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Giovanni Marradi - POESIE VARIE
Prima parte

















































































Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
INTIMA STORIA.
CINERARIUM.

GIOVINEZZA.

Io sono un giovin cavaliere errante
che in selve ignote e scure
cerco avventure,

che nei castelli d' oro e d'adamante
sfido giganti e maghi
cinti di draghi.

Io della donna mia seguo i vestigi,
mentr'ella mi s'invola
pallida e sola;

io seguo l'amor mio, mentre a Parigi
chiama i suoi prodi invano
Re Carlo Mano.

Io vo fra i ghiacci e fra le sabbie in foco
sul mio cavallo baio

aspro d'acciaio;
né l'ingegno ch'io perdo a poco a poco

virtù lo serba alcuna
su nella luna.

E cavalco per Torrida boscaglia
entro fatate ambagi

d'aurei palagi,
e inseguo l'amor mio, mentre a battaglia



chiama i suoi prodi invano
Re Carlo Mano.

SU LA ROTONDA.

Come un esercito d'enormi rettili
Tonde sul mar s'incalzano,
e accavallandosi, muggono, ingrossano,
e alla rotonda infrangonsi,

mentre d'innumeri fuochi i labronici
monti nel ciel fiammeggiano,
e or fiochi or vividi riflessi il vigile
fanal su l'acque folgora.

E i lidi esalano nembi di balsami,
lontane onde di musica,
che di mestizie stanche, ineffabili
empion la notte e gli animi.

Oh ma che importano tutti i tuoi balsami,
tutti i tuoi blandi murmuri,
Notte, all'anima mia che affaticano
di giovinezza gl'impeti?

Ben altri murmuri di labbra rosee
bisbigliano per l'aure
su questa candida fresca penisola
eh' agile in mar protendesi ;

e qui gli effluvii del mar si mescono
ai vostri dolci effluvii,
di femminea beltà patrizia
fiori eleganti e fragili!


Oh aristocratiche fronti dov' ardono
occhi che amor lampeggiano;
oh fra gli agevoli ventagli e i riccioli
candor di seni e d'omeri!

Che son gl'inanimi fuochi dell'aere
in faccia a voi. Dee gracili?
Oh di che pallido languor v'illumina
il bianco astro fantastico!

Io, mentre un fremito di vita assiduo
a voi d'intorno circola,
mentre nell'aura d'amor che involgemi
sguardi e sorrisi fulgono,

io di quei tremoli sguardi nel fascino
cerco le alate immagini
che, al ritmo indocili, volan, dileguano
via per l'immenso oceano.

BEVERIE.

I.

Ogni fanale è spento
nella città tranquilla,
e come un infinito angue d'argento
giù dentro l'acque pendulo
il riflesso lunar brilla ed oscilla.
Ampia di flutti e d'aere
solitudin ci avvolge, e in obliosa
felicità, nel limpido silenzio,
l'anima mia s'adagia e si riposa.
E vanno i sogni pel ceruleo vano
all'avvenire incognito,

all'avvemr lontano,
quasi in cerca di nido
migranti uccelli a più sereno lido.

II.

Va con fresco di venti ampio susurro
l'acuta prua fra riccioli
d'argentee spume, e qel sereno azzurro
sfuman le piagge vaporose e i colli.
Oh come lievi e molli
mi cullan l'onde e i sogni miei, diceria,
fra le tue calde braccia!
Oh dalla rosea faccia
piovimi poesia, piovimi amore
nel sitibondo cuore!
E se mi cingan l'anima
gli amari tedii onde la vita è dura,
tu sopra il, cuor prorompimi,
e ancor benedirò l'alma natura!

IDILLIO NOTTURNO.

Quanto ancor vaga in quella
succinta veste, o amata,
splendi, notturna stella,
dalla finestra usata,

sotto il gran ciel di maggio
onde soavi e cheti
con desioso raggio
ti guardano i pianeti!

Dolce il tuo dir trabocca,
quasi gorgheggi e voli

dalla tua fresca bocca
un coro d'usignoli;

e dalle tue pupille
profonde e sorridenti
piovon su me scintille
di desideri ardenti,

quali alle notti afose
nei taciti pleniluni
meteore luminose
dai firmamenti bruni.

E dal giardin che olezza
in rorido splendore
è una divina ebbrezza
il far con te all'amore!

Ma il freddo aere montano
punge il tuo corpo stanco ;
tremi, e ti stringi invano
dentro il tuo scialle bianco.

E queste ore d'oblio
dileguano fugaci,
né al petto avido mio
ti scaldo co' miei baci.

Lascia ch'io salga! Ancora
la notte alla sfavilla,
e nunzia dell'aurora
la lodola non trilla,

la lodola che, in fretta,
levando all'allea il canto,
volgea di Giulietta

la breve estasi in pianto.

Amiamo, o dei poeti
fantastica sorella:
son morti i Capuleti,
ma tu sei viva e bella.

Amiam (l'ora c'invita
con murmuri sommessi)
fino a obliar la vita,
fino a obliar noi stessi.

MATTINO CAMPESTRE
(frammento).

Dalle montagne circostanti erompe
luminoso il mattino, e al primo bacio
del sole e a questa fresca aria d'ottobre
esultano già deste le trillanti
lodole per l'azzurro e le robuste
figlie dei campi, che, cantando, in frotte
muovono alla città, cariche il capo
di recente vendemmia. mattiniere
figlie dei campi, a cui salute infiora
di melagrana il viso, al folgorìo
delle pupille vostre ove si specchia
tanto riso di cielo, io nelle vene
correr mi sento un tremito giocondo.
Belle se in graziosi abiti, ad ogni
giorno di festa, l'erma pieve antica
tutte v'accoglie, e se a diporto uscite
fra le sorrise parolette ardenti
dei giovani ben noti; o quando, chine
pei solchi a spigolar nel giugno d'oro,

l'onda del sen vi palpita, e vi turge
ogni contorno delle forme altere.
Ma più bella di voi, figlie dei campi,
è la signora mia, piccola, bionda,
candida come Galatea. Le sue
grandissime pupille, ove risplende
la gioventù che le sorrìde in cuore,
son due pure viole irradiate
dal sol di maggio; e profumati ì baci
fioriscono su quella umida bocca,
come le rose a primavera. E tutta
impeti e voluttà; gaia e nervosa;
facile al riso e al pianto. E quante volte
ride piangendo, simile a un bel giglio
che brilla, molle di rugiade, al sole!

OMBRA D'AUTUNNO.

Or che si velano d'ombra cinerea
le notti roride, l'albe odorose,
che sotto il languido tedio dell'aere
dormon le cose,

io della pallida mia solitudine
torno al silenzio, torno all'oblio....
Ahi com'è gelida l'ultima lacrima,
l'ultimo addio!

CONGEDO.

Or dunque addio! Con le pupille ardenti
che mi pioveano in cuor fiamme ed oblio,
con le dolci pupille ancor mi tenti
inutilmente. Addio.


Or che l'autunno muore, or che di noia
pallido è il cielo, e lugubre il cipresso
regna sul colle dispogliato, or muoia,
muoia l'amore anch'esso!

Oh potess'io, decrepito ed inerte
come l'inverno che avviluppa il mondo,
trascorrere le lunghe ore deserte
in un oblio glrotondo;

e dileguare inconsciamente, al pari
di rotta nave abbandonata all'onda,
che, a poco a poco, pei silenti mari
dilungasi e sprofonda!...

BIONDO FANTASMA.

Talor, nell'ombra delle triste sere,
chiedo al bicchier l'oblio, l'oblio di te;
ma tu stai sempre in fondo al mio bicchiere,
come in limpido specchio, innanzi a me:

biondissimo fantasma evanescente,
che, fiammeggiando di gentil pietà,
mi sorridi col grande occhio languente
un sorriso che piangere mi fa. .

RICORDO AUTUNNALE.

Quando in autunno, ai giorni freschi e belli,
cantano in lieti cori,

fra gli olivi ed i pampini, gli uccelli
ed i vendemmiatori,


perchè l'anima mia sempre a voi pensa
con secreto rimpianto,

ma poi subita rabbia al cor s'addensa
e vi raggela il pianto?

nell'arte d'amar dotta signora
che follemente amai,

la ferita del cor sanguina ancora
né guarirà più mai;

che quando un'onda di desio trabocca
dai vostri occhi procaci,

oh troppo dolci su la rosea bocca
vi fioriscono i baci!

OMBRA SEGUACE.

Chi sei tu che mi parli ove non s'ode
respiro di viventi, oh chi sei tu?
Perchè, invisibil dèmone custode,
t'ho sempre al fianco, e non mi lasci più?

Perchè una cupa, inesorata, immane
malinconia sul mio cervel piombò?
Perchè più nulla, ahi nulla, mi rimane
del divin sogno che il mio cor sognò?...

PLENILUNIO.

Questa luna che alterna ombre e splendori
nella notte fantastica e tranquilla
più non la vedo in tremoli Fulgori
riflessa dalla tua dolce pupilla!


Ride la luna agli obliati fiori
del giardino che a lei rorido brilla,
e invano, o donna, fra' suoi cheti albori
squilla un noto rintocco e lento oscilla:

il rintocco che l'ore, ahi fuggitive,
del nostro amor contava, allor che al vago
etere in faccia, in queste verdi rive,

degli occhi tuoi nella profonda e pia
luce, come in serena onda di lago,
s'immergeva la stanca anima mia.

PROCUL NEGOTIIS
(a Guido Mazzoni).

Guido, con quel tuo cor baldo e gentile
che impaziente lanciasi nel mondo,
che adora l'Arte, e bon desio febbrile
cerca un codice nero o un capo biondo,

che fai su' libri? Un inno giovanile
cantano i venti freschi e il mar giocondo:
non lasciar, Guido, isterilir l'aprile
che nel cuore ti germina fecondo.

Oh mentre in bruna schiera allineate
ti guardano le Bibbie in aria bieca,
monache vecchie dalle vecchie grate,

tanta classica polvere t'acceca
che ancor non vedi irrompere l'estate
dai finestroni della Biblioteca?


MAOMETTISMO.

Fumando come un arabo
lento, oblioso, inerte,
fisso nel ciel che sfolgora
dalle finesire aperte,

fisso nel mar che, splendido,
biancheggia di paranze,
sto come un dio fra nuvoli
di sogni e di fragranze.

