Dalla solita sponda/ del mattino/ Io mi guadagno/ palmo a palmo il giorno:/ il giorno dalle acque così grigie,/ dall’espressione assente./
(Il gobbo, poesia scritta da Alda Merini diciassettenne nel 1948: l’anno precedente c’era stato il suo primo ricovero in clinica psichiatrica)
«Di noi quattro sorelle, io sono la maggiore – nata nel 1955 – e quella con più ricordi. Fino ai miei 6 o 7 anni la vita in famiglia era stata abbastanza gradevole, con momenti belli e dolci. Ma dopo la nascita di Flavia, nel 1958, nostra madre andò in depressione e non le restò abbastanza energia per dare a mia sorella le attenzioni che chiedeva. Flavia fu mandata a vivere per dei periodi dalla nonna materna, e lì cominciò la sua difficile vita di figlia a singhiozzo.
«Il punto di non ritorno, quando la mamma si ammalò davvero, arrivò nel 1966. Io avevo 11 anni, Flavia 8, Barbara e Simona non erano ancora nate. Mio padre, che era un uomo molto chiuso, un giorno disse che usciva per andare a un funerale e tornò dopo due giorni. Non abbiamo mai saputo dove sia stato. Mia madre fu presa da una terribile ansia, lo cercò disperatamente e, quando papà tornò, gli chiese conto di dove era stato. Lui non rispose, scoppiò una scenata violentissima.
«Mio padre non seppe gestire il litigio. Invece di calmarla, chiamò qualcuno al telefono: non abbiamo mai saputo chi. Poi portò me e Flavia dalla portinaia, risalì e poco dopo sentimmo nostra madre che gridava mentre la trascinavano giù per le scale. La sera stessa papà ci portò a Torino, da parenti che quasi non conoscevamo. In poche ore era sparita la nostra famiglia, non avevamo più una casa e nemmeno dei genitori. Quando ci penso, sento dentro le stesse sensazioni di allora: terrore, disperazione, senso di impotenza».
Emanuela Carniti è la prima delle quattro figlie avute da Alda Merini e dal marito, il panettiere Ettore Carniti, uomo schivo e taciturno che la grande potessa aveva sposato nel 1953, a 22 anni. Come le sorelle – Flavia, Barbara e Simona – non si era mai svelata pubblicamente fino alla morte della madre settantottenne, avvenuta a Milano un anno fa, il primo novembre 2009. Solo allora, insieme, hanno deciso di aprire un sito, www.aldamerini.it, dedicato alla madre. Abitano distanti l’una dall’altra, tutte hanno figli. Barbara, nata nel 1968, e Simona, nata nel 1972, vivono appartate e lontano dai riflettori. Flavia si occupa del sito, Emanuela è la memoria storica della famiglia. Questa è una sua rara intervista.
Tu insegui le mie forme,/ segui tu la giustezza del mio corpo/ e non mai la bellezza/ di cui vado superba./ Sono animale all’infelice coppia/ prona su un letto misero d’assalti,/ sono la carezzevole rovina/ dai fecondi sussulti alle tue mani,/ sono il vuoto cresciuto/ sino all’altezza esatta del piacere/ ma con mille tramonti/ alle mie spalle:/ quante volte, amor mio,/ tu mi disdegni.
(Dies Irae, dedicata dalla Merini a suo marito nel 1953)
«Prima di ammalarsi, nostra madre era stata una persona allegra. Forse non aveva una grande capacità materna di comprensione, nel senso che non riusciva a mettersi nei nostri panni, era spesso concentrata nel suo mondo. Io la vedevo scrivere, scrivere, suonava il pianoforte, dava anche lezioni di italiano. Quando scriveva entrava in una sua bolla e noi ci rendevamo conto che si infastidiva se la disturbavamo.
«Eppure, fino alla grande scenata, il rapporto fra i nostri genitori era stato abbastanza buono. Mio padre la portava in palmo di mano, la chiamava “La mia signora”. Era piuttosto lei che lo abbacchiava un po’, ma lui non ne soffriva, almeno non lo dava a vedere. Papà era un uomo tradizionale che aveva bisogno di una moglie tradizionale, di essere coccolato e accudito, e lei non era brava in questo. Ma nonostante ci fosse molta differenza culturale fra loro, non era né geloso né invidioso. Era come se ognuno vivesse in un suo mondo, però si volevano bene.
«Ai primi tempi lui aveva una panetteria e la mamma ogni tanto lo aiutava. Smise quando restò incinta di me, perché dovette trascorrere la gravidanza a letto. Allora mio padre andò a lavorare per altri. Era pagato molto bene, ma mia madre non ha mai saputo gestire il denaro, così lui glielo lesinava. I soldi erano un argomento di discussione continua. Questo però capitava in molte famiglie. E poi la nostra era una casa aperta e vivace, da noi veniva tanta gente. E io ricordo di essere stata a casa di Salvatore Quasimodo.
