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ALDA MERINI


POESIE VARIE
Parte seconda
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
Tutto su mia madre Alda Merini
_________

di
Emanuela Carniti
__________________
ALDA MERINI  - POESIE VARIE - Parte seconda









































FINE



Il manicomio è una grande cassa

Il manicomio è una grande cassa
con atmosfere di suono
e il delirio diventa specie,
l’anonimità misura,
il manicomio è il monte Sinai
luogo maledetto
sopra cui tu ricevi
le tavole di una legge
agli uomini sconosciuta.




Un falò

Ho acceso un falò
nelle mie notti di luna
per richiamare gli ospiti
come fanno le prostitute
ai bordi di certe strade,
ma nessuno si è fermato a guardare
e il mio falò si è spento.





La pace

La pace che sgorga dal cuore
e a volte diventa sangue,
il tuo amore
che a volte mi tocca
e poi diventa tragedia
la morte qui sulle mie spalle,
come un bambino pieno di fame
che chiede luce e cammina.
Far camminare un bimbo è cosa semplice,
tremendo è portare gli uomini
verso la pace,
essi accontentano la morte
per ogni dove,
come fosse una bocca da sfamare.





La semplicità

La semplicità è mettersi nudi davanti agli altri.
E noi abbiamo tanta difficoltà ad essere veri con gli altri.
Abbiamo timore di essere fraintesi, di apparire fragili,
di finire alla mercè di chi ci sta di fronte.
Non ci esponiamo mai.
Perché ci manca la forza di essere uomini,
quella che ci fa accettare i nostri limiti,
che ce li fa comprendere,
dandogli senso e trasformandoli in energia,
in forza appunto.

Io amo la semplicità che si accompagna con l'umiltà.
Mi piacciono i barboni.
Mi piace la gente che sa ascoltare
il vento sulla propria pelle,
sentire gli odori delle cose,
catturarne l'anima.
Quelli che hanno la carne a contatto
con la carne del mondo.
Perché lì c'è verità, lì c'è dolcezza,
lì c'è sensibilità, lì c'è ancora amore.






Maledizione d’amore

Maledetto te
che hai preso il fiore delle mie labbra
e senza baciarlo l’hai buttato per terra
e poi l’hai mostrato a una fanciulla inerte.
O te maledetto
che hai cambiato i miei giorni
in un orrendo frastuono
e non sento più angeli
ma vipere intorno.





Alla piccola Federica Caprara (aprile 1981)

Federica, piccolo giglio
giunta in un tardo mattino,
pigoli piano sull’aia
della tua infanzia gentile
e rammenti l’aprile
così, con la tua tenerezza
i tuoi boccioli di rosa
la tua racchiusa grandezza,
piccolo, piccolo nido
che guardi alta dai rami
sognando tu di volare
ma ti potresti far male
così come sei, una bambina….
E sei bruna come le more
e sei bianca come una sposa
e assomigli a una casta rosa
e sei la bellezza che grida
la scienza d’ogni domanda
o santità già ti brucia
che son perfetti i bambini
e tanto vicini al Signore
che li protegge in amore.
Piccola cara bambina,
che tu non conosca mai
l’amaro di questa vita
che sei perfetta, squisita
così come l’oro che brilla,
tu sei la scintilla
di ogni cosa perfetta,
tu sei prediletta
perchè sei un canto piccino,
giunto sul tardo mattino.


Il depresso

Il depresso è un’anima instabile, luttuosa, morta.
Non ci vuole molto ad essere depressi.
Basta un po’ di luna storta, un vento che non è gradevole,
una donna non sincera, qualche colpa di sfortuna.
Il depresso è cavilloso, anomalo, iettatore.
Fa finta di cantare ma in effetti si lamenta.
Il depresso puo’ avere anche un amico,
un poveraccio incolpevole, che da’ un gran da fare
per vederlo sorridere.
Ma il depresso no, non ride, e l’amico volenteroso
Finisce per morire sconfitto.
Il depresso è come un vigile urbano
Sempre fermo sulla sua catastrofe.
Si comincia da bimbi ad essere depressi
Da grandi si diventa perfidi.
Il depresso non se ne accorge
E intorno a li muoiono persone
Che tentano di salvarlo e finalmente
Dopo aver distrutto un intero mondo di eroi
Il depresso rimane felice: è finalmente libero.
Il depresso di annienta, ti uccide,
ma finalmente ride.




Per Eluana

Sono entrata nel tuo corpo tante volte
entrata e uscita come una madre
o meglio come uno Spirito Santo
col pensiero ti ho dato la vita ogni giorno,
ma ti ho anche augurato la morte,
perché ti volevo bene
e strapparti al nostro mondo
è come toglierti una terra
in cui non potremo seminare
il pianto che fa fiorire
il canto ogni giorno.

in ricordo di Eluana Englaro




La sosta

Quando si ha in noi il ricordo del passato
e l’ansia del futuro,
Cristo, la morte beve
da noi l’eterno suo sostentamento…
Ma se il piede dell’anime si ferma
ad assumere intento
la voce nuova dei suoi mali nuovi
e l’energia vitale del dolore,
ecco che noi si cresce e ci si afferma
nella più eccelsa delle conclusioni.
E Tu mi cogli
con le Tue mani di musica,
e Tu mi isoli
in un paese statico di grazia,
e il mio respiro si ferma
vivo solo nei limiti, Divino,
dove resiste il palpito
di un presente che accetta
ed assimula piano il suo congedo!




Anima mia che metti le ali

Anima mia che metti le ali
e sei un bruco possente
ti fa meno male l’oblio
che questo cerchio di velo.
E se diventi farfalla
nessuno pensa più
a ciò che è stato
quando strisciavi per terra
e non volevi le ali.


La città nuova

Ecco un bianco scenario
per tratteggiarvi l’accompagnamento
degli oggetti di sfondo che pur vivono.

Per adesso è deserto.

Il mondo può rifarsi senza me,
non ne sarò l’artefice impaziente.
Berrò alle coppe della nostalgia,
avrò preteso d’ozio nelle lacrime…

E intanto gli altri mi denigreranno
perché non mi ribello alla natura:
la mia lentezza li esaspera…
La mia lentezza? No, la mia fiducia.




Lirica

Oh, dove prima al limite del giorno
s’appiattava  una forza ordinatrice,
quale scoscendimento pauroso
che mi rimonta sulla stessa ruota,
sulla ruota del giorno e del tormento?
E dove il digiuno di un incontro
rovesciare codeste verità?
Ah, fantasmi di te, mille fantasmi
arsi di sete, tutti, alla mia fonte!
Una forza stranissima si insinua
nelle mie labbra docili e le incurva;
io ruoto, sento, sul mio desiderio
schiava di un magnetismo che mi ha vinta.
La corsa dopo invaderà il mio corpo
che la esercita in sé, nel suo tormento,
per superare ciecamente il solco
dove tu, assente, non puoi più fiorire.
Ardo di mille musiche diverse,
ma dove è tempo di un incontro nuovo,
resiste il “poter essere” di te.





