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LE DANAIDI







LIBRO TERZO

CONSIGLI A UN POETA GIOVANE

I.
Fuggi le vie nel mezzo e dalle bande
Troppo calcate di servili impronte;
Fuggi le compagnie garrule e pronte
Dove l’un piaggia l’altro e ognuno è grande.

Credi alla luce. Non turbar la fonte
Che dolci e puri i suoi lavacri spande;
Non infrascar di frivole ghirlande
Alla Bellezza la divina fronte.

Cara abbi l’opra, assai men caro il vanto.
Sii schietto e forte e generoso e altero;
Nè alla letizia ti negar, nè al pianto.

Svela, fingendo, l’immutabil vero.
Non iscordar che la parola è il santo
Simbolo dell’affetto e del pensiero.

II.
Semplicemente, onestamente vivi:
Lungi, se puoi, dalla città, discara
Stanza ai poeti; lungi dall’amara
Compagnia degli stolti e dei cattivi.

Un picciol tempio rusticano, un’ara,
Tra casti lauri, o tra fecondi ulivi,
Consacra al nume che tu adori, e quivi
La stanca vena e il buon desio ripara.

Ozio, lascivia, incuria aborri. Molto
Chiedi a te, nulla altrui, poco alla sorte,
Pago del frutto che tu stesso hai colto.

Sii giusto e pio: sarai tranquillo e forte.
Al core, ai sensi conformando il volto,
Servi alla vita e non temer la morte.
III.
Se alcun ti dica: Non cercare i vieti
Sogni bugiardi e le remote prode;
Ma tienti ai fatti spiccioli e concreti,
Ai noti luoghi, alle correnti mode;

Tu, disdegnando i facili divieti,
Il pio consiglio e la promessa lode,
Rispondi: Il mondo tutto è de’ poeti,
E di tutto abbracciar la Musa gode.

Segui tua via; procedi lento e sali,
Temprando i nervi alla fatica e al duolo;
Poi, sorta l’ora, se ti bastin l’ali,

Se il cor ti basti, audacemente il volo
Spiega attraverso i secoli fatali,
Pel vasto ciel, dall’uno all’altro polo.



IV.
Non invidiarti da te stesse il regno:
Non dir: Ciò m’è straniero e non mi tange;
Se indegno ancor ti sai, renditi degno;
Se non basti tu sol, fatti falange.

Al senso prode, al virtuoso ingegno,
Nulla è stranier di quanto vive e s’ange
Nulla prescriver può termine o segno;
Non l’Alpe o il mare, non l’Eurota o il Gange.

Occhio che mai non dorme e tutto vede;
Cuore che sempre batte e tutto sente;
Bocca che tutto dice e nulla chiede:

Tale il poeta libero e possente;
Tale il poeta della vera fede;
Tale il poeta dell’umana gente.

V.
Ama le grandi, ama le rare cose;
Non isdegnar le piccole e le trite;
Ché in tutte il Tutto di sua gloria pose,
E tutte son manchevoli e finite.

Vasto uno spirto d’alleanze ascose
Le avverse allaccia e le concordi vite:
Di putri zolle nascono le rose;
Dalla spuma del mar nasce Afrodite.

Interroga il rotante astro ne’ cieli,
E nell’aria il pulviscolo sottile,
E tra le glebe i più minuti steli.

Non è sì alta cosa nè sì vile
Che un’idea non incarni e non la sveli
All’insonne intelletto, al cor gentile.



VI.
Devotamente la bellezza adora,
Ché ben d’amore e d’onoranza è degna;
Né disertar la sua beäta insegna
Per voglia o dubbio che in te nasca o mora.

Troppo il mondo s’attrista e discolora,
Se avvien che il puro suo fulgor si spegna;
E sol dov’ella irradïando regna
Il cammin della vita all’uom s’infiora.

Ma non a lei dal basso mondo e truce,
Tutta conceder l’anima rapita,
Ogni altra dea sdegnando, ogni altro duce.

Se bene in lei sia vita a luce unita,
Ella non è però tutta la luce,
Ella non è però tutta la vita.



VII.
Pien di sciagura e di nequizia è il mondo
E d’opre atroci e di funesti errori:
Tu lo vedi e ne sdegni e te ne accori,
E sì lo gridi ai vinti e al ciel profondo.

Ben fai. Ma non pensar che un furibondo
Giambo che infïammi e gonfii d’odio i cuori
Molto valga a far gli uomini migliori
E a sollevar di lor miseria il pondo.

Ah, l’odio è un tristo e maledetto seme,
Dal quale altro sperar che una più rea
Messe di mali è forsennata speme!

Il pazïente amor sol esso crea;
E nel tumulto che l’avvolge e preme
Lenta procede la divina idea.



VIII.
A cor ti sia di rispettar la Musa
Come tua cara donna, anzi sorella,
E di stornar dal capo suo l’accusa
Che il nome offusca ed ogni onor cancella.

Non dir parola onde la pura e bella
Fronte s’atterri di rossor confusa;
Non far ch’abbia a ridursi umile ancella
La nata al regno ed al servir non usa.

Non cangiarle la cetra in colascione;
Non la trainar pei chiassi o per le corti,
Dove sono erte ciglia, anime prone.

Chiama a udir suo bel canto e suoi conforti,
A farle onore e ad offerir corone,
I puri, i saggi, i mansueti, i forti.


Arturo Graf - LE DANAIDI - Libro III
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
Le prolusioni torinesi di
Arturo Graf
_________

di Maria Panetta
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Il 13 dicembre 1876 Arturo Graf, professore incaricato all’Università di Torino, lesse la sua prima prolusione al corso di Storia comparata delle letterature neolatine, insegnamento da poco istituito dal ministro Ruggero Bonghi.
Nell’Ateneo torinese si creò un clima di grande curiosità intorno al giovane professore dal cognome tedesco: il favore ottenuto da Graf superò ampiamente le aspettative e l’allievo Renier poté affermare che «parlò con lucidezza inarrivabile, con informazione sicura e precisa, con larghezza di vedute del metodo comparativo della storia letteraria».
Egli propose di applicare il criterio della comparazione anche alla «storia delle umane lettere», seguendo l’indirizzo proficuamente inaugurato dall’uso di quel metodo nella scienza del linguaggio: anche la fantasia, a suo giudizio, «ha le sue leggi, e la libertà umana è limitata anche nel dominio del capriccio. La […] menzogna della favola più stravagante è sempre condizionata assai da presso dalla verità della vita».
In ogni opera poetica, Graf rintraccia due matrici: una avventizia, fortuita, sarei per dir fenomenica, nella quale si rivela l’indole particolare, il particolare temperamento, la fisonomia propria di colui che l’ha prodotta; l’altra costante, necessaria, essenziale, in cui si riflette la coscienza e il costume del popolo in mezzo al quale l’opera fu prodotta, e in cui vive come si suol dire, lo spirito de’ tempi.