Come volteggian agili
fra l'ombre della sala
l'onde odorose, i vortici
che la mia pipa esala.

la pipa lunga ov'ardono,
come in crogiuol di strega,
le tórbe inquietudini
che l'anima rinnega,

e che, nel vasto e libero
della marea susurro,
in fumo tenue solvonsi
via per l'immenso azzurro!

Forse io dovevo nascere
nel magico oriente
e inebriarmi d'oppio
come un pascià indolente,

a' vecchi tempi assidermi
nel sontuoso Alhambra
fra un luccicar fantastico
di diamanti e d'ambra,


a un lampeggiar di mobili
pupille castigliane,
sotto marmoree cupole
moresche, arabe, ispane,

LUCREZIA BORGIA
(musica di Donizetti).

Dicon, Duchessa, che voi siete un mostro
di lussuria implacabile e feroce;
pure dal vostro labbro esce una voce
che soggioga il ribelle animo nostro.

Dicon che arde e uccide il bacio vostro,
come i Vostri veleni acre ed atroce;
pure, udendovi, il cor batte veloce,
sì che al fascino io ceda e a voi mi prostro.

Che se un'onda di gemiti dal fondo
della possènte anima vostra emana
scolorandovi il dolce viso biondo,

rapito in quell'armonica fiumana,
sento che l'onte che v'appone il mondo
son tutte infamie dell'invidia umana.

LADY MACBETH
(rileggendo Shakespeare).

Dite, Milady: 11 vostro ferreo core
di serpente di demone e di Jena
non gioì mai con femminile ardore
una notte d'oblio folle e serena?


Oh, se mai lo provaste, anche l'amore
dovea romper da voi come una piena
devastatrice, e diventar furore
che in omicide voluttà si sfrena!

E anch'io, pel gusto di quel bacio atroce,
per dominar quell'infernale ingegno,
per dormirvi sul cor bianco e feroce,

Lady Macbeth, anch'io dato avrei mano
(Dio mi perdoni) a conquistarvi il regno
e a trucidare il vecchio Re Duncano.

MAGDALENA.

Quando sul fresco lido labronico
ai refrigeri del mar convengono
le dolci bellezze d'Italia
inondate dal riso lunare;

quando, o Signora, degna era volgermi
la delicata fronte marmorea
e il lampo degli occhi sereni,
agitando il ventaglio piumato;

fra tanta folla, su cui la musica
passa com'ampia romba di turbine,
mi sembra esser solo e felice,
esser solo e felice con Lei,

con Lei soave, con Lei bellissima,
con Lei che il serpe della calunnia
calpesta col piede regale
dal suo trono di gloria, e sorride.


E più la guardo, più trasfigurasi
quel suo profilo di dama e d'angelo
nel dolce profll della santa
Magdalena che amò Gesù Cristo.

E ardentemente l'adoro, e supplico
misericordia, misericordia
da quelle pupille divine
di terrena pietà circonfuse.

Ed — Ave, io grido giù dentro l'anima,
Ave, Signora piena di grazia,
che hai nel sorriso degli occhi
la stellante quiete dei cieli! —

Sento ora, or sento che ancor son giovine,
che ne' miei polsi c'è sangue fervido
ancora, ed ancor della vita
mi s'accendon gli antichi ideali.

Oh da un suo bacio, da una sua lacrima
purificato, con fede indomita
saprei da quel seno lanciarmi
nella ferrea battaglia del mondo.

E come Cristo morrei per gli uomini,
rediviva santa di Magdala,
se anch'Ella il mio forte martirio
consolasse di baci e di pianto.

NOTTURNINO.

Su la marina argentea
s'incurva il firmamento,
tutta, amor mio, cingendola
d'immenso abbracciamento.
E noi ridente vigila
il grande occhio lunar
soli, abbracciati, immemori,
tra firmamento e mar.

Oh com'è dolce il vivere,
com'è divino il mondo,
visto a traverso i riccioli
del tuo bel capo biondo;
visto a traverso il fascino
onde la tua beltà
tutto d'amore inondami
e di felicità!

DIANA.

Ricordi tu, dolcezza mia, quel canto
del Leopardi ov'ei rimpiange il mondo
delle favole antico? — Oh come, oh come
dentro a quei versi la Bellezza greca
vive in fantasmi luminosi! — Eppure,
quando t'ammiro nelle trasparenti
acque de] mar fino alle spalle immersa,
io ripenso a Diana, e mi figuro
che non potesse scendere più bella
di te nei fonti ed agitar su l'onda
più lunghe chiome e più verginee braccia.
E mentre guardo immobile quei flutti

voluttuosi che ti cingon tutta
la persona bianchissima, tu sguazzi
molle nell'acqua e me la gitti in viso,
trionfando di gioia. Oh che misteri
d'amore e di desio tremano allora
ne' tuoi fascinatori occhi soavi,
mentre, svelando il nitido tesoro
dei denti, dalla tua bocca rosata
scoppiano risa cristalline e fresche!

IL RITRATTO

Il tuo ritratto, o di beltà regina,
non può tentarlo alcun pittore al mondo.
Oh quell'aflascinante occhio profondo
è cosa, amore mio, troppo divina!

Troppo in quel nimbo di capelli biondo
sei fresca e nivea come fior di spina;
troppo hai la voce limpida, argentina,
come trillo di lodola giocondo.

Bella se a nuoto, Naide leggera,
rompi l'acque del mar sicura e franca
con quell'agili forme di pantera.

Bella se posi, abbandonata e stanca,
con l'eleganza d'una greca etera
nel tuo dolce pallor di statua bianca.

FRAMMENTO.

Siamo troppo felici! ecco il pensiero
che mi lima il cervello e mi tormenta
assiduo. Come i cavalieri erranti

della leggenda, in un Castel fatato
notte e giorno inseguiam larve d'amore,
fin che l'incanto non si rompa e il vero
non ci ripiombi nell'infausta vita.
Oh potessi strapparti all'esecrata
vita, strapparti all'esecrato amplesso
di chi ti strinse al viver suo; strapparti
al consorzio del mondo, ed a te stessa,
e a' più intimi tuoi dolci ricordi,
e alle tue fedi oltremondane, e farti
vivere della sola anima mia!... —
Ahi fragoroso il vento si scaténa
su la verdastra immensità del mare,
che, schiumando di rabbia, urla e s'avventa
contro la forza ond'è percosso: il mare
che vastamente cerulo e quieto
poco fa sorridea, come la nostra
felicità meraviglioso e infido!

CONFRONTO.

I vetri spalancati all'aure del crepuscolo
ronzavano al lontano rumor delle carrozze,
mentre salìa dal mare tanta fragranza d'alighe
e dal gabbiani a stormo tanta allegria di nozze.

Tu mi creavi un mondo di poesia, di musica,
vibrante i larghi ritmi di Strauss e di Gounod,
e su dalla sfiorata tastiera ti balzavano
alate e capricciose le fughe d'un rondò.

E mentre a me di vani fantasmi popolavasi
tanta di cieli e d'acque serenità infinita,
tu mi saltavi al collo, tu realtà dolcissima,

tu bella, esuberante di gioventù e di vita.

Oh mio bel sogno! — Come una muraglia bronzea
il livido Apennino davanti ora mi sta,
e dai cristalli aperti all'aure del crepuscolo
guardo la sera triste che umani echi non ha.

ULTIMA LETTERA.

Addio. Se mai c'incontreremo un giorno
sotto la selva di marmoree guglie
che sul tuo Duomo sfolgora, più freddo
batterà il cuore, e per l'amore antico
non avrem più ch'un gelido sorriso
un amaro silenzio. — dolce amica,
così va il mondo, il detestabil mondo
che sognavam sì roseo nel nostro
fantasticar delizioso, in quelle
tepide notti, in quel sopor del mare,
in quel silenzio, in quell'oblio di tutto.
E i mille rutilanti occhi del cielo
ci piovean raggi e complici sorrisi,
e l'anime, in un sol bacio confuse,
viaggiavano estatiche e leggere
per lo stellante oceano, ove, creato
dalla possente illusion de' sogni,
a te ridea, come a sorella, un bianco
stuolo di forme cognite, adorate
nel canto dei poeti: Era l'ardente
Saffo, era Ofelia sospirosa, e, insieme
con Desdemona pia, Silvia e Nerina,
Francesca, e Margherita: alte, immortali
forme dell'Arte, in cui s'incarna e vive

questa tragedia dell'amore eterna.
Sento i ricordi nel cervel mio tristo
battere ancora, e serpermi nel sangue
implacabili e rei come miasmi
venefìci; e l'inferma anima, tutta
in un'assidua visione assorta,
è sempre là, fra i memori oleandri
del mio lido tirreno. E li rividi,
malinconico e solo io li rividi,
e mi sentii stringere il cuore. Anch'essi,
dolce amor mio, cangiarono. Decembre
li ha soffocati in suo lenzuol di ghiaccio,
e sta tra un popol di fantasmi bianchi
trionfator decrepito. Continua
giù per l'argentea chiarità dell'aria
scendea la neve, e a me scendea nel cuore
il freddo dell'oblio. — Senti: in quell'ora
pensavo a te con una strana angoscia,
e sogghignavo, e mi strozzava il pianto.

RITORNO.

Ben ritrovate, o memori,
care piagge ove il mio cor fiorì.

Oh se potessi starmene,
eternamente, eternamente qui!

Ecco a me incontro muovono
fresche ondate di trilli e di fragranze,

che in petto mi ritentano
l'inebriante fior delle speranze.


Con un commosso fremito
mi ribaciano in faccia i natii venti,

e ondeggian, salutandomi,
le tamerici lungo il mar pallenti.

E — Perchè mai, bisbigliano,
perchè torni fra noi triste così?

Oh se potevi startene
eternamente, eternamente qui! —

Anche il Tirren susurrami
il suo susurro più soave, e spiana

i flutti carezzevoli
verso la mia gentil riva toscana;

e, rifrangendo in iridi
splendide la diffusa onda solare,

arde e spumeggia. — Inghiottir
calma solenne del mio dolce mare!

EPICEDIO.

HEU NIMIUM FELIX..,

I.

Son pochi giorni, e alla gentile e santa
esultanza di madre ebra si apria
quella tua giovine anima, cui tanta
mèsse di sógni l'avvenir fioria.