Apriti o scena, senza panico

Apriti o scena, senza panico,
nel bosco assetato della mia fede.
E bestemmiando per gli alacri fuochi
metti la pantomina in un canto e sciogli il burattino.
Poi col filo delle tue spezie
incatenalo a un altare di sogni.
E mandalo a svernare infelice
nella terra amorosa degli uomini.






Ragazzi

Vorrei essere sempre con voi
o almeno qualche ora soltanto.
Toccarvi con le mie dita
come ora fate con me,
perchè voi siete i fiori
del nostro vecchio domani.
Io quand’ero bambina
non capivo i valori degli occhi,
ma adesso
mi sento cieca
perchè non posso vedervi.
E così
vi lascio un dono
di un doloroso sospiro.
Non vorrei mai morire
e perdere i miei ragazzi.

(Poesia inedita dettata telefonicamente il 27/03/2008 alla Prof.ssa Giovanna Figuccia e dedicata ai ragazzi della Scuola Media Statale “Franceschi” di Milano)






In un luogo sperduto

In un luogo sperduto
che è la mia memoria
s’accampa un Dio sconosciuto.
Attende un aureo canto
e non cerca alcun cielo.
Così io certo te
che sei il mio ricordo.








Vicino al Giordano

Ore perdute invano
nei giardini del manicomio,
su e giù per quelle barriere
inferocite dai fiori,
persi tutti in un sogno
di realtà che fuggiva
buttata dietro le nostre spalle
da non so quale chimera.
E dopo un incontro
qualche malato sorride
alle false feste.
Tempo perduto in vorticosi pensieri,
assiepati dietro le sbarre
come rondini nude.
Allora abbiamo ascoltato sermoni,
abbiamo moltiplicato i pesci,
laggiù vicino al Giordano,
ma il Cristo non c’era:
dal mondo ci aveva divelti
come erbaccia obbrobriosa.





Quando tu non vieni

Quando tu non vieni
le acque del parto
si diffondono in terra
e cade un pensiero meraviglioso
che tu vedi
ed è la fine del mondo nel cuore di una donna
sono verdi i gigli del mio pensiero
e non sono del tutto astratti
io ho altri colori
che non la comune gente
ma quando tu non vieni
le acque del parto si colorano d’olio
e io vorrei uccidere mia madre.



Il bacio

Il bacio appena sognato
in una notte di tradimenti,
dove tutti consumano amplessi
che non hanno profumo,
il tuo bacio febbricitante,
il candore delle tue labbra,
somiglia alla mia porta
che non riesco ad aprire.
Il bacio è come una vela,
fa fuggire lontano gli amanti,
un amore che non ti gela
che ti dà mille duemila istanti.
Ho cercato di ricordare
che potevi tornare indietro,
ma ahimè il tuo bacio
è diventato simile a un vetro.
Io come un animale
mi rifugio nel bosco
per non lasciare ovunque
il mio candido pelo.
Il pelo della mia anima
è così bianco e così delicato
che persino un coniglio ne trema.
Tu mi domandi quanti amanti ho avuto
e come mi hanno scoperto.
Io ti dico che ognuno scopre la luce
e ognuno sente la sua paura,
ma la mia parte più pura è stata il bacio.
Io tornerei sui monti d’Abruzzo,
dove non sono mai stata.
Ma se mi domandano
dove traggono origine i miei versi,
io rispondo:
mi basta un’immersione nell’anima
e vedo l’universo.
Tutti mi guardano con occhi spietati,
non conoscono i nomi delle mie scritte sui muri
e non sanno che sono firme degli angeli
per celebrare le lacrime che ho versato per te.
   





Ci sono donne che prendono i loro morti

Ci sono donne che prendono i loro morti
e li aggrovigliano ai loro capelli
e ne fanno sontuosi monili
per il secondo e il terzo matrimonio.
Ci sono donne che vivono
di questa carneficina
e non sentono i palpiti del cuore
che emana dalla loro morte.
Così ci sono giovani pallidi
che solo per il fatto di essere sangue
si credono novellatori o poeti.
Invece la felicità della poesia non va toccata
né dai morti né dagli adulteri.
E’ felice il poeta quando si muove ridente
attraverso il tuo bacio d’amore
che è un saliscendi di morte
che è un abbandono di vita.
Chi non sa amare non sa fare poesia
e chi non sa morire non sa rivivere.
Così nessuno che non sia stato ferito
dal proprio nemico potrà toccare
i vertici della pietà. Non esiste
una battaglia d’amore
e neanche una sconfitta
Esiste solo un’angelica guerra
che l’uomo fa a se stesso
credendo in un fratello azzurro
vestito tutto di nero.









Stagno di sogni

Amore, getta la lenza
nel cuore degli anni profondi,
dove c’è stagno di sogni,
e vento di bramosia.
Nella cornice del volto,
in queste rughe che ho dentro,
tu troverai mille arpe
per delle corde gitane.
la folla che zingaresca danza
intorno ai miei libri
non sa che sapido sangue
scorre nelle Chimere
e lì dove cadde l’Audace
fiorirono mille destini:
un erpice di amore
che miete vittime ancora.




Maria

Sulla chiara aderenza del suo viso
Dove balena il ritmico, selvaggio,
sentimento dell’alba
mentre della notturna s’addolora
quiete silvestre e cinge a dominare
il boato del tempo la più cauta
trepida luce, salgono veloci
i profili irrequieti del destino.
Mirabile linguaggio che trascorre
Dalle limpide acque alla vibrata
Forza dell’inumana profezia!
Ora nell’ampia conca dell’eremo
Un soffuso candore si raccoglie
Dalle acque sui rami ed accompagna
Di cenni lacrimevoli il congedo.
    


Ora che vedi Dio

Ora che vedi Dio
Se tu taci
Al di là del mare
Se tu conosci
L’ala dell’Angelo
Se tu lasci la madre terra
Che ti ha così devastato
Ora puoi dire
Che la terra del povero
La terra del poeta
È tutta insanguinata dalla solitudine
E ora che vedi Dio
Riconosci in te stesso
Il fiore della sua lingua.





Nozze Romane

Sì, questa sarà la nostra casa,
oggi arrivo a capirlo:
ma tu, uomo gaudente, chi sei ?
Ti misuro: una formula eterna.

Hai assunto un aspetto inesorabile.
Mi scaverai fin dove ho le radici
( non per cercarmi, non per aiutarmi)
tutto scoperchierai che fu nascosto
per ferocia di malsane usanze.

Avrai in potere le mie fondamenta
uomo che mi costringi;
ferirai le mie carni col tuo dente,
t'insedierai al fervore d'un anelito
per soffocarne il senso d'urgenza.

Come una pietra che divide un corso,
un corso d'acqua giovane e irruente,
tu mi vedrai con incoscienza
nelle braccia di un delta doloroso...




