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Giosuè Carducci - RIME NUOVE


























































Rime nuove



La raccolta Rime nuove, in nove libri, che raccoglie i componimenti scritti tra il 1861 e il 1887, testimonia una svolta, non cessa l'impegno civile, ma esso si spoglia dei panni satirici, ironici, di protesta che caratterizzavano Giambi ed epodi, e accanto a questo emerge una marcata vena elegiaca che percorre in lungo e in largo tutto il libro. Le radici di questo mutamento sono ravvisabili probabilmente, in un avvenimento biografico. Infatti nel 1871 conosceva e si innamorava dell'allora ventiseienne Carolina Cristofori. L'idillio amoroso durò un decennio, fino a quel fatidico 25 febbraio del 1881 quando la povera Lina moriva a soli trentasei anni, di tubercolosi. La musa lo ispirò e gli aprì il cuore e le sue poesie assunsero tonalità più soavi e delicate. Lo stimolo alla lettura di autori stranieri, che ella donna di grande cultura (conosceva infatti il francese, il tedesco e l'inglese) e sensibilità artistico-poetica gli infuse, contribuì a scuotere un po' di quell'accademismo libresco in cui era caduto e ad una modernizzazione della sua poesia. Si tratta in effetti di un opera multiforme non solo per le tematiche ma anche per i metri, anche se per un discepolo di Orazio questo poteva essere piuttosto normale. Il primo e l'ultimo libro contengono un componimento ciascuno, rispettivamente Alla Rima e Congedo. Nel primo si fa un po' la storia della rima con intento apologetico, intendendo rispondere all'articolo di Domenico Gnoli, uscito nel numero di dicembre del 1876 sulla "Nuova antologia", che la screditava. Essa si spinge tra moti dell'animo e "volgimenti di danza" tra "piè de' mietitori" e "virtù de' vincenti". Una rima epica quella delle Chansons des gestes si trasforma in poesia trovadorica e d'amore. Ed essa camaleonticamente muta, piegandosi alle lusinghe di Dante e trionfa pur combattuta e riverita tra i moderni. Nel Congedo il poeta traccia la sua figura e la sua arte partendo da ciò che egli non vuol essere, un poeta parassita e cortigiano, un perdigiorno sognatore romantico o un verseggiatore utilitaristico, e giungendo all'icona del poeta artiere tutto muscoli, che piega alle regola del metro e della rima anche i sentimenti più alti e che forgia con il battere e ribattere sull'incudine una poesia vigorosa e sana ma anche varia che canta, le glorie, le memorie, la libertà, la convivialità, la vittoria. L'ispirazione, il furor poetico che ha in se un qualcosa di misterioso e divino, viene lavorato a prezzo di grande fatica ma con la gioia di contemplare l'altezza del proprio genio. Il resto della raccolta vede prevalere, nel secondo libro, tematiche intimistiche e personali oltre all'elogio dei grandi spiriti dell'arte e dell'azione. Una dimensione metapoetica domina la prima parte del secondo libro ed egli vuole pagare il suo tributo poetico ai grandi maestri quali Omero, Virgilio, Dante, Ariosto. Ad Omero dedica tre sonetti, in cui c'è un'iniziale atmosfera cupa (I), infatti il monte degli dei, l'Olimpo, è divenuto un ossario greco-ottomano, lo Scamandro è stato empiamente deviato dal suo corso, ma se pur ci saranno nuove invasioni (II), si leva una certezza, la poesia di Omero attraverserà i secoli divenendo immortale come: "Ercole dalle pire d'Eta fumanti al seno d'Ebe". Ma lo iato tra "le grotte di Calipso bionda", Circe seduttrice, la splendida Nausicaa e il presente (III), egli lo preannuncia già in quei "giudici cumei" che allontanarono Omero, ma esplode nei versi finali con l'amara considerazione che (vv. 12-14):"E se tu ritornassi al nostro mondo, / Novo Glauco per te non troverei: / Niun ti darebbe un soldo, o vagabondo". Nel sonetto X, dedicato a Virgilio, la luna dal bianco chiarore che illumina il "rio", immagine sempre cara al "divin poeta", fa da preludio alla melodia dell'usignolo e al "viatore" che pensa a colei che amò, dimenticando il tempo passato e presente. La madre che piange il figlio perduto pur s'acquieta, volgendo gli occhi dalla tomba a quel mite chiarore del cielo mentre allietano gli animi i monti e il mare lontano e tra la fronde spira una fresca aura, il verso virgiliano, che invade, sì dolce e rasserenante, l'animo del poeta. L'ultimo verso è traduzione del v. 45 dell'ecloga V, delle Bucoliche di Virgilio. In Dante, rifiuta gli ideali religiosi e politici che lo guidarono nella composizione e celebra la sua poesia, come un "possesso per sempre", dal momento che resiste alla storia e agli ideali stessi. In Dietro un ritratto, il divin lombardo, Ariosto, dopo aver ultimato l'Orlando Furioso, rendendosi conto in che condizioni era il mondo, non volle ossequio di "prence" e di "volgo" o amore di "teologal donna", bensì di donna reale, Alessandra Benucci. Il dualismo vita-morte percorre poi, Funere mersit acerbo, in cui il Carducci affida il figlioletto Dante all'omonimo fratello che riposa accanto al padre, Michele, "[…] su la fiorita / Collina tòsca […]". Ma esso si perpetua anche nelle quartine anacreontiche di Pianto antico, ove il ricordo, la memoria, appare ammantata di primavera, di colore e calore in quanto si tratta di un passato vitale. Ma quell'albero inaridito, metafora del poeta scosso dal dolore e privo di speranze, è il primo passo verso la degradazione, lo scolorimento, la decomposizione esistenziale e il freddo delle morte, che connota invece il presente. La lirica si ispira come ricorda Manara Valgimigli, ai versi di un carme funebre per Bione, attribuito a Mosco, poeta bucolico alessandrino del II sec. a.C.. Il tema dell'amore per Lina, emerge in Panteismo in cui il poeta non svela mai a nessuno il nome della sua amata, ma è l'eco del suo animo a dichiararsi alla natura e tutt'intorno si alza un chiacchierio tra i vari elementi e esseri finché il "gran tutto" gli mormora: "Ella t'ama". Anche lui fosco poeta ha ceduto, quindi, ad Amore, ineluttabile. Ma i frangenti amorosi non furono sempre così sereni tant'è che in Anacreontica romantica, egli escogita di seppellire Amore, in modo da liberarsi di esso. Ma come un vampiro egli si sveglia nottetempo e opprime e vessa la mente del poeta con ricordi e immagini della donna amata. Allora solo un esorcismo fatto di disprezzo e vino può spezzare questo servitium amoris. Ed è proprio la fine di quest'amore a spingerlo in Tedio invernale, a domande esistenziali avvolte da una trasognata atmosfera mitologica da aurea aetas e così il mondo classico-epico è un trionfo di luce e purezza, di bellezza e amore, di virtù e gloria, mentre l'"ora" ha tutto il sapore di una caliginosa, nebbiosa, giornata invernale. Elemento fondamentale della musa carducciana è anche la componente paesaggistica. Traversando la Maremma toscana, si caratterizza per la fusione tra il rigoglio ambientale abilmente tratteggiato e la dimensione della memoria. In essa la natura natia, forgia il carattere sdegnoso e passionale del poeta ed è anche catartica, infatti quando si addensa un atro sconforto, basta uno sguardo all'orizzonte per rasserenarsi. Anche in Idillio maremmano protagonista è la natura, fiorente e piena di colori, in cui si muove la bionda Maria. Questa realtà povera ma sincera, alletta moltissimo il "grande artiere", che ben volentieri avrebbe preferito vivere qui e non essersi sfinito dietro al verso o ad indagare l'universo. L'immagine finale del novellare, accanto al focolare, di imprese nella caccia conferisce, se ce ne fosse bisogno, un colore ancor più paesano e diventa un'attività migliore e più soddisfacente del "suonare dietro ai vigliacchi d'Italia e Trisottini". Già a partire dal quarto libro egli prefigura con le tre Primavere elleniche, la stagione delle Odi barbare, come un ritorno alla "rosea serenità dei greci" che vuol essere una reazione contro il "brutto" della realtà. Nella Eolica, c'è una spinta, che convince il poeta e la donna, ad abbandonare i rovelli della vita civile e politica, le ristrettezze e le pene del vivere quotidiano, per giungere in un mondo sereno e incontaminato dove la bellezza e la giovinezza sono imperiture, è la Grecia mai vista, ma ricreata dalla fantasia del poeta. I due spiriti ormai fusi con la nuova realtà, fuggono e dimenticano "le occidue macchiate rive". Il poeta nella Dorica, invita Lina a seguirlo in un viaggio nell'"isola bella", la Sicilia, anche qui mai vista ma delineata attraverso i miti di Aci e Galatea. Qui egli non cercherà gli edifici eminenti dei tiranni dove risuonò il verso di Pindaro, ma le amene e selvose valli, dove sboccia l'idillio e nasce il canto di Teocrito. Si affollano intorno alla donna amata, numi omerici e ninfe che per liberarla della mestizia la accompagnano in luoghi inaccessibili e gli svelano segreti reconditi. Ma il poeta teme che gliela possano sottrarre e quindi dichiara che sarà lui a consolarla con la sua poesia che non ha nulla da invidiare a quella degli antichi. L'ultima, l'Alessandrina, poco ellenistica, dominata com'è dal senso della morte è ispirata da una visita cimiteriale si articola in visioni sepolcrali in cui risplende il binomio amore - morte. In una fredda giornata di maggio, piovosa e ventosa, la figura dell'amata risalta languida e rabbrividente e si muove verso l'eterna primavera dell'Eliso classico. La storia è trasformata in ballata, teatralizzata, come avviene per La leggenda di Teodorico. Nata da una contaminazione di due leggende "la germanica odinica l'italiana cattolica" e concepita dopo la visione ispiratrice delle formelle del duomo di San Zeno in Verona, si snoda, sul ritmo della ballata popolare, in una caccia fatale in cui l'empio predatore si trasforma in supplice e blasfema preda, lui che aveva ucciso papa Giovanni I, Boezio e Simmaco, e finisce precipitato da un "nero caval" nei crateri di Lipari. La visione finale con l'apparizione di Boezio non è di motivazione religiosa ma serve per sottolineare una volta ancora, la superiorità del mondo latino. Le vicende storiche e politiche dei comuni dei primi secoli del anno mille attrassero molto l'interesse di Carducci e la sua penna spesso tratteggia mirabili bozzetti anche se non di rado punteggiati di quel sogno e di quella immaginazione che già altrove abbiamo visto viva e operante, del resto si tratta pur sempre di poesia. Ne Il comune rustico, si assiste ad una ricostruzione fantastica della vita di un comune del mille. Dalla prima parte di impostazione paesaggistico-temporale, si passa poi alla presentazione di gesti e sentimenti semplici, quali le distribuzioni delle terre, la difesa, la paura delle donne. La polemica mette in evidenza come questa realtà semplice ma virtuosa e virile è scomparsa e si è dissolta in un mondo di corruzione quale quello attuale. Mentre in Faida di comune, si presenta una vicenda di un dissidio locale tra Pisa e Lucca sul possesso di alcuni paesi, che era nato susseguentemente ad un estremo tentativo di mediazione, fallito per l'arroganza dei legati lucchesi. Nonostante il colore locale, la vitalità di alcune scene come quelle dell'arruolamento dei pisani, la crudezza di altre come quella finale di Tigrin Sassetta che trafigge un prigioniero per due volte, si nota una certa mancanza di approfondimento storico e tutto si gioca su una alterigia, una iubris, piuttosto aneddotica, personificata da Bonturo Dati, punita dalla tisis pisana, di cui è emblema Banduccio di Buonconte. Il grottesco domina la pur storicissima figura dell'imperatore, in La ninnananna di Carlo V, delineandolo come ricettacolo di tutti i mali che quasi per una nemesi storica gli deriverebbero dalla sua triplice stirpe. Questo sembra un po' richiamare il motivo della triplice alleanza avversata dal Carducci, conclusa dall'Italia con Prussia e Austria nel 1882, in barba alle terre "irredente". Il settimo libro, costituito dai dodici sonetti del Ça ira, è teatro della vittoria dei repubblicani francesi (1972) contro le resistenze interne dei nobili e l'invasione degli eserciti austro - prussiani che volevano restaurare la monarchia. Duplice e quindi la linea di azione dei personaggi che si muovono in questa pagina poetica in onore della Rivoluzione. Quella dei Ça ira, è una storia liviana, che vive di grandi gesti estremi e teatrali, di figure che da sole offuscano la scena come Kleber "dagli arruffati cigli / leone ruggente" e Hoche "sublime", Beaurepaire che alla resa di Verdun risponde con la vita, per non cadere in mano nemica e i titanici Domouriez e Kellermann che sconfissero gli austro-prussiani a Valmy e risente delle opere di Michelet e Blanc. Le traduzioni dal francese, dallo spagnolo, dal portoghese e soprattutto dal tedesco (Heine, Goethe, Platen) caratterizzano l'ottavo libro. Con questa attività c'è una legittimazione del grande romanticismo europeo, quello prima maniera, che al nostro poeta piacque tanto. Ma il lavoro non si ridusse a pedisseque traduzioni, ma a vere e proprie contaminazioni e libere interpretazioni che fondevano il carducciano sentire con gli spunti europei. Ne La figlia del re degli elfi, ballata popolare danese, la figlia rappresenta la forza misteriosa e malvagia della natura, l'invidia e la perfidia tese ad ostacolare e a distruggere la felicità altrui. Fonde due romanze spagnole e una portoghese per creare Il passo di Roncisvalle. Il padre Carlo Magno, scopre che nelle schiere che hanno combattuto contro i Mori, manca Beltrano, suo figlio. Lui stesso va a cercarlo per valli, pianure, strade sterrate, foreste, di giorno e di notte e con il cuore in gola e gli occhi invasi dalle lacrime. Ormai persa ogni speranza di ritrovarlo, in lui l'animo altero prevale e lo porta a maledire tutto, finanche sua moglie che gli ha dato un solo figlio. Ma quando lo ritrova ormai morto, grazie ad una indicazione, l'ira si scioglie in commozione e rampogna il cavallo per non averlo portato in salvo e curiosamente il cavallo gli risponde. Da Platen trae Il pellegrino davanti a San Just, meta coventuale, ultima dimora di Carlo V, dove si rifugiò, stanco e sconsolato, scendendo dal soglio imperiale. La protesta è viva e si rinfocola in L'Imperatore della Cina (da Heine) in cui Carducci dipinge la figura del re di Prussia, Federico Guglielmo IV, che in preda ai fumi della "zozza" (bevanda alcoloolica), vede aprirsi davanti a se un panorama splendido. La realtà è ben diversa ed è eloquente che il Carducci prenda in prestito una realtà arretrata e chiusa in se stessa come quella della Cina per delineare la situazione prussiana nel suo ritorno ad un retrivo regime aristocratico-feudale. Sempre rileggendo Heine ne I tessitori riprende la voce dei lavoratori della Bassa Slesia che nel 1872 si erano ribellati e che maledicono l'alleanza della religione, del re, della patria. Il nostro poeta alla fine degli anni settanta inizia a inserirsi, a calarsi e irreggimentarsi in quella realtà da lui molto spesso combattuta. Dopo gli antagonismi giovanili e le imprecazioni contro la borghesia ora, visti gli esiti poco felici fino ad allora raggiunti vuole tendere ad un miglioramento dall'interno.





