CULTURA
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LE DANAIDI







LIBRO SECONDO

PARADOSSO

Che dubbio c’è? sempre fu detto e scritto,
E sempre si dovrà scrivere e dire:
Ammazzar uno che non vuol morire
È un gran delitto, un pessimo delitto.

Ma con pace di quei che van d’amore
Esercizio facendo e propaganda,
Il dar la vita a chi non la domanda
Un delitto non è molto minore.



SONETTO DI PRIMAVERA

Terra, figlia del Sol, madre beata
Dell’industre Caino! ancor l’amica
Genitrice virtù con pia fatica
Il tenace tuo grembo apre e dilata.

E ancor la gleba di sudor bagnata,
E più di sangue, alla progenie antica
Del buon Caino crescerà la spica
E il tralcio lieto e la rosa odorata.

E ancor sopra le tombe e le rovine
E i campi sacri alle fraterne stragi
Pulluleranno erbe maligne e fiori.

E ancor, senza riposo e senza fine,
Pulluleran ne’ petti aspri e malvagi
Desiderii e speranza, odii ed amori.
SALUTO AL MARE

O mar profondo, o generosa, invitta
Immensità! sempre, fidente e pia,
Quand’è più stanca e di dolor trafitta,
Sempre ritorna a te l’anima mia.

O mare, a te, che negli oscuri e vasti
Scoscendimenti ove il tuo gorgo dorme,
I prischi germi e le perplesse forme
Di quanto vive e dee morir creasti.

Perché nell’ombra travedendo il lume
Forse del ver l’antica fantasia,
Nata sognò la genitrice iddia,
La sfavillante iddia dalle tue spume.

A te, che tutta la terrestre mole
Cingi e soggioghi, e nel volubil grembo
Specchi l’azzurro sterminato e il nembo
Vertiginoso e il fulvo occhio del sole.

Dal grembo tuo, che mansueto vide
E sofferse dell’uom la tracotanza,
Un’arcana speranza, una speranza
Imperitura al perituro arride.

Ond’ei col vivo imaginar lontane
Patrie vagheggia e sconosciute, dove
Innovati destini e virtù nove,
Più mite il cielo e men conteso il pane.

Questa la speme che commise ai venti,
E alla fortuna, di Giason la prua,
Onde eterno il suo nome e della sua
Ventura il grido fra le umane genti.

Questa la speme che drizzò le vele
E resse il cor del Ligure tenace,
Quando il gran volo dietro al sol che giace
Spiegò, sordo agli scherni e alle querele.

O mare, o mar! sull’antico dirupo
Io seggo e guardo dal tuo sen fremente
Spuntar le nubi ora veloci or lente,
Volar per l’aria e ricalar nel cupo.

==>SEGUE
O mare, o mar! su’ tuoi flutti spumanti
Veggo le navi sbieche e profilate
Dileguar con le bianche ali spiegate
A mo’ di grandi procellarie erranti.

E trasognando penso all’errabondo
Corso de’ fiumi che fan verde e vaga
Senza frutto la terra, e d’ogni plaga
Vengon tutti a finir nel tuo profondo.

E penso a questa inesorabil sorte
Che mutando non muta, e alle infinite
Che furono e saran misere vite
Sacre invano al dolor, sacre alla morte.

E mi s’acqueta il cor doglioso, e tace
De’ turbolenti miei pensieri il grido:
Torno coi fati e con me stesso in pace
E dello stolto mio dolor sorrido.

LA CACCIA DISPERATA

Già per gli erti dirupi e per le orrende
Gole e l’interminabile pianura
Si sbaraglia, s’agglomera, si stende
L’antica selva, paurosa e scura.

La selva antica di querce giganti.
Di tetri pini, di spettrali abeti,
Tutta viva di aneliti secreti,
Tutta viva d’occulte acque sonanti.

Quando nell’alto solitaria spia
La luna il sideral volo dell’ore,
E per le cupe ambagi erra un albore
Blando, come di sogno e di malia;

Dalla più folta macchia, appiè del monte,
Balza, né sasso o tronco lo distorna,
Un cervo a cui, fra le ramose corna,
Splende una stella radiosa in fronte.

Vola il cervo fatato e dietro a lui
Vola uno stuol di cacciator fatati,
Meravigliosi, bui, trasfigurati,
Sui gran cavalli rabbuffati e bui.

==>SEGUE


E disfrenato, insiem con essi, un gruppo
D’ispidi cani, sitibondi, muti,
Sciolte le lingue fuor dai denti acuti,
Fatto di membra guizzanti un viluppo.

Rovinosi galoppano i cavalli,
Sparse le code e le criniere al vento,
Via con ispaventoso assalimento
Per piani e botri, per monti e per valli.

I cacciatori hanno di cera i volti,
Gli occhi sbarrati, dall’orbite avulsi;
Stringono l’arme coi pugni convulsi,
Sembrano in cappe di tenebra avvolti.

L’un d’essi all’arse ed enfie labbra arreca
Di fulvo rame una ritorta tromba,
E disperato e fiero un suon ne sfromba
Che lungamente per la selva impreca.

Così trascorre la furente caccia
Fantasmeggiando nell’incerto raggio:
L’arbori, trasognate, al suo passaggio
Torcono per terror le informi braccia.

Spesso lo stuol che inferocito svampa
Raggiunge quasi la fuggente fiera;
Ma sempre quella, impavida, leggiera,
Con un gran balzo si dilunga e scampa.

E in vano sempre, nel barlume losco,
Balenan terse le snudate lame,
E quella tromba fulvida di rame
Empie di grida strazïanti il bosco.

La disperata caccia e senza tregua
Dura così finché la luna splende;
Ma tosto come il novo dì s’accende
Tutta si scioglie in nebbia e si dilegua.


Arturo Graf - LE DANAIDI - Libro II
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
Le prolusioni torinesi di
Arturo Graf
_________

di Maria Panetta
__________________
Il 13 dicembre 1876 Arturo Graf, professore incaricato all’Università di Torino, lesse la sua prima prolusione al corso di Storia comparata delle letterature neolatine, insegnamento da poco istituito dal ministro Ruggero Bonghi.
Nell’Ateneo torinese si creò un clima di grande curiosità intorno al giovane professore dal cognome tedesco: il favore ottenuto da Graf superò ampiamente le aspettative e l’allievo Renier poté affermare che «parlò con lucidezza inarrivabile, con informazione sicura e precisa, con larghezza di vedute del metodo comparativo della storia letteraria».
Egli propose di applicare il criterio della comparazione anche alla «storia delle umane lettere», seguendo l’indirizzo proficuamente inaugurato dall’uso di quel metodo nella scienza del linguaggio: anche la fantasia, a suo giudizio, «ha le sue leggi, e la libertà umana è limitata anche nel dominio del capriccio. La […] menzogna della favola più stravagante è sempre condizionata assai da presso dalla verità della vita».
In ogni opera poetica, Graf rintraccia due matrici: una avventizia, fortuita, sarei per dir fenomenica, nella quale si rivela l’indole particolare, il particolare temperamento, la fisonomia propria di colui che l’ha prodotta; l’altra costante, necessaria, essenziale, in cui si riflette la coscienza e il costume del popolo in mezzo al quale l’opera fu prodotta, e in cui vive come si suol dire, lo spirito de’ tempi.