    



La Terra Santa

Ho conosciuto Gerico,
ho avuto anch'io la mia Palestina,
le mura del manicomio
erano le mura di Gerico
e una pozza di acqua infettata
ci ha battezzati tutti.
Lì dentro eravamo ebrei
e i Farisei erano in alto
e c'era anche il Messia
confuso dentro la folla:
un pazzo che urlava al Cielo
tutto il suo amore in Dio.

Noi tutti, branco di asceti
eravamo come gli uccelli
e ogni tanto una rete
oscura ci imprigionava
ma andavamo verso le messe,
le messe di nostro Signore
e Cristo il Salvatore.

Fummo lavati e sepolti,
odoravamo di incenso.
E, dopo, quando amavamo,
ci facevano gli elettrochoc
perchè, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno.

Ma un giorno da dentro l'avello
anch'io mi sono ridestata
e anch'io come Gesù
ho avuto la mia resurrezione,
ma non sono salita ai cieli
sono discesa all'inferno
da dove riguardo stupita
le mura di Gerico antica.

Le dune del canto si sono chiuse,
o dannata magia dell'universo,
che tutto può sopra una molle sfera.
Non venire tu quindi al mio passato,
non aprirai dei delta vorticosi,
delle piaghe latenti, degli accessi

==>SEGUE

    

alle scale che mobili si dànno
sopra la balaustra del declino;
resta, potresti anche essere Orfeo
che mi viene a ritogliere dal nulla,
resta o mio ardito e sommo cavaliere,
io patisco la luce, nelle ombre
sono regina ma fuori nel mondo
potrei essere morta e tu lo sai
lo smarrimento che mi prende pieno
quando io vedo un albero sicuro.





Al cancello si aggrumano le vittime

Al cancello si aggrumano le vittime
volti nudi e perfetti
chiusi nell'ignoranza,
paradossali mani
avvinghiate ad un ferro,
e fuori il treno che passa
assolato leggero,
uno schianto di luce propria
sopra il mio margine offeso.






    

Il dottore agguerrito nella notte

Il dottore agguerrito nella notte
viene con passi felpati alla tua sorte,
e sogghignando guarda i volti tristi
degli ammalati, quindi ti ammannisce
una pesante dose sedativa
per colmare il tuo sonno e dentro il braccio
attacca una flebo che sommuova
il tuo sangue irruente di poeta.
Poi se ne va sicuro, devastato
dalla sua incredibile follia
il dottore di guardia, e tu le sbarre
guardi nel sonno come allucinato
e ti canti le nenie del martirio.




Io ho scritto per te ardue sentenze

Io ho scritto per te ardue sentenze,
ho scritto per te tutto il mio declino;
ora mi anniento, e niente può salvare
la mia voce devota; solo un canto
può trasparirmi adesso dalla pelle
ed è un canto d'amore che matura
questa mia eternità senza confini.




Toeletta

La triste toeletta del mattino,
corpi delusi, carni deludenti,
attorno al lavabo
il nero puzzo delle cose infami.
Oh, questo tremolar di oscene carni,
questo freddo oscuro
e il cadere più inumano
d'una malata sopra il pavimento.
Questo l'ingorgo che la stratosfera
mai conoscerà, questa l'infamia
dei corpi nudi messi a divampare
sotto la luce atavica dell'uomo.


La pelle nuda fremente

La pelle nuda fremente,
che di notte raccoglie i sogni,
la tua pelle nuda e fremente,
che vive senza emozioni
paga soltanto del mondo,
che la circonda indifeso,
la tua pelle non è profonda,
resta soltanto una resa:
una resa a un corpo malato
che nella notte sprofonda,
un grido tuo disperato,
a quello che ti circonda.
La tua pelle che fa silenzio,
e lievita piano l'ora,
la tua pelle di dolce assenzio
forse può darti l'aurora,
l'aurora tetra e gentile
di un primo canto di aprile.





Ieri ho sofferto il dolore

Ieri ho sofferto il dolore,
non sapevo che avesse una faccia sanguigna,    
le labbra di metallo dure,
una mancanza netta d'orizzonti.
Il dolore è senza domani,
è un muso di cavallo che blocca
i garretti possenti,
ma ieri sono caduta in basso,
le mie labbra si sono chiuse
e lo spavento è entrato nel mio petto
con un sibilo fondo
e le fontane hanno cessato di fiorire,
la loro tenera acqua
era soltanto un mare di dolore
in cui naufragavo dormendo,
ma anche allora avevo paura
degli angeli eterni.
Ma se sono così dolci e costanti,
perchè l'immobilità mi fa terrore?

   

Ho bisogno di poesia

Ho bisogno di poesia,
questa magia che brucia la pesantezza delle parole,
che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.

La mia poesia è alacre come il fuoco
trascorre tra le mie dita come un rosario
Non prego perché sono un poeta della sventura
che tace, a volte, le doglie di un parto dentro le ore,
sono il poeta che grida e che gioca con le sue grida,
sono il poeta che canta e non trova parole,
sono la paglia arida sopra cui batte il suono,
sono la ninnanànna che fa piangere i figli,
sono la vanagloria che si lascia cadere,
il manto di metallo di una lunga preghiera
del passato cordoglio che non vede la luce.

Perché mi dici cose fuggenti

Perché mi dici cose fuggenti
che non sanno di vero,

perché inganni te stessa?
Il violino armonico che avevi dentro
si è rotto per sempre.
Inutile sperare

così spero che qualcuno
bussi alla porta,
e non solo il vento.

Ieri sera era amore

Ieri sera era amore,
io e te nella vita
fuggitivi e fuggiaschi
con un bacio e una bocca
come in un quadro astratto:
io e te innamorati
stupendamente accanto.
Io ti ho gemmato e l’ho detto;
ho ma questa mia emozione
si è spenta nelle parole.





   


Perché t’amo

a Manuela

Perché t’amo e mi sfuggi,
pesce rosso di vita
umido dentro l’erba
palpitante nel sole?
Perché non ho parola
dura come la pietra
che ti ferisca a morte?
Così ti fermerei,
e potrei disegnarti
un arabesco sul cuore.




Quando tu non ci sei

Quando tu non ci sei
e l’aria non risuona dei tuoi richiami segreti
allora l’ombra si stende come un manto
la sera diventa feroce
e gli uccelli mi cadono ai piedi stecchiti,
come percossi da una peste improvvisa
perché la mancanza d’amore
è la mia pestilenza.




Vorrei poter suonare

Vorrei poter suonare quei violini
che solo a notte adeguano le stelle
e dirti e dirti che così vicini
possiamo amare tante cose belle;
ma tu ti rifugi nel silenzio
delle tue stanze e non odi oscuro
questa divina musica lontana
che sì mi batte in cor tanto sovrana
che mi fa meraviglia delle stelle
(a te ho dato le cose più belle).
    