«La mamma tornò a casa dalla clinica psichiatrica 15 giorni dopo, ma nulla fu più come prima. Io e mia sorella non abbiamo mai chiesto a papà le ragioni di quella telefonata, di quel gesto estremo e così duro. Non avevamo molta confidenza con i nostri genitori, allora non c’era l’abitudine di parlare con i bambini e noi non facevamo domande.
«Quanto a mamma, ha sempre avuto un rapporto labile con la ricostruzione dei fatti e delle date. Era lei che, anni dopo, mi chiedeva chiarimenti e cercava risposte. Una volta mi ha domandato: “Ti ricordi se papà mi tradiva?”. Credo avesse dei sensi di colpa, ma non li ha mai elaborati come tali. Lei scriveva poesie, era il suo modo di vivere se stessa, gli eventi, gli affetti.
«Entrava e usciva dagli ospedali psichiatrici, che non erano ancora quelli umanizzati di Basaglia, ma manicomi duri, repressivi. Lì dentro era facile perdere se stessi. Io a volte la accompagnavo per le visite di controllo e spesso tornavo a casa da sola perché la trattenevano, oppure era lei a chiedere di essere ricoverata. Vederla restare dentro era un trauma e insieme un sollievo, perché a casa lei e mio padre litigavano spessissimo, e a volte si picchiavano pure».
Io ero un uccello/ dal bianco ventre gentile,/ qualcuno mi ha tagliato la gola/ per riderci sopra,/ non so./ Io ero albatro grande/ e volteggiavo sui mari./ Qualcuno ha fermato/ il mio viaggio,/ senza nessuna carità di suono./ Ma anche distesa per terra/ Io canto ora per te/ Le mie canzoni d’amore./
(La Terra Santa, 1984)
«Mia sorella rimase a Torino: non tornò più a casa. Rotture così nette segnano per sempre, soprattutto se sei un bambino, perché da un giorno all’altro ti tolgono tutto quello che conosci e senza dirti perché. Se almeno ci avessero lasciate insieme ci saremmo confortate a vicenda, ma nessuno ci chiese che cosa desideravamo, nessuno ci domandò un parere, decisero i grandi e gli assistenti sociali per noi.
«Restammo insieme solo per poco tempo a Torino, ma non ci piaceva, piangevamo notte e giorno. Quando nostro padre venne a trovarci, pensavamo che ci avrebbe riportato a casa con lui, invece prese solo me, mi portò in istituto, dove rimasi per un mese e mezzo, e lasciò lì Flavia da sola. Non l’ho rivista per anni. Ci telefonavamo, ma raramente. Ognuna di noi era occupata nella propria sopravvivenza».
Emanuela interrompe il racconto, si nasconde la bocca con una mano, gli occhi intensi e truccati di nero guardano fisso un punto nel vuoto. «Questa intervista è durissima. Mi fa rivivere tutti insieme tanti momenti dolorosi… Non credevo fosse così difficile». Serve una pausa. Un po’ di silenzio nella sua casa sul lago d’Orta, colorata di giallo, piena di fiori, di quadri, di foto di Alda Merini, di tende di organza, di sapore orientale, di collane e orecchini vivaci. Poi il racconto riparte.
«Vivevo da sola con mio padre. Mia madre ogni tanto tornava dall’ospedale, litigava con lui, si deprimeva e rientrava in manicomio. Lei nelle liti non cedeva mai, però non si lasciavano. Non era autonoma economicamente, non sapeva dove altro andare. A scuola non avevo molte amicizie: la mamma ci aveva abituato a non invitare bambini perché la casa era piccola e la confusione le dava fastidio. Finii le medie e mi iscrissi a un istituto per segretarie di azienda. Non mi piaceva, avrei voluto studiare lingue, medicina, ma mi dissero che non c’erano abbastanza soldi. Però a scuola stavo bene. Tornare a casa invece non mi piaceva, perché non sapevo mai che cosa avrei trovato.
«Mi fidanzai a 15 anni, lui ne aveva 9 più di me, non ero innamorata. Fu mio padre a buttarmi nel matrimonio, quasi per caso, dopo che il mio fidanzato aveva cercato di placare una lite fra lui e mia madre. Papà gli disse di non farsi più vedere. Poi, guardandomi, aggiunse: “E se vuoi andare anche tu, prendi il tuo bel cappottino, puoi seguirlo”. Lo guardai sbalordita e me ne andai. Ero minorenne, intervenne il tribunale, la situazione si fece difficile, minacciarono di mandarmi in riformatorio. Mi sposai, perché sennò non sarei più riuscita ad andarmene di casa.