Son pochi giorni, e il petto mi si schianta
nel ripensar che t'han portata via,
che nostra madre, dal cordoglio affranta,
piange sul tuo sepolcro. Itala mia!

Ahi sul sepolcro della sua figliola
piange la madre; e il genitore intanto
e il tuo misero sposo entro la gola

serran l'angoscia del convulso pianto;
ma tu, sorella mia, gelida e sola,
tu non li vedi. E t'adoravan tanto!

II.

Morir cosi, quando le sue più sante
felicilà li promettea Natura,
e su la culla d'una bionda infante
cominciavi a vegliar lieta e sicura;

morir cosi, tu giovine, tu pura,
tu di florida vita esuberante,
balzar d'un tratto nella sepoltura
dal tuo nido di sposa amata e amante;


e le carezze della dolce figlia
nel contatto mutar gelido e lento
del verme che alle tue carni s'appiglia:

è troppa, è troppa infamia, o Dio che sento
pregar piangendo dalla mia famiglia,
e che ci piombi in così reo tormento.

III.

Oh quante volte credere non posso,
nel mio profondo immobile stupore,
che da subita folgore percosso
giacque così della tua vita il fiore!

Oh quante volte credere non posso
che per te non c'è più sole né amore,
e che ti sta l'umida terra addosso.
l'umida terra sul tuo giòvin cuore!

E pur t'ho vista nel tuo sonno estremo
irrigidita, e pur co' baci indarno
tentai scaldar le tue gelide gote!

E pur davanti a nostra madre io tremo,
tremo mirando in quel suo viso scarno
stanche di pianto le pupille immote!

IN TRENO
(da Milano a Bologna).

E dunque addio, sereno, pian lombardo,
addio, file di vetrici e di gelsi
che venite sì rapidi al mio sguardo!


A viva forza di colà mi svelsi
ove il gotico tempio alza gigante
i trionfali a Dio culmini eccelsi;

e a me dinanzi con fuga incessante
passano i fiumi, passano le ville,
passa una verde infinità di piante,

mentre, un nembo di fumo e di faville,
che la macchina esala opaco e denso,
mi assal, frizzando, l'umide pupille.

Oh come tutto cangia! oh quando penso
che anelai tanto tempo a questo blando
riso di cieli e di pianure immenso,

ed ora.... Addio. Seco mi trae, fischiando
terribile, il vapore, e sbigottito
un armento di buoi salta mugghiando.

Qui, nel suo maggio splendido e fiorito,
la mia sorella, la sorella buona,
il buon angiolo mio, venne a marito,

lasciando il caro lido a cui risuona
l'onda del nostro mar, l'onda natia,
dove tutto di lei meco ragiona.

Incantevole pian di Lombardia
ardentissimamente sospirato
per tutto un anno di malinconia,

qui la sorella che m'ha tanto amato,
ahi qui la dólce mia sorella è morta,
stelo gentil dal turbine schiantato.


Or che m'importa dunque, or che m'importa
questo riso di cieli e di verdura
dove la gioia tua fu tanto corta,

or che la Morte, o Itala, ti mura
gli occhi che ardeano di sì viva fiamma,
or che mi giaci, fredda, in sepoltura.

Oh quando lessi il fiero telegramma
che tu morivi, io mi sentii diacciare,
e alla nostra pensai povera mamma:

povera mamma da sì lunghe e care
speranze a te condotta, e in tempo giunta
per vederti, o sorella, agonizzare!

Ed io partii, questa terribil punta
portando in cuore e, presago del vero,
te da implacabil febbre arsa e consunta.

E m'affacciavo al gran convoglio nero,
troppo lento per me, che avrei voluto
avesse l'ale come il mio pensiero.

E sui cuscini immobile, abbattuto
mi ripiombavo, e non finiva mai,
mai quel viaggio e quello strazio muto.

Cosi, cosi l'eternità passai
d'una notte angosciosa; ed altro, alfine,
nient'altro che un cadavere baciai.

Tutti, al tuo letto, con le fronti chine,
singhiozzavan sommessi. Un sacerdote
ti leggeva le sue preci latine.


Io sentivo stillar giù per le gote
silenziose lacrime, ed affranto
m'abbandonai su le tue membra immote,

scoppiando in largo, in disperato pianto.

LIVORNO.

E rivedrò la mia città nativa,
la mia bella città rumoreggiante,
e il mar diffuso e l'incantata riva
che di freschi misteri ombran le piante.
E rivedrò la darsena giuliva
che su dall'oleosa acqua stagnante
una foresta inalbera d'antenne
in faccia all'orizzonte ampio e solenne.
Ancor vedrò di fulgide signore
le spaziose vie sempre animate,
vedrò nei volti splendere l'amore,
vedrò nell'aria splendere l'estate;
ma te non rivedrò, te dolce fiore
sbocciato a quelle aperte aure odorate,
cui fosti tolta, povera sorella,
per andare a morir giovine e bella.

BUFERA.

Così, così! Rovesciali sul lastrico
della città monotona,
scroscia e imperversa fra baleni e turbini,
diluvio interminabile!

Così, così! Se il vecchio mondo, o Itala,
oggi al suo fin precipita,
senza rimpianti dormirai nel tumulo

che t'inghiottì sì giovine.

Corri, pioggia, le vie, scroscia, rovesciati
su la città monotona,
e tu in rete di foco, ira de' fulmini,
cingi la terra e schiantala.

NOVEMBRE.

Sta su tutte le cose un pallor gelido

pien di tristezza umana,
come il mio serto di giacinti, o Itala,

su l'urna tua lontana.

Stilla una pioggia eterna e malinconica

su tutta la pianura,
come le mie silenziose lacrime

su la tua sepoltura.

E il vento a' vetri miei geme e s'insinua

con brividi glaciali,
come aleggianti alla tua fredda lapide

quest'inni funerali.

Ahi tutto l'orbe agonizzando rotea

verso una tomba arcana,
come a te migra il mio solingo spirito,

sacra urna lontana!

NEVICATA.

Danzano i fiocchi dilatati e stanchi
su le deserte vie della città,
come una ridda di spiriti bianchi
ch'escon dal freddo dell'eternità.

Candido il monte e rigido sovrasta
nella sua gravità monumentale....
illusioni, solitudin vasta,
com'è triste su voi l'ombra invernale!

La piazza austera ove il silenzio incombe,
coi tetti e il tempio che biancheggian su,
sembra un recinto di marmoree tombe,
il recinto, o sorella, ove sei tu.

Ahi l'ampia terra è tutta un camposanto,
un camposanto gelido e solenne !
Per me, o sorella, nevica soltanto
su le tue carni e sul tuo cor ventenne.

Ahi per la tua gentil pallida testa
la pietra diaccia è un perfido guancial....
illusioni, solitudin mesta,
com'è fredda su voi l'ombra invernal!

IDILLIO FUNEBRE.

I.

Non aveva che venti anni, fioriti
ai soli del Tirreno, e a lei la molle
guancia si colorìa come i gerani
porporeggianti su la sua finestra.
Quando all'industre macchina sedea

davanti a' suoi gerani, affaticando
l'ago fulmineo con l'agevol ruota,
sfaccendava in abito succinto
per le quiete stanze aperte al sole
e a quella fresca aria marina, empiva
tutta la casa del suo dolce canto
di capinera, e un'onda luminosa
di gioventù ci diffondeva intorno.
Di fuori, intanto, le giungean salubri
aliti d'alga e di catrame, e il ferreo
martellamento del cantiere, e il lungo
urlo della marea fra le scogliere
labroniche. Ed in quel vasto frastuono
si sentìa lieta, come uccel marino
fra lo scrosciar delle natie tempeste.

II.

Non aveva che venti anni, fioriti
ai soli aperti del suo bel Tirreno,
e tutti l'adoravano. La vita
esuberava nel suo core ardente
di giovinezza, e con fede serena
ella amava la vita. - Oh breve idillio
della sua prima adolescenza, quando
da un gran terrazzo altissimo sul mare
ella seguia tutta giuliva il fumo
che dalle navi in serpentine anella
torpido si svolgea; quando i gabbiani
roteanti con larghe ale a fior d'acqua
desiavano i chiassosi entusiasmi
di quell'anima in fior; quando nei giochi
m'era compagna indivisibil sempre,
e nelle lunghe studiose veglie

tenera alunna mia sotto lo sguardo
de' cari occhi materni! Ahi, ma se troppo
restia talora all'inesperta mano
la ferrea penna le stridea sul foglio,
d'impazienza io mi crucciavo; ed ella
tutta accorata, povera bambina,
chinava il viso e prorompeva in pianto.
Ora quel pianto mi persegue assiduo
come un rimorso, ed io me lo risento
stillar dagli occhi in lacrime di foco.

III.

Non aveva che venti anni, fioriti
ai soli aperti del natio Tirreno,
quando da noi lontana Itala nostra
andò sposa felice; e le promisi
di raggiungerla presto a goder seco
nelle lombarde vigne il dolce mese
della vendemmia. E mentre di vendemmia
tripudiavan le vigne lombarde,
ella moriva; mentre, a lei con ansia
terribile volavo, ella il mio nome
ripetea vagellando; e mentre un biondo
angiolo, a lungo idoleggiato, il primo
latte cercava al giovine suo petto,
ella immota giaceasi, ella era morta.


NOTTE DI PRIMAVERA.

Allaga il plenilunio
di limpido albore la stanza

e sui cristalli tremola
con vivi baleni d'argento.

Lontani echi ripetono
un trillo di vecchia romanza

cui da' salotti fulgidi
rapisce il sospiro del vento.

Dai boschi e dai pomarii
si spande un'acerba fragranza

primaverile, un murmuro
di cento gran musiche e cento,

e su la terra giovine,
fiorente di verde speranza,

meraviglioso e placido
scintilla il divin firmamento.

Ma intanto, ah intanto, o Itala,
la testa adorabile e stanca

posi nell'urna, e immobile
su te giganteggia il cipresso.

Dolce, sorella, è il vivere,
ma l'umida fossa t'abbranca

nelle sue strette gelide,
nel suo formidabile amplesso.


Dolce, sorella, è il vivere,
il viver dai cieli promesso:

ma il freddo astro decrepito
- che invano il tuo tumulo imbianca,

col suo pallor di scheletro
di ghigni terribili impresso,

sembra la Morte, o Itala,
che l'avide occhiaie spalanca.

IN SOGNO.