Lirica antica

Caro, dammi parole di fiducia
per te, mio uomo, l’unico che amassi
in lunghi anni di stupido terrore,
fa che le mani m’escano dal buio
incantesimo amaro che non frutta
Sono gioielli, vedi, le mie mani,
sono un linguaggio per l’amore vivo
ma una fosca catena le ha ben chiuse
ben legate ad un ceppo. Amore mio
ho sognato di te come si sogna
della rosa e del vento,
sei purissimo, vivo, un equilibrio
astrale, ma io sono nella notte
e non posso ospitarti. Io vorrei
che tu gustassi i pascoli che in dono
ho sortiti da Dio, ma la paura
mi trattiene nemica; oso parole,
solamente parole e se tu ascolti
fiducioso il mio canto, veramente
so che ti esalterai delle mie pene.

L’ora più solare per me

L’ora più solare per me
quella che più mi prende il corpo
quella che più mi prende la mente
quella che più mi perdona
è quando tu mi parli.
Sciarade infinite,
infiniti enigmi,
una così devastante arsura,
un tremito da far paura
che mi abita il cuore.
Rumore di pelle sul pavimento
come se cadessi sfinita:
da me si diparte la vita
e d’un bianchissimo armento io
pastora senza giudizio
di te amor mio mi prendo il vizio.
Vizio che prende un bambino
vizio che prende l’adolescente
quando l’amore è furente
quando l’amore è divino.
    



Com’è stato imprevisto il tuo abbandono!

Com’è stato imprevisto il tuo abbandono!
Proprio nel momento in cui io naufragavo
nelle onde del tuo piacere
tu mi hai lasciato
e forse mi hai salvato la vita
ma maledetti coloro che salvano i poeti per ignoranza
rendendoli creature sconfitte.




Ora il corpo

Ora il corpo è sublime e i chiaroscuri
scendono alle mie rapide finestre.
Ricordarmi di te, colmarmi dentro
ogni parola che tu hai detto invano.
Ora non più, ma forse dentro il vento
è rimasto qualcosa del tuo amore,
come una foglia o un grigio mutamento
dentro l’umore di un dannato Iddio.




Per una giovinetta - a M. G

Ho pensato al tuo fascino profondo
cara, piccola luce, così chiara
da parere una mite trasparenza
di vigoroso petalo o una spina
che ancor dritta si leghi alla tua voce.
Tu sei bella di lucida passione
non ancora riflessa
dentro nell’unghia scarna del destino…
Fai tu che questi non eguagli mai
la tua piana bellezza come fiume
che pareggi ogni mitico livello.

Se la morte

fosse un vivere quieto,
un bel lasciarsi andare,
un'acqua purissima e delicata
o deliberazione di un ventre,
io mi sarei già uccisa.
Ma poichè la morte è muraglia,
dolore, ostinazione violenta,
io magicamente resisto.
Che tu mi copra di insulti,
di pedate, di baci, di abbandoni,
che tu mi lasci e poi ritorni

senza un perchè
o senza variare di senso
nel largo delle mie ginocchia,
a me non importa

perchè tu mi fai vivere,
perchè mi ripari da quel gorgo
di inaudita dolcezza,
da quel miele tumefatto

e impreciso
che è la morte di ogni poeta





L'albatros

Io ero un uccello
dal bianco ventre gentile,
qualcuno mi ha tagliato la gola
per riderci sopra non so.
Io ero un albatro grande
e volteggiavo sui mari.
Qualcuno ha fermato il mio viaggio,
senza nessuna carità di suono.
Ma anche distesa per terra
io canto ora per te
le mie canzoni d'amore.
SENZA
Immagina un prato senza fiori,
Pensa ad un deserto senza sabbia,
Nuota in un mare senza acque,
Guarda un cielo senza il blu,
Osserva una montagna senza roccia,
Sogna un paradiso senza angeli
Addormentandoti su un cuscino senza piume
Scruta una notte senza stelle,
Dipingi il mondo senza colori.
Paragonati a tutto questo e aggiungici
L’aria che serve ad un uomo
Per rimanere in vita
Ora sai di avermi dato un motivo
In più per respirare.

Il volto
Vedessi il volto della mia anima
quando ti vedo e tremo
e diventa foglia d’ascolto.
Vedessi il dito del mio cuore
che ti indica strade sconosciute.
Vedessi il mio amore
che è tenero figlio
che cresce senza padre.

Si sfaldano le rose della mia avvenenza
Si sfaldano le rose della mia avvenenza
piano piano in un terreno consunto.
Non solo petali che ardono di luce
ma solitarie piante
di chi è stato a lungo dimenticato
e non si è più convertito.
Mi hanno lasciato nel pieno del mio ateismo
mentre consumavo un rito d’amore
e qualcosa alle spalle
mentre facevo l’amore con un ragazzo
Mi ha dannato per sempre.
così abbiamo trovato l’inferno della ragione
e non ci siamo rivisti mai più.
Adagio adagio il corpo si è ristretto
lasciando indietro mille similitudini
in cui si sono abbeverati gli asini della terra.
Mangiare petali di rosa non era possibile
ma mangiare marciume è consapevole a tutti.

Il mio primo trafugamento di madre

Il mio primo trafugamento di madre
avvenne in una notte d’estate
quando un pazzo mi prese
e mi adagiò sopra l’erba
e mi fece concepire un figlio.
O mai la luna gridò così tanto
contro le stelle offese,
e mai gridarono tanto i miei visceri,
né il Signore volse mai il capo all’indietro
come in quell’istante preciso
vedendo la mia verginità di madre
offesa dentro a un ludibrio.
Il mio primo trafugamento di donna
avvenne in un angolo oscuro
sotto il calore impetuoso del sesso,
ma nacque una bimba gentile
con un sorriso dolcissimo
e tutto fu perdonato.
Ma io non perdonerò mai
e quel bimbo mi fu tolto dal grembo
e affidato a mani più “sante”,
ma fui io ad essere oltraggiata,
io che salii sopra i cieli
per avere concepito una genesi.




Quando avrò alzato in me l’intimo fuoco

Quando avrò alzato in me l’intimo fuoco
che originava già queste bufere
e sarò salda, libera, vitale,
allora sarò sola?
E forse staccherò dalle radici
la rimossa speranza dell’amore,
ricorderò che frutto d’ogni
limite umano è assenza di memoria,
tutta mi affonderò nel divenire…
ma fino a che io tremo dal principio
cui la tua mano mi iniziò da ieri,
ogni attributo vivo che mi preme
giace incomposto nelle tue misure.



C’è gente che prende il granito

C’è gente che prende il granito
per farvi battere un cuore.
Dio ci prese la carne e l’anima
mettendo insieme i confini.
La nostra carne così debole, così informe
sogna di essere buttata nel granito
per perdere il cuore.

Auguri

Auguri, le acque del sentimento a volte ti hanno sconvolta
e c’e un genere dolce di poesia che è il canto,
come canta una madre
quando accarezza un figlio,
il piede di una fata che cammina
nel vento, e mentre i tuoi figlioli accedono la vita
tu ritorni ragazza, un gelo da salvare,
l’amore non ha tempo e quando sarai vecchia
ti bacerà i capelli solo la primavera.


Il suo sperma bevuto...