Tra le letterature dei diversi popoli si possono riscontrare notevoli affinità e si devono rintracciare «nel vario e nel mutevole il conforme e il costante»; i criteri e i procedimenti della storia delle lettere devono restare storici, ma ci si può servire del prezioso ausilio della psicologia, a suo giudizio allora finalmente degna del nome di scienza. Egli si rallegrava, inoltre, della nascita di una «estetica nuova», fondata «non sopra il gusto passeggiero di un tempo, ma sulle naturali qualità e proprietà delle cose» e utile, dunque, a intendere le forme d’arte «più prossime» come quelle più remote, sempre che gli studiosi si lascino guidare dalla «ragione» e diffidino dei facili indizi, attenendosi ai «fatti più stabiliti». Nel processo di «cognazione delle letterature», infatti, non si assiste mai ad una semplice imitazione, ma «le forme prese a prestito sono assoggettate a varii processi di elaborazione e di svolgimento, i quali possono a volte andar così oltre da mutar loro l’aspetto e da occultarne la origine».

Riguardo a quest’intervento, Ajello parla di «rivoluzione metodologica del gesto del comparare», operata da Graf proponendo di oggettivizzare il dato fenomenico, di precisare una prassi scientifica che porti allo studio dell’opera d’arte in relazione all’ambiente che la produce e a quello che la consuma; il giovane professore sistematizzando proprio una razionalizzazione, ancora di là da venire, dei meccanismi della «fantasia» portava mediante la comparazione, la psicologia proprio dentro l’estetica, e per questa via ancora e definitivamente la storia.

Rimasta vacante la cattedra di Letteratura italiana del Coppino, alla fine del 1876 ne fu affidato l’incarico allo stesso Graf, che inaugurò il corso, il 22 gennaio 1877, con una seconda prolusione, Dello spirito poetico de’ tempi nostri, in cui fece aperta professione d’italianità (e dopo la quale ottenne la cittadinanza italiana), nonostante fosse nato ad Atene e il padre fosse norimberghese: Partendo dal principio che il gusto poetico cambi naturaliter col mutare delle epoche storiche, Graf affermava essere inutile chiedersi se la poesia moderna sia superiore all’antica, avendo essa perso in «amplitudine» per guadagnare in «acuità». Egli sosteneva che la scienza e il realismo nuocciono alla poesia, che si nutre di mistero, oscurità e «dubbiezza», ed ha bisogno del mito; rispetto ai loro predecessori, i moderni, a suo giudizio, sono più concentrati su se stessi e sul proprio travaglio interiore, e la psicologia ha pervaso anche il romanzo e il dramma: al personaggio emblematico di Achille, tutto azione esteriore, si è sostituito quello di Amleto. Si prova «uggia della vita», nonostante l’incivilimento dei costumi e il progresso scientifico: la conoscenza del vero, anzi, ha condotto alla disillusione riguardo alla cruda e inesorabile necessità delle cose, cosicché «da questo contrasto del tendere a maggior libertà e del sentire più intera la schiavitù si genera negli animi nostri una vena inesauribile di amarezza. Ma una vena ancora di profonda e di sentita poesia». La percezione del dolore è entrata nel dominio della riflessione e ne ha acquisito la «tendenza all’infinito e al trascendente »: da ciò la moderna propensione all’intellettualismo in poesia.

Lo spirito poetico dei moderni è essenzialmente «subiettivo» e ciò spiegherebbe la prevalenza del genere lirico su quello epico: a giudizio di Graf, però, bisogna parlare di «mutazione» e non di «decadenza» del gusto. La tragedia, invece, la considera morta, essendosi perso il senso del tragico nell’esistenza. La forma poco curata, infine, lo stile «sciamannato dei giorni nostri» non sono solo frutto di negligenza, perché un «pensier tormentato ed instabile non può più trovar luogo negli incorniciati e scompartiti schemi del vecchio stile rettorico».

«La poesia non muore nel mondo […] – conclude Graf – muta forma, e tempra e carattere, ma non muore». Contemporanee a questa prolusione sono le tre lezioni accademiche apparse sulla «Rivista di filologia ed istruzione classica» nell’aprile 1877, per le quali Graf dichiarava di aver «lasciato allo scritto la forma libera e sciolta della esposizione orale».
Egli esordiva affermando che l’oggetto della storia letteraria è «la poesia in quanto espressione artistica del pensiero mediante la parola», e non le «forme sceverate dal loro contenuto». La letteratura scientifica, invece, appartiene alla storia generale della cultura, o a quella dello spirito umano, mentre la poesia didascalica rientra nella storia della letteratura solo se ha interesse estetico, poiché «la poesia non si propone e non si ha da proporre nessunissimo scopo»: la storia letteraria, dunque, si occupa dei grandi scrittori e dei minori che segnino momenti importanti nell’evoluzione del pensiero poetico. Riguardo ai metodi di studio, quello «biografico-cronologico», sebbene sia «il più disadatto», può aiutare a capire le reciproche influenze tra imitatori e scrittori originali; quello «estetico», più scientifico, rischia di spezzare l’unità poetica dello scrittore riconducendone le opere a generi diversi; quello «storico» finisce per non spiegare le «ragioni interiori »: perciò, «nello insegnamento si ha da usare di tutti e tre i metodi».

Graf ritiene che la letteratura a lui contemporanea abbia «pochissima intimità, e scarsissimo carattere nazionale» perché imita troppo tedeschi e inglesi, in poesia, e i francesi nel romanzo e nel dramma: del resto l’Italia si è dovuta adeguare troppo in fretta ai progressi filosofici e scientifici di altre nazioni. «L’indole non suole variare se non con estrema lentezza» – osserva – anche riguardo alla lingua, ma, al contrario di ciò che pensano i puristi «piagnoni», questi processi vanno assecondati e «il supremo legislator delle lingue ha da essere l’uso». L’esame delle origini delle letterature risulta di grande importanza, assieme a quello delle «derivazioni» da popolo a popolo: infatti, «l’imitazione servile dei capolavori torna sempre in grave danno della poesia, ma non così lo studio avveduto e giudizioso». In ogni caso, egli giudica più proficuo imitare i moderni rispetto agli antichi, perché ritiene che con essi abbiamo in comune almeno il pensiero. Tra i sussidi cui la storia letteraria può far ricorso, Graf ritiene importanti la paleografia (indispensabile allo storico della lingua), la bibliografia, la critica storica e filologica (soprattutto per le edizioni di testi), la critica estetica (da esercitare con cautela e moderazione) e la comparazione. Denuncia, invece, un abuso di «critica psicologica».