Pagina tratta da: giosuecarducci.iitalia.com/

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
LIBRO PRIMO

I
ALLA RIMA
Ave, o rima! Con bell'arte
Su le carte
Te persegue il trovadore;
Ma tu brilli, tu scintilli,
Tu zampilli
Su del popolo dal cuore.

O scoccata tra due baci
Ne i rapaci
Volgimenti de la danza,
Come accordi ne' due giri
Due sospiri,
Di memoria e di speranza!

Come lieta risonasti
Su da i vasti
Petti al vespero sereno,
Quando il piè de' mietitori
In tre cori
Con tre note urtò il terreno!

Come orribile su vènti
De' vincenti
Tu ruggisti le virtudi,
Mentre l'aste sanguinose
Fragorose
Percoteano i ferrei scudi!

Sgretolar sott'esso il brando
Di Rolando
Tu sentisti Roncisvalle,
E soffiando nel gran corno
Notte e giorno
Del gran nome empi la valle.


Poi t'afferri a la criniera
Irta e nera
Di Babieca che galoppa,
E del Cid tra i gonfaloni
Balda intoni
La romanza in su la groppa.

Poi del Rodano a la bella
Onda snella
Dài la chioma polverosa,
E disfidi i rusignoli
Dolci e soli
Ne i verzieri di Tolosa.

Ecco, in poppa del battello
Di Rudello
Tu d'amor la vela hai messa,
Ed il bacio del morente
Rechi ardente
Su le labbra a la contessa.

Torna, torna: ad altri liti
Altri inviti
Ti fa Dante austero e pio;
Ei con te scende a l'inferno,
E l'eterno
Monte gira e vola a Dio.

Ave, o bella imperatrice,
O felice
Del latin metro reina!
Un ribelle ti saluta
Combattuta,
E a te libero s'inchina.

Cura e onor de' padri miei,
Tu mi sei
Come lor sacra e diletta.
Ave, o rima: e dammi un fiore


Per l'amore,
E per l'odio una saetta.
Bologna, 22 gennaio 1877.

LIBRO SECONDO

II
AL SONETTO
Breve e amplissimo carme, o lievemente
Co 'l pensier volto a mondi altri migliori
L'Alighier ti profili o te co' fiori
Colga il Petrarca lungo un rio corrente;

Te pur vestia de gli epici splendori
Prigion Torquato, e in aspre note e lente
Ti scolpìa quella man che sì potente
Pugnò co' marmi a trarne vita fuori:

l'Eschil poi, che su l'Avon rinacque,
Tu, peregrin con l'arte a strania arena,
Fosti d'arcan dolori arcan richiamo;

L'anglo e 'l lusiade Maro in te si piacque:
Ma Bavio che i gran versi urlando sfrena,
Bavio t'odia, o sonetto; ond'io più t'amo.
Bologna, 29 dicembre 1865.