Il suo sperma bevuto dalle mie labbra
era la comunione con la terra.
Bevevo con la mia magnifica
esultanza
guardando i suoi occhi neri
che fuggivano come gazzelle.
E mai coltre fu più calda e lontana
e mai fu più feroce
il piacere dentro la carne.
Ci spezzavamo in due
come il timone di una nave
che si era aperta per un lungo viaggio.
Avevamo con noi i viveri
per molti anni ancora
i baci e le speranze
e non credevamo più in Dio
perché eravamo felici.




O giovani

O giovani
pieni di speranza gelida
che poi diventerà amore
sappiate da un poeta
che l’amore è una spiga d’oro
che cresce nel vostro pensiero
esso abita le cime più alte
e vive nei vostri capelli.
Amavi il mondo del suono
a labbra di luce;
l’amore non si vede
è un’ode che vibra nel giorno,
fa sentire dolcissime le notti.
Giovanetti, scendete lungo i rivi
del vostro linguaggio
prendete la prima parola
portatela alla bocca
e sappiate che basta un segno
per far fiorire un vaso.






Colori

S’io riposo, nel lento divenire
Degli occhi, mi soffermo
All’eccesso beato dei colori;
qui non temo più fughe o fantasie
ma la “penetrazione” mi abolisce.
Amo i colori, tempi di un anelito
Inquieto, irresolvibile, vitale,
spiegazione umilissima e sovrana
dei cosmici “perché” del mio respiro.
La luce mi sospinge ma il colore
M’attenua, predicando l’impotenza
Del corpo, bello, ma ancor troppo terrestre.
Ed è per il colore cui mi dono
S’io mi ricordo a tratti del mio aspetto
E quindi del mio limite.
I versi sono polvere chiusa
Di un mio tormento d’amore,
ma fuori l’aria è corretta,
mutevole e dolce ed il sole
ti parla di care promesse,
così quando scrivo
chino il capo nella polvere
e anelo il vento, il sole,
e la mia pelle di donna
contro la pelle di un uomo.
Ah se almeno potessi,
suscitare l’amore
come pendio sicuro al mio destino!
E adagiare il respiro
Fitto dentro le foglie
E ritogliere il senso alla natura!
O se solo potessi
Toccar con dita tremule la luce
Quella gagliarda che ci sboccia in seno,
corpo astrale del nostro viver solo
pur rimanendo pietra, inizio, sponda
tangibile agli dei…
e violare i più chiusi paradisi
solo con la sostanza dell’affetto.

==>SEGUE






No, non chiudermi ancora nel tuo abbraccio,
atterreresti in me quest’alta vena
che mi inebria dall’oggi e mi matura.
Lasciamo alzare le mie forze al sole,
lascia che mi appassioni dei miei frutti,
lasciami lentamente delirare…
e poi coglimi solo e primo e sempre
nelle notti invocato e nei tuoi lacci
amorosi tu atterrami sovente
come si prende una sventata agnella…








Non siate solo stendardi

Non siate solo stendardi
ma anche terra presente
Non siate solo musica
ma anche silenzio di perla.
Non perdete mai il contatto
del vostro cammino:
ricordatevi che il sangue si ferma
perché non vuole parlare.



Inno alla donna

Stupenda
immacolata fortuna
per te tutte le culture del
regno
si sono aperte
e tu sei diventata la
regina
delle nostre ombre
per te gli uomini
hanno preso
innumerevoli voli
creato l’alveare del
pensiero
per te donna è sorto
il mormorio dell’acqua
unica grazia
e tremi per i tuoi
incantesimi
che sono nelle tue mani
e tu hai un sogno
per ogni estate
un figlio per ogni pianto
un sospetto d’amore
per ogni capello
ora sei donna tutto un
perdono
e così come ti abita
il pensiero divino
fiorirà in segreto
attorniato
dalla tua grazia.



Riverbero

E’ dolce pensare
che io arda d’amore per te
senza averne mai un riscontro.
Il poeta non serve la gloria di Dio
ma solo la sua gloria
che è un lontano riverbero
della collera divina.

Paradisi

O cielo che lo cerchi in segreto
per ogni terra
senza darlo a vedere
come se fosse un lago in cui morire.
Non so che cosa dire
al mio unico confessore
che parla di paradisi
mai esistiti.

I giorni e i figli

Sei entrata nelle ombre del sonno
un giorno
e hai riconosciuto il mio volto esangue
allineato come tanti su un’ara sacrificale.
Con la torcia del tuo sapere
hai illuminato le ombre dell’inferno.
Tu, madre immacolata e triste
per cui i giorni sono stati
tanti figli.

Suoni per il vento

In cima ad un violino
ci sta forse un respiro
che nessuno raccoglie
perché è un senso d’amore.
Tu suoni per il vento e viaggi
dove la pace sussurra tra le piante
tutta una nostalgia.



GOCCIA NUDA

C’era una goccia nuda
appesa al pavimento
come una macchia vuota
nel tuo discernimento,
che vangava la terra
com’ala di orizzonte
densa di millepiedi…
c’era la tua sostanza
pacifica e lontana
che sognava le navi
lanciate al tuo destino,
e una corona nuova
scambiata per rosario
che ti pendeva al labbro
come una croce rossa.



Per un gioco di rime sì scoperte

Per un gioco di rime sì scoperte
vorrei arrivare a questa dolce grazia
che mi dà vie d’amore più deserte.
Che se tu mostri a me questa tua faccia,
allora allora avanzerò di brezza;
ma fa tu che mi vieti e non discaccia
questa tua e mia soverchia tenerezza
che tante volte prede pure abbraccia
giù nell’Inferno per dimestichezza
delle cose divine con l’Eterno.



I miei poveri versi

I miei poveri versi
non sono belle millantate parole,
non sono afrodisiaci folli
da ammannire ai potenti
e chi voglia blandire la sua sete.
I miei poveri versi
sono brandelli di carne
nera…disfatta…chiusa
e saltano agli occhi impetuosi.


Padre che fosti a me, grande poeta

Padre che fosti a me, grande poeta,
bene ricordo la tua cetra viva
e le tue dita bianche affusolate
che varcavano il solco del mio seno.
E io ricordo tutto, le bufere
i venti aperti e quella confusione
che trovava la nostra poesia.
Parlavamo il linguaggio dei poeti
casto, accorto senza delusioni
o eravamo delusi di noi stessi
poveri, confinati nello spazio
come astronauti sulla stessa luna.



Ma il giorno che ci apersero

Ma il giorno che ci apersero
i cancelli,che potemmo
toccare con le mani quelle rose
stupende, che potemmo
finalmente inebriarci del loro
destino di fiori.
Divine, lussureggianti rose!
Non avrei potuto scrivere
in quel momento niente che
riguardasse i fiori perché io stessa
avevo un gambo e una linfa.



Quando sono entrata

Quando sono entrata
tre occhi mi hanno raccolto
dentro le loro sfere,
tre occhi duri impazziti
di malate dementi:
allora io ho perso i sensi
ho capito che quel lago
azzurro era uno stagno
melmoso di triti rifiuti
in cui sarei affogata.


