghiadato ciel la luna scema
Splende su la città bianca di neve.

E qual d’uccelli peregrino stuolo
Che migri in aria alle terre del sole,
Antiche storie ed obblïate fole
Dentro l’anima mia passano a volo.

Allor che givi l’erme balze e i cavi
Antri cercando e le foreste ignote,
Avolo mio, non tu questo sognavi
Sillogizzante, pallido nipote,
==>SEGUE


Dilicato e crudel, triste e superbo,
Che d’ogni cosa vuol ragione e prova,
E di se stesso la ragion non trova,
E a sé non crede ed al suo proprio verbo.

Incerta vita, faticosa e scura
Tu vivesti, agl’indomiti elementi
Disputando e alle bieche orse e ai ruggenti
Leoni il tetro covo e la pastura.

Poche, ma truci e violente brame
Ti bollivano in sen: da mane a sera,
Per lunghi giorni, insazïata fiera,
Ti ruggia nelle viscere la fame.

E in aspre cacce ti stremavi, e quando,
Tardo premio talor d’atroci pugne,
Stringevi alfin la preda, i denti e l’ugne
Nei caldi lombi insanguinavi urlando;

Poi, satollo, pei campi e le pendici,
Tu le femmine tue, veggente il sole,
Cieco invadevi, e l’avide matrici
Inturgidiano di ferina prole.

==>SEGUE


Incerta vita, faticosa e scura
Vivevi, ed era più che d’uom di bruto
L’anima tua; ma non col dente acuto
La trafiggea la velenosa cura.

Ma d’un pensier che in impeti funesti
Se stesse fiacca, e senza fin né tregua
Spasima dietro a un ver che si dilegua,
Tu l’angoscia mortal non conoscesti.

Ma tu d’un cor disamorato e sazio
D’ogni creata ed increata cosa,
Che batte invano, e che pur mai non posa,
Non conoscesti tu l’orrendo strazio.

Né di colui la miserabil sorte
Nota ti fu, che avendo a noja il mondo,
Se stesso abborre e di sue membra il pondo,
E com’odia la vita, odia la morte.

Nella tiepida stanza, al queto raggio
Della notturna lampada seduto,
Io te sogno e te invidio, o sconosciuto
Progenitor di mio triste lignaggio.
USIGNUOLI

Vagabondi usignuoli entro l’opaca
Notte i miei versi van sciogliendo il canto;
Io mi sto muto ad ascoltarli e alquanto
Il disperato mio dolor si placa.

Essi ne van, stuolo lieve e fuggiasco,
Trillando a gara nella notte, ed io,
Che parte di mio duolo intanto obblio,
Del vivo sangue del mio cor li pasco.
TESTAMENTO

Lascio il mio corpo maledetto al foco
Che ’l divori e disperda, e all’indefessa
Virtù del moto, che di loco in loco,
A nuove vite senza fin l’intessa.

La disperata anima mia, se un poco
Me ne rimane in petto ancor, se anch’essa
Non è d’irrequïeti atomi un gioco,
La buja anima mia lascio a se stessa.

Lascio a chi ’l vuole un mio poema in culla,
Gli accesi sogni miei lascio alla notte,
I miei dolci pensier li lascio al nulla.

Lascio alla terra un mio cagnuol defunto,
Lascio all’obblio, che tutte cose inghiotte,
Lo scellerato amor che m’ha consunto.

NIRVANA

I.
Un arcano baglior, vasto, uniforme,
Che tutto invade e pur non trova loco;
Un non so che di fulgido e di fioco,
Un non so che di tenue e d’enorme.

Un rotar, un fluir lento di forme,
Che si van sfigurando a poco a poco,
Fuse e consunte in quel pallido foco,
Quasi una visïon d’uomo che dorme.

Sfuma la terra e si dilegua il cielo,
Si confondono insiem l’imo, il superno,
L’oscurità, la luce, il foco, il gelo.

E in un mar senza fondo e senza sponde,
Silenzïoso, invarïato, eterno,
L’anima mia si stempera e s’effonde.
II.
A mano a man si dissipa ogni moto,
A mano a mano ogni luce s’oscura;
Senza tempo e ragion, legge e misura
Un bujo sta voraginoso e ignoto.