All’età di 28 anni, dunque, «cominciava il professorato: era finita la giovinezza » – annotava tristemente egli stesso. Eppure l’insegnamento fu per lui un’esperienza vissuta sempre con passione e partecipazione, ed egli considerò un’organica educazione dei suoi cittadini uno dei principali obiettivi che ogni stato dovesse prefiggersi. Tra le tante, una bella testimonianza sulle lezioni diede l’allievo Gallico; Renier ricorda che il maestro «componeva e riteneva nella memoria, non tenace per lungo tempo, ma impressionabile sì da conservargli alla lettera per tre o quattro giorni ciò che aveva pensato, pagine e pagine di prosa, lezioni intere». E Gallico racconta, infatti, che prima di cominciare ogni lezione Graf dava un’occhiata rapida ad un foglietto d’appunti che aveva in tasca, come promemoria, e poi iniziava a parlare: dunque, ci troveremmo di fronte a discorsi fatti a braccio, e successivamente scritti e pubblicati. Vittorio Cian ammonisce, però, a non pensare che quelle lezioni fossero frutto della più spontanea e felice improvvisazione, perché il maestro le meditava e preparava a lungo, e pare che anzi le stendesse sulla carta: la memoria agile e la sua innata arte oratoria da conferenziere provetto potevano trarre in inganno. In genere si rifaceva alla lezione precedente per istituire un legame col già detto, così come, alla fine dell’ora, «che non era l’ora “accademica” cara agli scansafatiche, […] raccoglieva le fila del suo discorso e preparava il campo alla lezione seguente, di cui enunciava il tema». Egli «costruiva abbattendo. Moveva spesso da qualche affermazione di critico insigne – molto spesso il De Sanctis – che sottoponeva a metodica, minuta, sottile analisi», ma mai con animosità o orgoglio: Cian ricorda, in particolare, una felice lezione sul Decameron, durante la quale il maestro discusse e confutò il noto giudizio desanctisiano secondo cui il capolavoro di Boccaccio sia da leggere come la negazione del Medioevo63. «Sentiva il bisogno di volgere l’idea da tutti i lati, […] o accostarla ad altre, istituendo impensati, originalissimi confronti». Non si appagava mai delle mete raggiunte, e dunque «scomponeva e ricomponeva per tentare sistemi che, subito dopo, intaccava fino a frantumarli». Aborriva dalle definizioni, e amava ripetere agli allievi: «Amoreggiate con le idee fin che vi piace; ma, quanto a sposarle, andate adagio». Egli derivò, forse, dal positivismo quell’esitazione nel giudicare e quello scetticismo riscontrabili negli innumerevoli interrogativi presenti nelle sue lezioni. Le prolusioni sono costellate di nomi, non esclusivamente di poeti o prosatori, e denotano una cultura di base onnivora, profondamente meditata e padroneggiata con grande sicurezza. Croce riconduceva ad una certa «ansietà» di carattere e, riguardo ai versi grafiani, parlò di un avvicinamento progressivo alla «poesia parenetica e parabolica», sulla quale gravava sempre una certa «prosaicità»: Graf attribuì tali giudizi negativi ad animosità personale, per l’aspra stroncatura che egli fece della crociana Leggenda di Niccolò Pesce, nel «Giornale storico della letteratura italiana» del 1885.
Secondo Gallico, le lezioni più suggestive erano quelle «dovute alle introspezioni psicologiche, alle rivelazioni che il Graf poeta faceva di un poeta»: l’allievo ricorda «veri squarci lirici» tra cui il confronto tra sole e luna, suggerito appunto dalla lettura della leopardiana Alla luna. E anche Cian osserva: «in questi casi si rivelava nel lettore impareggiabile il maestro e il poeta, insieme alleati». Del resto, proprio introducendo Leopardi, il professore ammonì un giorno: Il brivido delle tenebre percorse numerose lezioni di Graf, che al «sentimento della morte» intonò anche parecchi versi; basti ricordare le cupe raccolte Medusa (1880, 1881, 1890) e Dopo il tramonto (1893), liriche della negazione disperata; le Danaidi (1897, 1905), che simboleggiano la vana impresa della vita umana; Morgana (1905) o l’illusione ingannevole: tutte dominate da lande desolate, tramonti sanguigni, naufragi, paesaggi deserti nei quali aleggia quasi un sentimento di «orrore della vita».
Numerosi dei suoi volumi di critica, come già detto, derivarono dagli studi condotti per i corsi universitari (dal 1876 al 1910): tra gli altri, gli Studi drammatici, nati dalle prime lezioni sul teatro e la sacra rappresentazione; Attraverso il Cinquecento; Foscolo, Manzoni, Leopardi , che si serve dei materiali raccolti nel triennio 1894-1897, e che, a giudizio di Renier, può essere considerato un esempio di «critica introspettiva, psicologica ed estetica». Tenne corsi sulla drammatica medievale e sulla storia della superstizione nel medioevo, temi che si ritrovano, ad es., nel volume sul Diavolo e in Miti e leggende, e facilmente riconducibili alla sua passione per gli studi eruditi sulle leggende medievali. Sebbene fosse un intellettuale piuttosto riservato, Graf assunse posizioni ferme e coraggiose, talora eversive (seppur da interno al sistema), schierandosi contro il valore formativo delle lingue e delle letterature classiche (se non «in certi rami di cultura specializzata») e auspicando l’abolizione dell’insegnamento classico nelle scuole medie superiori; convinto della necessità di sprovincializzare i nostri studi, guardava soprattutto alla lezione della scuola tedesca. Combattè anche in favore della soppressione «di quelli orti chiusi che sono le Facoltà», perché fosse favorita la libera circolazione delle idee, e soprattutto di quelle «generali», di tipo filosofico, che «danno un senso e un indirizzo alla vita» e preservano lo spirito umano dal «gusto di soffermarsi e anneghittirsi negli angiporti» dei minimi problemi: infatti, come sottolinea Barbarisi, «fin dalle prime prolusioni aveva espresso l’esigenza di conciliare le istanze di ricerca e di rigore del metodo storico con l’ansia di scoprire le somme leggi che governano il pensiero fantastico». Nel 1901 si schierò contro l’erudizione eccessiva nelle scuole, in se stessa «meritevole e necessaria», ma quasi dannosa se assunta in forma totalizzante, perché conduce alla «stagnazione» dello spirito. Non bastano, insomma, solo dottrina o erudizione, ma la cultura dev’essere anche «educazione dell’intelletto, educazione del gusto, educazione della volontà». Davvero attuale, inoltre, il discorso del 27 ottobre 1906 su L’Università futura, letto nel V centenario della nascita dell’Ateneo torinese: partendo dal presupposto che buona cultura sia solamente quella che «armonizza in unione feconda il pensiero e l’azione, l’amore del bello e il proponimento del buono, la libertà e l’euritmia, la gentilezza e la forza»,
Graf dichiara auspicabile un’Università da cui escano uomini e non fantocci, e che «non ignori lo spirito e i bisogni dei tempi»; essa è «organo della scienza» e dunque deve aver fede nella verità e aiutare l’uomo a conoscere la realtà esterna e se stesso. Attualissima la sua denuncia delle sperequazioni esistenti tra le risorse impiegate per promuovere le diverse discipline; alle varie scienze sono, sì, richiesti spirito analitico e sintetico, ma «la vision comprensiva di un tutto concreto è sempre, in un qualche modo, visione artistica, visione poetica». Il suo sforzo […] di conciliare ecletticamente la concezione desanctisiana dell’arte con le nuove istanze scientiste, la critica estetica con la critica storica (quasi stabilendo un prima e un poi fra ricerca positiva e giudizio critico, e cogliendo nella psicologia lo strumento con cui superare la soggettività del «gusto») lo sottraeva all’uno e all’altro schieramento, senza conferirgli quell’autorevolezza che gli sarebbe poi derivata (se pur senza grandi clamori) dalle sue maggiori opere critiche ed erudite, ben più originali e consistenti di quelle iniziali riflessioni teoriche.
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IX.
In concreare, in modellar la forma
Poni di buono artefice la cura,
Né mai sull’opra dilettosa e dura
L’inappagato spirito s’addorma.