Fila il battello mio lungo i roseti
che corteggiano un bel fiume d'argento,
mentre, inondato dalla luna, in lento
corso vanisce il bosco degli abeti.

Diafano sorride il firmamento
su le pallide fronti dei poeti
salutanti dai lidi, ove i canneti
strepitan blandi dondolando al vento.

Fila il battello mio nell'infinita
serenità, come il destin lo spinge,
giù giù per l'obliosa acqua fiorita,

verso la bianca Dea ch'Itala stringe
fra le gelide braccia e a sé m'invita
con un sorriso di marmorea Sfinge.


UNA PARTENZA.

Perchè quel giorno, al mio partir, con tanto
impeto novo, in suo dolor perenne,
la madre mia, rigandomi di pianto,
entro le braccia sue stretto mi tenne?

Perchè sentii nell'anima uno schianto
quando togliermi a lei pur mi convenne,
e ad Itala pensai, sola in un canto
del cimitero ove dormìa ventenne?...

anima presaga, o doloroso
addio che sempre nel pensier rivedo
con un cordoglio superstizioso,

ben io v'intendo, e in lacrime mi sciolgo,
or che mia madre è morta; ora vi credo,
presentimenti che schernii nel volgo!

NOTTE DEI MORTI.

Tu che dormi sotto Torba, cui di pallidi
crisantemi e di giacinti
malinconica rinfiora questa memore
primavera degli estinti;

tu che lungi, sola e stanca, sotto l'incubo
della pietra sepolcrale,
posi il mesto capo grigio in pace rigida
sul tuo rigido guanciale;

fra l'assiduo nevischio che t'insinua
stille gelide nell'ossa,
non le senti queste lacrime che ardono,
che ti cercan nella fossa?


Non lo senti, nella notte, del superstite
figliuol tuo, povera mamma,
il sospiro che per l'umida caligine
giunge a te come una fiamma?

pio capo grigio e muto, cui di tenebre
grava il marmo algido e forte,
or che lugubre sui tumuli diffondesi
il silenzio della morte,

io ti penso nella buia solitudine,
e non mai come in quest'ore
sentir parvemi nel sangue tanto brivido,
tanto pianto nel mio cuore!

VITA NUOVA.

RAGGIO DI SOLE.
Ah finalmente un bel raggio di sole
brilla nei campi e nell'anima mia,
nell'anima che ancor palpita e vuole,
che ancor sogna ed anela, ama e desia!

E una fiorita d'erbe e di viole
d'aliti freschi imbalsama la via,
e mi carezzan magiche parole,
musiche blande che l'april m'invia.

Ed io le intendo, e l'adorabil nome
che mi susurran, lo ripete il canto
della boscaglia dalle arboree chiome.

E questo musical fascino è tanto,
che per l'intensa ebrezza, io non so come,
sento negli occhi il tremolio del pianto.


ANIMA NOVA.

Lo sai, Lilia, che ignoti ìntimi sensi
m'agita in petto la tua giovinezza?
Che a te vicino il cuore mi si spezza
in un tumulto di tripudi intensi?

Lo sai che alate fantasie, che immensi
paradisi di pace e di dolcezza
sogno negli occhi tuoi, fra la carezza
di quest'aura d'april molle d'incensi?

Lo sai che un raggio, al tuo passar, traversa
l'anima mia, come meteora suole
attraversar la tenebra universa?

non sai nulla, come nulla il sole
sa della vita che a torrenti versa
da tanto ciel su la terraquea mole?

DIVINO MAGGIO.

Questa, divino maggio, immensa e varia
festa di fior, di rondini, di sole,
e quest'immenso murmure dell'aria
profumata di rose e di viole,

culla e sopisce all'ombra centenaria
dei boschi verdi e per le verdi aiole
l'anima mia, che in calma solitaria
altri murmuri sogna, altre parole.

Sogna l'anima e nuota in un fulgore
di visioni e d'estasi, rapita
da un occhio ardente che lampeggia amore;


e sorride per lui la rifiorita
mia giovinezza, e dalle vene al cuore
mi circola una fresca onda di vita.

OR MENTRE DORMI.

Or, mentre dormi, io prego: — inviolata
serenità dei firmamenti, o vivo
incendio della cupola stellata
sul mar convessa, nel silenzio estivo;

dolcezza di balsami esalata
dall'alighe del mio lido nativo,
ove nell'aria calda e inebriata
freme dei fiori il polline furtivo;

d'armonia misteriosi fiumi
per l'aere erranti, mistiche favelle
d'un invisibil popolo di Numi:

voi ne' suoi sogni, o pure cose e belle,
versate a gara nembi di profumi,
onde di melodia, raggi di stelle! —

IN GIARDINO.

Non un fremito d'aura giocondo
nell'afa ardente. Su l'immota frasca
tace ogni trillo, e boccheggianti a fondo
giacciono i pesci d'oro entro la vasca.

Passa d'uccelli una tribù fuggiasca
radendo in fila il bosco sitibondo,
e i gigli stanchi senton la burrasca
che soffocante gravita sul mondo.


Oh mentre il viso tuo sfiorisce e langue
come quei gigli, e fra ridente e mesta
mi guardi effusa d'un pallore esangue,

tu pure, inconscia, senti la tempesta
d'amor che t'urge e che t'affanna il sangue,
e stanca di desio pieghi la testa.

PASSEGGIATA NOTTURNA.
Mentre sorge il disco giallo
della luna, e il mar riposa
come un piano di cristallo,

mentre languida ogni rosa
china il boccio di corallo
tra la folta erba odorosa,

la tua viva anima in flore
schiude i calici fragranti
alla luce dell'amore,

e d'amor folgoreggianti
i tuoi occhi hanno il fulgore
di due neri diamanti.

Oh, fra gli aliti marini,
nella selva costellata
d'oleandri e gelsomini,

come ride affascinala
da incantesimi divini
la tua faccia innamorata !

E ti stringi al braccio mio
con un dolce rapimento,
con un trepido desio,


e li guarda il firmamento
col sereno tremolio
de' suoi mille occhi d'argento.

PARTENDO.

Come torrente in ripido pendio,
via per la notte fredda e sconsolata
va il treno urlando, e l'infernale urlìo
turbina nella mia testa intronata.

Va il treno, va, con ferreo stridìo,
precipitandosi in corsa sfrenata....
mare, o selve fuggitive, addio!
Sì presto addio, felicità volata!

Rombano i vetri tintinnando, e un senso
di tedio emana dal lume che muore
in un velo di fumo umido e denso.

Va il treno, va, con infernal fragore,
e già il buio fra noi stendesi immenso,
occhi di Lilia mia, stelle d'amóre!

DAI COLLI.

Ma che m'importa se il verde argenteo
degli oliveli luccica e s'agita
su l'onda ineguale dei colli
come marina mossa dal vento?

Che me n'importa de' tuoi diafani
cieli raggianti d'oro e di porpora,
a cui le tue selve, o Natura,
cantano un inno d'acque e di fiori?


Mi dai tu forse gli ardenti palpiti,
i baci ardenti d'una cara anima
ridente nel vivo baleno^
di due pupille diamantine?

Dammi quei bacì, dammi quei palpiti,
e, come un tempo, godrò confondermi
al fremito immenso che sale
dal tuo materno grembo infinito.

Deh ch'io la stringa, bella di giubilo,
fra le mie braccia, mentre su l'omero
il pallido volto mi pieghi
con la stanchezza d'un fiordaliso.

E nell'eterno mare dell'essere
ci mesceremo noi consapevoli
con tutte le glorie, con tutte
le meraviglie dell'universo.

DAI MONTI.

E ancor, su per le balze algide e gialle,
pompeggia qui l'imperiale alloro,
qui dove i monti levano le spalle
fra una gloria di nubi orlate d'oro.

Sotto il mio pie', da un sotterraneo foro
sbuca il vapore, e per l'aereo calle
ruina giù, snodandosi sonoro,
ruina giù, vertiginoso, a valle.

Portami teco, o tumido titano,
lungi da rupi e lungi da foreste^
al mio bel mare, all'amor mio lontano;


all'amor mio che langue, ahi come queste
rose d'inverno sul pendio montano
sotto un pallido sole umide e meste.

NOSTALGIA.

Senti: Perchè dai più profondi seni
tutto sorride il limpido universo,
e gli occhi miei di lacrime son pieni,
e così triste mi rampolla il verso?

Perchè lassù scintillano sereni
tutti gli astri del ciel placido e terso,
ed io sospiro ai turbini tirreni
come nella bonaccia àlbatro sperso?

Chi me lo rende quell'ondeggiamento
perpetuo d'acque sterminate e chiare
dov'erran l'ampie sinfonie del vento,

e dove il radiante arco lunare
come un'aerea gondola d'argento
silenzioso naviga sul mare?

TRISTEZZA.

E piove; e l'acqua, che a rovesci cade
quasi in gran fili elastici d'acciaio,
sferza vetri e muraglie, alberi e strade,
tumida e obliqua ai soffi del rovaio.

Sotto la pioggia cascano le rade
ultime foglie che ingiallì brumaio,
e il fango immenso che le cose invade
spenge nel mondo ogni color più gaio.



E piove; e un gel nell'anima, nell'ossa,
lento mi filtra. Io penso a un camposanto
lontano, io penso a una recente fossa;

io penso a te che mi sei lungo. E intanto
su la campagna dall'aratro or mossa
la tristezza del ciel si versa in pianto.

RONDÒ.

Precipita, o sole, precipita

raggiante tra folgori d'or:
la notte si dorme, s'oblia, si fantastica,
e intero nei sogni profondasi il cor.

Precipita, o notte, precipita,

corso stellato del ciel:
eterne son l'ore che assiduo ci numera
il palpito insonne d'un'ansia crudel.

Precipita, o tempo, precipita,

o vita sì lenta per me:
sia giorno o sia notte, si dorma o si vigili,
qui stella non ride, qui sole non c'è.

RITORNANDO.

Vola, ferreo vapor! Cinte d'eterne
nubi vaniscon l'ultime giogaie
pisane, e via, fin dove l'occhio scerne,
corrono il pian le lucide rotaie,

il pian che svaria in fuggitive, alterne
visioni di selve e di giuncaie,

le ventilate praterie materne
che lungo il mar si stendono sì gaie.