III
IL SONETTO
Dante il mover gli diè del cherubino
E d'aere azzurro e d'òr lo circonfuse:
Petrarca il pianto del suo cor, divino
Rio che pe' versi mormora, gl'infuse.

La mantuana ambrosia e 'l venosino
Miel gl'impetrò da le tiburti muse
Torquato; e come strale adamantino
Contra i servi e' tiranni Alfier lo schiuse.


La nota Ugo gli diè de' rusignoli
Sotto i ionii cipressi, e de l'acanto
Cinsel fiorito a' suoi materni soli.

Sesto io no, ma postremo, estasi e pianto
E profumo, ira ed arte, a' miei dì soli
Memore innovo ed a i sepolcri canto.
[ 1870? ].
IV
OMERO
I
Non più riso d'iddei la nebulosa
Cima d'Olimpo a gli occhi umani accende:
Biancheggian teschi per le rupi orrende,
E sopravi la nera aquila posa.

Né più il sacro Scamandro al pian discende
Per le segnate vie: dov'ei riposa
Sotto il capo Sigeo l'onda obliosa,
Di otmane torri il tuo bel mar s'offende.

Pur la novella etade, o veglio acheo,
Il cenno ancor de l'immortal Cronide
Stupisce e i passi de l'Enosigeo;

E trema, o vate, allor che d'omicide
Furie raggiante lungo il nero Egeo
Salta su 'l carro il tuo divin Pelide.
Bologna, 21 giugno 1862.

V
OMERO
II
E forse da i selvaggi Urali a valle
Nova ruinerà barbara plebe,
Nova d'armi e di carri e di cavalle
Coprirà un'onda l'agenòrea Tebe,


E cadrà Roma, e per deserto calle
Bagnerà il Tebro innominate glebe.
Ma tu, o poeta, sì com'Ercol dalle
Pire d'Eta fumanti al seno d'Ebe,

Risorgerai con giovanili tempre
Pur a l'amplesso de l'eterna idea
Che disvelata rise a te primiero.

E, s'Alpe ed Ato pria non si distempre,
A la riva latina ed a l'achea
Perenne splenderà co 'l sole Omero.

Bologna, giugno 1861.

VI
OMERO
III
E sempre a te co 'l sole e la feconda
Primavera io ritorno ed a' tuoi canti,
Veglio divin le cui tempia stellanti
Lume d'eterna gioventù circonda.

Dimmi le grotte di Calipso bionda,
De la figlia del Sol dimmi gl'incanti,
Nausicaa dimmi e del re padre i manti
Lietamente lavati a la bell'onda.

Dimmi... Ah non dir. Di giudici cumei
Fatta è la terra un tribunale immondo,
E vili i regi e brutti son gli dèi:

E se tu ritornassi al nostro mondo,
Novo Glauco per te non troverei:
Niun ti darebbe un soldo, o vagabondo.

[ 1862 ].


VII
DI NOTTE
Pur ne l'ombra de' tuoi lati velami
Gli umani tedi, o notte, ed i miei bassi
Crucci ravvolgi e sperdi: a te mi chiami,
E con te sola il mio cuor solo stassi.

Di quai d'ozio promesse adempi e sbrami
Gl'irrequieti miei spiriti lassi?
E qual doni potenza a i pensier grami
Onde a l'eterno o al nulla errando vassi?

O diva notte, io non so già che sia
Questo pensoso e presago diletto
Ove l'ire e i dolor l'anima oblia:

Ma posa io trovo in te, qual pargoletto
Che singhiozza e s'addorme de la pia
Ava abbrunata su l'antico petto.

Agosto 1851 [ 1874 ].

VIII
COLLOQUI CON GLI ALBERI
Te che solinghe balze e mesti piani
Ombri, o quercia pensosa, io più non amo,
Poi che cedesti al capo de gl'insani
Eversor di cittadi il mite ramo.

Né te, lauro infecondo, ammiro o bramo,
Che mènti e insulti, o che i tuoi verdi e strani
Orgogli accampi in mezzo al verno gramo
O in fronte a calvi imperador romani.

Amo te, vite, che tra bruni sassi
Pampinea ridi, ed a me pia maturi
Il sapiente de la vita oblio.


Ma più onoro l'abete: ei fra quattr'assi,
Nitida bara, chiuda al fin li oscuri
Del mio pensier tumulti e il van desio.
13 febbraio 1873.

IX
IL BOVE
T'amo, o pio bove; e mite un sentimento
Di vigore e di pace al cor m'infondi,
O che solenne come un monumento
Tu guardi i campi liberi e fecondi,

O che al giogo inchinandoti contento
L'agil opra de l'uom grave secondi:
Ei t'esorta e ti punge, e tu co 'l lento
Giro de' pazienti occhi rispondi.

Da la larga narice umida e nera
Fuma il tuo spirto, e come un inno lieto
Il mugghio nel sereno aer si perde;

E del grave occhio glauco entro l'austera
Dolcezza si rispecchia ampio e quieto
Il divino del pian silenzio verde.
23 novembre 1872.

X
VIRGILIO
Come, quando su' campi arsi la pia
Luna imminente il gelo estivo infonde,
Mormora al bianco lume il rio tra via
Riscintillando tra le brevi sponde;

E il secreto usignuolo entro le fronde
Empie il vasto seren di melodia,
Ascolta il viatore ed a le bionde
Chiome che amò ripensa, e il tempo oblia;


Ed orba madre, che doleasi in vano,
Da un avel gli occhi al ciel lucente gira
E in quel diffuso albor l'animo queta;

Ridono in tanto i monti e il mar lontano,
Tra i grandi arbor la fresca aura sospira:
Tale il tuo verso a me, divin poeta.
Bologna, 11 giugno 1862.

XI
FUNERE MERSIT ACERBO
O tu che dormi là su la fiorita
Collina tósca, e ti sta il padre a canto;
Non hai tra l'erbe del sepolcro udita
Pur ora una gentil voce di pianto?

È il fanciulletto mio, che a la romita
Tua porta batte: ei che nel grande e santo
Nome te rinnovava, anch'ei la vita
Fugge, o fratel, che a te fu amara tanto.

Ahi no! giocava per le pinte aiole,
E arriso pur di vision leggiadre
L'ombra l'avvolse, ed a le fredde e sole

Vostre rive lo spinse. Oh, giù ne l'adre
Sedi accoglilo tu, ché al dolce sole
Ei volge il capo ed a chiamar la madre.

9 novembre 1870.

XII
NOTTE D'INVERNO
Innanzi, innanzi. Per le foscheggianti
Coste la neve ugual luce e si stende,
E cede e stride sotto il piè: d'avanti
Vapora il sospir mio che l'aer fende.


Ogni altro tace. Corre tra le stanti
Nubi la luna su 'l gran bianco e orrende
L'ombre disegna di quel pin che tende
Cruccioso al suolo informe i rami infranti,

Come pensier di morte desiosi.
Cingimi, o bruma, e gela de l'interno
Senso i frangenti che tempestan forti;

Ed emerge il pensier su quei marosi
Naufrago, ed al ciel grida: O notte, o inverno,
Che fanno giù ne le lor tombe i morti?

24 dicembre 1870.

XIII
FIESOLE
Su l'arce onde mirò Fiesole al basso,
Dov'or s'infiora la città di Silla,
Stagnar livido l'Arno, a lento passo
Richiama i francescani un suon di squilla.

Su le mura, dal rotto etrusco sasso
La lucertola figge la pupilla,
E un bosco di cipressi a i venti lasso
Ulula, e il vespro solitario brilla.

Ma dal clivo lunato a la pianura
Il campanil domina allegro, come
La risorta nel mille itala gente.

O Mino, e nel tuo marmo è la natura
Che de' fanciulli a le ricciute chiome
Ride, vergine e madre eternamente.

Bologna, 29 aprile 1886.


XIV
SAN GIORGIO DI DONATELLO
Siede novembre su le vie festanti
Ove il maggio s'aprì de' miei pensieri,
E spettral ne la nebbia alza i giganti
Templi la tua città, Dante Alighieri.

Meglio così; ch'io non mi vegga avanti
Gli academici Lapi e i Bindi artieri:
Io vo' vedere il cavalier de' santi,
Il santo io vo' veder de' cavalieri.

Forza di gioventù lieta da' marmi
Fiorente, ch'ogni loda a dietro lassi
D'achei scalpelli e di toscani carmi,

Degno, San Giorgio (oh con quest'occhi lassi
Il vedess'io), che innanzi a te ne l'armi
Un popolo d'eroi vincente passi.

30 aprile 1886.

XV
S.MARIA DEGLI ANGELI
Frate Francesco, quanto d'aere abbraccia
Questa cupola bella del Vignola,
Dove incrociando a l'agonia le braccia
Nudo giacesti su la terra sola!

E luglio ferve e il canto d'amor vola
Nel pian laborioso. Oh che una traccia
Diami il canto umbro de la tua parola,
L'umbro cielo mi dia de la tua faccia!