A me piacciono gli anfratti bui

A me piacciono gli anfratti bui
delle osterie dormienti,
dove la gente culmina nell’eccesso del canto,
a me piacciono le cose bestemmiate e leggere,
e i calici di vino profondi,
dove la mente esulta,
livello di magico pensiero.
Troppo sciocco è piangere sopra un amore perduto
malvissuto e incostante,
meglio l’acre odore del vino
indenne,
meglio l’ubriacatura del genio,
meglio si meglio
l’indagine sorda delle scorrevolezze di vite;
io amo le osterie
che parlano del linguaggio sottile
della lingua di Bacco,
e poi nelle osterie
ci sta il nome di Charles
scritto a caratteri d’oro.




LA BAMBINA

Invecchiando
mi diedi al vino,
ma non avevo colpa
di preferire il vino a un uomo
che mi tradiva con la cugina.
Lei, polposa e fresca
e forse gli avrebbe portato in dote un figlio,
il figlio che eroicamente io non avevo.
Così annegai la mia sete nell’acquavite
e morii presto sotto un’acacia immensa
mentre prendevo l’ultimo sole d’inverno.



Da Titano non ebbi niente

Da Titano non ebbi niente,
assolutamente niente.
Soltanto mi confortava,
con la sua presenza nel letto,
calda,
giacente,
enorme.
Ero sicura:
se il portinaio mi avesse molestata,
Titano sarebbe insorto
come un gigante.
Ma ero anche sicura:
Titano non lo avrebbe fatto
per compiacere me,
ma soltanto
per compiacere se stesso,
per provare che
era più potente del portinaio.
Queste cose io le ho sempre sapute.

Natale ai navigli

La sera tornando dal freddo
mi infilavo nel bianco Titano.
Difficile immaginare un ghiacciolo ardente,
un’anima che desse pena all’anima,
però steso sul mio caldo segreto
Titano diceva:”Il canto d’amore
è solo tra le tue braccia”…
Il naviglio prorompeva felice
e diventava un canto gigante,
le pecore belavano attorno al letto
e noi eravamo pastori,
le sue labbra nella notte
mi facevano sentire un’ebrea ardente.
Io gli domandavo su quanti giacigli fosse rimasto
e quanti ne avesse lasciato,
Titano mi diceva:”Fa il conto
di mille scudi per tre”.
Così diceva e se aprivo il palato
delle sue mani vedevo
il segreto giovane del suo amore profondo
e le sue braccia erano colmate dai sensi
e fuori nevicava.

Spavento di Maria

Una voce come la Tua
che entra nel cuore di una vergine
e lo spaventa,
una voce di carne e di anima,
una voce che non si vede,
un figlio promesso a me,
tu ancella che non conosci l’amore,
un figlio mio e dell’albero,
un figlio mio e del prato,
un figlio mio e dell’acqua,
un figlio solo:
il Tuo.
Come posso non spaventarmi
e fuggire lontano
se non fosse per quell’ala d’uomo
che mi è sembrato un angelo?
Ma in realtà, mio Dio,
chi era?
Uno che si raccomanda,
uno che mi dice di tacere,
uno che non tace,
uno che dice un mistero
e lo divulga a tutti.
Io sola, povera fanciulla
ebrea
che devo credere
e ne ho paura, Signore,
perché la fede è una mano
che ti prende le viscere,
la fede è una mano
che ti fa partorire.

Il grembiule

Mia madre invece aveva un vecchio grembiule
per la festa e il lavoro,
a lui si consolava vivendo.
In quel grembiule noi trovammo ristoro
fu dato agli straccivendoli
dopo la morte, ma un barbone
riconoscendone la maternità
ne fece un molle cuscino
per le sue esequie vive.



Così, come Paolo di Tarso

Così, come Paolo di Tarso,
sono stato disarcionato,
sono stato buttato per terra,
e miracolosamente mi sono rialzato nudo.
Allora ogni elemento terreno
ha assunto uno splendore senza pari.
Ho visto il significato dell’acqua,
il perché senza colpa
del filo d’erba
che brucia sotto il sole.
Ho capito il piacere del piede nudo
che divora la terra piena di asperità
e che queste spine le sente
come spine di Dio.
Giorno per giorno
ho vissuto il calvario,
e la mia pazzia
ha entusiasmato molti.




Il pastrano

Un certo pastrano abitò lungo tempo in casa
era un pastrano di lana buona
un pettinato leggero
un pastrano di molte fatture
vissuto e rivoltato mille volte
era il disegno del nostro babbo
la sua sagoma era assorta ed ora felice.
Appeso a un cappio o al portabiti
assumeva un’aria sconfitta:
traverso quell’antico pastrano
ho conosciuto i segreti di mio padre
vivendolo così, nell’ombra.


Mani roventi

Forse tu hai dentro il tuo corpo
un seme di grande ragione,
ma le tue labbra suadenti
che sanno di tanta ironia
hanno morso più baci
di quanto ne voglia il Signore
come si morde una mela
al colmo della pienezza.
E le tue mani roventi
nude, di maschio deciso
hanno dato più abbracci
di quanto ne valga una messe,
eppure il mio cuore ti canta,
o sposo novello
eppure in me è la sorpresa
di averti accanto a morire
dopo che un fiume di vita
ti ha spinto all’argine pieno.

Il 21 marzo è la Giornata mondiale della poesia, istituita dalla XXX Sessione della Conferenza Generale UNESCO nel 1999.


Non sparire nell’azzurro

Non sparire nell’azzurro,
ho visto un giorno la tua salma appesa
ferma nel vuoto, pareva che cantasse,
e poi ancora due denti vespertini
rossi di volpe, che avevano preso
di te tutto il conforto della Chiesa.
Non vangare negli orizzonti,
a volte ci son chiuse, poi maremme…
e tu ti nascondevi dentro gli auspici
della demenza, sai, che era un vibrare
dentro le corde del tuo Creatore.
Hai lasciato una lira nel tuo scambio
Di asceta, questa lira polverosa
Che non ha conio in terra straniera,
che si muta soltanto in Paradiso.