Tutta ella torni a numero e misura
Del pensier che la suscita ed informa;
E del travaglio cancellata l’orma,
Arte s’affermi e paja altrui natura.

Suoni nel verso e nella franca rima
La tua parola; ma la tronfia e vota
Musica sdegni e, ben sonando, esprima.

Sia, per vie meglio dir, simbolo e nota;
E mentre il suono con l’idea collima,
L’orecchio adeschi e l’anima percota.



X.
Pensa che il plauso della turba sciocca,
Altro non è che voto e instabil suono,
Che giunge e passa, e sol di rado tocca
A quei che degni di più gloria sono.

Pensa che lode d’incomposta bocca
È vitupero al generoso e al buono;
Pensa che alfine con viltà dirocca
Chi fu vilmente sollevato in trono.

Perciò tu movi, sotto chiari o bui
Cieli, al tuo segno, in mezzo a guerre e paci,
E di’ tuo verbo e non badare a cui.

Se pia la Musa non soccorra, taci;
E non curarti di piacere altrui
Se prima a te, fido censor, non piaci.

XI.
Se ti dimandi il fariseo: — Che è questa
Tua poesia nella cui lode abbondi?
Qual è suo pregio? e che guadagno appresta?
Certo e superbo di tua fè rispondi:

— Poesia è virtù che manifesta
E stringe il vero in simboli profondi;
È fuoco sacro sull’altar di Vesta,
Luce di tempi, sinfonia di mondi.

Poesia è d’amor gioja ed ebrezza;
Pianto e riso che affanna e che consola;
Libertà che castiga ed accarezza.

Poesia è pensier che canta e vola;
È sogno e forma d’immortal bellezza;
È l’anima dell’uom fatta parola.



XII.
Dante amò Beatrice e l’immortale
Canto di Maro e la Città del Giglio;
Ebbe per sua leanza onor d’esiglio,
E il pan conobbe che più sa di sale.

Dell’amor, del dolor fattosi scale,
Tra speme lunga e prossimo periglio,
Transumanò suo cuore e suo consiglio
E al pugnato destin si rese eguale.

Come un forte metal, flessile e terso,
La parola temprò, scolpì l’inciso,
Dedusse in lama il martellato verso.

Poi vasto, vario, indomito, preciso,
Descrisse fondo a tutto l’universo
E la gloria svelò del paradiso.
TRISTEZZA DI NOVEMBRE

La prima neve imbianca
La sommità del colle:
Scende una pace stanca
Sulle mietute zolle.

Di trilli e di richiami
Più non risuona il bosco.
Oh, lo squallor dei rami
Nell’aer freddo e fosco!

La dïafana spera
Dello stagno sopporta
Qualche piuma leggiera
E qualche foglia morta,

E fa veder, raccolti
Nell’orbe che la chiude,
Gli spettri capovolti
Delle arbori ignude.

Fuor della rupe cava
Querulo il fonte sgorga;
Ma fiore più non lava
Che in suo margine sorga.

L’aere impigrito e denso
Smorza la luce e il suono;
Spira ogni cosa un senso
Di tedio e d’abbandono.

D’una tristezza greve
L’anima mia s’ingombra:
Ecco la prima neve,
Ecco il silenzio e l’ombra.

Tornerai tu, se l’ôra
Blanda t’inviti, o maggio?
Rinverdiranno ancora
L’olmo, la quercia, il faggio?

Rinverdiran quei salci
Che dalla sponda a gara
Lentano i molli tralci
Sull’acqua muta e chiara?

==>SEGUE

Si copriran di novi
Fiori la piaggia e il brolo?
Rispunterà tra’ rovi
Il tenero giaggiolo?

Come novella sposa
Che s’alzi alla mattina,
Risorgerà la rosa
Dalla sua verde spina?

Faran da stranii lidi
Le rondini ritorno?
Pigoleranno i nidi
Al rinnovar del giorno?

O dolce primavera,
E tu che tanto amai,
Solitudine austera,
Vi rivedrò più mai?

D’una tristezza greve
L’anima mia s’ingombra:
Ecco la prima neve,
Ecco il silenzio e l’ombra.
LETIZIA D’APRILE

Dunque, se a vita i nidi
E le piante ridesti,
Anche, benigna, ai mesti,
O primavera, ridi?

E a chi deluso e stanco
In nuda zolla siede,
O move incerto il piede
Ed ha la noja al fianco?

E a chi la fine scorse
Di tutte cose umane,
E vive del dimane,
Anzi dell’oggi, in forse?

O santa primavera,
Com’è dolce il tuo riso!
Come per te l’alliso
Cor si rinnova e spera!

E fuggon dalla mente
Le ricordanze amare,
E tornano le care
Imagini redente!

E risorgon gli affetti
Soavi di natura,
Che la gravosa cura
Aveva oppressi e stretti! —

Nell’aer puro e fresco,
Tra ombre e tra fulgori,
Son nugoli di fiori
Il mandorlo ed il pesco.

E dalla sponda al colle
Luccica e ride il prato,
Tutto di fior stellato
E rugiadoso e molle.

Nata insiem con l’aurora,
Nell’erba, di lontano,
Occultandosi invano,
La mammoletta odora;

==>SEGUE


Mentre, ancor dubitosa
Dei venti e delle brine,
Cauta in mezzo alle spine
Affacciasi la rosa.

Dalla sdrucita invoglia,
Che si raggrinza e sperde,
Immacolata e verde
Sguscia la nova foglia;

E già pullula il vecchio
Olmo tra groppo e groppo,
E già frondeggia il pioppo
Lento, dell’acqua a specchio.

Musando attenta, incerta
Per brecce e chiassajuole,
Torna a scaldarsi al sole
La timida lucerta;

Ma gli uccelletti arditi
Vanno a rota per l’aria
Che dolcemente svaria
Di trilli e di garriti.

Un zefiro giulivo
Corre la valle e il monte,
Canta nel sasso il fonte,
Splende tra ’l verde il rivo.

Tutto si sveglia e freme,
Palpita, anela, brilla;
Nel lume che sfavilla
Tutto gioisce insieme.

Ah, non è ver ch’io sia
Interamente morto:
Qualcuno è in me risorto...
Sì, si! l’anima mia!

O santa primavera,
Poiché t’ha riveduta,
Ecco, la stanca e muta
Anima canta e spera.
GUARDANDO IN CIELO

Quella sconvolta nuvola di foco
Che lentamente sovra il mar declina,
E lumeggia la tersa onda azzurrina
D’oro fuso, di porpora e di croco;

Quell’avvampata e fumida ruina,
Che si sfascia ne’ cieli a poco a poco,
E splende d’un baglior sempre più fioco
Dentro l’ombra che sale e s’avvicina;

Quella tragedia della vinta luce,
Cui, presentendo il bujo e il gel, smarrita,
Silenzïosa la natura spia;

Come stupir mi fa! come seduce
Lungi dal mondo reo, fuor della vita,
La delusa e sognante anima mia!