Su l'orizzonte del montan paese,
Nel mite solitario alto splendore,
Qual del tuo paradiso in su le porte,



Ti vegga io dritto con le braccia tese
Cantando a Dio – Laudato sia, signore,
Per nostra corporal sorella morte!
27-29 maggio 1886.

XVI
DANTE
Dante, onde avvien che i vóti e la favella
Levo adorando al tuo fier simulacro,
E me su 'l verso che ti fe' già macro
Lascia il sol, trova ancor l'alba novella?

Per me Lucia non prega e non la bella
Matelda appresta il salutar lavacro,
E Beatrice con l'amante sacro
in vano sale a Dio di stella in stella.

Odio il tuo santo impero; e la corona
Divelto con la spada avrei di testa
Al tuo buon Federico in val d'Olona.

Son chiesa e impero una ruina mesta
Cui sorvola il tuo canto e al ciel risona:
Muor Giove, e l'inno del poeta resta.
[ 1867 ? ].

XVII
GIUSTIZIA DI POETA
Dante, il vicin mio grande, allor che errava
Pensoso peregrin la selva fiera,
Se in traditor se in ladri o in quale altra era
Gente di voglia niquitosa e prava

Dolce ei d'amor cantando s'incontrava,
L'acceso stral de la pupilla nera
Tra fibra e fibra a i miseri ficcava;
Poi con la man, con quella man leggera


Che ne la vita nova angeli pinse,
Sì gli abbrancava e gli bollava in viso
E gli gettava ne la morta gora.

L'onta de' rei che secol non estinse
Fuma pe' cerchi de l'inferno ancora;
E Dante guarda, su dal paradiso.

Marzo 1871.

XVIII
COMMENTANDO IL PETRARCA
Messer Francesco, a voi per pace io vegno
E a la vostra gentile amica bionda:
Terger vo' l'alma irosa e 'l torvo ingegno
A la dolce di Sorga e lucid'onda.

Ecco: un elce mi porge ombra e sostegno,
E seggo, e chiamo, a la romita sponda;
E voi venite, e un salutevol segno
Mi fa il coro gentil che vi circonda.

De le canzoni vostre è il dolce coro,
Cui da un cerchio di rose a pena doma
Va pe' bei fianchi la cesarie d'oro

In riposo ondeggiante. Ahi, che la chioma
Scuote e 'l musico labbro una di loro
Apre al grido ribelle: Italia e Roma.

Aprile 1868.

XIX
HO IL CONSIGLIO A DISPETTO
– Vaghe le nostre donne e i giovinetti
Son fieri e adorni: or via, diffondi, o vate,
Sovr'essi il coro de le strofe alate,
E spargi anche tu fiori e intreccia affetti.


Perché roggio è 'l tuo verso, e tu ne' petti
Semini spine? Oblia. T'apran le fate
Il giardin de l'incanto, e la beltate
I suoi sorrisi. Il mondo anche ha diletti. –

Or dite a Giovenal che si dibatte
Sotto la dea, ch'egli lo spasmo in riso
Muti e in gliconio l'esametro ansante;

E, quando avventa i suoi folgori Dante
Su da l'inferno e giù dal paradiso,
Addolciteli voi nel caff'e latte.

1870.

XX
DIETRO UN RITRATTO DELL'ARIOSTO
Questa che a voi, donna gentil, ne viene
Imagin viva del divin lombardo
Ne l'ampia fronte e nel fiso occhio e tardo
Lo stupor de' gran sogni anche ritiene.

Oh lui felice! il qual, poich'ebbe piene
Tutte del mondo suo lieto e gagliardo
Le carte, aprir più non sostenne il guardo
Sotto povero ciel, su meste arene.

E più felice ancor! ché non favore
Di prence e di vulgo aura ogn'or novella
Né di teologal donna l'amore,

Ma premio a' canti era una bocca bella,
Che del fronte febeo lenìa l'ardore
Co' baci, e quel fulgea come una stella.

14 aprile 1874.


XXI
SOLE E AMORE
Lievi e bianche a la plaga occidentale
Van le nubi: a le vie ride e su 'l fòro
Umido il cielo, ed a l'uman lavoro
Saluta il sol, benigno, trionfale.

Leva in roseo fulgor la cattedrale
Le mille guglie bianche e i santi d'oro,
Osannando irraggiata: intorno il coro
Bruno de' falchi agita i gridi e l'ale.

Tal, poi ch'amor co 'l dolce riso via
Rase le nubi che gravârmi tanto,
Si rileva nel sol l'anima mia,

E molteplice a lei sorride il santo
Ideal de la vita: è un'armonia
Ogni pensiero, ed ogni senso un canto.

[ 14-15 dicembre 1872 ].

XXII
MATTUTINO E NOTTURNO
Al mattin da la pioggia ecco deterso
In purità d'azzurro il ciel risplende,
E dal sole di maggio a l'universo
Il sorriso di Dio benigno scende;

Quando alacre da l'animo sommerso
L'ali innovate il mio pensiero stende,
E al sol de gli occhi tuoi rivola il verso
Come trillo di lodola che ascende.

Ma sento ardermi in cor la luce bruna
De le pupille in cui erra dolente
Il desio d'un ignoto estraneo lito,


Quando ammiro da i poggi ermi la luna
A la città marmorea tacente
Dir le malinconie de l'infinito.
Verona, 17 luglio 1883.

XXIII
QUI REGNA AMORE
Ove sei? de' sereni occhi ridenti
A chi tempri il bel raggio, o donna mia?
E l'intima del cor tuo melodia
A chi armonizzi ne' soavi accenti?

Siedi tra l'erbe e i fiori e a' freschi venti
Dài la dolce e pensosa alma in balìa?
O le membra concesso hai de la pia
Onda a gli amplessi di vigor frementi?

Oh, dovunque tu sei, voluttuosa
Se l'aura o l'onda con mormorio lento
Ti sfiora il viso o a' bianchi omeri posa,

È l'amor mio che in ogni sentimento
Vive e ti cerca in ogni bella cosa
E ti cinge d'eterno abbracciamento.
Bologna, agosto 1872.

XXIV
VISIONE
Or ch'a i silenzi di cerulea sera
Tra fresco mormorio d'alberi e fiori
Ella siede, e in soavi aure ed odori
Freme la voluttà di primavera,

Tu di vetta a l'antica alpe severa
Tra i verdi a l'albor tuo tremuli orrori
La cerchi, o luna, e quella dolce e altera
Fronte del tuo più vivo raggio irrori.


Tal forse, o greca dea, la pura fronte
Chinavi, in cuor d'Endimion pensosa,
Su 'l tuo grande sereno arco d'argento;

E i fiumi al bianco piè pe 'l latmio monte,
Raggiati da la faccia luminosa,
Scendean d'amore a ragionar co 'l vento.

17-18 settembre 1872.

XXV
MITO E VERITÀ
Narran le istorie e cantano i poeti,
Cui diva nunzia Clio meglio ammaestra,
Mirabil cosa che d'Artù la destra
Oprò ne i campi di Bretagna lieti.

Spinse ei l'antenna del ferir maestra,
E sì ruppe a Mordrèc le due pareti
Del cuor, che i rai del sole irrequieti
Risero per l'orribile finestra.

Meraviglia più nova in me si vede:
Ché, strappando io la imagin bella e fiera
Dal mio cuore a cui viva ella si abbranca,

Il cuor mi strappo, e movo alacre il piede;
E per la piaga fumigante e nera
Ride il dispetto de l'anima franca.

Bologna, 24 novembre 1872.

XXVI
IN RIVA AL MARE
Tirreno, anche il mio petto è un mar profondo,
E di tempeste, o grande, a te non cede:
L'anima mia rugge ne' flutti, e a tondo
Suoi brevi lidi e il picciol cielo fiede.


Tra le sucide schiume anche dal fondo
Stride la rena: e qua e là si vede
Qualche cetaceo stupido ed immondo
Boccheggiar ritto dietro immonde prede.

La ragion da le sue vedette algenti
Contempla e addita e conta ad una ad una
Onde e belve ed arene in van furenti:

Come su questa solitaria duna
L'ire tue negre a gli autunnali venti
Inutil lampa illumina la luna.

[ 1874-75 ].

XXVII
A UN ASINO
Oltre la siepe, o antico paziente,
De l'odoroso biancospin fiorita,
Che guardi tra i sambuchi a l'oriente
Con l'accesa pupilla inumidita?

Che ragli al cielo dolorosamente?
Non dunque è amor che te, o gagliardo, invita?
Qual memoria flagella o qual fuggente
Speme risprona la tua stanca vita?

Pensi l'ardente Arabia e i padiglioni
Di Giob, ove crescesti emulo audace
E di corso e d'ardir con gli stalloni?

O scampar vuoi ne l'Ellade pugnace
Chiamando Omero che ti paragoni
Al telamonio resistente Aiace?

28-29 settembre 1884.


XXVIII
AD UNA BAMBINA
Su la parvola tua fiera persona
Il mio pensier rammemorando posa,
Ed una vision si disprigiona
Che mi dormì nel cuor gran tempo ascosa.