«Nel frattempo era nata la terza sorella, Barbara. Ero in casa quando mia madre ebbe le doglie e dopo, siccome lei era depressa, preparavo io il biberon. Diedero Barbara quasi subito in affido, non ha mai vissuto con i miei. Subito dopo la mia partenza mamma restò incinta di Simona, anche lei venne affidata a una famiglia lontana e praticamente non l’abbiamo quasi più vista. Ho sofferto molto per queste due sorelle. Fossi stata più grande le avrei prese a vivere con me. Per anni ho cercato di non pensare a loro, dovevo occuparmi della mia sopravvivenza, ma poi i sensi di colpa riaffiorano e te li porti dietro per sempre».
La vita è grama e deludente assai…/ Ho una placida figlia/ Con gli occhi azzurri/ ed i capelli d’oro/ Che mi sta, cuore mio,/ sempre lontana/ E ha le mani fanciulle/ E il volto bello pieno di ironia/ e mi vuole tanto bene/ Come soltanto se ne vuole/ a un Dio;/ questa fanciulla bella/ che nei liti remoti è dell’Italia/ a me pensa talvolta e mi sorride/ unica stella dentro la tempesta./
(A Barbara, 1980)
«A 15 anni andai a vivere con i suoceri, in una casa isolata sul lago, e lasciai la scuola. Fu un trauma: non c’era nulla, mi sentivo una sopravvissuta. Pensavo solo a tenermi assieme, prendevo quel poco di buono che c’era. A 18 anni, contro il parere di mio marito, sono andata a fare l’infermiera. A 21 ho desiderato avere un figlio ed è nata Sara. Non è stato facile imparare a fare la mamma, lo è sempre quando non hai un esempio da seguire. Tre anni dopo mi sono separata, ed è stato più difficile di quanto pensassi. Così, finalmente, ho inziato l’analisi.
«Nel frattempo era stata votata la legge Basaglia, che chiudeva i manicomi e riformava tutta la psichiatria. Allora ho frequentato un corso da infermiera psichiatrica, lo desideravo fin da quando mamma si era ammalata. Ho dato il concorso, l’ho vinto, ho contribuito ad aprire il primo centro di salute mentale a Omegna. All’inizio bisognava andare a cercare i malati a casa, dopo tutto quello che avevano passato nei manicomi non ne volevano più sapere di camici e infermieri. Poco alla volta gli abbiamo fatto capire che noi facevamo un lavoro diverso, e oggi sono orgogliosa del lavoro che faccio. Lo so: questo mestiere l’ho scelto per la storia che ho. In fondo è sempre così, si curano gli altri per curare anche se stessi, guardando negli altri guardi dentro di te.
«Intanto mia madre era uscita dal manicomio, stava meglio, aveva ricominciato a scrivere dopo quasi vent’anni di silenzio, mi veniva a trovare con mio padre, cercava di starmi vicino, ma io cercavo di starle lontano. Non c’è mai stato un recupero di contatto. Nel frattempo ho incontrato un altro compagno, è nato il mio secondo figlio, Riccardo, mi sono di nuovo separata e mio padre è morto. Era il 1983. Prima di andarsene riuscì a chiedermi solo due cose: se gli portavo delle arance e se ero felice col mio uomo. È morto senza riuscire a domandare mai nulla a nessuno.
«Io sono una da Mulino Bianco. Quando la sera, tornando a casa dal lavoro, vedo le luci accese dentro le case, mi perdo a immaginare famiglie felici che chiacchierano cenando. Mia figlia mi prende in giro per questo, ma credo sia normale per una come me che sognava di essere adottata.
«È stata l’analisi a riconciliarmi con mia madre. L’ho accettata quando ho capito che lei non poteva essere la madre che avrei voluto, quando l’ho vista come persona e non più come madre. Dai genitori bisogna separarsi per imparare a comprenderli e a vedere le loro fragilità. Anche l’entrare a contatto con la malattia mentale mi ha aiutato a capirla e a capirmi. La sua vita non è stata facile.
«Le sue cose non le ho lette tanto. Ho cominciato a farlo dopo che è morta. Una volta le ho chiesto: “Mamma, ma perché ti sei sposata?”. Lei mi ha risposto: “Io volevo farmi suora. È stata mia madre a impedirmelo, mi ha spinto a sposarmi”. Neanche lei ha potuto sempre scegliere il suo destino, però aveva la poesia che l’ha aiutata a vincere il buio. In realtà mia madre è sempre stata sposata con la poesia, è la poesia la luce che l’ha salvata».
Io sono certa che nulla più soffocherà la mia rima,/ il silenzio l’ho tenuto chiuso per anni nella gola/ come una trappola da sacrificio,/ è quindi venuto il momento di cantare una esequie al passato.
(La Terra Santa, 1984)
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