L’ANTRO SACRO

L’antro nello sconquasso vïolento
Di que’ greppi vaneggia: intorno il bosco
D’antichissime querce, orrido e fosco,
Sotto l’azzurro ciel mormora al vento.

Di là dal bosco cerule pendici
E soleggiate piagge e l’onde equoree:
L’onde serene e l’isole marmoree,
Popolate di numi ai dì felici.

Come un’oscura, smisurata bocca
L’antro nell’arsa rupe si spalanca,
Bujo e profondo nella selce bianca,
Ch’ivi da sommo ad imo si dirocca.

In quell’ombra tu senti ancor diffuso
Lo smarrimento del sogno lontano;
Un non so che d’attonito e d’arcano,
Un non so che d’esausto e di deluso.

Quivi, nel tempo antico, all’uom chiedente,
Con impavido cor, di sua ventura,
Giugnea dal fondo della bocca oscura
Il responso d’un dio vivo e presente.

==>SEGUE
Or quella bocca tace, e tu, se i vòlti
Fati oblïando, interrogar quel cieco
Aer presumi, tu soltanto l’eco,
L’inutil eco di tua voce ascolti.

L’ISOLA DEI MORTI4

In mezzo al mare un’isola remota
Da quanto vive e si travaglia al mondo:
Intorno il mar che non ha fin né fondo:
In alto il ciel ch’eternamente ruota.

Poche, stagliate, cenerine rupi,
Cui, da piede, la salsa onda frastaglia;
Sulle rupi, all’ingiro, una gramaglia
D’erti cipressi inviluppati e cupi.

Sterminato è quel mar, placido, tetro;
Né fragoroso turbine sovverte,
Né lenta prora fende mai l’inerte
Onda che muta splende e par di vetro.

Sterminato è quel ciel, nitido, eguale;
Né tenebrosa nuvola vi tuona,
Né uccel che migri ad agognata zona
Batte mai pel diffuso etere l’ale.

Sotto l’antico ciel, nella grandeva
Pace oblïosa, incommutabilmente,
Dalla silenzïosa onda lucente
L’isola come salda ombra si leva.

Vasta quiete, alto silenzio! Un Lete
Fatto mare: un’immobile parvenza:
Uno stupor senza memorie, senza
Desio... Vasto silenzio, alta quïete!

Solo, quando nei gorghi algidi spento
Cade (poiché rifulse invano) il sole,
Fra i gran cipressi, entro le care gole,
Mormora un lieve spirito di vento.
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4 Questi versi mi furono in parte suggeriti da un noto quadro di Arnoldo Böcklin.
VANEGGIAMENTO NOTTURNO

Notte serena, immensità tranquilla!
Sui campi ove maturano le messi,
Sui colli ingombri d’alti boschi e spessi,
Tutto di stelle il cielo arde e sfavilla.

Da una remota e solitaria villa,
Cinta di pioppi in giro e di cipressi,
Giungon gli accenti queruli e sommessi
D’un oboè che nel silenzio trilla...

O memorie, o speranze, o dolci inganni!
E tu sì presto dileguata e spenta,
Cara felicità; madre d’affanni!...

Or questa solitudine sgomenta!...
E non altro che un suon de’ miei verd’anni
Che tra l’ombre s’aggira e si lamenta.

IL TEMPIO DELL’AMORE

Chi più ricorda il nome dei morti e dei sepolti?
Spento è il vecchio lignaggio; ma il vecchio parco dura;
E ingombra, come un tempo, la spianata e l’altura,
Lucido d’acque, opaco di grand’alberi folti.

Un po’ mutato, è vero. — Gialli, verdicci muschi
Rodono delle statue i corpi seminudi;
Più scarsi e rochi i fonti sgorgan dai sassi rudi,
Tra foglie parasite e racimoli bruschi.

Intornati di scabri tufi o di scure piante,
Ancor piscine e stagni si dilatano in orbe;
Ma un po’ confusamente, come pupille torbe,
Specchian le mute rive e la nuvola errante.

Il Bosco delle Muse è fatto omai selvaggio:
Intristiscono i bossi, intristiscono i mirti:
Gli allori, i begli allori, come diventan irti!
E più spine che foglie han le rose di maggio.

Tu vedi il tutto e senti che qualche cosa manca,
Mentre sui prati brulli, fra le scomposte ajuole,
Sotto i vïali antichi, ove non raggia il sole,
Erra, fusa con l’aria, una tristezza stanca. —

Sovra un ripiano verde, tra sicomori in fiore,
Ecco un piccolo tempio di marmo di Carrara:
Dieci colonne a cerchio, in mezzo ad esse un’ara,
Quattro gradini attorno: è il Tempio dell’Amore.

Con le alucce distese, ignudo e senza benda,
Sopra l’ara sta ritto il fanciullin fatale:
In una mano ha l’arco, nell’altra man lo strale,
Tiene levato il viso, e guarda, e par che attenda.

Guarda in là con cert’aria tra stizzita e compunta,
Come fa chi, tacendo, si rode e si corruccia:
Ha un ditino stroncato, un po’ mozza un’aluccia,
E lo strale... allo strale è cascata la punta.

Egli ricorda il tempo quando d’eguali nodi
Stringeva in terra e in cielo i mortali ed i numi,
E il vecchio Anacreonte, del vin novo tra i fumi,
Coronato di rose, cantava le sue lodi.

==>SEGUE

E il tempo ancora quando fu l’amore una fede,
Cui davano conforto prodezza e cortesia,
E arrise ai fini amanti una speranza pia:
Chi bene amasse in terra trovare in ciel mercede.

E finalmente il tempo e la leggiadra usanza
Delle damine molli, dei cari cicisbei,
Quando tra baciamani, cipria, parrucche e nèi,
Fu l’amore un diporto e una bella creanza.

Il povero Cupido sta tutto il giorno al varco,
E crescere si sente il dispetto e lo scorno:
Dall’ara che lo regge ha un bel guardarsi attorno;
Non vede in che far uso dello strale e dell’arco.

La gente che talvolta gli passeggia davanti
È tutta gente nuova, ch’egli più non conosce;
Gente di basso core, gente di carni flosce,
Che dell’Amor s’infischia e ride degli amanti.

Facce ingrugnate e bieche di quattrinai feroci,
Consumati nell’arte di rubar senza scasso,
I quali se ne vanno, dopo il lavoro, a spasso,
Parte in galera avendo, parte al governo i soci.

Facce ammaccate e frolle di gaudenti imbecilli,
Che frodando egualmente la natura e la sorte,
Vivono per godere e s’annojano a morte,
E più non sanno come rifornirsi di grilli.

Facce slavate e sciocche di nobili scaduti,
Che pur di non far nulla e d’aggiustare i conti,
Per una dote onesta si dichiarano pronti
A incanagliar lo stemma e a diventar cornuti.