Quella in fulvi riflessi radiosa
Chioma che l'agil capo t'incorona
Parmi la selva di castagni ombrosa
Che là su l'apuane alpi tenzona

Co' venti de l'aprile. Ivi ne l'armi
Vissero i forti padri, ivi la mia
Anima il mondo cominciò a sognare,

Mentre a le rupi ardue di bianchi marmi
Cerulo come l'occhio tuo ferìa
Il sorridente al sol ligure mare.

Verona, 4 febbraio 1883.

XXIX
A MADAMIGELLA MARIA L.
O ne' giorni tuoi mesti e lagrimanti
Volata fuor de la veduta mia,
Quale risaliente angelo in pianti,
Dolce lume di ciel, bionda Maria;

Dal bel paese ov'ebbe Laura i canti
Del mio poeta e la memoria pia
Or peregrina imagine d'avanti
Mi rifiorisci ne la fantasia:

Come nel serenato umido cielo
Giglio da l'improvviso verno affranto
Si rileva ondeggiando in su lo stelo,


E gli aurei stami ed il profumo e il vanto
Apre di sua beltà dal bianco velo
A' rai del sole e de gli augelli al canto.
31 maggio 1885.

XXX
MOMENTO EPICO
Addio, grassa Bologna! e voi di nera
Canape nel gran piano ondeggiamenti,
E voi pallidi in lunghe file a' venti
Pioppi animati da l'estiva sera!

Ecco Ferrara l'epica. Leggera
La mole estense i merli alza ridenti,
E specchiando le nubi auree fuggenti
Canta del Po l'ondisona riviera.

O terre intorno a gli alti argini sole,
Ove pianser l'Eliadi; a voi discende
La tenebra odiata, e a me non duole.

A me ne l'ombre l'epopea distende
Le sue rosse ali, e su 'l mio cuore il sole
De le immortali fantasie raccende.
23-26 luglio 1878.

XXXI
MARTINO LUTERO
Due nemici ebbe, e l'uno e l'altro vinse,
Trent'anni battaglier, Martin Lutero;
L'uno il diavolo triste, e quello estinse
Tra le gioie del nappo e del saltero;

L'altro l'allegro papa, e contro spinse
A lui Cristo Gesù duro ed austero;
E di fortezza i lombi suoi precinse,
E di serenità l'alto pensiero.


– Nostra fortezza e spada nostra Iddio –
A lui d'intorno il popol suo cantava
Con l'inno ch'ei gli diè pien d'avvenire.

Pur, guardandosi a dietro, ei sospirava:
Signor, chiamami a te: stanco son io:
Pregar non posso senza maledire.

18 febbraio 1886.

XXXII
LA STAMPA E LA RIFORMA
Credo – diceasi; e, come fiere in lustre,
Sonnecchiando giacean nel chiostro nero
Codici immani, e il tardo augel palustre
Porgea la penna al fulmine del vero.

Penso – si disse; e dritta in piè l'industre
Arte diè di metallo ali al pensiero,
Ed ad ogni scoter d'ala uscia d'illustre
Guerra dal torchio il libro messaggero.

Ed esce e vola, e al monte e al pian ragiona
Il picciol libro; e in fier sassone metro
E latin l'alta sfida a Roma intona.

Vola; e per l'aere ancor da' roghi tetro
Al Zuiderzée che lieto i lidi introna
Gitta di Carlo quinto e spada e scetro.

Settembre 1869.

XXXIII
ORA E SEMPRE
Ora –: e la mano il giovine nizzardo
Biondo con sfavillanti occhi porgea,
E come su la preda un leopardo
Il suo pensiero a l'avvenir correa.


E sempre –: con la man fiso lo sguardo
L'austero genovese a lui rendea:
E su 'l tumulto eroico il gagliardo
Lume discese de l'eterna idea.

Ne l'aer d'alte vision sereno
Suona il verbo di fede, e si diffonde
Oltre i regni di morte e di fortuna.

Ora – dimanda per lo ciel Staglieno,
Sempre – Caprera in mezzo al mar risponde:
Grande su 'l Pantheon vigila la luna.

18-23 febbraio 1886.

XXXIV
TRAVERSANDO LA MAREMMA TOSCANA
Dolce paese, onde portai conforme
L'abito fiero e lo sdegnoso canto
E il petto ov'odio e amor mai non s'addorme,
Pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto.

Ben riconosco in te le usate forme
Con gli occhi incerti tra 'l sorriso e il pianto,
E in quelle seguo de' miei sogni l'orme
Erranti dietro il giovenile incanto.

Oh, quel che amai, quel che sognai, fu in vano;
E sempre corsi, e mai non giunsi il fine;
E dimani cadrò. Ma di lontano

Pace dicono al cuor le tue colline
Con le nebbie sfumanti e il verde piano
Ridente ne le pioggie mattutine.

21 aprile 1885.




XXXV
DIETRO UN RITRATTO
Tal fui qual fremo in questa imagin viva,
Quand'era tutto sole il mio pensiero
E a prova tra le sirti aspre del vero
Ribalzava il mio verso e ribolliva.

Or m'avvolge la calma: un velo nero
Copre la terra che lontan fioriva,
Strillano augei palustri in su la riva:
E io poco più amo e nulla spero.

Oh fantasie di gloria a terra sparte!
E tu Italia vincente e tu rubesta
Libertà coronata alto da l'arte!

Sopra il fango che sale or non mi resta
Che gittare il mio sdegno in vane carte
E dal palco mortale un dì la testa.

2 dicembre 1881.

LIBRO TERZO

XXXVI
MATTINO ALPESTRE
Da l'oriente palpita
Il giorno, e i primi raggi
Scendon soavi a frangersi
Tra 'l nereggiar de' faggi.

Guizzan su 'l fiume e ridono
Tra i mormorii de l'onde,
Come occhi d'una vergine
Che a nuovo amor risponde.


Scorron su 'l monte; e s'anima
D'un riso anch'ei, ma tardo,
Come al giocar de i pargoli
La faccia d'un vegliardo.

Già son fulgore, e spandesi
Per la vallèa fiorita,
Come speranza giovine
In su l'aperta vita.

Ondeggia dal pian rorido
E si raccoglie e stende
Un velo di caligine
Che al sole argentea splende.

Floridi i colli emergono;
Ma le case e le piante
Come sogni traspaiono
Entro il vel biancheggiante.

Da i fumeggianti culmini
Tra i giuochi de la luce
Desio ne l'alto a querule
Coppie i palombi adduce.

Le terse ali riflettono
Il limpido splendore,
Passano lampi ed iridi.
Il ciel sorride amore.

15-18 febbraio 1886 [ 1852 ].

XXXVII
ROSA E FANCIULLA
Or che soave è il cielo e i dì son belli
E gemon l'aure e cantano gli augelli
Tu chini l'amorosa
Fronte, o vergine rosa.


Per te non fa che il prato ove nascesti
Tiranno solitario avvampi il sole,
Quando su' campi da la falce mesti
La polverosa estate a lui si duole,
E nel meriggio le campagne sole
Assorda la cicala,
E impreca al giorno, che affannoso cala,
Dal risécco pantan la rana ascosa.

Subito allor su' non più verdi colli
Sorge il turbine, e gran strepito mena,
Spazza gli ultimi fiori ed i rampolli.
E allaga i campi d'infelice arena;
E più cresce l'arsura, e de l'amena
Ombra il conforto manca.
Tu fuggi a quella stanca
Ora, o vergine rosa.

Per te non fa ne' giorni grigi e scarsi
Mirar la doglia de l'anno che muore,
Le foglie ad una ad una distaccarsi
E gemer sotto il piè del viatore,
Sin che la nebbia del suo putre umore
Le macera o le avvolge
La fredda brezza e lenta le travolge
Giù ne l'informe valle ruinosa.

Allor le nubi che fuman su i monti,
Allor le pioggie lunghe e tristi al piano,
E l'alte ombre de' gelidi tramonti,
Ed il triste desio del sol lontano,
E la bruma crescente a mano a mano,
E il gel che tutto serra.
Tu fuggi a tanta guerra,
O giovinetta rosa.

Firenze, settembre 1864.


XXXVIII
BRINDISI D'APRILE
Quando su l'elci nere
E i mandorli novelli
Tripudia de gli augelli
Il coro nuzial,

E son le primavere
Per le colline apriche
Occhi di ninfe antiche
Che guardano il mortal,

E il sol d'un giovenil
Riso i verzier saluta
E pio sovra la muta
Landa s'inchina il ciel,

E il fiato de l'aprile
Move le biade in fiore
Come un sospir d'amore
Di nuova sposa il vel:

Sobbalza allor di palpiti,
Sente le sue ferite,
Il tronco de la vite,
De la fanciulla il cor;

Quella spira odorifere
Gemme a la fredda scheggia,
Questa desio lampeggia
Nel vergine rossor.

Allora a l'aer tepido
Tutto fermenta e langue,
Entro le vene il sangue,
Entro le botti il vin.


Tu senti de la patria,
Rosso prigion, desio;
E l'aura del natio
Colle sommove il tin.