Tra le letterature dei diversi popoli si possono riscontrare notevoli affinità e si devono rintracciare «nel vario e nel mutevole il conforme e il costante»; i criteri e i procedimenti della storia delle lettere devono restare storici, ma ci si può servire del prezioso ausilio della psicologia, a suo giudizio allora finalmente degna del nome di scienza. Egli si rallegrava, inoltre, della nascita di una «estetica nuova», fondata «non sopra il gusto passeggiero di un tempo, ma sulle naturali qualità e proprietà delle cose» e utile, dunque, a intendere le forme d’arte «più prossime» come quelle più remote, sempre che gli studiosi si lascino guidare dalla «ragione» e diffidino dei facili indizi, attenendosi ai «fatti più stabiliti». Nel processo di «cognazione delle letterature», infatti, non si assiste mai ad una semplice imitazione, ma «le forme prese a prestito sono assoggettate a varii processi di elaborazione e di svolgimento, i quali possono a volte andar così oltre da mutar loro l’aspetto e da occultarne la origine».

Riguardo a quest’intervento, Ajello parla di «rivoluzione metodologica del gesto del comparare», operata da Graf proponendo di oggettivizzare il dato fenomenico, di precisare una prassi scientifica che porti allo studio dell’opera d’arte in relazione all’ambiente che la produce e a quello che la consuma; il giovane professore sistematizzando proprio una razionalizzazione, ancora di là da venire, dei meccanismi della «fantasia» portava mediante la comparazione, la psicologia proprio dentro l’estetica, e per questa via ancora e definitivamente la storia.

Rimasta vacante la cattedra di Letteratura italiana del Coppino, alla fine del 1876 ne fu affidato l’incarico allo stesso Graf, che inaugurò il corso, il 22 gennaio 1877, con una seconda prolusione, Dello spirito poetico de’ tempi nostri, in cui fece aperta professione d’italianità (e dopo la quale ottenne la cittadinanza italiana), nonostante fosse nato ad Atene e il padre fosse norimberghese: Partendo dal principio che il gusto poetico cambi naturaliter col mutare delle epoche storiche, Graf affermava essere inutile chiedersi se la poesia moderna sia superiore all’antica, avendo essa perso in «amplitudine» per guadagnare in «acuità». Egli sosteneva che la scienza e il realismo nuocciono alla poesia, che si nutre di mistero, oscurità e «dubbiezza», ed ha bisogno del mito; rispetto ai loro predecessori, i moderni, a suo giudizio, sono più concentrati su se stessi e sul proprio travaglio interiore, e la psicologia ha pervaso anche il romanzo e il dramma: al personaggio emblematico di Achille, tutto azione esteriore, si è sostituito quello di Amleto. Si prova «uggia della vita», nonostante l’incivilimento dei costumi e il progresso scientifico: la conoscenza del vero, anzi, ha condotto alla disillusione riguardo alla cruda e inesorabile necessità delle cose, cosicché «da questo contrasto del tendere a maggior libertà e del sentire più intera la schiavitù si genera negli animi nostri una vena inesauribile di amarezza. Ma una vena ancora di profonda e di sentita poesia». La percezione del dolore è entrata nel dominio della riflessione e ne ha acquisito la «tendenza all’infinito e al trascendente »: da ciò la moderna propensione all’intellettualismo in poesia.

Lo spirito poetico dei moderni è essenzialmente «subiettivo» e ciò spiegherebbe la prevalenza del genere lirico su quello epico: a giudizio di Graf, però, bisogna parlare di «mutazione» e non di «decadenza» del gusto. La tragedia, invece, la considera morta, essendosi perso il senso del tragico nell’esistenza. La forma poco curata, infine, lo stile «sciamannato dei giorni nostri» non sono solo frutto di negligenza, perché un «pensier tormentato ed instabile non può più trovar luogo negli incorniciati e scompartiti schemi del vecchio stile rettorico».

«La poesia non muore nel mondo […] – conclude Graf – muta forma, e tempra e carattere, ma non muore». Contemporanee a questa prolusione sono le tre lezioni accademiche apparse sulla «Rivista di filologia ed istruzione classica» nell’aprile 1877, per le quali Graf dichiarava di aver «lasciato allo scritto la forma libera e sciolta della esposizione orale».
Egli esordiva affermando che l’oggetto della storia letteraria è «la poesia in quanto espressione artistica del pensiero mediante la parola», e non le «forme sceverate dal loro contenuto». La letteratura scientifica, invece, appartiene alla storia generale della cultura, o a quella dello spirito umano, mentre la poesia didascalica rientra nella storia della letteratura solo se ha interesse estetico, poiché «la poesia non si propone e non si ha da proporre nessunissimo scopo»: la storia letteraria, dunque, si occupa dei grandi scrittori e dei minori che segnino momenti importanti nell’evoluzione del pensiero poetico. Riguardo ai metodi di studio, quello «biografico-cronologico», sebbene sia «il più disadatto», può aiutare a capire le reciproche influenze tra imitatori e scrittori originali; quello «estetico», più scientifico, rischia di spezzare l’unità poetica dello scrittore riconducendone le opere a generi diversi; quello «storico» finisce per non spiegare le «ragioni interiori »: perciò, «nello insegnamento si ha da usare di tutti e tre i metodi».

Graf ritiene che la letteratura a lui contemporanea abbia «pochissima intimità, e scarsissimo carattere nazionale» perché imita troppo tedeschi e inglesi, in poesia, e i francesi nel romanzo e nel dramma: del resto l’Italia si è dovuta adeguare troppo in fretta ai progressi filosofici e scientifici di altre nazioni. «L’indole non suole variare se non con estrema lentezza» – osserva – anche riguardo alla lingua, ma, al contrario di ciò che pensano i puristi «piagnoni», questi processi vanno assecondati e «il supremo legislator delle lingue ha da essere l’uso». L’esame delle origini delle letterature risulta di grande importanza, assieme a quello delle «derivazioni» da popolo a popolo: infatti, «l’imitazione servile dei capolavori torna sempre in grave danno della poesia, ma non così lo studio avveduto e giudizioso». In ogni caso, egli giudica più proficuo imitare i moderni rispetto agli antichi, perché ritiene che con essi abbiamo in comune almeno il pensiero. Tra i sussidi cui la storia letteraria può far ricorso, Graf ritiene importanti la paleografia (indispensabile allo storico della lingua), la bibliografia, la critica storica e filologica (soprattutto per le edizioni di testi), la critica estetica (da esercitare con cautela e moderazione) e la comparazione. Denuncia, invece, un abuso di «critica psicologica».