Vola, ferreo vapore! Alla vedetta,
con desiderio impaziente e muto,
spiandoti da lungo, ella m'aspetta;

ella m'aspetta: e tortuoso, acuto,
a lei che il corso col desio t'affretta
mandi il sibilo tuo come un saluto.

FELICITA'.

Io t'ho meco lieta e sola nell'argentea
solitudine lunare,
fra l'incendio delle stelle e fra i diafani
incantesimi del mare.

Io t'ho meco. Cielo ed acqua ci susurrano
una musica infinita,
e sereni, come fari, mi lampeggiano
gl'ideali della vita.

Cielo ed acqua d'ogni parte si confondono
in un lungo abbracciamento,
e noi liberi circonda questa limpida
solitudine d'argento.

E nel grande epitalamio che propagasi
dalle cose arcanamente
tutta l'anima mi giubila di cantici
come un organo vivente.

INCUBO.

Calda sui vetri muggìa la raffica,
e su' miei nervi, su le mie palpebre
velate d'insonne stanchezza,
un'oppressura lenta pesava.

E pur sognava. Lieve per l'aere
mi travolgeva seco la raffica
lontano lontano lontano
con rapimento vertiginoso,

con rapimento che soffocavami
voce e respiro, precipitandomi
d'abisso in abisso nel vuoto
che di spavento mi circondava.

E mentre al suolo con un terribile
sforzo tendevo su me gravandomi,
fui desto. — Nel lume notturno
tu mi dormivi rosea sul core.

IN VIAGGIO.

I.

Sotto la fredda galleria, tuonando,
entra il convoglio impetuoso, e bianca
tu di terror ti stringi a me tremando,
mentre il buio ci avvolge e l'aria manca.

Invan lo smorto lume a quando a quando
di paludi riverberi t'imbianca;
invan di baci in un susurro blando
la mia voce ti culla e ti rinfranca.


Ah quasi il monte, che il vapor trafora,
ti gravi addosso, con tronche parole
affretti il mostro che la via divora;

fin che dall'antro la sua ferrea mole
sbuca fischiando, ed improvviso ancora
tutta t'inonda e ti rinfranca il sole.

II.

E il treno vola, e la fulminea voce
lancia alle vigne, fra l'aereo ballo
degli elettrici fili e la veloce
fuga dei pioppi e i fiumi di cristallo.

Vola e trasalta, sibilando atroce,
con cupo rombo il ponte di metallo,
mentre giù, sotto a noi, corre alla foce
l'Arno che scroscia impetuoso e giallo.

Addio, marmorea vision di Pisa
piena di poesia monumentale
e dal silenzio del tuo ciel sorrisa!

Sento le brezze del mio litorale
soffiar dal mare, e alle tue fresche risa
mescersi, o Lilia, il vento maestrale.

SCAMPAGNATA.
Ti ricordi? In occidente
stava il sol di termidoro
come un grande orbe rovente.

Cielo ed acqua, come d'oro
liquefatto e incandescente,
rispecchiavansi fra loro.


E noi due, senza guardare,
affondando entro quei molli
strati d'alga lungo il mare,

correvamo agili e folli
nell'aperta onda solare
che avvolgeva isole e colli;

mentre invan l'ansia già viva
dei negletti ilari amici
noi, ehiamandoci, inseguiva,

noi già sordi, ebri, felici, .
fra i cespugli delia riva,
fra le dense tamerici.

Ti ridea tra la boscaglia
la pupilla luminosa
sotto l'ampia ala di paglia,

e un leggiadro abito rosa
ti stringea come una maglia
la persona flessuosa.

Ti ricordi?. — Oh a noi nel core
cori che fascino s'impresse
quella dolce ora d'amore,

se ancor germina tal mèsse
di speranze in pieno fiore
nelle nostre anime stesse!

Che rigoglio di selvaggia
poesia ci arride ancora
nel silenzio della piaggia,



se ancor l'onda ci vapora,
se il tramonto ancor ci raggia
il ricordo di quell'ora!

DEDICA.

Poi che irrorata dalle tue lacrime
crebbe sì cara, Lilia, al tuo core
la selva malinconica
de' miei ricordi in fiore,

la solitaria flora dell'anima
di cui raduno le fronde sparte,
se me le scaldi e illumini
il vivo sol dell'Arte,

io questo serto di fior selvatici
che mi consente pia la Natura
cingo al tuo capo giovine,
alla tua fronte pura.

alla tua fronte su cui fioriscono
le nuziali candide rose,
sospiro delle vergini
e orgoglio delle spose.

VECCHI AFFRESCHI.
PAESAGGI E FIGURE.

PAESAGGIO ROMANESCO.

Fuor dalla nebbia, che d'un vel cinereo
cuopre la valle, il pensile castello
sprigionasi nell'aria agile e fosco,
fantasima gigante a cui d'intorno
ruotano i corvi schiamazzando. Ovunque,
su questa conca di montagne, incombe
umido il verno; e sopra i desolati
colli sol pasce il bufalo selvaggio
che sbarra l'occhio impaurito e mugge
alla pianura, ove, di fumo avvolto,
inopinato mostro urla il vapore
e si dilegua. Addio, ferreo titano,
ch'eterno il foco di Prometeo nudri
nel seno immane! Il nuvolo d'argento.
che, pari a smisurato àngue, serpeggia
sul tuo passaggio trionfale, inonda
serenamente la mia stanza e rompe
di quest'aere l'accidia. Al tuo viaggio,
vigili scorte, plaudono ronzando
i metallici fili ove il pensiero
fulmineo vola, e nel silenzio alpestre
squillano al vento un murmuro sonoro.
Altro del civil mondo aspetto o suono
non giunge qui. Solo un ciociaro inèrte
cavalca il paziente asino al passo,
e s'affrettan per via femmine industri
con fasci enormi in capo. Or mentre in questa
solitudine brulla erra e si perde

lo sguardo, e il sangue nel mio core stagna,
varca l'anima i culmini ghiacciati
dell'Appennino, che dal sol percossi
fiammeggian là, quasi marmoree guglie
di ciclopici templi. — Oh soleggiate
balze toscane pallide d'olivi,
onde il Tirreno mio sotto l'immensa
quiete del meriggio arde diffuso,
d'argentei guizzi scintillando! Oh donne
dalla persona flessuosa, a cui
fluisce puro e limpido dal labbro
l'eloquio del Petrarca! — Ahi di canzoni
monotone una lunga eco mi piomba
sul core, ove un desio triste rampolla
di ben altre canzoni, Arno gentile:
quando, nel vasto plenilunio, errando
l'aura d'April fra' tuoi molli giuncheti,
un'armonia di fresche voci ondeggia
lenta per l'aere, e nella cheta notte
malinconicamente si dilegua.

F. D. GUERRAZZI.

Su la vetta natia
del tuo bel Montenero
ben riposi, o titano,
dalle lotte dell'arte e della vita.
Mal si convien la pia
ombra e l'umile orror del cimitero
a chi scuotea tutta un'età sopita
col selvaggio vigor del suo pensiero.
Uso a solcar fra i turbini
del tuo cor procelloso alti orizzonti,
a te volesti unica tomba i monti.

E fu ben dritto. Ad altri,
meno indomiti ingegni e men frementi,
l'onor d'esequie offìciali e il tempio
di Santa Croce. Ai tuo sepolcro liberi,
vecchio gladiator, fischiano i venti,
e vi stridono i falchi e le bufere.
A te d'intorno esultano
le verdi primavere,
e gli alberi montani
rimormoran con te mormorii strani.
Rimormoran leggende
d'odii feroci e di feroci amori,
storie sublimi e orrende
di colpe e di virtù, che mille cuori
sbigottirono ed arsero. — Bei tempi,
Livornese, quando
fra un popolo di schiavi
affollati e frementi
le tue prose gittavi
come spade roventi!
Sorgevano, avvampando
dell'atroce odio tuo, tutte le genti
d'Italia in armi; e invano
l'austriaco birro, il vigil prete invano
perseguia furibondo
il tuo civil poema.
E ancor lo ammira il mondo,
ed il vigile prete ancor ne trema.
E noi tuoi figli, noi
che al foco delle tue pagine alate
scaldammo gli estri giovanili e i cuori,
noi che a te in faccia e a' tuoi stupendi eroi
siamo piccoli tanto, o fiero vate,

noi siam per te dell' età rea maggiori.
Lisciatevi, strisciate
ovunque l'oro, il vostro sol, fiammeggia,
rettili dell'ara e della reggia!
L'indomito titano,
che v'odiò tanto e tanto odiaste invano,
muto è per sempre e più non vi calpesta;
ma i figli suoi vi schiacceran la testa.

FUOCHI ARTIFICIALI.

I.
Da nuvoli di fumo acre argentino
salgono i razzi, e in grandine dì stelle
scoppiano giù per l'etere turchino
od in vipere d'oro agili e snelle.

Turbinan due girandole gemelle
l'ali di fuoco e l'occhio di rubino,
lanciando in aria elastiche fiammelle
d'un fantastico e vago oltremarino.

giovin dama che dal tuo terrazzo
pallida, sola, e come trasognata,
sfogli le rose d'un superbo mazzo,

sei pur bella così, trasfigurata
dall'incendio che arde il tuo palazzo,
sei pur bella còsi, pallida fata!

II.
E mentre, o fata, in magica raggiera
si spandon fonti di scintille in giro,
io quella fiamma, quella fiamma altera
de' tuoi grandi occhi trasognati ammiro.


E le fragranze acerbe della sera
piene del tuo soave alito aspiro,
mentre risalti candida e leggera
come dipinta in campo di zaffiro.

Oh mormorii voluttuosi e cari
del vento, che co' suoi baci t'investe
tepido il sangue e ti contrae le nari,

mentre vola su tanta onda di teste
un tuo caldo desio, come su i mari
l'impetuoso uccel delle tempeste!

III.

Ah forse i tuoi desii cadono, o fata,
c'eran aquile ferite in cielo fosco,
che rocchio stanco e l'ala fulminata
chiudon fra le silenti ombre del bosco.

E fisa nella gran calma stellata,
nell'ampia calma del bel lido tosco
tu sembri una sultana innamorata,
alta tra i fiori d'un aereo chiosco.

Dagli occhi tuoi, cangianti come il mare
che in faccia a te rabbrividisce al vento,
raggiano i sogni nel seren lunare;

raggiano con baglior vivido e lento,
come i razzi che miri dileguare
in piogge d'oro e in grandini d'argento.