Di pampini giuliva
La dolce vite è là,
Tu qui ne' lacci... Oh viva,
Viva la libertà!

Andiamo, il prigioniere
Andiamo a liberar;
Facciamlo nel bicchiere
Rivivere e brillar,

Brillare al colle in vetta,
Brillare in faccia al sol:
Ribaci lui l'auretta,
Riveda egli il magliol.

E tu arridigli, o sole. Ei di te nacque
Ne' dì che ad Opi t'infondevi in seno:
De i doni suoi la vita egra compiacque,
Come te ardente, come te sereno:

Quando tu disparisti, ed ei soggiacque
Prigion celeste in carcere terreno:
Bagna i tuoi raggi nel gentil vermiglio,
Bacia, sole immortal, bacia il tuo figlio.

Vermiglio questo; ma quell'altro è biondo
Come la chioma tua, lene Agieo,
Come le ninfe che inseguivi al mondo
Su le rive felici di Peneo,
Allor che il ionio spirito giocondo
D'ogni splendida cosa iddio ti feo:
Ora le forme belle han tolto esiglio;
Bacia, sole immortal, bacia il tuo figlio.


Unico ei resta, o sole; ed io d'amore
Unico l'amo, o biondo siasi o nero.
Biondo, è la luce che da i nervi fuore
Sprizza del canto il creator pensiero;
Nero, è il buon sangue che di fondo al cuore
Ne i magnanimi fatti ondeggia altero:
Versa al biondo i tuoi raggi ed al vermiglio,
Bacia, sole immortal, bacia il tuo figlio.

Aprile 1869.

XXXIX
PRIMAVERA CLASSICA
Da i verdi umidi margini
La violetta odora,
Il mandorlo s'infiora,
Trillan gli augelli a vol.

Fresco ed azzurro l'aere
Sorride in tutti i seni:
Io chiedo a' tuoi sereni
Occhi un più caro sol.

Che importa a me de gli aliti
Di mammola non tócca?
Ne la tua dolce bocca
Freme un più vivo fior.

Che importa a me del garrulo
Di fronde e augei concento?
Oh che divino accento
Ha su' tuoi labbri amor!

Auliscan pur le rosee
Chiome de gli arboscelli:
L'onda de' tuoi capelli,
Cara, disciogli tu.


M'asconda ella gl'inanimi
Fiori del giovin anno:
Essi ritorneranno.
Tu non ritorni più.
Marzo (fine) 1873.

XL
AUTUNNO ROMANTICO
Di sereno adamàntino su 'l vasto
Squallor d'autunno il cielo azzurro brilla,
Come di sua beltà nel conscio fasto
La tua fredda pupilla.

Come a te velo tenue le membra
Nel risorger del tuo bel giorno a l'opre,
Nebbia la terra, che addormita sembra,
Argentea ricopre.

Ed immoti per essa ergon le cime
Irte ed umide i grigi alberi muti,
Quai nel pensier cui la memoria opprime
I dolci anni perduti.

E via sovr'essi indifferente il sole,
Che al bel maggio rideva entro la folta
Fronda, ora fulge e non riscalda. O Jole,
Amiam l'ultima volta.

8 gennaio 1872.

XLI
IN MAGGIO
DA H. HEINE'S Letzte Gedichte
Gli amici a cui dissi d'amor parole
Peggio m'han fatto ed ho spezzato il cuor:
Spezzato ho il cuor, ma là su alto il sole
Ride e saluta al mese de l'amor.


Primavera fiorisce: allegri cori
D'augelli empiono il bosco giovenil:
Virginee ridon le fanciulle e i fiori:
Oh come orribil sei, mondo gentil!

L'Orco vogl'io: miglior le piaggie bige
Danno asilo a i dolenti: ivi non più
Contrasto e scherno. Oh, meglio de la Stige
Errar su le notturne acque là giù.

Il triste mormorio de l'onde lente,
De le figlie di Stinfalo il gracchiar,
La canzon de l'Eumenidi stridente,
Il continuo di Cerbero latrar,

Son fiera cosa che al dolor s'accorda:
Di dolore ogni cosa ha vista e suon
Ove impera su l'ombre Ecate sorda
Ed eterno del pianto ulula il tuon.

Ma qua su come e di che duro oltraggio
E sole e rose a me fiedono il cuor!
M'insulta il ciel, l'azzurro ciel di maggio...
O mondo bello, tu sei pien d'orror!

12-13 marzo 1871.

XLII
PIANTO ANTICO
L'albero a cui tendevi
La pargoletta mano,
Il verde melograno
Da' bei vermigli fior,

Nel muto orto solingo
Rinverdì tutto or ora
E giugno lo ristora
Di luce e di calor.



Tu fior de la mia pianta
Percossa e inaridita,
Tu de l'inutil vita
Estremo unico fior,

Sei ne la terra fredda,
Sei ne la terra negra;
Né il sol più ti rallegra
Né ti risveglia amor.

Giugno 1871.

XLIII
NOSTALGIA
Tra le nubi ecco il turchino
Cupo ed umido prevale:
Sale verso l'Apennino
Brontolando il temporale.
Oh se il turbine cortese
Sovra l'ala aquilonar
Mi volesse al bel paese
Di Toscana trasportar!

Non d'amici o di parenti
Là m'invita il cuore e il volto:
Chi m'arrise a i dì ridenti
Ora è savio od è sepolto.
Né di viti né d'ulivi
Bel desio mi chiama là:
Fuggirei da' lieti clivi
Benedetti d'ubertà.

De le mie cittadi i vanti
E le solite canzoni
Fuggirei: vecchie ciancianti
A marmorei balconi!
Dove raro ombreggia il bosco
Le maligne crete, e al pian

Di rei sugheri irto e fósco
I cavalli errando van,

Là in maremma ove fiorìo
La mia triste primavera,
Là rivola il pensier mio
Con i tuoni e la bufera:
Là nel ciel nero librarmi
La mia patria a riguardar,
Poi co 'l tuon vo' sprofondarmi
Tra quei colli ed in quel mar.

8-9 settembre 1874 [ 1871 ].

XLIV
TEDIO INVERNALE
Ma ci fu dunque un giorno
Su questa terra il sole?
Ci fur rose e viole,
Luce, sorriso, ardor?

Ma ci fu dunque un giorno
La dolce giovinezza,
La gloria e la bellezza,
Fede, virtude, amor?

Ciò forse avvenne a i tempi
D'Omero e di Valmichi:
Ma quei son tempi antichi,
Il sole or non è più.

E questa ov'io m'avvolgo
Nebbia di verno immondo
È il cenere d'un mondo
Che forse un giorno fu.

20 marzo 1875.


XLV
VIGNETTA
La stagion lieta e l'abito gentile
Ancor sorride a la memoria in cima
E il verde colle ov'io la vidi prima.

Brillava a l'aree e a l'acque il novo aprile,
Piegavan sotto il fiato di ponente
Le fronde a tremolar soavemente.

Ed ella per la tenera foresta
Bionda cantava al sole in bianca vesta.

Verona, 13 luglio 1884.

XLVI
LUNGI LUNGI
DA H. HEINE'S Lyrisches Intermezzo
Lungi, lungi, su l'ali del canto
Di qui lungi recare io ti vo':
Là, ne i campi fioriti del santo
Gange, un luogo bellissimo io so.

Ivi rosso un giardino risplende
De la luna nel cheto chiaror:
Ivi il fiore del loto ti attende,
O soave sorella de i fior.

Le viole bisbiglian vezzose,
Guardan gli astri su alto passar;
E tra loro si chinan le rose
Odorose novelle a contar.

Salta e vien la gazella, l'umano
Occhio volge, si ferma a sentir:
Cupa s'ode lontano lontano
L'onda sacra del Gange fluir.



Oh che sensi d'amore e di calma
Beveremo ne l'aure colà!
Sogneremo, seduti a una palma,
Lunghi sogni di felicità.

[ 1871 ].

XLVII
PANTEISMO
Io non lo dissi a voi, vigili stelle,
A te no 'l dissi, onniveggente sol:
Il nome suo, fior de le cose belle,
Nel mio tacito petto echeggiò sol.

Pur l'una de le stelle a l'altra conta
Il mio secreto ne la notte bruna,
E ne sorride il sol, quando tramonta,
Ne' suoi colloqui con la bianca luna.

Su i colli ombrosi e ne la piaggia lieta
Ogni arbusto ne parla ad ogni fior:
Cantan gli augelli a vol – Fósco poeta,
Ti apprese al fine i dolci sogni amor. –

Io mai no 'l dissi: e con divin fragore
La terra e il ciel l'amato nome chiama,
E tra gli effluvi de le acacie in fiore
Mi mormora il gran tutto – Ella, ella t'ama.

15 giugno 1872.

XLVIII
PASSA LA NAVE MIA
DA H. HEINE'S Verschiedene
Passa la nave mia con vele nere,
Con vele nere pe 'l selvaggio mare.
Ho in petto una ferita di dolore,
Tu ti diverti a farla sanguinare.




È, come il vento, perfido il tuo core,
E sempre qua e là presto a voltare.
Passa la nave mia con vele nere,
Con vele nere pe 'l selvaggio mare.