Adesso sono una pioggia spenta

Adesso sono una pioggia spenta
Dopo che l’orma del tuo cammino
Si è fermata ai miei occhi
Che ciglio devastante il tuo!
Come mi penetri le ossa!
Se piangessi, tu verresti a riprendermi
Ma io ho bisogno del mio dolore
Per poterti capire




So che un amore

So che un amore
può diventare bianco
come quando si vede un’alba
che si credeva perduta
Dalla solita sponda/ del mattino/ Io mi guadagno/ palmo a palmo il giorno:/ il giorno dalle acque così grigie,/ dall’espressione assente./
(Il gobbo, poesia scritta da Alda Merini diciassettenne nel 1948: l’anno precedente c’era stato il suo primo ricovero in clinica psichiatrica)

«Di noi quattro sorelle, io sono la maggiore – nata nel 1955 – e quella con più ricordi. Fino ai miei 6 o 7 anni la vita in famiglia era stata abbastanza gradevole, con momenti belli e dolci. Ma dopo la nascita di Flavia, nel 1958, nostra madre andò in depressione e non le restò abbastanza energia per dare a mia sorella le attenzioni che chiedeva. Flavia fu mandata a vivere per dei periodi dalla nonna materna, e lì cominciò la sua difficile vita di figlia a singhiozzo.
«Il punto di non ritorno, quando la mamma si ammalò davvero, arrivò nel 1966. Io avevo 11 anni, Flavia 8, Barbara e Simona non erano ancora nate. Mio padre, che era un uomo molto chiuso, un giorno disse che usciva per andare a un funerale e tornò dopo due giorni. Non abbiamo mai saputo dove sia stato. Mia madre fu presa da una terribile ansia, lo cercò disperatamente e, quando papà tornò, gli chiese conto di dove era stato. Lui non rispose, scoppiò una scenata violentissima.
«Mio padre non seppe gestire il litigio. Invece di calmarla, chiamò qualcuno al telefono: non abbiamo mai saputo chi. Poi portò me e Flavia dalla portinaia, risalì e poco dopo sentimmo nostra madre che gridava mentre la trascinavano giù per le scale. La sera stessa papà ci portò a Torino, da parenti che quasi non conoscevamo. In poche ore era sparita la nostra famiglia, non avevamo più una casa e nemmeno dei genitori. Quando ci penso, sento dentro le stesse sensazioni di allora: terrore, disperazione, senso di impotenza».


Emanuela Carniti è la prima delle quattro figlie avute da Alda Merini e dal marito, il panettiere Ettore Carniti, uomo schivo e taciturno che la grande potessa aveva sposato nel 1953, a 22 anni. Come le sorelle – Flavia, Barbara e Simona – non si era mai svelata pubblicamente fino alla morte della madre settantottenne, avvenuta a Milano un anno fa, il primo novembre 2009. Solo allora, insieme, hanno deciso di aprire un sito, www.aldamerini.it, dedicato alla madre. Abitano distanti l’una dall’altra, tutte hanno figli. Barbara, nata nel 1968, e Simona, nata nel 1972, vivono appartate e lontano dai riflettori. Flavia si occupa del sito, Emanuela è la memoria storica della famiglia. Questa è una sua rara intervista.


Tu insegui le mie forme,/ segui tu la giustezza del mio corpo/ e non mai la bellezza/ di cui vado superba./ Sono animale all’infelice coppia/ prona su un letto misero d’assalti,/ sono la carezzevole rovina/ dai fecondi sussulti alle tue mani,/ sono il vuoto cresciuto/ sino all’altezza esatta del piacere/ ma con mille tramonti/ alle mie spalle:/ quante volte, amor mio,/ tu mi disdegni.
(Dies Irae, dedicata dalla Merini a suo marito nel 1953)


«Prima di ammalarsi, nostra madre era stata una persona allegra. Forse non aveva una grande capacità materna di comprensione, nel senso che non riusciva a mettersi nei nostri panni, era spesso concentrata nel suo mondo. Io la vedevo scrivere, scrivere, suonava il pianoforte, dava anche lezioni di italiano. Quando scriveva entrava in una sua bolla e noi ci rendevamo conto che si infastidiva se la disturbavamo.
«Eppure, fino alla grande scenata, il rapporto fra i nostri genitori era stato abbastanza buono. Mio padre la portava in palmo di mano, la chiamava “La mia signora”. Era piuttosto lei che lo abbacchiava un po’, ma lui non ne soffriva, almeno non lo dava a vedere. Papà era un uomo tradizionale che aveva bisogno di una moglie tradizionale, di essere coccolato e accudito, e lei non era brava in questo. Ma nonostante ci fosse molta differenza culturale fra loro, non era né geloso né invidioso. Era come se ognuno vivesse in un suo mondo, però si volevano bene.
«Ai primi tempi lui aveva una panetteria e la mamma ogni tanto lo aiutava. Smise quando restò incinta di me, perché dovette trascorrere la gravidanza a letto. Allora mio padre andò a lavorare per altri. Era pagato molto bene, ma mia madre non ha mai saputo gestire il denaro, così lui glielo lesinava. I soldi erano un argomento di discussione continua. Questo però capitava in molte famiglie. E poi la nostra era una casa aperta e vivace, da noi veniva tanta gente. E io ricordo di essere stata a casa di Salvatore Quasimodo.
«La mamma tornò a casa dalla clinica psichiatrica 15 giorni dopo, ma nulla fu più come prima. Io e mia sorella non abbiamo mai chiesto a papà le ragioni di quella telefonata, di quel gesto estremo e così duro. Non avevamo molta confidenza con i nostri genitori, allora non c’era l’abitudine di parlare con i bambini e noi non facevamo domande.
«Quanto a mamma, ha sempre avuto un rapporto labile con la ricostruzione dei fatti e delle date. Era lei che, anni dopo, mi chiedeva chiarimenti e cercava risposte. Una volta mi ha domandato: “Ti ricordi se papà mi tradiva?”. Credo avesse dei sensi di colpa, ma non li ha mai elaborati come tali. Lei scriveva poesie, era il suo modo di vivere se stessa, gli eventi, gli affetti.
«Entrava e usciva dagli ospedali psichiatrici, che non erano ancora quelli umanizzati di Basaglia, ma manicomi duri, repressivi. Lì dentro era facile perdere se stessi. Io a volte la accompagnavo per le visite di controllo e spesso tornavo a casa da sola perché la trattenevano, oppure era lei a chiedere di essere ricoverata. Vederla restare dentro era un trauma e insieme un sollievo, perché a casa lei e mio padre litigavano spessissimo, e a volte si picchiavano pure».


Io ero un uccello/ dal bianco ventre gentile,/ qualcuno mi ha tagliato la gola/ per riderci sopra,/ non so./ Io ero albatro grande/ e volteggiavo sui mari./ Qualcuno ha fermato/ il mio viaggio,/ senza nessuna carità di suono./ Ma anche distesa per terra/ Io canto ora per te/ Le mie canzoni d’amore./
(La Terra Santa, 1984)


«Mia sorella rimase a Torino: non tornò più a casa. Rotture così nette segnano per sempre, soprattutto se sei un bambino, perché da un giorno all’altro ti tolgono tutto quello che conosci e senza dirti perché. Se almeno ci avessero lasciate insieme ci saremmo confortate a vicenda, ma nessuno ci chiese che cosa desideravamo, nessuno ci domandò un parere, decisero i grandi e gli assistenti sociali per noi.
«Restammo insieme solo per poco tempo a Torino, ma non ci piaceva, piangevamo notte e giorno. Quando nostro padre venne a trovarci, pensavamo che ci avrebbe riportato a casa con lui, invece prese solo me, mi portò in istituto, dove rimasi per un mese e mezzo, e lasciò lì Flavia da sola. Non l’ho rivista per anni. Ci telefonavamo, ma raramente. Ognuna di noi era occupata nella propria sopravvivenza».