UNA RUPE.

Terribile dirupo
che con la testa enorme
domini, eretto e cupo
fantasma, il ciel che dorme,

sei forse, entro la notte,
tacito al buio e al gelo,
lo spettro di Nembrotte
che scalar pensa il cielo?

Che fai, che fai, diritto
silenzioso e cupo,
contro il ciel confitto
terribile dirupo?

Non so; ma invidio, o monte,
l'ala de' tuoi falconi
quando l'aerea fronte
di nuvole incoroni.

Invidio le tue lotte
col dio che ti percote,
e fulminate e rotte
le tue foreste immote.

E alla tua cima invano
l'occhi e il desio s'aderge
da questo reo pantano
che stagna e mi sommerge.

OMBRE FELICI.

Passano le felici ombre su i vetri
assiduamente, e per la vaga stanza,
quasi notturno esercito di spetri
girano lievi in infrenabil danza.

Per entro un mar di luce e di fragranza
cedon com'ebbre ai sinuosi metri
di Strauss, e via, con ritmica esultanza,
passano le felici ombre su i vetrL

Passan l'ombre felici, e dolce intanto
si mesce all'obliosa onda de' balli
e de' profumi il fascino del canto;

mentre, per via, tira i fervidi cavalli
casca un mendico, e vede pur tra '1 pianto
passar l'ombre felici entro i cristalli.

ISCHIA.

Ischia, amor de' poeti, isola vaga
che nel golfo natio, sazia di odori,
t'adagi fresca, simile a una maga
che in letto di smeraldo ebra s'infiori,

pur ieri il sol, nell'ora che dilaga
di grembo all'acque gli ultimi splendori,
ti salutò deliziosa plaga
dei canti lieti e dei sereni amori.

Ed oggi fra le terme e le fontane,
ove una schiera di felici accolta
vaghi sogni tessea per la dimane,


il sole eruppe da una notte folta
sopra un immenso cumulo di frane
a putrefarvi una città sepolta.

PAESAGGIO UMBRO.

Frangonsi i raggi del sole di Giugno,
riscintillando come stelle d'oro,
sul verde lago, entro iì cui fondo, a guisa
di pendule piramidi sfumanti,
capovolti traspaiono i selvosi
colli di Piediluco. Arde il meriggio
silenzioso, e immobile sul vitreo
lago e su i colli smeraldini incombe.
dell'umbro Appennino aure salubri,
rinfrescatemi voi gli arsi polmoni
dal salir lungo emunti, e largamente
date ossigeno al sangue intorpidito
giù nella valle umida e bassa. — Addio,
bassa valle del Nera. Qui più non vedo
che cielo azzurro e poggi verdi e acque
ch'io rompo con le membra avide, e lungi
una fuga di vèrtici ineguali,
interminato esercito d'Atlanti
che sostengono il cielo. Un mormorio
refrigerante, un fremito soave,
d'acque e di fronde dalla selva al lago
e dal lago alla selva, erra e si esala
in un fresco sospir. L'eco ripete
mirabilmente dall' opposta riva
d'una formosa boscaiola il canto,
mentr'ella muove spensierata, e al ritmo
de' passi svelti ondeggiano i contorni
di due fianchi giunonici. — Formosa

boscaiola, deh fermati! Ch'io possa
sprofondar qui nei vortici del lago,
se non fumo assai più d'ogni elegante
e fragil dea che m'imperò nel cuore!
Fermati; è lieve il mio battel, ma basta
per contenerci e per cullar l'idillio
dei nostri amori. E se travolto affondi
il battello infedele, io su le braccia
ti porterò, come un fanciul che dorme. —
Frangonsi i raggi del sole di Giugno,
riscintillando come stelle d'oro,
sul verde lago, e nel cervello ardente
mi scintillano immagini di fiamma
vertiginosamente. — Acque correnti
che abbracciate il mio corpo immoto e stanco,
rapitemi con voi, sin che m'involga
nella sua ruinosa onda il Velino,
che gonfio dall'alpestre alveo tuonando,
si precipita giù come valanga
di bianchissime nevi. — Oh dolce cosa
in quell'immensa nuvola di spume
esser lanciato a volo, ed ogni senso
della vita smarrir, prima che il corpo
piombi fra i massi della Nera infranto!

DAI MONTI PISTOIESI.

I.

Altissima sovrasta la muraglia
dell'Appennino, urgendo di tristezza
la città bassa e l'umida boscaglia
che veste i colli di selvatichezza.


E i cipressetti, al soffio della brezza
che il viso assiderato aspra mi taglia,
sórgono aguzzi nella grigia ampiezza
come selve di lance irte in battaglia.

Sorgono aguzzi, immobili, sottili,
allineati minacciosamente
a guardia delle ville signorili

e del cenobio, dove un penitente
stuol si dissolve ne' suoi claustri umili,
sepolto vivo in questo verno algente.

II.

Costiere natie dove smaglianti
spirano l'acque un sano odor di pésca,
tutte con lungo brivido cangianti
nel risveglio dell'alba umida e tresca;

cavalloni in vasta fuga urlanti
con la criniera bianca e gigantesca,
mentre allunghi meriggi in lunghi canti
piange la nostalgia marinaresca:

oh con che smania acuta, oh con che viva
ansia da lungi l'anima s'affisa
in quella vostra immensità giuliva,

ove argentine squillano le risa
delle bagnanti, vegeta la riva
sazia d'effluvi e dal tramonto arrisa!


III.

Qui sotto i vasti e gelidi acquazzoni
s'arricciar torbi i fiotti del torrente,
come fulve criniere di leoni
ruggenti in corsa paurosamente.

E se il tramonto folgora su i coni
dell'Appennino, calano a ponente
e s'accavallan rossi i nuvoloni,
quasi montagne di metallo ardente.

E su dalla boscaglia, vegetale
scheletro dalle braccia erte nel gelo,
fuma la nebbia che cinerea sale ;

fin che tutto sommerge un ugual velo,
né altro appar che cenere glaciale,
cenere immensa dalla terra al cielo.

UNA VALLE.

Fra una conca di rupi
malinconiche e gialle
rompe il mio passo i cupi
silenzi della valle,

ed il rombo calcareo
che a' miei passi risponde
echeggiando ripalpita
dalle gole profonde.

Per tutto s'accavallano
rupi su rupi, come
la vision fantastica
d'un'urbe senza nome.


tutta obelischi e cupole,
tutta silenzio e gelo,
in alta solitudine,
sotto il pallor del cielo.

E la valle profondasi
in buio incavamento:
non voce qui, non cantico
d'acque o di fronde al vento.

Sol, come fosse un torvo
pensier della sua fronte,
spiccasi muto un corvo
dal vertice d'un monte.

ANTICO SOGNO.
D'organi e d'inni un cantico argentino
salìa per le navate, e piòvea blando
dalle bifori il sole, il tuo reclinò
capo indorando,

quando dal libro delle preci il raggio
del pio sorriso in me levasti. Oh come
ti rifulgeano in quel fulgor di Maggio
gli occhi e le chiome!

Chi eri tu? Tra i fumi dell'incenso
io non vedea che il tuo bel capo biondo,
e tutto mi sparia, come in un denso
nuvolo, il mondo.

Tale, a questi bei giorni, - io mi dicea
fra gli archi d'una vecchia cattedrale
anche al Petrarca si mostrò qual Dea
Laura immortale.


Tal, co' fiori di Maggio, umile e pura
nell'età sua più verde e più felice,
sorrise a Dante l'ideai figura
di Beatrice. —

E mirandoti prona, incoronata
dal nimbo della tua chioma raggiante,
già ti fantasticavo io la sognata
Angela amante,

scesa a impennar vittoriose penne
ai fantasmi di gloria e di bellezza
che animosi splendeano alla ventenne
mia giovinezza.

Tacquero gli inni. Eterea, lieve,
ti dileguasti sotto gli archi austeri
né ti vidi più mai dopo quel breve
sogno. — Chi eri?

NELLA STEPPA.

I.
Mentre scende la neve a larghi fiocchi
silenziosi, morbidi, stellati,
e s'appuntano al cielo, come stocchi
lucenti e freddi, i rami inargentati,

traverso i vetri, ad or ad or vampati
dai fiammanti nell'ombra aridi ciocchi,
io guardo immoto, e mi si velan gli occhi
dall'intensa bianchezza affaticati.

E nel profondo mio fantasticare,
come in un sogno immaginoso e truce,

vedo strani fantasimi sfilare,

sfilar silenti nell' immensa luce
d'una candida steppa aquilonare,
tutti in catene; e un manigoldo è duce.

II.
Sempre avanti, o forzati, entro le sorde
bufere e i ghiacci della steppa arcana;
avanti sempre al vento che li morde
e ti flagella, o trista carne umana!

L'immensa solitudine del Norde
spietatamente candida sì spiana.
Avanti sempre! — Zar misericorde,
la tua Siberia quant'è mai lontana!

Avanti, carne a cui salvò la vita
l'Imperatore, o carne di briganti
dalla frusta e dal freddo illividita!

Fiocca la neve, e in mille aghi frizzanti
la sparge il vento, carne intirizzita,
ti scalderai nelle miniere. Avanti!

III.
Nevica sempre, nevica su i bianchi
deserti della steppa interminata,
mentre salta la renna agil fra i banchi
di ghiaccio, in mezzo alle betulle, e guata

e fugge i boreali orsi, che a branchi
cingòn la jurta squallida e gelata
assediando i cacciatori stanchi
con lunga e paziente ansia affamata.


E la neve s'addensa alla cadente
capanna ove uno stuol d'esuli dorme,
e cresce, e cresce sempre, alta, silente;

fin che tutto scompar nell'uniforme
candido mare, e su quel mare algente
si dondolano gli orsi avidi a torme.

IV.
Non sole mai, non mai fra l'uragano
un fil dì verde in quel bianchèggiamento
implacabil dell'Asia, in quel gran piano,
sotto quel cielo pallido d'argento.

Non mai rumor di vivi agita il vento
in quel silenzio, in quel deserto arcano,
ove in un doloroso abbagliamento
si stanca l'occhio che vi spazia invano:

l'occhio dei condannati, entro le mine
già fatto vitreo, che si perde e annega
in un gelido mar senza confine;

l'occhio che anela indarno e indarno prega
un po' di verde, un po' di sole alfine
su gli eterni ghiacciai dentati a sega.