All’età di 28 anni, dunque, «cominciava il professorato: era finita la giovinezza » – annotava tristemente egli stesso. Eppure l’insegnamento fu per lui un’esperienza vissuta sempre con passione e partecipazione, ed egli considerò un’organica educazione dei suoi cittadini uno dei principali obiettivi che ogni stato dovesse prefiggersi. Tra le tante, una bella testimonianza sulle lezioni diede l’allievo Gallico; Renier ricorda che il maestro «componeva e riteneva nella memoria, non tenace per lungo tempo, ma impressionabile sì da conservargli alla lettera per tre o quattro giorni ciò che aveva pensato, pagine e pagine di prosa, lezioni intere». E Gallico racconta, infatti, che prima di cominciare ogni lezione Graf dava un’occhiata rapida ad un foglietto d’appunti che aveva in tasca, come promemoria, e poi iniziava a parlare: dunque, ci troveremmo di fronte a discorsi fatti a braccio, e successivamente scritti e pubblicati. Vittorio Cian ammonisce, però, a non pensare che quelle lezioni fossero frutto della più spontanea e felice improvvisazione, perché il maestro le meditava e preparava a lungo, e pare che anzi le stendesse sulla carta: la memoria agile e la sua innata arte oratoria da conferenziere provetto potevano trarre in inganno. In genere si rifaceva alla lezione precedente per istituire un legame col già detto, così come, alla fine dell’ora, «che non era l’ora “accademica” cara agli scansafatiche, […] raccoglieva le fila del suo discorso e preparava il campo alla lezione seguente, di cui enunciava il tema». Egli «costruiva abbattendo. Moveva spesso da qualche affermazione di critico insigne – molto spesso il De Sanctis – che sottoponeva a metodica, minuta, sottile analisi», ma mai con animosità o orgoglio: Cian ricorda, in particolare, una felice lezione sul Decameron, durante la quale il maestro discusse e confutò il noto giudizio desanctisiano secondo cui il capolavoro di Boccaccio sia da leggere come la negazione del Medioevo63. «Sentiva il bisogno di volgere l’idea da tutti i lati, […] o accostarla ad altre, istituendo impensati, originalissimi confronti». Non si appagava mai delle mete raggiunte, e dunque «scomponeva e ricomponeva per tentare sistemi che, subito dopo, intaccava fino a frantumarli». Aborriva dalle definizioni, e amava ripetere agli allievi: «Amoreggiate con le idee fin che vi piace; ma, quanto a sposarle, andate adagio». Egli derivò, forse, dal positivismo quell’esitazione nel giudicare e quello scetticismo riscontrabili negli innumerevoli interrogativi presenti nelle sue lezioni. Le prolusioni sono costellate di nomi, non esclusivamente di poeti o prosatori, e denotano una cultura di base onnivora, profondamente meditata e padroneggiata con grande sicurezza. Croce riconduceva ad una certa «ansietà» di carattere e, riguardo ai versi grafiani, parlò di un avvicinamento progressivo alla «poesia parenetica e parabolica», sulla quale gravava sempre una certa «prosaicità»: Graf attribuì tali giudizi negativi ad animosità personale, per l’aspra stroncatura che egli fece della crociana Leggenda di Niccolò Pesce, nel «Giornale storico della letteratura italiana» del 1885.
Secondo Gallico, le lezioni più suggestive erano quelle «dovute alle introspezioni psicologiche, alle rivelazioni che il Graf poeta faceva di un poeta»: l’allievo ricorda «veri squarci lirici» tra cui il confronto tra sole e luna, suggerito appunto dalla lettura della leopardiana Alla luna. E anche Cian osserva: «in questi casi si rivelava nel lettore impareggiabile il maestro e il poeta, insieme alleati». Del resto, proprio introducendo Leopardi, il professore ammonì un giorno: Il brivido delle tenebre percorse numerose lezioni di Graf, che al «sentimento della morte» intonò anche parecchi versi; basti ricordare le cupe raccolte Medusa (1880, 1881, 1890) e Dopo il tramonto (1893), liriche della negazione disperata; le Danaidi (1897, 1905), che simboleggiano la vana impresa della vita umana; Morgana (1905) o l’illusione ingannevole: tutte dominate da lande desolate, tramonti sanguigni, naufragi, paesaggi deserti nei quali aleggia quasi un sentimento di «orrore della vita».
Numerosi dei suoi volumi di critica, come già detto, derivarono dagli studi condotti per i corsi universitari (dal 1876 al 1910): tra gli altri, gli Studi drammatici, nati dalle prime lezioni sul teatro e la sacra rappresentazione; Attraverso il Cinquecento; Foscolo, Manzoni, Leopardi , che si serve dei materiali raccolti nel triennio 1894-1897, e che, a giudizio di Renier, può essere considerato un esempio di «critica introspettiva, psicologica ed estetica». Tenne corsi sulla drammatica medievale e sulla storia della superstizione nel medioevo, temi che si ritrovano, ad es., nel volume sul Diavolo e in Miti e leggende, e facilmente riconducibili alla sua passione per gli studi eruditi sulle leggende medievali. Sebbene fosse un intellettuale piuttosto riservato, Graf assunse posizioni ferme e coraggiose, talora eversive (seppur da interno al sistema), schierandosi contro il valore formativo delle lingue e delle letterature classiche (se non «in certi rami di cultura specializzata») e auspicando l’abolizione dell’insegnamento classico nelle scuole medie superiori; convinto della necessità di sprovincializzare i nostri studi, guardava soprattutto alla lezione della scuola tedesca. Combattè anche in favore della soppressione «di quelli orti chiusi che sono le Facoltà», perché fosse favorita la libera circolazione delle idee, e soprattutto di quelle «generali», di tipo filosofico, che «danno un senso e un indirizzo alla vita» e preservano lo spirito umano dal «gusto di soffermarsi e anneghittirsi negli angiporti» dei minimi problemi: infatti, come sottolinea Barbarisi, «fin dalle prime prolusioni aveva espresso l’esigenza di conciliare le istanze di ricerca e di rigore del metodo storico con l’ansia di scoprire le somme leggi che governano il pensiero fantastico». Nel 1901 si schierò contro l’erudizione eccessiva nelle scuole, in se stessa «meritevole e necessaria», ma quasi dannosa se assunta in forma totalizzante, perché conduce alla «stagnazione» dello spirito. Non bastano, insomma, solo dottrina o erudizione, ma la cultura dev’essere anche «educazione dell’intelletto, educazione del gusto, educazione della volontà». Davvero attuale, inoltre, il discorso del 27 ottobre 1906 su L’Università futura, letto nel V centenario della nascita dell’Ateneo torinese: partendo dal presupposto che buona cultura sia solamente quella che «armonizza in unione feconda il pensiero e l’azione, l’amore del bello e il proponimento del buono, la libertà e l’euritmia, la gentilezza e la forza»,
==>SEGUE

LA ROSA MORENTE

Entro una vaga, iridescente fiala
Di gemmato cristal, nella pomposa
Patrizia sala, una vermiglia rosa
L’odorante e sottil spirito esala.

Tutta di specchi e d’ori e di fastosa
Seta risplende intorno a lei la sala,
Mentre un raggio di sol che d’alto cala
Sul dipinto tappeto arde e riposa.

Ma la stremata rosa, a cui del sole
Che già la tinse omai si spegne il raggio,
Quel vano lustro e quella pompa ignora.