Facce di gentildonne, che per non star sul grande,
Parlano come trecche, veston come baldracche,
E si vendono a peso, prima di darsi, stracche,
A tutelare asili, a vegliare educande.

Mutrie, grugni, ceffi, ghigne di bassa mano,
Lubriche, torve, turpi, stupide, sciatte, sfatte,
Dove con la natura l’artifizio combatte:
Maschere mostruose: — di rado un volto umano.

Il povero Cupido si sente molto solo,
Ed anche molto vecchio, pur essendo un ragazzo...
Oh, come volentieri, senza fare schiamazzo,
Senza voltarsi indietro, ei prenderebbe il volo!


DESIDERIO VANO

Quest’aura spirital che d’improvviso
Desta la selva folta in cima al colle,
E qua, sul prato di rugiada intriso,
Fa palpitar le gracili corolle;

Ahimè, quest’aura profumata e molle,
Che dolcemente mi accarezza il viso,
In cor m’accende un desiderio folle
Di freschi amori e d’innocente riso.

Oh, folle, oh, dolce desiderio vano!...
Il caro tempo che fioria gli amori
Troppo da me fuggì, troppo è lontano.

E il riso, il riso di chi crede e spera,
Il santo riso inaridì co’ fiori
D’un antico mattin di primavera.



A ISSIONE

Issïon, lo capisco: è veramente
Una stupida e rea delusione
Inseguir la bellissima Giunone
Ed abbracciar la nuvola fuggente.

Abbracciarla con forza e con ardore,
E per tutto compenso alla fatica
Spremerne qualche gocciola mendica,
Senza un’ombra di caldo e di sapore.

(Colto e degno lettor, non sai chi sia
Questo bravo Issïone a cui favello?
Bene; se non lo sai, prendi un fuscello
E fruga dentro alla mitologia.)

Quello del chiappanuvoli è il mestiere
Più sciagurato che si possa fare;
Mentre abbracciar le sante dive è, pare,
Un arcidivinissimo piacere.

Gli è quanto almeno affermano quei pochi
Cui lo concesse la Fortuna o il Fato,
Perch’io, che pur son vago de’ bei giochi.
Io, s’ho da dire, non l’ho mai provato.

==>SEGUE
Issïon, pazïenza! e lascia pure
Brontolar padre Giove e rider Momo:
Il tempo è grande, il tempo è galantuomo:
Chi può tutte saper le congiunture?

Son tanti i casi! Dopo molti affanni,
L’uom talvolta rïesce e si ristora.
Non vediam noi succedere in un’ora
Ciò che non succedette in seimil’anni?

Non ti stancar; datti le mani attorno;
Persegui senza riposarti mai:
Abbraccia nubi e ancora nubi: un giorno
L’agognata bellezza abbraccerai.


LA SCELTA

Il Padre Eterno mi parlò: «Figliolo!
Per fare andar più lisci
I miei troppi negozii ho risoluto
Di levare dal mondo
O le rose o il frumento.
Che cosa preferisci?
Vuoi le prime o il secondo?
Pensaci su un momento.
Sai che il frumento è pane,
E che le rose son parvenze vane.»

Io risposi: «Signore,
Sono un bravo ragazzo,
Ma un tantinetto pazzo.
O che a mangiar del pane
Forse poi non si muore?
E chi può dire: Io mangerò dimane?
E non son vanità tutte le cose?
Di poco mi contento:
Anche dell’un per cento;
Anche di mezza dose.
Il pan molto mi piace;
Ma sono un uom così poco vorace!
E tanta gente grida: «Pane, pane!»
O Signore, pigliatevi il frumento,
E datemi le rose.»

Il Padre Eterno mi guardò, sorrise;
Colse di molte rose in un giardino
E innanzi me le mise;
Poi, serrandomi un poco il ganascino,
Disse: «Va bene; sia:
La tua pazzia non è tutta pazzia.»

Hanno un gran buon odore
Le rose del Signore.
FANTASMA LUNARE

Fuor dello scuro, travaglioso mare,
Entro un limbo di ciel che s’arroventa,
Aggrondata, spettral, sanguinolenta
La faccia enorme della luna appare.

Come una visïon levasi lenta.
E dal deserto e fosco limitare
Sopra l’immensità dell’onde amare
Sbarra le occhiaje e tetro foco avventa.

Ristagna l’aria ammalïata e grave
All’apparir di quella luce, e l’onda
S’acquatta a guisa d’animal che pave.

Sotto l’incùbo della luna tonda
Una vetusta e tenebrosa nave
Tacitamente in mezzo al mare affonda.

AL CUCULO

Fosco uccel vagabondo, io mi ricordo
Che nel mio tempo giovenil, fuggendo
Gli aborriti consorzii e il velenoso
Carcere cittadino alla campagna,
Spesso ascoltavo il querulo tuo canto
Errar pel bosco e per la verde piaggia
E sopra l’acque di deserto lago;
E che quel suono ignoti sensi in core
Mi suscitava e favolose, arcane
Fantasie nella mente; allor che tutto
Era silenzio a me d’intorno, e vasto
In occidente rutilava il cielo.

Son passati molt’anni; oh, molti e scuri
Anni pieni d’angoscia! e ancor, siccome
In quel remoto e irrevocabil tempo,
Fosco uccel vagabondo, io cerco i luoghi
Dove tu sverni e solitario ascolto:
E il tuo querulo canto in cor mi desta
Una tarda vaghezza, un dolce affanno,
E il desiderio dell’età fuggita.
AL LAGO SOLITARIO

Tra cinerei macigni e verdi fratte
D’odorante ginepro e piagge erbose,
Tu, glauco e terso, o picciol lago, splendi.
Allo intorno è silenzio e invïolata
Solitudine alpestre e uno stupore
Di favolosa antichità che i nudi
Apici tiene e le scoscese balze:
E tu nella quiete alta riposi,
Puro, profondo. E già così splendevi
Nel mattino de’ tempi, o picciol lago,
Nel noto aprile della Terra madre,
Pria che fosser città, pria che al travaglio
Della vita nascesse ed alla morte
L’uom, creatura di dolore. Oh, quante
Candide albe tu specchiasti! oh, quanti
Rossi tramonti e fuggitive forme
Di fluide nubi e nitidi sereni
Irradïati dalla bianca luna!
Né traccia serbi de’ mirati aspetti?
Né d’aura o d’ala che, fuggendo, il muto
Gorgo sfiorò memoria alcuna serbi?
Simile a te foss’io, placido lago,
Senza né segno né memoria! Assai
Tristo è il ricordo de’ perduti giorni
E de’ lontani eventi e delle cose
Invano amate e possedute; assai
Tristo il ricordo, e pien d’affanno, allora
Che dileguata la speranza e chiuso
Alle lusinghe e ai dolci inganni è il core.
Pure, qui sul tuo margine di molli
Fiori dipinto, qui talor mi giova
Stanco seder; ché se di me non posso,
Ben mi posso del mondo e di sue vili
Costumanze scordar. Miro, tacendo,
Il tuo lucido specchio, e, non so come,
Di dentro anch’io mi rassereno, e quasi
Benedico la vita e dell’immenso
Riso m’allegro dell’eterea luce.
ALLA ROSA