V.
E nel profondo della tèrra avara
i condannati scavano. Già ciechi,
senza riposo mai, scavano a gara
la propria tomba in que' funerei spechi.

Scavano, e con rumor cupo di bara
ogni lor colpo ripèrcoton gli echi.

Pensan la patria con angoscia amara,
e scavan sempre, scheletriti e biechi.

Fatta plumbea da quei dissolvitori
esalamenti levano la faccia,
se un fil d'aria il lor sangue arso ristori.

E scavan sempre con tremule braccia,
sin che in un flammeo scoppio di vapori
l'antro infernal non li travolge e schiaccia.

VI.
— Laggiù, laggiù, gli amanti e le fanciulle
si scaldali nei palagi alti e lascivi;
qui sbarba il vento i pini e le betulle,
qui piaccia il pianto che versiamo a rivi.

Laggiù, laggiù, si scaldano le culle
sorrise dai materni occhi giulivi;
qui nelle rocce irrigidite e brulle
gelan le tombe che c'inghiotton vivi.

Laggiù, laggiù, dove torreggia enorme
San Pietroburgo, ai morbidi signori
scendon tepidi i sogni in rosee torme.

E noi miniamo in questi eterni algori
miniam la Russia che si scalda e dorme,
la santa Russia degl'impiccatóri. —

NELLA PAMPA.

Nel verdissimo piano e nella vampa
del Tropico, ove il boa snodasi e fischia
e di sé l'erbe mostruoso stampa
coi rami giganti agil si mischia,

mentre una torma d'Europei s'arrischia
nei vergini deserti della pampa,
ecco ì selvaggi. Orribile la mischia,
deboli i bianchi; e non un sol ne scampa.

Sangue per sangue, o d'Europei leggiadri
pallide facce! Il pingue suol ti perde
che arricchì gli avi tuoi, prole di ladri.

Ed i tuoi gemiti il vento disperde
per l'ampia terra che invadeano ì padri,
nel gran silenzio della pampa verde.

NELLA FORESTA.

Eran forzati evasi da un'infame
isola. Erraron faticosamente
per infocate rupi, entro il fogliame
d'orrende macchie, e sotto un ciel rovente.

Uomini e belve urgeano in paziente
caccia quei ceffi che parean di rame,
lugubri ceffi che l'odio impotente
trasfigurava e inferocìa la fame.

I più forti ogni dì, con furor muto,
di digiuni cannibali, i viventi
brani pascean dell'ultimo caduto;


fin che rimaser due, spettri silenti,
a guardarsi con avido occhio bruto,
col sapore del sangue ancor ne' denti.

RICORDI FIORENTINI.

CITTÀ DEI FIORI.

I.

Or che Firenze, de' bei soli al raggio,
di fioriti rosai tutta odorata,
marmorea fulge, e tutta la vallata
piena è di canti sotto il ciel di Maggio;

or che trionfa in suo toscan linguaggio
per le storiche vie la maggiolata,
e al suon della medicea ballata
passa l'arboreo gonfalon selvaggio:

ben dolce è ancor su' vostri labbri il flore
del puro eloquio che ad amare invita,
donne che avete intelletto d'amore,

qui dove ride una gloria infinita
d'arte e di rose, e dalle rosee flore
s'effonde in un fragrante inno la vita.

II.

Da mille all'alba roride corolle,
come da rosee bocche, esce in linguaggio
di sospiri e di balsami un selvaggio
inno ch'esulta alla pianura e al colle,

e l'Arno brilla in suo lento viaggio

fra un tripudio di fiori. Oh con che molle
tepor d'incensi dalle floree zolle
spiri gli ambrosii flati, alba di Maggio!

Forse tuttor, qual rise alla serena
de' Greci fantasia, fra terra e cielo
una progenie olimpica s'aggira;

e canta in ogni fonte una Sirena,
palpita un cuor di Ninfa in ogni stelo,
in ogni tronco un'anima sospira.

III.

E tu, sorella mia, più d'una volta
dimenticasti il tuo mare odorato
per quest'ombra d'olivi allegra e folta,
per questo regno de' fiori incantato.

E t'auguravi d'essere sepolta
in quel recinto bianco e ventilato
sotto un salice pio, sotto la vòlta
meravigliosa del cielo stellato.

Ricordi tu con mesto desiderio
questa corrente e limpida frescura
dall'ombra tetra del tuo cimiterio?

dall'ombra morta della sepoltura
dove non scende mai, mai refrigerio
d'albe fragranti e d'aria aperta e pura?

IV.

Ecco su i colli e su i fastigi il sole,
ecco su i marmi il sol di primavera,

nel cui sorriso esaltasi la mole
di Brunellesco olimpica e leggera.

Nell'aria calda, olente di viole,
il campanil meraviglioso impera,
e al pieno odor delle vicine aiole
spalancasi fiammando ogni vetriera.

Oh ben sorridi con l'antico vanto,
italo Maggio, al vecchio San Giovanni
e in cima al tempio trionfale e santo,

ove un popolo artista a' più forti anni
devoto udìa del suo Poeta il canto,
e poi s'armava a fulminar tiranni.

V.

Nel candore lunar più cupe al suolo
s'allungan l'ombre dei palazzi neri,
e da' merli d'Arnolfo alti, severi,
scatta la torre equilibrata a volo.

Tace de' vati e degli eroi lo stuolo
nella penombra de' loggiati austeri,
mentre mormora i suoi lunghi misteri
l'antico fonte che zampilla solo.

Zampilla il fonte in luminosi fili,
spruzzando a te, bellissima, le gonne
che disegnan le tue forme sottili.

E, fra gli archi eleganti e le colonne,
ricorda il viso tuo dolci profili
di statue greche e d'itale madonne.


VI.

Un limpido sorriso il mattutino
aere inazzurra, e umida di guazza
si rianima al dì, col suo divino
popol di statue, la divina piazza.

Su i dotei poggi, là del Casentino
sfumano accese al vento che le spazza
nuvole d'oro; qui nel ciel turchino
un'allegria di rondini schiamazza.

Maggio trionfa. Del suo riso, in festa,
ridon le antiche vie, gli atrii severi,
gli affreschi d'ogni loggia e d'ogni sala.

E la città de' fiori apresi a questa
onda d'incensi, che da' suoi verzieri
e dalle ville fiesolane esala.

VII.

Ricordi tu? Di Fiesole la china
noi scendevamo stanchi in quel chiarore
di fantastica notte; e una divina
malinconia ci sorrideva in cuore.

Come un'aerea gigantesca pina,
cinta di stelle e di sottil vapore,
solitaria emergea nell'argentina
serenità Santa Maria del Fiore.

Tutto il resto vanìa nella pallente
sfumata solitudine lontana
come in un mare effuso e trasparente,


mentre alle voci della notte arcana
la tua voce mescea limpidamente
quella sua musicale onda toscana.

VIII.

E dalle cedue siepi e dai verzieri
deliziosi onde lontan s'espande
tanto effluvio di rose, ove in ghirlande
si protendono i fior lungo i sentieri,

uscìan secrete musiche con blande
malinconie, con murmuri leggeri,
e il core si bevea tutti i misteri
di quel concerto indefinito e grande.

Era un fruscio di frondi, era un lontano
strepito d'acque, ov'io sentìa tremare
la fresca melodia del Poliziano.

E fluttuava l'anima in quel mare
armonioso, in quell'oblio sovrano,
in quell'immensa poesia lunare.

IX.

Ricordi tu lo splendido viale
biancheggiante fra i colli e gli oliveti,
ove il zacintio carme ondeggia e sale
sotto il divin silenzio dei pianeti?

Con un riflesso tenue d'opale
la prim'alba apparia su' pendii cheti
di San Miniato, qualche frullo d'ale
svegliando fra i cipressi e fra i roseti.


E dal marmoreo cimitero un'onda
d'effluvi e d'armonie scendeva olente
nella quiete della valle fonda.

E il giovinetto Davide, sorgente
dall'alta piazza con in man la fionda,
vegliava aereo la città dormente.

X.

Ed io pensavo: — nobili palagi
che il tempo veste di malinconia,
ove le donne i cavalieri e gli agi
invogliavano amore e cortesia;

gonfalone della Signoria
vergine, allora, di fraterne stragi,
quanta grandezza e quanta poesia
e' invidiaron poi tempi malvagi ! —

Su i colli, intanto, cari al Guicciardini,
ove si spense Galileo nei tetri
della sua lunga notte ozi divini.

fiorìan le ville storiche d'Arcetri,
cantavano in gran coro i cardellini,
e l'incendio del sole ardea su' vetri.

MONTE ALLE CROCI

Ma se dunque per voi, scheletri, basta
d'un breve marmo il gelo,
per chi sorride immacolata e vasta
tanta beltà di cielo?

Un'elegia di salici piangenti

corre per l'aure molli,
snodasi giù con gai serpeggiamenti
l'ampio Vial de' Colli,

e la torre d'Arnolfo, emula audace,
contempla solitaria
queste pensili tombe e questa pace
piena di sole e d'aria.

Voi ne' fastosi mausolei fra tanto,
scheletri, dormite,
e invan giù romba e vi si frange accanto
tanta marea di vite.

Tutto, scheletri, tutto, anche la storia
del nostro onor qui dorme,
e il Buonarroti le inalzò la gloria
d'un monumento enorme,

che ancor da questi ruderi solenni
e dai silenzii sacri
impera alla convalle, a cui perenni
fluiscono lavacri.

Ivi il cheto Arno, come un fil d'argento,
luccica al sol che muore,
che indugia il suo morir languido e lento
su questi avelli in fiore.

E il campanil di San Miniato emana
lunghi improvvisi squilli,
cui mescesi una fresca onda lontana
di murmuri e di trilli....

Oh se, in quest'urne, sotto il mite olezzo
di questi fior, t'avessi,

te che dormi sì lungo. Itala, al rezzo
degl'ìnsubri cipressi,

che amavi tanto, quando ogni eco tace
per l'erta solitaria,
queste pensili tombe e questa pace
piena di sole e d'aria!

Oh d'una giovin pianta incenerita
germi gentili e forti!
Esuberante svolgesi la vita
da questo asil di morti,

che nuovi, morti in nuove fosse aspetta
come in aperte gole,
mentre il Duomo ne' cieli altero getta
l'olimpica sua mole.