E moribonda le incomposte aiuole,
E i pruni del paterno orto selvaggio,
E il cespuglio natìo sogna ed implora.

IL FLAUTO NOTTURNO

Sotto il notturno ciel che s’inzaffira,
Dalla vetta del colle ermo e fronzuto,
Un flauto nella cheta ombra perduto
Canta soave e mormora e sospira.

Sovra i campi, lontan, per l’aer muto,
Il modulato suon lento s’aggira,
E dolce piagne, e più dolce delira,
Limpido, grave, tremendo, acuto.

D’amori spenti e di sventure arcane
Il flauto narra e d’anime svanite
Non so che storie tenere e crudeli.

Oh, vani amori, oh, ricordanze vane,
Oh, sogni e voci di sommerse vite
Sotto la muta immensità de’ cieli!

SONETTO D’AUTUNNO

O stanco autunno, o pia mestizia e cara
Allo stanco mio cor, dacché la folle
Lusinga tacque, e con lo sdegno a gara
L’inquïeto desio più non vi bolle;

O stanco autunno, dalle smunte zolle
Cui l’uom prostrato maledice ed ara,
Dal muto bosco, dal deserto colle,
Tu spiri al cielo una dolcezza amara.

E mentre il vento se ne trae le fronde
Inaridite, e pei cadenti clivi
Muojon, pregando il sol, gli ultimi fiori;

Tu, scolorate larve, e tremebonde
Ricordanze nell’anima ravvivi,
E dolci sogni di perduti amori.

O SACRO GANGE

O sacro Gange, o dalle lucid’are
D’Imalaja, con lungo avvolgimento,
Prospero d’acque, poderoso e lento,
Pe’ verdi piani discendente al mare;

Perché nell’ombra delle selve antiche
Cui tu nodrisci generoso e pio,
Perché lunghesso le tue sponde apriche
Erra così sovente il pensier mio?

E quando in ciel divampa il giorno, e quando
Si spegne, l’onda di lontan venuta,
L’onda che passa, attonito saluta,
Con religioso ossequio interrogando?

Forse nell’erma età, quando all’errore
Lungo dei casi era ancor novo il mondo,
Forse un oscuro mio progenitore
Lungo le rive tue visse errabondo?

E dopo tal di secoli funesta
Ruina immensa e di sciagure ignote,
Di te nel cor dell’ultimo nepote
La confusa memoria anco si desta?
FRAGRANZA

Come l’ampolla ove lo spirto alato
Di prezïosa essenza ebbe dimora,
Poi che quel dileguò ne serba ancora
Dopo molt’anni l’odoroso fiato;

Così l’anima mia che già, nell’ora
Sua giovanil, dell’amor tuo beato
Tutta fu piena, or ch’è suo dì passato,
Tutta dell’amor tuo pur sempre odora.

E la fragranza fervida e sottile
M’incuora sì che nell’infesta sorte
E contro il mondo vil mi fa non vile.

E la fragranza delicata e forte
Dall’anima per lei fatta gentile
Più non isvanirà fino alla morte.

LE NINFE DI MARMO

Del mar fremente a specchio, ove si scheggia
La riva e larga si distende in arco,
Fitto di smisurate arbori il parco,
E denso di secrete ombre, nereggia.

Il parco annoso cui dall’alto scopre
Austero in vista il baronale ostello,
L’ostel, di vite già sonoro e d’opre,
Muto e tristo oggimai come un avello:

In mezzo a un prato d’ingiocondo tasso
Ricinto, intorno a un’erma di Pomona,
Dodici ninfe di polito sasso
Tra i fiori e l’erbe formano corona.

In atto stan di danzatrici, e l’una
L’altra mirando, immobile sorride:
Tali le vide il sol, tali la luna,
Son già più di trecento anni, le vide.

Intorno ad esse inaridir le fonti
Scherzose e i queti laghi di cristallo:
Esse non declinâr le bianche fronti,
Non ritrassero il piè dal muto ballo.
==>SEGUE

Tutta perì, guardando il cielo e il mare,
La stirpe stanca dei signor del loco:
Esse da lunge videro le bare
Passar tra ’l verde e non cessâr dal gioco.

Di tanto in tanto un’arbore nel folto
Per troppa età ruina all’improvviso;
Non lascian esse di guardarsi in volto,
Sempre ridendo dell’istesso riso.

E senza fine alto volando il vento
Empie di voci e di sospiri il bosco,
E senza fine il mar, lucido o fosco,
Rompe alla riva con cupo lamento.

NOTTE DI LUGLIO A STRESA

Notte di luglio placida, serena,
Sotto l’immenso sfavillio de’ cieli;
Selvosa, alpestre, inobliabil scena,
Che di lievi ed incerte ombre ti veli;

Acqua che splendi addormentata, e appena
Lungo la riva ti rincrespi e aneli;
Vento che passi, e con sì blanda lena
Predi gli odori agli assonnati steli;

Prodigioso silenzio, alta quïete,
Inscrutabil mistero, ove la ria
Cura si spegne e la malvagia sete;

Muta, profonda, incognita armonia,
Accogliete il pensier stanco, accogliete
La ferita e piangente anima mia.
CONTEMPLAZIONE

Quand’io contemplo da quest’erma altura,
Ove sospira tra’ ginepri il vento,
Sfavillar senza fin lo smarrimento
Degli astri accesi nella notte oscura;

Vinto da uno stupor, da uno sgomento
Di cieca, ignota, universal sciagura,
Che sempre fu, che interminabil dura,
Il cor nel petto avviluppar mi sento.

E penso le infinite anime erranti
Nell’abisso de’ cieli e senz’aita
Cacciate, offese, piangenti, preganti:

E imploro la pietà d’una infinita
Forza che il tronco maledetto schianti
E la radice onde fiorì la vita.


LA DANZA DELLO SCHELETRO

Sotto un cielo schietto e nitido
Di zaffiro vivo,
Nella vampa e nel silenzio
Del meriggio estivo;
Cinto in giro d’olmi taciti
Bolle il campo infervorato,
Folto d’erbe e di selvatici
Fiori tutto screzïato.

Quivi, in mezzo al verde schiudesi
Una buca oscura,
Quasi covo sbieco d’istrice,
O di volpe fura:
Poco lungi, dalle viscere
Della terra scaturita,
Una spera d’acqua lucida
Dorme al sol, profonda, unita.

Non un moto, non un crepito:
Solo in quella buca
Non so che, furtivo, incognito,
Raspa, tenta, fruca...
Oh portento! un vivo scheletro,
Cauto a guisa di segugio,
Striscia su dal fondo e il teschio
Mette fuori del pertugio.

Con le occhiaje vote e torbide
Guata a destra, a manca:
Sbircia il sol che in alto sfolgora
E l’azzurro sbianca;
Poi repente, con un ringhio
Di libidine novizza,
Fuor del covo si divincola
E nell’aria schizza e sguizza.

E festoso balla: i gracili
Stinchi in alto vibra;
Gira tondo come trottola,
Sovra un piè si libra:

==>SEGUE
Diguazzando le mandibole
Ghigna al sol, civetta e scricchia;
L’irte man converse in nacchere,
La cadenza scande e picchia.