Più sostanza non han, non han figura,
Più non han loco o prossimo o remoto,
Distemperate in quell’eterno vuoto,
Vita, pensiero, umanità, natura.

Solo in quel vuoto ed in quel bujo io sento
Il perduto mio cor che vibra e pulsa,
Sempre più stretto in sé, sempre più lento;

Con un lieve romor d’ala che frulla,
Con una stanca ansïetà convulsa,
Più lento ancor... più lento ancor... più nulla.
IL CANTO DEL CIGNO

Tenebrosa di larici la breve
Ripa il lago cristallino circonda;
Sovra la dormiente acqua profonda
Galleggia un cigno in un baglior di neve.

Presso è il cigno a morir: candido e lieve
Sta sullo specchio immobile dell’onda,
E canta volto al sol; la gemebonda
Canzon del morituro il sol riceve.

Il canto soavissimo di blande
Risonanze empie l’aria e una suprema
Tristezza via pei campi ermi si spande.

Tramonta il sole, e sulla nitid’ala
Piega il cantor la testa, e con l’estrema
Nota l’armonïosa anima esala.


LA DANZA DELLE ORE

Pel cielo fra mezzo le stelle remote,
Dell’etra nel limpido algore,
Si svolge con lunghe fantastiche rote,
La danza leggiera dell’ore.

La danza leggiera dell’ore infinite,
Che sempre, mai sempre, con blando,
Con pendulo ritmo fuggenti, pel mite
Sereno si van dileguando.

Di tenere e pure fanciulle han sembianze,
Che danzin, d’aprile, sui fiori,
Nei candidi petti chiudendo speranze
Arcane, reconditi amori.

Sen van senza fine, volubili e pronte,
Le vergini bionde, le brune;
Le più di mestizia velata han la fronte,
Giulive sorridono alcune.

Vestite di lievi, dïafani veli,
Fiorite di rose e vïole,
Sen vanno per l’arco gemmato dei cieli
Snodando l’eterne carole.

==>SEGUE
Sen vanno in un sogno, rapite al susurro
Perenne d’ignoti concenti;
Sen vanno fra gli astri, sen van per l’azzurro,
Aeree, fugaci, fluenti.

E ognuna da lunge passando m’invita,
E ognuna, seguendo sua via,
Un poco si toglie dell’egra mia vita,
Un poco dell’anima mia.
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«Amoreggiate con le idee fin che vi piace; ma, quanto a sposarle, andate adagio»
(A. Graf)
EPILOGO

Di fredda ombra suffusa
È la volta del cielo;
Pien son io del tuo bujo e del tuo gelo,
O Medusa, o Medusa!

Nell’anima confusa,
Fra le sparenti forme,
Chiara tu sola, invariata enorme,
O Medusa, o Medusa!

Vietato il passo e chiusa
È la speranza ai vinti;
Sia pace almeno, sia pace agli estinti,
O Medusa, o Medusa!

Taccia la vana accusa,
Taccia il vano lamento,
Regni il silenzio ove ogni lume è spento,
O Medusa, o Medusa!

O mia lugubre musa,
Frangi la bruna cetra:
Il mio povero cor fatto è di pietra,
O Medusa, o Medusa!
Il 13 dicembre 1876 Arturo Graf, professore incaricato all’Università di Torino, lesse la sua prima prolusione al corso di Storia comparata delle letterature neolatine, insegnamento da poco istituito dal ministro Ruggero Bonghi.
Nell’Ateneo torinese si creò un clima di grande curiosità intorno al giovane professore dal cognome tedesco: il favore ottenuto da Graf superò ampiamente le aspettative e l’allievo Renier poté affermare che «parlò con lucidezza inarrivabile, con informazione sicura e precisa, con larghezza di vedute del metodo comparativo della storia letteraria».
Egli propose di applicare il criterio della comparazione anche alla «storia delle umane lettere», seguendo l’indirizzo proficuamente inaugurato dall’uso di quel metodo nella scienza del linguaggio: anche la fantasia, a suo giudizio, «ha le sue leggi, e la libertà umana è limitata anche nel dominio del capriccio. La […] menzogna della favola più stravagante è sempre condizionata assai da presso dalla verità della vita».

da Le prolusioni torinesi di Arturo Graf
di MARIA PANETTA