20 agosto 1882.

XLIX
ANACREONTICA ROMANTICA
Nel bel mese di maggio
Io sotterrai l'Amor
De' nuovi soli al raggio
Sotto un'acacia in fior.

Le requie lamentose
Disser gli augelli in ciel,
E fu tra gigli e rose
Del picciol dio l'avel.

Fu tra le rose e i gigli
D'un molto amato sen:
I prati eran vermigli,
Rideva il ciel seren.

Una memoria mesta
Vi posi a vigilar:
Poteasi de la festa
Il morto contentar.

Ahi, ma la tomba è cuna
Al picciolo vampir!
Al lume de la luna
Vuol tutte notti uscir.

Vien, su le tempie ardenti
Co' i vanni aperti sta:
Gli scuote lenti lenti,
E addormentar mi fa.


Susurra a l'alma stanca
Un'ombra ed un ruscel,
Ed una fronte bianca
Ride tra un nero vel.

Così, mentr'ei del mite
Sonno m'irriga e tien,
Morde con due ferite
L'umida tempia e 'l sen.

Per quelle il rosso sangue
Tutto mi sugge Amor,
E vaneggiando langue
La vita al capo e al cuor.

Ma, perché più non possa
Il reo vampiro uscir,
Dee su l'aperta fossa
Un prete benedir.

L'incanto allor si scioglie
E il morto in cener va;
Più da vestirsi spoglie
Il dèmone non ha.

L'avello del tuo petto.
O donna, io l'aprirò:
Il morto piccioletto
Vedervi dentro io vo':

Io vo' che putre e mézzo
Polvere ei torni al fin:
Prete sarà il disprezzo
Ed acqua santa il vin.

11 maggio 1873.


L
MAGGIOLATA
Maggio risveglia i nidi,
Maggio risveglia i cuori;
Porta le ortiche e i fiori,
I serpi e l'usignol.

Schiamazzano i fanciulli
In terra, e in ciel li augelli:
Le donne han ne i capelli
Rose, ne gli occhi il sol.

Tra colli prati e monti
Di fior tutto è una trama:
Canta germoglia ed ama
L'acqua la terra il ciel.

E a me germoglia in cuore
Di spine un bel boschetto;
Tre vipere ho nel petto
E un gufo entro il cervel.

2 maggio 1871.

LI
SERENATA
Le stelle che viaggiano su 'l mare
Dicono – O bella luna, non dormire,
O bella luna, vògliti levare,
Ché noi vogliamo per lo mondo gire.
Vogliam fermarci su la camerella
Ove nel sonno sta nostra sorella,
Nostra sorella splendiente e bruna
Che un mago ci ha rapita, o madre luna. –

Di cima al colle rispondono i pini
E da la riva del fiume gli ontani:

– O stelle da' begli occhi piccolini,
Deh perché fate quei discorsi vani?
Ella ci apparve il dì primo di maggio
Tra un lauro snello e un glorioso faggio,
E dove ella sbocciò ninfa dal suolo
Cresce una rosa e canta un rusignolo. –

Poi che le stelle tramontan nel mare,
Al monte e al piano tace ogni rumore:
La terra buia una camera pare
Ove s'addorme al fin l'uman dolore.
Come breve è la notte, o bella mia!
Desto nel bosco l'uccellin già pia.
L'alba di maggio t'imbianca il verone,
E il saluto del mondo in cuor ti pone.

24-30 novembre 1882.

LII
MATTINATA
Batte a la tua finestra, e dice, il sole:
– Lèvati, bella, ch'è tempo d'amare.
Io ti reco i desir de le viole
E gl'inni de le rose al risvegliare.
Dal mio splendido regno a farti omaggio
Io ti meno valletti aprile e maggio
E il giovin anno che la fuga affrena
Su 'l fior de la tua vaga età serena. –

Batte a la tua finestra, e dice, il vento:
– Per monti e piani ho viaggiato tanto:
Sol uno de la terra oggi è il concento,
E de' vivi e de' morti un solo è il canto.
De' nidi a i verdi boschi ecco il richiamo
– Il tempo torna: amiamo, amiamo, amiamo –
E il sospir de le tombe rinfiorate
– Il tempo passa: amate, amate, amate. –


Batte al tuo cor, ch'è un bel giardino in fiore,
Il mio pensiero, e dice: – Si può entrare?
Io sono un triste antico viatore,
E sono stanco, e vorrei riposare.
Vorrei posar tra questi lieti mai
Un ben sognando che non fu ancor mai:
Vorrei posare in questa gioia pia
Sognando un bene che già mai non fia.

20 marzo 1882.

LIII
DIPARTITA
Quando parto da voi, dolce signora,
Scura la terra e grigio il cielo appare,
Odo gufi cantar dentro e di fuora,
E gli alberi non restan di guardare.
Brulli, stupidi in vista e intirizziti,
Guardano a lungo come sbigottiti:
Guardan, crollano il capo e fuggon via,
E tornan sempre. Oh trista compagnia!

– O trista compagnia, che cosa vuoi? –
– Noi ti guardiamo perché morto sei.
Noi siam gli spettri de' pensieri tuoi,
Noi siam gli spettri de' pensier di lei.
Ier tra canti d'uccelli e tutti in fiore:
Oh come fugge la vita e l'amore!
Oggi ti accompagnamo al cimitero:
Oh come freddo e lungo è il tempo nero! –

Perugia, 23 luglio 1878.

LIV
DISPERATA
Su 'l caval de la Morte Amor cavalca
E traesi dietro catenato il cuore:

Ma il cuor s'annoia tra la serva calca
Sdegnoso di seguire il vil signore:
I lacci spezza e glie li gitta in faccia
Sorgendo con disdegno e con minaccia:
– Giù da la sella, Amor, poltrone iddio!
Io sol ti feci, e tu se' schiavo mio.

Signor ti feci nel pensier mio vano,
Schiavo ti rendo nel pensier mio forte:
Tutte le briglie io voglio a la mia mano:
A me il nero cavallo de la Morte! –
E monta e sprona il cavaliere ardito
Salutando co 'l cenno l'infinito.
E sotto il trotto dei cavallo nero
Rimbomba il mondo come un cimitero.

Roma, 19 dicembre 1883.

LV
BALLATA DOLOROSA
Una pallida faccia e un velo nero
Spesso mi fa pensoso de la morte;
Ma non in frotta io cerco le tue porte,
Quando piange il novembre, o cimitero.

Cimitero m'è il mondo allor che il sole
Ne la serenità di maggio splende
E l'aura fresca move l'acque e i rami,
E un desio dolce spiran le viole
E ne le rose un dolce ardor s'accende
E gli uccelli tra 'l verde fan richiami:
Quando più par che tutto 'l mondo s'ami
E le fanciulle in danza apron le braccia,
Veggo tra 'l sole e me sola una faccia,
Pallida faccia velata di nero.

28 aprile 1886.


LVI
DAVANTI A UNA CATTEDRALE
Trionfa il sole, e inonda
La terra a lui devota:
Ignea ne l'aria immota
L'estate immensa sta.

Laghi di fiamma sotto
I dòmi azzurri inerte
Paiono le deserte
Piazze de la città.

Là spunta una sudata
Fronte, ed è orribil cosa:
La luce vaporosa
La ingialla di pallor.

Dite: fa fresco a l'ombra
De le navate oscure,
Ne l'urne bianche e pure,
O teschi de i maggior?

19 agosto 1875.

LVII
BRINDISI FUNEBRE
Su 'l viso de l'amore
La rosa illanguidì,
Senza lasciarmi un fiore
La gioventù fuggì.

Lo stuol de l'ore danza
Lontano omai da me:
Con esse è la speranza,
L'illusion, la fé.

Gli affetti alti ed intensi
Cui fu negato il fin,

I desidèri immensi
Irrisi dal destin,

Tutti nel mio pensiero
Tutti sepolti io gli ho;
E al fósco cimitero
Custode fósco io sto.

Ma i nervi ancora ho forti:
Beviam, beviamo ancor:
Beviam, beviamo a i morti;
Con essi sta il mio cuor.

Sotto la terra nera
Giaccion ad aspettar;
La dolce primavera
Forse li fa svegliar.

Senton de i freschi venti
L'alito ed il sospir,
Senton fra l'ossa algenti
La verde erba salir.

Lo senti il dolce aprile,
Il sol lo vedi tu?
O pargolo gentile,
Solo tu sei laggiù?

Dal suo lontano avello
Ti parla, o fanciullin,
Il bianco mio fratello
Dal bel castaneo crin?

Gli avi ne i giorni fóschi
Ti vengono a cullar,
L'uno da i colli tóschi,
L'altro dal tósco mar?

O sola e mesta al petto
La madre mia ti tien?

Riposa, o fanciulletto,
Sopra il fidato sen.

Beviamo. Ahi che nel cielo
Impallidisce il sol,
E mi circonda il gelo,
E si sprofonda il suol.

Come uno stuol di gufi
A vecchio monaster,
Tra gli umidicci tufi
Singhiozzano i pensier.

Per questo buio fondo
Chi è chi è che va?
Esiste ancora il mondo,
La gioia e la beltà?