Scosci, strisci alterna e doppia,
Volte e capriole,
Tutto forza e tutto grazia,
Come l’arte vuole:
S’aggroviglia, si dinoccola,
Si fa in pezzi, eppur non suda:
Che maestro! e che disgrazia
Che nol vegga la sua druda!

Dà la caccia a una libellula
Che di man gli sguscia;
Scavallando, l’erbe tenere
Pesta e i fiori struscia:
A quell’acqua cheta e lucida
Giunge a caso e vi s’affaccia,
E ad un tratto resta immobile,
Curvo il teschio, erte le braccia.

Delle dita fassi all’orbite
Per guardar solecchio,
E laggiù la propria imagine
Vede in quello specchio:
Guata torvo e non dà un crollo;
Poi d’un balzo scatta e sbratta,
E fuggendo a rompicollo
Nel suo covo si rimpiatta.
FONTE ROMANTICO

Sotto il nitido ciel, cui di tranquilla
Luce l’estivo plenilunio ammanta,
L’acqua del bianco fonte alto zampilla
E dolcemente nel silenzio canta.

Balza nel lume adamantino e, franta,
In isprazzi di gemme arde e sfavilla,
E senza fin nella sonora e spanta
Conca ripiove e dalla conca stilla.

Sotto l’agili palme e le fronzute
Querce d’intorno par che lento spiri
Un desiderio di cose perdute.

E l’acqua canta! e nel suo dolce canto
Passan parole incognite e sospiri,
Guizzi di riso e fremiti di pianto.


CIPRESSI E PALME

O notturni cipressi e sonnolente
Palme, laggiù, sulla deserta china,
A specchio della tersa onda turchina,
Nereggianti sul rutilo occidente;

Mentre nell’alto ciel, dietro la trina
D’una rosata nube evanescente,
Come un profil di vergine languente
Della luna il sottile arco s’affina;

O lente palme, o rigidi cipressi,
Dite, se novo e ignoto vïatore
L’orme pur ora in queste rive impressi;

Perché la nostra visïon di tanto
Dolce tumulto mi rïempie il core,
Perché mi trae sulle pupille il pianto?
RICORDO DI TOMI3

I.
Molle cantor delle innovate forme,
Di Vener blanda, delle Grazie ignude,
Le spiagge io vidi desolate e crude
Ove piangendo tu segnasti l’orme.

E vidi i campi ove maligna dorme,
Macerata dal sol, l’atra palude,
E calmucco pastor, squallido e rude,
Caccia tra’ pruni le pascenti torme.

Talor, seduto sull’estrema sponda,
Io mirava quel mar torbido e prono,
Corso a dilungo da fuggenti vele:

E udendo il vento mormorare e l’onda,
Udir nell’aria mi pareva il suono
De’ tuoi sospiri e delle tue querele.

II.
Stridea l’orrido verno: alta la neve
Premeva i campi di gelata soma:
E tu d’Italia il cielo, e le grandeve
Mura sognavi dell’eccelsa Roma.

Sognavi i cari sodalizii, e il lieve
Riso di Fabia e la fragrante chioma;
E già sentivi dileguar la breve
Vita e fiaccata ogni tua possa e doma.

Ove i tripudii allora? ove gli amici
Che di tumide lodi e di profferte
Sazïato t’aveano ai dì felici?

Sol eri: solo! e in cupa doglia immerso
Alle nuvole, ai venti, alle deserte
Rupi gridavi il disperato verso.
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3 Quando, sono ora molt’anni, io visitai quel tratto di costa del Mar Nero dove fu relegato Ovidio, pei tristi campi ricordati dall’infelice poeta erravano numerosi pastori di razza mongolica. Non so se vi errino ancora.
SONETTO FRATERNO

Bieca stirpe dell’uom! non io con raro
Verso di sogni e di pie frodi instrutto,
Lodi a te spargerò; non io d’amaro
E letal seme invidïabil frutto

Prometterò. Stupida e rea del paro
E vil tu sei; degna del fango in tutto
Onde nascesti, e senz’alcun riparo
Soggiogata all’error, dannata al lutto.

Ma pur, mentre un destin cieco ti guida,
Se in mezzo all’ombre onde il tuo ciel s’annera,
Alcuna luce inaspettata arrida;

Io, soprastando a quest’empia bufera
D’ingiurie atroci e d’angosciate strida,
T’esorterò: Leva la fronte, e spera!



L’ORGANETTO

Hai tu la notte mai, giacendo in letto
Fra sonno e veglia a tard’ora sospeso,
Hai tu la notte mai da lunge inteso
Singhiozzar nella strada un organetto?

Singhiozzar lento, affaticatamente,
Un’aria dolce che piange ed implora,
Un’aria udita da fanciul sovente
E non scordata più dopo d’allora?

Sono povere note di soprano
Un po’ rauche, un po’ rotte, un po’ stonate;
Ma singhiozzan nel bujo e di lontano
Così dolenti, così sconsolate!

E tu pensando ai dì fuggiti, al santo
Riso materno, ad un perduto amore,
Piover ti senti giù dagli occhi il pianto,
Senti una lama che ti passa il core.

LA CARICA NOTTURNA

Cupa la notte, le stelle spente.
Squarciando il seno
Dell’ombre, rapido, là da ponente
Guizza il baleno.

Di tratto in tratto, fra i monti e il mare.
Sotto quel brivido
Silenzïoso di lume livido,
Appar, riappare

Una funerea landa deserta,
Di pochi e torti
Alberi sparsa, ma ricoperta
Di corpi morti.

Ah, la battaglia fu lunga e fiera
Tra gente e gente!
Durò dall’alba sino alla sera
Terribilmente.

I vincitori son già lontani,
Cacciando i vinti:
Soli, insepolti, pei vasti piani
Giaccion gli estinti.

Tutto è finito: dell’armi tace
L’orribil suono:
Sotto l’immobile ciel tutto è prono
Silenzio e pace.

Pace? Silenzio? — no! per lo scuro
Aer da lunge
Un frettoloso, lugubre giunge
Suon di tamburo.

Cresce, s’appressa, fra il mare e il monte,
Più cupo e intenso;
Empie la cerchia dell’orizzonte
D’un rullo immenso.

A quel fragore dalle funeste
Glebe i defunti,
Rimescolandosi, tetri, consunti,
Levan le teste.


==>SEGUE


Smarrito intorno ciascun si guata:
«Che c’è? che vedi?»
Afferran l’arme c’hanno a portata,
Balzano in piedi.

E un grido s’alza lungo, angoscioso:
«Noi morti siamo!
Pugnando uccisi fummo: or vogliamo
Pace e riposo.»

L’orrendo grido la notte introna:
Ma di lontano,
Sopra il tumulto, la voce tuona
Del capitano:

«Non mai riposo, non pace! Guerra!
Con dubbie sorti
Pugnano i vivi, pugnano i morti
Anche sotterra.

Nuovi dissidii, nuovi cimenti,
Destino antico.
Guerra e sterminio! Soldati, attenti!
Ecco il nemico.»