Emanuela interrompe il racconto, si nasconde la bocca con una mano, gli occhi intensi e truccati di nero guardano fisso un punto nel vuoto. «Questa intervista è durissima. Mi fa rivivere tutti insieme tanti momenti dolorosi… Non credevo fosse così difficile». Serve una pausa. Un po’ di silenzio nella sua casa sul lago d’Orta, colorata di giallo, piena di fiori, di quadri, di foto di Alda Merini, di tende di organza, di sapore orientale, di collane e orecchini vivaci. Poi il racconto riparte.


«Vivevo da sola con mio padre. Mia madre ogni tanto tornava dall’ospedale, litigava con lui, si deprimeva e rientrava in manicomio. Lei nelle liti non cedeva mai, però non si lasciavano. Non era autonoma economicamente, non sapeva dove altro andare. A scuola non avevo molte amicizie: la mamma ci aveva abituato a non invitare bambini perché la casa era piccola e la confusione le dava fastidio. Finii le medie e mi iscrissi a un istituto per segretarie di azienda. Non mi piaceva, avrei voluto studiare lingue, medicina, ma mi dissero che non c’erano abbastanza soldi. Però a scuola stavo bene. Tornare a casa invece non mi piaceva, perché non sapevo mai che cosa avrei trovato.
«Mi fidanzai a 15 anni, lui ne aveva 9 più di me, non ero innamorata. Fu mio padre a buttarmi nel matrimonio, quasi per caso, dopo che il mio fidanzato aveva cercato di placare una lite fra lui e mia madre. Papà gli disse di non farsi più vedere. Poi, guardandomi, aggiunse: “E se vuoi andare anche tu, prendi il tuo bel cappottino, puoi seguirlo”. Lo guardai sbalordita e me ne andai. Ero minorenne, intervenne il tribunale, la situazione si fece difficile, minacciarono di mandarmi in riformatorio. Mi sposai, perché sennò non sarei più riuscita ad andarmene di casa.
«Nel frattempo era nata la terza sorella, Barbara. Ero in casa quando mia madre ebbe le doglie e dopo, siccome lei era depressa, preparavo io il biberon. Diedero Barbara quasi subito in affido, non ha mai vissuto con i miei. Subito dopo la mia partenza mamma restò incinta di Simona, anche lei venne affidata a una famiglia lontana e praticamente non l’abbiamo quasi più vista. Ho sofferto molto per queste due sorelle. Fossi stata più grande le avrei prese a vivere con me. Per anni ho cercato di non pensare a loro, dovevo occuparmi della mia sopravvivenza, ma poi i sensi di colpa riaffiorano e te li porti dietro per sempre».


La vita è grama e deludente assai…/ Ho una placida figlia/ Con gli occhi azzurri/ ed i capelli d’oro/ Che mi sta, cuore mio,/ sempre lontana/ E ha le mani fanciulle/ E il volto bello pieno di ironia/ e mi vuole tanto bene/ Come soltanto se ne vuole/ a un Dio;/ questa fanciulla bella/ che nei liti remoti è dell’Italia/ a me pensa talvolta e mi sorride/ unica stella dentro la tempesta./
(A Barbara, 1980)


«A 15 anni andai a vivere con i suoceri, in una casa isolata sul lago, e lasciai la scuola. Fu un trauma: non c’era nulla, mi sentivo una sopravvissuta. Pensavo solo a tenermi assieme, prendevo quel poco di buono che c’era. A 18 anni, contro il parere di mio marito, sono andata a fare l’infermiera. A 21 ho desiderato avere un figlio ed è nata Sara. Non è stato facile imparare a fare la mamma, lo è sempre quando non hai un esempio da seguire. Tre anni dopo mi sono separata, ed è stato più difficile di quanto pensassi. Così, finalmente, ho inziato l’analisi.
«Nel frattempo era stata votata la legge Basaglia, che chiudeva i manicomi e riformava tutta la psichiatria. Allora ho frequentato un corso da infermiera psichiatrica, lo desideravo fin da quando mamma si era ammalata. Ho dato il concorso, l’ho vinto, ho contribuito ad aprire il primo centro di salute mentale a Omegna. All’inizio bisognava andare a cercare i malati a casa, dopo tutto quello che avevano passato nei manicomi non ne volevano più sapere di camici e infermieri. Poco alla volta gli abbiamo fatto capire che noi facevamo un lavoro diverso, e oggi sono orgogliosa del lavoro che faccio. Lo so: questo mestiere l’ho scelto per la storia che ho. In fondo è sempre così, si curano gli altri per curare anche se stessi, guardando negli altri guardi dentro di te.
«Intanto mia madre era uscita dal manicomio, stava meglio, aveva ricominciato a scrivere dopo quasi vent’anni di silenzio, mi veniva a trovare con mio padre, cercava di starmi vicino, ma io cercavo di starle lontano. Non c’è mai stato un recupero di contatto. Nel frattempo ho incontrato un altro compagno, è nato il mio secondo figlio, Riccardo, mi sono di nuovo separata e mio padre è morto. Era il 1983. Prima di andarsene riuscì a chiedermi solo due cose: se gli portavo delle arance e se ero felice col mio uomo. È morto senza riuscire a domandare mai nulla a nessuno.
«Io sono una da Mulino Bianco. Quando la sera, tornando a casa dal lavoro, vedo le luci accese dentro le case, mi perdo a immaginare famiglie felici che chiacchierano cenando. Mia figlia mi prende in giro per questo, ma credo sia normale per una come me che sognava di essere adottata.
«È stata l’analisi a riconciliarmi con mia madre. L’ho accettata quando ho capito che lei non poteva essere la madre che avrei voluto, quando l’ho vista come persona e non più come madre. Dai genitori bisogna separarsi per imparare a comprenderli e a vedere le loro fragilità. Anche l’entrare a contatto con la malattia mentale mi ha aiutato a capirla e a capirmi. La sua vita non è stata facile.
«Le sue cose non le ho lette tanto. Ho cominciato a farlo dopo che è morta. Una volta le ho chiesto: “Mamma, ma perché ti sei sposata?”. Lei mi ha risposto: “Io volevo farmi suora. È stata mia madre a impedirmelo, mi ha spinto a sposarmi”. Neanche lei ha potuto sempre scegliere il suo destino, però aveva la poesia che l’ha aiutata a vincere il buio. In realtà mia madre è sempre stata sposata con la poesia, è la poesia la luce che l’ha salvata».


Io sono certa che nulla più soffocherà la mia rima,/ il silenzio l’ho tenuto chiuso per anni nella gola/ come una trappola da sacrificio,/ è quindi venuto il momento di cantare una esequie al passato.
(La Terra Santa, 1984)


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Il grembiule

Mia madre invece aveva un vecchio grembiule
per la festa e il lavoro,
a lui si consolava vivendo.
In quel grembiule noi trovammo ristoro
fu dato agli straccivendoli
dopo la morte, ma un barbone
riconoscendone la maternità
ne fece un molle cuscino
per le sue esequie vive.