Tenera figlia dell’aurora, è questo
Il tuo felice e fuggitivo tempo.
Spanditi, fulgi! Assai la terra nutre
Vaghi, superbi, venturosi fiori:
Tu sola regni: oh, così bella e gaja!
Così focosa e vereconda! Il cielo
Alla terra t’invidia e di lucenti
Rugiade il grembo verginal t’imperla.
Ride in te primavera; in te s’incarna,
Vita del mondo, amor: non ha natura
Di te più dolce e più leggiadra cosa.
Lascia che di tua vista io gli occhi afflitti
E l’inquïeto desiderio appaghi.
Tanto chiedo e non più, morbida rosa.
Sacra tu sei. Non io dal verde stelo
Con empia man ti strapperò; non io
In picciol’urna di contorto vetro,
Ove poc’acqua inanimata stagni,
A languir ti porrò, tra le pareti
Di recondita stanza, in mezzo a pompe
D’insolente splendor, lungi dal sole
Che d’un suo raggio mattinal t’accese,
Lungi dalle giulive aure di maggio
Che ti scherzano intorno e fanno festa.
Vivi, o rosa. È sì breve la tua vita;
È sì breve la nostra! Uno il destino
Della rosa e dell’uom. Vivi. Domani
Queste tue molli e dilicate foglie
Cadranno scinte e spargeran di lievi
Reliquie l’erba e l’arenosa sponda;
E passata sarai, tenera rosa.
In tanto vivi; e col soave olezzo,
E col purpureo riso, all’uom che i passi
Torbido muta e del doman pensoso,
Pura letizia e miti sensi inspira.



AL CIPRESSO

Un altro sole ecco sparì. Di contro
Al rutilante ciel tu dalla balza
Precipitosa, o funeral cipresso,
La tua scura ed antica ombra sublimi;
E a te davanti il glauco mar si spiana.
Su per i clivi dirupati, in grembo
Ai cavi borri, il mansueto gregge
Degli ulivi s’addensa, all’uom di pingui
Doni propizio: tu sul nudo greppo
Dimori, senza compagnia: né frutto
Rechi, né fior, che alla progenie umana
Sia ristoro o diletto; e non del crudo
Verno t’affliggi; e non della soave
Primavera t’allieti, allor ch’ogni altra
Cosa ride quaggiù; ma sempre in uno
Aspetto duri e invulnerato vivi.
E se di vento un mite alito sorga
Dai lavacri del mare, e intorno a queste
Erme pendici trasvolando, tutte
Svegli e sommova a mormorar le piante,
Silenzïoso tu rimani, e il fosco
Apice acuto declinando appena,
All’igneo ciel spiritalmente odori.

Che sogni tu così ravvolto e cupo
E taciturno? Favolose storie
Forse rammenti e sovrumani onori
E fasti e lutti d’un’età remota?
L’atre selve dell’Ida e i bianchi altari
Sempre fumanti d’odorato foco?
Scheggia del legno tuo l’imperïoso
Scettro di Giove e dell’Amor lo strale?
D’un tuo virgulto coronato il sacro
Di Melpomene capo, e sotto l’aspra
Tua scorza chiusi, e alla pietà serbati
Di tarde genti e de’ poeti al canto,
Morbidi petti di deluse ninfe
E d’incauto garzon l’anima e il duolo?
O sogni forse tu, siccome è voce
Fra i poeti e le donne e gli amatori
Dell’orïente, la purpurea rosa
Che nuda porge all’aureo sole il grembo?

==>SEGUE

IL SONETTO

Come il sottile intagliator la chiara
Gemma sfaccetta, onde ne’ vitrei seni
Fiammeggi e rida una gioconda gara
D’iridi accese e d’agili baleni;

Tu sfaccetta il sonetto, ove la cara
Rima sfavilli, e negli alterni freni
Del saldo verso, e nella forma avara,
Il pugnace pensier si rassereni.

Poi denso e forte, nitido e lucente,
Nel rigor di sua forma adamantina,
Tu lo licenzia fra la umana gente;

E il tempo mai non potrà fargli sfregio,
E l’uomo in cui più puote e più s’affina
Virtù, l’avrà più ch’altra gemma in pregio.
Te devoto alla morte ed all’eterna
Inesorabil notte il volgo estima,
E non senza terror ti mira e cole;
Ma di vita immortal simbolo al saggio
Tu, bell’arbore, appari, e agli occhi miei
La cara e santa libertà figuri.
Onde al tuo piè, sulla diserta zolla,
Consolato m’assido, e guardo, e spero.

L’INCONTRO

Nell’ora che il sol cala
Roggio nel ciel turchino
La Morte mi passò vicino
E mi sfiorò con l’ala.

L’aria era queta e muta
Sull’erta solitaria,
E solo vagava nell’aria
Un lieve odor di ruta.

La ruta è un’erba amara
Che il gusto non diletta;
Ma pure è un’erba benedetta,
Che a molti guai ripara5.

Dunque, allor che il sol cala
Roggio nel ciel turchino,
La Morte mi passò vicino
E mi sfiorò con l’ala.

Io, a quel tocco blando,
Mi fermai su due piedi:
Una sbirciatina le diedi,
E poi le chiesi: Quando?

Ella (nella sua voce
Null’era di funesto,
Nulla, nell’aspetto, d’atroce),
Ella rispose: Presto!
___________________

5 Delle virtù della ruta gran cose dissero gli antichi e séguita a dire il popolo anche ora. Forse nel nome greco ..t. è un accenno a virtù salvatrice, o riparatrice.
==>SEGUE
A molti parrà strano,
Ma per vero lo scrivo:
Null’altro ella teneva in mano
Fuor che un ramo d’ulivo.

Candida la sua vesta,
Candidissime l’ale:
Una ghirlanda aveva in testa
Di lauro trïonfale.

Io chiesi ancora: Uguanno?
E di me che farete?
Ella sorrise come fanno
Le persone discrete.

E se ne andò, giuliva,
Senza più far parole...
Dio! come la Morte era viva
Sotto il lampo del sole!


LA FALCE

Di nubi tra molle sfacelo
Io vidi nel cielo una falce:
La falce era lucida, il cielo
D’un crudo biancore di calce.

Negli orti né frasca né tralce;
Sui campi né fiore né stelo...
Che tronca, che miete la falce,
La falce ch’io vidi nel cielo?

Non trema nell’ombra di gelo
La trista canzone del salce?...
È notte. Fa freddo. Nel cielo
Io vedo rotare una falce.
ULTIMA CAMPANA

Non udite? lontana, lontana,
Nel silenzio dell’ombra sopita,
Sclama e romba una cupa campana.

Da quel lembo di cielo ond’emana,
La sua voce m’esorta, m’invita,
Con parola sovrana ed arcana.

Via, lasciatemi andare. Più strana
D’ogni sogno, più vana è la vita,
Questa povera vita mondana.