Aspro uno scroscio di rauche trombe
Lacera l’aria: —
O vile armento, stirpe gregaria,
All’ecatombe!

Ondeggia intorno tumultuando
L’atro, cruento
Campo, siccome fa il mare, quando
Lo squarcia il vento.

Un attrupparsi che preme e ingombra
Da tutti i lati;
Un tonfo sordo di misurati
Passi nell’ombra.

Di furiosi cavalli via
Sfolgora un groppo;
Pesante un traino d’artiglieria
Passa al galoppo.

Incendiando la balza estrema
Dell’orïente,
Spunta un menisco sanguinolente
Di luna scema.

==>SEGUE
L’obliquo raggio lambe le vette,
Discende e rade
Un’irta selva di bajonette,
Di lance e spade.

Avanti, avanti! Chi si rammarica?
Del fato i duri
Decreti adempiansi. — Trombe e tamburi
Suonan la carica.


LA LEGGENDA DI ECCARTO

È questa, in sostanza, la leggenda del monaco Felice, narrata da più e più scrittori del medio evo, ripetuta da parecchi poeti moderni, e viva tuttora nelle tradizioni popolari di molta parte d’Europa. V. Gehring, Islendzk Aeventyri, Halle a. S., 1882-4, vol. II, pp. 120-2, dove sono date in proposito le indicazioni opportune. La mitologia cristiana non è di certo così poetica come fu la pagana; ma ha pure la sua poesia, alla quale può sempre attingere l’arte. Che cosa s’abbia propriamente a intendere per mitologia cristiana non si può certo dire in poche parole, e, a ogni modo, non è qui luogo a discuterne.

I.
Oh primavera, o di pietoso cielo
Caro dono al mortal! tu dopo il gelo
Crudo, e le nevi e i tedïosi giorni
Del verno tu sempre benigna torni
A rallegrar questa terrena sede
E questo esilio, ove di tanto eccede
Sul piacere il dolor. Tu l’aer fosco
Pia rassereni; tu risvegli il bosco
Dal pigro sonno, e rinverdir sul colle
Fai la fervida vite, e l’aspre zolle
D’erbe rivesti e di novelli fiori.
Tu le tenere brame e i dolci amori
Lieta rinnovi; e l’uom, che in te respira,
Apre, oblïando ogni sua pena, e l’ira
D’occulto fato, a nuovi inganni il core;
E gioja sente d’esser vivo, e l’ore
Benedicendo alfin, da te la cara
Speranza e il riso e la letizia impara.
O primavera tenera e diletta,
Che tu sia ringraziata e benedetta!

Cupa etade volgea. Milledugento
Anni eran corsi omai dal nascimento
Di quel che venne a ristorar la sorte
De’ discacciati e con ingiusta morte
Volle ricomperar le umane vite;

==>SEGUE
E di Turingia, là, sotto l’immite
Cielo più cara alfin, dopo una fiera
Invernata, fioria la primavera.
Cupa etade volgea, d’alte sciagure,
D’opre atroci e d’obbrobrii e di paure
Oltre ogni dir contaminata e piena:
Schiavo il buono del reo; non premio o pena
Che di giustizia o di ragion le sante
Leggi servasse; non virtù, fra tante
Iniquità, che aperta offesa o insidia
Non avesse a temer. La bieca invidia,
La malvagia superbia e la peggiore
Avidità, con l’odio e col furore,
Aver pareano in lor dominio il mondo,
Che, non redento, no, ma in più profondo
Error sommerso, di contese tutto
Riboccava e di scandali e di lutto;
Né di pace, sollievo unico ai nostri
Mali, il nome s’udia, so non nei chiostri,
Che in erme valli, in laberinti cupi
D’alte boscaglie e di scoscese rupi,
Incontro al mondo si facean cintura
Di ferree porte e di gagliarde mura.

II.
Sopra ogni asil di pace e di riposo,
Fu per antica santità famoso
A quei giorni in Turingia un monastero,
Che di San Benedetto il vivo e vero
Spirto e la santa regola serbava.
Sorgea tra monti, in fondo ad una cava
Gola remota; e torbida e rubesta
Lo cingea da ogni banda una foresta
Di densi faggi e di notturni abeti,
Ov’era copia d’acque, e pei quïeti
Recessi, in mezzo all’eriche e ai ginepri,
Correan sicuri caprïoli e lepri.
Alto silenzio a quella pia dimora
Sedeva intorno, e solo ad ora ad ora
Lo rompeva il clamor delle campane,
Che mugghianti, imploranti, empiean d’arcane
Voci d’angoscia e di devoto zelo
L’angusta valle, il curvo monte, il cielo.

==>SEGUE
Fra cento giusti che, voltato il tergo
Alla rea Babilonia, in quell’albergo
Semplici e puri conducean la vita,
Fu di nobile stirpe e di fiorita
Virtù, di vivo e fervido intelletto,
E d’angelica forma, un giovinetto,
Che sol di poco avea passato il quarto
Lustro, e per nome si chiamava Eccarto.
Nato in mezzo alle pompe, in aurea sede.
Non indegna di un re, unico erede
D’un possente signor, cui di protervi
Conti e di sgherri e d’angariati servi
Stuol diverso obbediva, ei, come prima
Ebb’uso di ragion, fè giusta stima
D’ogni terrena vanità, del molto
Oro ed argento, del bugiardo volto
Della sterile gloria, e infin di quante
Ingannevoli larve il volgo errante
Beni addimanda e con perverso amore
Sempre agogna e persegue; e pieno il core
D’alta speranza, ciò che al volgo piace
Disdegnando e schifando, a più verace
E più nobile meta erse il desio,
E fece voto di sacrarsi a Dio.
Tal crebbe: ed ecco che nel breve giro
Di poche lune l’ultimo respiro
Egli raccolse della madre cara;
E steso vide su cruenta bara,
Ucciso in guerra, il genitor feroce.
Egli pianse e pregò, ligio alla croce,
Al suo voto fedel. La fronte prona
Non aggravò della ducal corona;
All’aureo scettro, all’ingemmato brando
Non istese la man. Con novo bando
Ogni suo servo, ogni più vile ancella
E prosciolse e dotò: terre e castella
Ed armi e vesti di regal decoro
E prezïosi arredi e gemme ed oro,
Ogni cosa donò; poscia, rimasto
Povero e solo, il dilicato e casto
Corpo vestì di rozze lane, il biondo
Crin di sua man recise, e detto al mondo
Addio per sempre, ogni sua frode eluse,
E nell’asilo del Signor si chiuse.
==>SEGUE
III.
Ora dunque più pia, dopo una fiera
Invernata, redìa la primavera,
E schiaravasi il cielo, ed era il maggio.
Ai blandi fiati vagabondi, al raggio
Carezzante del sol, pei verdi prati,
Sulle balze deserte e i dirupati
Greppi e le sponde sinuose, a gara
Nasceano i fiori; e via per l’aria chiara,
Quant’era il giorno, risonar s’udiva
Degli uccelletti la canzon giuliva.
Un mattin, dopo aver nella sua cella
Pregato a lungo il Redentore e quella
Dolce signora che ’l chiamò figliuolo,
Uscì dal chiostro Eccarto e tutto solo
Aggirando s’andò per l’alto seno
Dell’antica foresta. Era sereno