LA CONGIURA DE' PAZZI.
Folgora austero e blando
traverso i vetri istoriati il sole

primaveril, raggiando
l'abside maestosa e l'auree stole.

Santa Maria del Fiore
trema d'assidui scampanii gioconda.

Fuma l'altar maggiore
sotto l'eccelsa cupola profonda.

Salgono incensi e canti,
sale dei poderosi organi il suono.

D'echi solenni e santi
romban le arcate su d'un popol prono.


E qui Firenze spande
lutti gli olezzi delle sue viole

or che temuta e grande
entra nel tempio la medicea prole.

Lorenzo e Giuliano
prostransi a Dio da' sontuosi scanni....

popolo sovrano
i tiranni son qui: morte ai tiranni!

Ed ecco, ecco il Signore
scende nell'ostia mistica immortali,

e dei tiranni in cuore
scendono a un tratto i vindici pugnali.

Ecco il mediceo sangue
spiccia al cospetto di Gesù, che guarda

immobile ed esangue
tanta plebaglia attonita e codarda.

Per essa i congiurati
dai merli, o Arnolfo, di tua vecchia mole

penderan giù strozzati
su la storica piazza, in faccia al sole.

RICORDI GOLIARDICI
(leggendo 11 Mago di Severino Ferrari).

Severino dalla barba arguta
e dall'arguto ghigno,
dólce e beffardo nella punta acuta
dell'occhiolin benigno,


Severino, che ondeggiar di sogni
mi suscita nel lago
del cor quest'aura di memorie ad ogni
capitolo del Mago!

E dunque l'aura de' bei giorni spenti
che mi circonda e ammalia,
miei fratelli sparsi a' quattro venti
per le terre d' Italia?

Che fu di noi? — Rivedo nello specchio
purissimo del cielo
salir la topine di Palazzo Vecchio
come un aereo stelo,

e pendere la luna su i tranquilli
silenzi del viale
ove, fra l'Arno e il bosco, erra di trilli
un' armonia corale.

Oh, in quelle notti limpide, fermento
d'entusiasmi sani
fra la grande Arte del Rinascimento
e i colli fiesolani,

quando al tripudio delle nostre sere
indulgean muti e sacri
i vigilanti dalle nicchie austere
marmorei simulacri! —

Il Laudi, intanto, ci chiedea cortese
gli articoli di fondo,
che a lor comoda uscìan, più tardi un mese,
alla gloria del mondo,

e per noi sospirava. — inebrianti

d'ebrietà serena
nelle prodotte veglie onde del Chianti
tra il fumo della cena,

dite voi, dunque, inspiratrici liete
de' goliardi eroi,
se il Laudi si struggea d'ansie segrete
quando pensava a noi!

Ditelo voi, rimproveri incessanti
dell'ottimo borghese
pseudo-goliardo Guido Biagi in guanti
e in barba corta inglese!

Lo Straccali rideagli dai soavi
occhi un suo riso blando,
e tu, sì come un istrice, t'armavi
di punte, infuriando;

mentre il Mago Merlino; il taciturno
Merlino mio, ridea
solennemente, e l'aere notturno
eco a Merlin facea;

e l'olimpico Genga, nel ben sano
suo petto di leone,
maturava in silenzio il vin toscano
e la rivoluzione.

Viva, olimpico Genga! Ora sei solo,
e triste è il tuo silenzio,
e il dolce vino ove anneghi il tuo duolo,
forse ti sa d'assenzio.

Forse, nell'aura de' bei giorni spenti
che ti circonda e ammalia,


pensi ai fratelli sparsi a' quattro venti
per le terre d'Italia.

SERENATA NUZIALE.

È chiusa la finestra, il lume, è spento,
e noi cantiamo al vento — la ballata.

Bionda Sposa, tepida è la sera
che d'ombra e di mistero vi circonda,
e nel silenzio della stanza nera
Severino vi cerca, o Sposa bionda,
mentre in quiete limpida e profonda
sale cantando a voi la serenata. .

Mormora Severino: — dolce flore!
dell'anima mia pura viola!
E voi pensate, pallida d'amore,
ai vecchi che v'han detto oggi - Figliola -
lasciandovi con lui trepida e sola
del purissimo arancio incoronata.

Ed egli ornai coronerà di baci
quella fronte di sposa e di fanciulla,
in fin che i suoi desii, falchi rapaci,
non quietino il vol sopra una culla,
ove un pargolo ride e si trastulla
strilla roseo tutta la giornata.

Egli cogliea per voi ne' solatii
verzieri di Provenza e di Toscana
fiori di poesia freschi e natii
che il verde sen della Natura emana.
E noi, dispersa compagnia lontana,
risognavam la giovinezza alata.


Risognavamo i colli salutari
sì glauchi intorno alla città festiva,
e quel profumo d'Orti Oricellari
che fra le aeree cupole saliva.
D'alberi e statue Boboli fioriva;
splendea Firenze allegra e soleggiata.

Com'era dolce il sogno della vita
sognato all'ombra tua, bel campanile!
Com'è dolce a pensar tanta fiorita
di spemi rosee nell'età virile,
se rida a noi la realtà gentile
negli occhi d'una sposa innamorata!

Sposa innamorata, alta quiete
sopra voi pende, e vi protegge l'ora.
Alta è la luna, e voi non la vedete,
vigilando nel buio. Ave, Signora!
Baldo è lo sposo, ed è lontana ancora,
per dormirgli sul cor, l'alba stellata!

TRENO DIRETTO
(fra Arezzo e Firenze)

Che fu? Dal sonno, con le membra rotte,
un mattutino brivido mi desta.
Ecco l'ultime stelle della notte
nell'oriente roseo mancar,
e un corso d'acqua per la valle in festa
con tortuoso tremolio brillar.

E' dunque l'Arno mio questo che, in tanta
foltezza di magnifica verdura,
per la campagna che fiorisce e canta
sì limpido fra i pioppi argentei va,

e la sua voce fragorosa e pura
mesce alle voci dell'immensità?

E' dunque l'Arno con le sue pescaie
croscianti nella pace alta del piano
questo che, folto d'umide giuncaie,
alla marina affrettasi con me?
Oh quante volte, bel fiume toscano,
m'arse il desio nostalgico di te!

Eccomi, terra di mia madre! Io torno
con gioia mesta, e in te s'esalta anc'oggi
l'anima mia rasserenata. I1 giorno
nella fresca valle già traboccò,
e già sfumano addietro i verdi poggi
casentinesi che Alighier cantò.

Ma più superbo d'odio e più selvaggio
qui palpita il suo canto in riva all'acque,
mentre con ansia trepida viaggio,
come nei tempi che non tornan più,
verso il paese ove mia madre nacque,
ov'ella dorme, pallida, laggiù.

Dante nostro, di quanto dolore,
di quanto amor quell'odio tuo nasceva,
se mai, più mai non quietasti il core
nel suolo ove la tua Bice fiorì,
nella patria che al sole, ecco, si leva
meravigliosa e fulgida cosi!

Oh con che spira trionfai, dal fiume
che fecer lupi e botoli cruento,
dall'onda vitrea che dell'aere il lume
specchia tremolo in fondo e senza vel,

traspare il viator fumo d'argento
ch'entro vi fluttua come nube in ciel!

Addio, fuggenti nella mattinale
serenità verdissime colline!
Su tanta giovinezza vegetale
versa l'estiva aurora incendii d'or,
e imporpora le ville fiorentine
fra il pallor degli olivi, in mezzo ai fior.

E fra gli olivi e i fior, lungo i ciglioni,
conserte ì tralci in rorida catena,
ondoleggiando in penduli festoni,
sfilano vigne e luccicano al sol;
vigne e poi vigne, in vision serena,
passan davanti al mio rapido vol.

Ed io volo al Tirreno. Inondi il mare
de' suoi refrigeranti aliti il figlio;
reduce stanco m'abbia nelle care
braccia la sposa che m'attende là,
e a me sfolgori il mare dal vermiglio
cerchio dell'acque che confin non ha.

NOTTE FIORENTINA.

Sotto i ponti che s'inarcan trionfali
passa l'Arno tra due linee di fanali,
tra i palagi storici,

e i fanali, capovolti cori le sponde,
rifiammeggiano e s'allungano nell'onde
come razzi penduli.


La medicea Firenze si riposa
fra la cerchia de' suoi colli, vaporosa
sotto il plenilunio,

e nell'alta solitudine sovrana
si devolve come limpida fumana
l'inno d'Ugo Foscolo,

che, a' marmorei concilii raccolte,
odon l'anime degli avi dalle volte
dei silenti portici.

Risaluto, pien di memore dolcezza,
questa eterna dell'argolica bellezza
primavera italica,

ove splende d'un gran popolo la storia
nei miracoli de' marmi e nella gloria
delle aeree cupole.

E saluto ì baluardi ove ineguale
contro i fulmini dell' oste imperiale
stette la Repubblica,

quando là su' colli eroici, a tradimento,
l'alto cuore della Patria fu spento
da Clemente settimo.

Ecco l'onda degl'incensi che vapora
dai giardini, dai terrazzi, dalla flora
dei boschetti cedui,

ove Alfieri serenava le tempeste
che con gl'impeti di Saul e d'Oreste
gli ruggìan nell'anima,


e tu, Giacomo, tra nuvoli di odori,
sospiravi circonfusa da' suoi fiori
la beltà d'Aspasia.

Vi risento, magni spiriti, nel cielo
che inazzurra del diafano suo velo
San Miniato e Fiesole,

e risento carezzevole per via
nell'orecchio dissueto l'armonia
del toscano eloquio.

Oh soave come il flusso di quest'acque
l'idioma che poetico qui nacque
fra i mercanti e il popolo,

l'idioma de' bei canti fiorentini
che rinfresca de' suoi rivoli argentini
l'arte del Magnifico!

Quanto meglio mi rifulge d'ogni parte
la serena visione di quell'arte
qui nell'aure classiche,

fra le statue de' principi e de' vati
ne' cui rigidi sembianti laureati
m'esaltai più giovine!

E del giovine mio tempo odo la voce
nei susurri che dall'Arno a Santa Croce
l'aure e l'onde esalano.

E dinanzi mi risuscita il passato,
di cui nulla, miei fratelli, è qui cangiato,
tranne la nostr'anima!