Spunterà dietro l’erta montana,
Ma per altri, l’aurora fiorita,
Ma per altri, la stella dïana.

O campana, campana, campana,
La mia favola breve è finita,
La breve mia favola vana.


SIC TRANSIT...

Sicuro: passa la gloria del mondo;
Ma se passasse soltanto la gloria,
Sarebbe un mal, sto per dire, giocondo.

Assai più trista la giaculatoria:
Ben altro passa, ben altro va al fondo,
E non ne resta nemmen la memoria.
AL CROCIFISSO LUNGO LA VIA

Che fai qua, tra la biada,
Così sfregiato e tristo?
Che fai, povero Cristo,
A fianco della strada?

Presso al negletto ciglio,
Dove il pruno e l’ortica
Affogano la spica
Col pungente aggroviglio?

Livido, senza voce,
Lordo il corpo che langue
Di polvere e di sangue,
Pendi dalla tua croce;

E vivo tuttavia,
Coronato di spine,
Sembri attender la fine
Di tua lenta agonia.

L’attendi invano, sai:
Eterno è il tuo supplizio.
Provati a dire: Sitio!
Aceto e fiele avrai;

E peggio di così,
Ipotecando i cieli,
I tuoi cari fedeli
Ti conciano ogni dì.

Già per trenta denari
Fosti venduto e cesso:
Ma adesso, oh, i Cristi adesso
Sarebbero men cari;

E il Governo alla bassa
E stentata mercede
Sol per atto di fede
Imporrebbe una tassa. —



==>SEGUE
Che fai qua, tra la biada,
Così sfregiato e tristo,
Che fai, povero Cristo,
A fianco della strada?

Vicino al fosso dove
Il sudiciume cola,
E la rana si sgola
E sguazza quando piove?

Forse la strada è questa
Che agl’iniqui, agl’ignavi,
Tu con voce insegnavi
Di carità molesta?

Quella che vi cammina
Parmi, se Dio mi vaglia,
La solita marmaglia
Poltrona e malandrina.

Vedo passar, mutato
L’abito, il volto, il passo,
Giuda, Erode, Caifasso,
Barabba, Anna, Pilato.

E l’obeso Epulone,
Il quale, o egli è risorto,
O non ancora è morto
Di soprindigestione.

E i mercanti del Tempio,
Rapaci e truffatori,
Fatti commendatori
Solo pel buon esempio.

E il reo ladron, che reso
Più mansueto e saggio,
Parla di sconti e d’aggio
E di cartelle a peso.

E il dottor della legge
Che spulcia e strizza i testi,
E con sagaci innesti
La verità corregge.


==>SEGUE
E gli avveduti scribi,
Datisi a far gazzette,
Acciò che ognun di rette
Intenzïon si cibi.

E un fitto viavai
Di sante Maddalene;
Di quelle, tu sai bene,
Che non la smetton mai.

E la turba infinita
De’ nuovi farisei
Che strillan: Agnus Dei!
O la borsa o la vita! —

O martire cruento,
Sai tu di che genia
Pieno ed infetto sia
Il mondo c’hai redento?

La strada è mal guardata:
Meglio se te ne apparti:
Bada di non buscarti
Qualche brutta sassata.
AL CROCIFISSO
SULLA MONTAGNA

Nubi, macigni e geli. —
Su questa ignuda balza,
Che smisurata s’alza
Nello splendor de’ cieli;

Dominando le schiene
Dirupate e l’abisso,
Redentor crocifisso,
Quassù, quassù stai bene.

Scabra s’avvalla e tetra
Sotto a’ tuoi piè la terra;
Nitido si disserra
Sovra il tuo capo l’etra.

Qua, sotto ai cieli ardenti
Che danno vita al tutto;
Qua, dove rompe il flutto
Procelloso de’ venti;

E prima l’incorrotta
Luce appar dell’aurora,
E splende il giorno ancora
Se là nel fondo annotta;

Sul lezzo, il ringhio, il tonfo
D’un inferno in delirio,
Il tuo fiero martirio
Ridiventa un trionfo.

In alto, in alto! Regna
Sulle cose divine.
La corona di spine
È la più bella e degna.

Tutte l’altre corone:
Quella di verde alloro,
Quella di rose o d’oro,
Son nulla al paragone.

In alto, in alto! Nella
Luce al tuo spirto affine.
La corona di spine
È la più degna e bella.    ==>SEGUE


Di qua, Gesù, tu vedi
Patiboli ed altari,
E regge e lupanari,
Ogni cosa a’ tuoi piedi.

In alto, in alto! Via
Da quel tristo confine!
La corona di spine
È la più grande e pia.

Fuori dai muti chiostri,
Fuori dai templi angusti,
Dove tu male ai giusti,
Se pur ve n’ha, ti mostri!

Sull’eccelso cacume,
Sulla punta di gelo,
Dov’è più vasto il cielo,
Dov’è più puro il lume!

Abbia i suoi re la prona
Valle e le sue regine:
La corona di spine
È tropp’alta corona.

O redentor Gesù,
Se qualcuno ti vuole,
Prenda per guida il sole
E s’innalzi quassù.

IL VASO

Certo vaso di rame
Si dolea dell’artefice severo,
Che di forza, alla brava,
Da lungo tempo lo rimartellava:
Il vaso si lagnava,
Parendogli soffrire onta e gravame:
Ma gli disse l’artefice sincero:
Tu non t’hai da doler se ti martello,
Perché, così facendo,
Solo al tuo bene intendo:
Ti do la forma e ti fo saldo e bello.
PACE

I.
Una serena, obliviosa pace,
Io non so donde, è nel mio cor discesa,
Nel cor che pace mai non seppe o resa,
Avverso ai tristi e contra sé pugnace.

Ed ecco, al fine, si compone e tace
Ogni antico tumulto, ogni contesa,
E dove già fu sì gran vampa accesa
Omai più non appar fumo né brace.

Onde sì nova pace? Oh, di sicuro,
Non da questo al dolor cieco ed all’ira
Dannato mondo, insidïoso, oscuro.

Porse dal ciel che più superno gira;
Forse da un inscrutabile futuro,
Cui la stanca e presaga anima aspira.

II.
Per non far più ritorno s’accommiata
E dilegua col sol l’ora decline,
Ed ecco giunge al sospirato fine
La mia dogliosa e torbida giornata.

Torbida già di nubi e da ruine;
Di mugghianti procelle imperversata;
Or serena e tranquilla e consolata
D’avventurose luci vespertine.

Come tutta si snebbia in venir meno!
Così talvolta al nembo e alla bufera
Segue più puro e nitido il sereno.

Imprevedutamente, in tal maniera,
A un giorno fosco e d’inclemenza pieno
Schiarita segue e placida la sera.
COMMIATO

Siccome, in silenzio, produce
La pianta i suoi fiori,
Del pari, in silenzio,
Le nude mie rime io produco.

Cui sian per piacere i suoi fiori
Non chiede la pianta:
Così non io chiedo
Cui sian per piacer le mie rime.

Son fiori le rime. Alle api
I fiori dan miele:
Dan miele ed assenzio
All’anime altere le rime.
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