Più che mai fosse il cielo; era quïeta
L’aria allo intorno. Il giovinetto asceta
I gran tronchi mirava e le profonde
Volte e il rigoglio delle nove fronde,
Tra cui fulgido e vivo a quando a quando
Scendea di sole un raggio, illuminando
Rôse ceppaje, e dilicate felci,
E groppi scabri di muscose selci:
E in rimirar quella mutevol scena,
Così di pace e d’innocenza piena,
E in ascoltar degli uccelletti il canto,
Sentiasi il core traboccar d’un santo
Ed incognito gaudio e le pupille
Inumidir d’affettuose stille.
Giunse, così vagando, a un picciol prato,
Ove, di foschi abeti incoronato,
Vasto e sublime trascendea nel mezzo
Un solitario faggio, e del suo rezzo
I fior novelli e le novelle erbette
All’intorno copria. Quivi ei sedette,
Invaghito di far breve dimora
Sotto quell’ombre; e già sonata l’ora
Terza da tempo, ed era omai di poco
Lunge il meriggio. Alto silenzio il loco
Ermo teneva, alta quiete, e in giro

==>SEGUE


Non ramo o fronda si movea, non spiro
Fremer di vento, né d’uccel canoro
Voce s’udia. Come una freccia d’oro,
Per mezzo ai rami del vetusto faggio,
Obliquamente sfavillando, un raggio
Saettava di sole, e in una polla
D’acqua ferìa, che sulla verde zolla
Spandeasi muta, e simile ad un terso
Occhio azzurro lucea. Sedendo immerso
In quella gran quïete e in quell’austero
Silenzio, Eccarto in un sottil pensiero
Entrò, come potesse in paradiso
Esser tanta letizia e tanto riso
Quanto finger non sa l’umana mente,
E durar senza tempo, eternamente.
Or mentre egli s’andava in quell’astratto
Pensier quasi smarrendo, ecco che a un tratto
Un bianco uccello fra le verdi cime
Del faggio prese a modular sue rime,
Empiendo l’aria di sì dolce suono
Che il cielo tutto e dell’Eterno il trono
Parea fosser discesi in quel recinto.
Stupì l’asceta, e ammalïato e vinto,
Di tanta ebrezza e così nova il core
Inondar si sentì, da tale ardore
Delizïoso si sentì consunto,
Ch’e’ ben credette in quello stesse punto
Passar da questa alla superna vita.
Non suono d’arpe da maestre dita,
Sotto la luna, disposato al vento;
Non fuggitivo e tenero lamento
Di sospirosi flauti entro la scura
Notte perduti; non profonda e pura
Voce d’organo, allor che fa le cupe
Volte e i pilastri d’intagliata rupe
Spiritalmente palpitar nel voto
Aere, dato gli avean pure un remoto
Presentimento mai di quell’arcana
Voluttà, di quell’estasi sovrana.

IV.
Ma cessa il canto, e ancor tra fronda e fronda
Scende quel raggio a saettar nell’onda,

==>SEGUE

IL SONETTO

Come il sottile intagliator la chiara
Gemma sfaccetta, onde ne’ vitrei seni
Fiammeggi e rida una gioconda gara
D’iridi accese e d’agili baleni;

Tu sfaccetta il sonetto, ove la cara
Rima sfavilli, e negli alterni freni
Del saldo verso, e nella forma avara,
Il pugnace pensier si rassereni.

Poi denso e forte, nitido e lucente,
Nel rigor di sua forma adamantina,
Tu lo licenzia fra la umana gente;

E il tempo mai non potrà fargli sfregio,
E l’uomo in cui più puote e più s’affina
Virtù, l’avrà più ch’altra gemma in pregio.
Piegato appena; e il giovane, levando
Gli occhi bramosi, dileguar pel blando
Azzurro vede il prodigioso uccello.
Per seguitarlo move il pie; ma in quello
La campana del chiostro ode, che suona
Poco discosto, annunzïando nona.
Torce allora il cammino, ed al ritorno
Affretta i passi; ma, guardando intorno,
Non ben conosce la già corsa via,
E sì gli par che tramutato sia
L’aspetto in parte della selva antica.
Procede incerto, e dove più s’intrica
Quella, di su, di giù, fra rovi e spine,
Gira, rigira, si smarrisce. Alfine,
Quando già more il dì, stanco ei riesce
Sovra il piazzale, innanzi al chiostro. Cresce
Allora in lui la meraviglia. Ei vede
Fatta maggior quella diletta sede:
Ov’era bosco vede prato, e un chiuso
Ove un prato fu già. Riman confuso,
E dubitando va d’alcuna frode
Di colui che nel mal trïonfa e gode.
Pur fa core, e s’inoltra, e alla ferrata
Porta picchia perplesso. Ad una grata
S’affaccia un portinar scarno e canuto
Ch’e’ non ricorda d’aver mai veduto.
Lo guata quello attentamente, e poi
Gli domanda: «Chi sei, frate? che vuoi?»
Risponde l’altro: «Eccarto io sono, e frate
Di questo chiostro, e non ancor passate
Molt’ore son ch’io me ne mossi.» — «Eccarto?
Volgon trent’anni omai ch’io non mi parto
Da questa soglia, e primamente, ascolto
Ora il tuo nome, e mai non vidi il volto.»
— «Né io, ti vidi mai, né intender posso
Onde tu sia; ma dicoti che mosso

Pur di qui mi son io questa mattina,
Dopo terza, e che poi nella vicina
Foresta errando, non so dirti come,
Ho smarrito la via. Però nel nome
Di quel Gesù che a carità ci esorta,
Ti prego che tu m’apra questa porta.»
— «Tutti ci ajuti il buon Gesù! ma temo,

==>SEGUE
O che tu sia dell’intelletto scemo,
O che il demonio t’abbia teso alcuno
De’ lacci suoi. Qui non fu mai nessuno
Che avesse nome Eccarto; e innanzi nona
Da questa porta non uscì persona.»

V.
Molte fûr le parole e le preghiere
E le repulse; e già calavan nere
L’ombre; e già s’accendean le vespertine
Luci nell’alto. Il portinajo alfine,
Che altro dir più non sapendo, e il core
Di pietà punto, andossene al priore,
E narratogli il caso a due riprese,
Di fargli noto il suo piacer gli chiese.
Era il priore uomo di santa vita
E di vasto saper. Com’ebbe udita
La strana nuova, un po’, tacitamente,
Stette sopra pensier, però che a mente
Molti egli aveva e memorandi esempi
Di meraviglie, negli antichi tempi
Occorse al mondo, e nei recenti ancora;
Poscia al frate parlò: «Senza dimora
Fa’ ch’io vegga quell’uom. Se il ver presento,
Vedrem noi questo dì novo portento.»
Venne Eccarto piangendo, e come ingiunto
Gli fu, prese a ridir punto per punto
Quanto già detto avea, chiamando il cielo
Tutto e i santi misteri e l’evangelo
In testimonio delle sue parole:
Né già parve al prior che sogni o fole
Gli narrasse colui. Per gran ventura
Vivea tuttor fra quelle sacre mura
Un antico fratel, che ben ottanta
Anni vissuto v’era già, con tanta
Virtù, quanta ne cape in uman petto:
E per soverchia età giaceasi in letto
Da gran tempo, con fervido desio
Di finir presto e far ritorno a Dio.
Il prior con Eccarto e l’altro frate
Se n’andarono a lui, che di beate
Speranze giva confortando al passo
Ultimo e duro lo spirito lasso;

==>SEGUE
E lo trovâr che, solo, a mezza voce,
Stava pregando con le braccia in croce.
E il prior sì gli disse: «O buon Guntero,
Dimmi, sai tu che in questo monastero
In alcun tempo mai fosse un fratello
Chiamato Eccarto? e sai tu dir di quello
Alcuna cosa?» Sollevò lo sguardo
A quegli accenti il pallido vecchiardo,
E stato un po’ com’uom che si rammenti
A gran fatica di remoti eventi,
Disse: «Da poco io era in questo chiostro,
Quando per troppa età morivvi un nostro
Fratel ch’io spero ritrovar fra’ santi;
E da lui seppi che molt’anni avanti
Eravi stato un nobil giovinetto,
Simile nel costume e nell’aspetto
A un serafino, e si chiamava Eccarto.
Il qual di poco avea passato il quarto
Lustro, quando un mattin di primavera
Uscì pel bosco, e (qual che poi la vera
Cagion ne fosse) in quello stesso giorno
Sparve, e non fece mai, mai più ritorno,
E nessun più di lui seppe novella.»
Piangendo Eccarto udì narrar da quella
Verace bocca il proprio caso; e il santo
Priore in lui riconosceva intanto
Quel serafico volto e quel costume.
Egli un antico e logoro volume
Fece recar, dove con certe sorti
Da trecent’anni si scrivean le morti
Di tutti i frati di quel chiostro, e in esso
Trovò che un secol prima, in quello stesso
Giorno, il povero Eccarto era di quivi
Sparito, e forse era mancato ai vivi.
Novo e grande miracolo di Dio
Manifesto allor fu: quella che al pio
Servo di Cristo era sembrata un’ora,
Quando in ciel si credé dalla canora
Voce rapito e da’ beati inganni
Del bianco uccel, durata era cent’anni.

Tutti il prior fece venire i frati,
E del prodigio onde li avea degnati
L’Onnipossente diede lor contezza.

==>SEGUE

Chi potria lo stupore e l’allegrezza
Di quei cori ridir? chi le domande
E le care accoglienze e l’onor grande
Che ad Eccarto ognun fe’? Passar l’intera
Notte vegliando, in fervida preghiera
Tutti raccolti, e quando fu ’l mattino
A celebrar s’accinsero il divino
Mistero, e a tributar grazie ed onore
Del mirabil prodigio al Redentore.

VI.
Sfolgora il sol nel puro ciel di maggio;
Ferve di vita il gran bosco selvaggio;
Per campi e balze, per dirupi e rive
Sbocciano i fiori a gara, e di giulive
Canzoni empion gli augei la solitaria
Valle e il sacro manier. Scoppia nell’aria
Delle campane fragorose il tuono,
E in alto e lunge il glorïante suono
Via pei deserti gioghi e le profonde
Gole corre inesausto e si diffonde.
Sublime in fondo alla maggior navata,
Sotto l’aguzza volta accavalcata,
Nella penombra mistica l’altare
Come un’accesa visïon compare;
Splendono fra gli sculti, erti pilastri
L’argentee lampe in somiglianza d’astri;
Dai gran vetri dipinti, in varia luce
Di sfavillanti gemme, il sol traluce.
Entrano in fila salmeggiando i cento
Frati. Solo, davanti al sacramento,
Eccarto si riman. D’un pivïale
D’oro vestito, entra il priore e sale
Maestoso all’altar. Principia il santo
Mistero: un dolce e doloroso canto
L’organo scioglie nel silenzio, e denso
S’alza il vapor dell’odorato incenso.
Dalle man del priore Eccarto il lieve
E bianco pan degli angeli riceve;
Ma in quello stesse punto, oh meraviglia!
Novo prodigio fa inarcar le ciglia
Ai genuflessi astanti. All’improvviso,
Candido il crine, scolorato il viso,

==>SEGUE
Eccarto appar decrepito d’estrema
Decrepitezza, al suol s’accascia, trema,
Volge, mancando, al ciel gli occhi sereni.
Corrono i frati ad ajutarlo, pieni
Di stupor, di pietà, di santo zelo.
Invano. Eccarto è morto. Eccarto è in cielo.

LA MALA PIANTA

Molte fïate a questo cor che in petto
Senza riposo mi martella e freme
Io dissi: Uccidi la speranza e insieme
Il desiderio onde ti fai ricetto.

Uccidi, o stolto, il pernicioso seme
Che ripullula sempre, e il maledetto
Frutto produce di bugiardo aspetto
Onde null’altro che velen si spreme.

E già molte fiate (o segni infidi!)
Credei che fosse la radice infranta
Del reo rigoglio e il seme ancor distrutto.

E dell’inganno ebbi a dolermi, e vidi
Sempre rigermogliar l’antica pianta
E maturar l’avvelenato frutto.

L’IRIDE

Dall’aspra gola e dalla scissa sponda,
Fra negre rupi smisurate, il fiume
Giù nell’abisso ove non splende lume
Precipitando senza fin sprofonda.

Dell’acque il greve e torbido volume
Balza, tuona, s’infrange, e furibonda
Insorgendo e cozzando onda contr’onda,
Tutto è strazio e fragor, vortici e spume.

Ma sul cieco tumulto e la ruina,
L’iride, nel fremente aer sospesa,
Incontro al sol l’arcato nimbo inclina;

E lieve, muta, immobile, tranquilla,
Di sette luci adamantine accesa,
Ingemmando l’abisso, arde e sfavilla.
Graf dichiara auspicabile un’Università da cui escano uomini e non fantocci, e che «non ignori lo spirito e i bisogni dei tempi»; essa è «organo della scienza» e dunque deve aver fede nella verità e aiutare l’uomo a conoscere la realtà esterna e se stesso. Attualissima la sua denuncia delle sperequazioni esistenti tra le risorse impiegate per promuovere le diverse discipline; alle varie scienze sono, sì, richiesti spirito analitico e sintetico, ma «la vision comprensiva di un tutto concreto è sempre, in un qualche modo, visione artistica, visione poetica». Il suo sforzo […] di conciliare ecletticamente la concezione desanctisiana dell’arte con le nuove istanze scientiste, la critica estetica con la critica storica (quasi stabilendo un prima e un poi fra ricerca positiva e giudizio critico, e cogliendo nella psicologia lo strumento con cui superare la soggettività del «gusto») lo sottraeva all’uno e all’altro schieramento, senza conferirgli quell’autorevolezza che gli sarebbe poi derivata (se pur senza grandi clamori) dalle sue maggiori opere critiche ed erudite, ben più originali e consistenti di quelle iniziali riflessioni teoriche.
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