Ne' lucidi paesi
Ancora esiste amor?
Io giù tra' morti scesi
Ed ho sepolto il cuor.

Settembre 1874.

LVIII
SAN MARTINO
La nebbia a gl'irti colli
Piovigginando sale,
E sotto il maestrale
Urla e biancheggia il mar;

Ma per le vie del borgo
Dal ribollir de' tini
Va l'aspro odor de i vini
L'anime a rallegrar.

Gira su' ceppi accesi
Lo spiedo scoppiettando:

Sta il cacciator fischiando
Su l'uscio a rimirar

Tra le rossastre nubi
Stormi d'uccelli neri,
Com'esuli pensieri,
Nel vespero migrar.

8 dicembre 1883.

LIX
IN CARNIA
Su le cime de la Tenca
Per le fate è un bel danzar.
Un tappeto di smeraldo
Sotto al cielo il monte par.

Nel mattin perlato e freddo
De le stelle al muto albor
Snelle vengono le fate
Su moventi nubi d'òr.

Elle vengon con l'aurora
Di Germania ivi a danzar.
Treman l'ombre de gli abeti
Nere e verdi al trapassar.

De la But che irrompe e scroscia
Elle ridono al fragor,
E in quel vortice d'argento
Striscian via le chiome d'òr.

Freddo e nitido è il lavacro,
Ed il sole anche non par.
Su la vetta de la Tenca
Incominciano a danzar.

Bianche in vesta, rossi i veli,
I capelli nembi d'òr,

Che abbandonano ridenti
De gli zefiri a l'amor.

Poi con voce arguta e molle,
Sì che d'arpe un suono par,
Le sorelle de la Carnia
Incominciano a chiamar.

Tra il profumo de gli abeti
Ed il balsamo de i fior
Da le valli ascende il coro
Del mistero e de l'amor.

Su la rupe del Moscardo
È uno spirito a penar:
Sta con una clava immane
La montagna a sfracellar.

Quando vengono le fate,
Egli oblia l'aspro lavor;
E sospeso il mazzapicchio
Guarda e palpita d'amor.

Che le fate al travaglioso
Mai sorridano, non par:
Il selvaggio su la rupe
Si contenta di guardar,

E tal volta un cappel verde
Ei si mette per amor,
E d'un bel mantello rosso
Ei riveste il suo dolor.

Ahi, da tempo in su la Tenca
Niuna fata non appar:
Sol la But tra i verdi orrori
S'ode argentea scrosciar,

E il dannato su 'l Moscardo
Senza più tregua d'amor

Notte e dì co 'l mazzapicchio
Rompe il monte e il suo furor.

Ahi, le vaghe fantasie
Dal mio spirito esulâr,
E il torrente di memoria
Odo funebre mugghiar:

Niun fantasima di luce
Cala omai nel chiuso cuor,
E lo rompe a falda a falda
Il corruccio ed il dolor.

Piano d'Arta, 1 agosto 1885.

LX
VISIONE
Il sole tardo ne l'invernale
Ciel le caligini scialbe vincea,
E il verde tenero de la novale
Sotto gli sprazzi del sol ridea.

Correva l'onda del Po regale,
L'onda del nitido Mincio correa:
Apriva l'anima pensosa l'ale
Bianche de' sogni verso un'idea.

E al cuor nel fiso mite fulgore
Di quella placida fata morgana
Riaffacciavasi la prima età,

Senza memorie, senza dolore,
Pur come un'isola verde, lontana
Entro una pallida serenità.

Verona, 1 febbraio 1883.

LIBRO QUARTO

LXI
AD ALESSANDRO D'ANCONA
O de' cognati e de i dispersi miti
Per la selva d'Europa indagatore,
Mentre tu nozze appresti e i dolci riti
Affretti in cuore,

Io, dove ride al sol da l'infinito
Rincrespamento del ceruleo seno
E al ciel con echi mille e al breve lito
Plaude il Tirreno,

E digradando giù dal colle aprico
Per biancheggiante di palagi traccia
La verde antica terra al glauco amico
Porge le braccia,

In queste di salute aure frementi
Terse le nebbie de lo spirto impure,
Dato il cuore a gli amici e date a i venti
Freschi le cure,

Anche una volta io qui libo a le dee
Che de la mente mia seggono in cima,
E t'accompagno le camene argee
Con la mia rima.

Non io tinger vorrei di dotta polve
A la sposa il vel bianco ed i pensieri
Né schiuder quei che un'età grossa involve
Grossi misteri.

Dannosa etade! Solitario mostro
La morte allor su 'l cieco mondo incombe
Con mille aspetti, e l'uomo esce dal chiostro
Sol per le tombe.


Ne i boschi infuria e via per valli e gioghi
Una danza di forme atre e maligne
Ch'odiano il sole: l'orrida de' roghi
Vampa le tigne.

Da l'aspre torri e dal cenobio muto,
Dal folto dòmo d'irti steli inserto,
Par che la vita l'ultimo saluto
Mandi al deserto.

Quindi l'accidia rea ch'anco inimica
La natura e lo spirto, ed impossente
L'uomo, che un sogno torbido affatica,
Aspira al niente.

L'ombra di morte e su da la marina
Di Teti il pianto fuor de le ftie ville
Seguìa tra i carri e l'armi la divina
Forza d'Achille.

Ma ei pugnava i giorni, e, a la romita
Notte citareggiando in su l'egea
Riva, a Dite a le Muse ed a la vita
Breve indulgea.

Pigri terror de l'evo medio, prole
Negra de la barbarie e del mistero,
Torme pallide, via! Si leva il sole,
E canta Omero.
Livorno, 16-17 agosto 1871.

LXII
PRIMAVERE ELLENICHE
(I. EOLIA)
Lina, brumaio torbido inclina,
Ne l'aer gelido monta la sera:
E a me ne l'anima fiorisce, o Lina,
La primavera.


In lume roseo, vedi, il nivale
Fedriade vertice sorge e sfavilla,
E di Castalia l'onda vocale
Mormora e brilla.

Delfo a' suoi tripodi chiaro sonanti
Rivoca Apolline co' nuovi soli,
Con i virginei peana e i canti
De' rusignoli.

Da gl'iperborei lidi al pio suolo
Ei riede, a' lauri dal pigro gelo:
Due cigni il traggono candidi a volo:
Sorride il cielo.

Al capo ha l'aurea benda di Giove;
Ma nel crin florido l'aura sospira
E con un tremito d'amor gli move
In man la lira.

D'intorno girano come in leggera
Danza le Cicladi patria del nume,
Da lungi plaudono Cipro e Citera
Con bianche spume.

E un lieve il séguita pe 'l grande Egeo
Legno, a purpuree vele, canoro:
Armato règgelo per l'onde Alceo
Dal plettro d'oro.

Saffo dal candido petto anelante
A l'aura ambrosia che dal dio vola,
Dal riso morbido, da l'ondeggiante
Crin di viola,

In mezzo assidesi. Lina, quieti
I remi pendono: sali il naviglio.
Io, de gli eolii sacri poeti
Ultimo figlio,


Io meco traggoti per l'aure achive:
Odi le cetere tinnir: montiamo:
Fuggiam le occidue macchiate rive,
Dimentichiamo.
[ 8 dicembre 1871 ].

LXIII
PRIMAVERE ELLENICHE
(II. DORICA)
Sai tu l'isola bella, a le cui rive
Manda il Ionio i fragranti ultimi baci,
Nel cui sereno mar Galatea vive
E su' monti Aci?

De l'ombroso pelasgo Erice in vetta
Eterna ride ivi Afrodite e impera,
E freme tutt'amor la benedetta
Da lei costiera.

Amor fremono, amore, e colli e prati,
Quando la Ennea da' raddolciti inferni
Torna co 'l fior de' solchi a i lacrimati
Occhi materni.

Amore, amor, susurran l'acque; e Alfeo
Chiama ne' verdi talami Aretusa
A i noti amplessi ed al concento acheo
L'itala musa.

Amore, amore, de' poeti a i canti
Ricantan le cittadi, e via pe' fòri
Doriesi prorompono baccanti
Con cetre e fiori.

Ma non di Siracusa o d'Agrigento
Chied'io le torri: quivi immenso ondeggia
L'inno tebano ed ombrano ben cento
Palme la reggia.


La valle ov'è che i bei Nèbrodi monti
Solitaria coronano di pini,
Ove Dafni pastor dicea tra i fonti
Carmi divini?

– Oh di Pèlope re tenere il suolo,
Oh non m'avvenga, o d'aurei talenti
Gran copia, e non de l'agil piede a volo
Vincere i venti!

Io vo' da questa rupe erma cantare,
Te fra le braccia avendo e via lontano
Calar vedendo l'agne bianche al mare
Siciliano. –

Cantava il dorio giovine felice,
E tacean gli usignoli. A quella riva,
O chiusa in un bel vel di Beatrice
Anima argiva,

Ti rapirò nel verso; e tra i sereni
Ozi de le campagne a mezzo il giorno,
Tacendo e rifulgendo in tutti i seni
Ciel, mare, intorno,

Io per te sveglierò da i colli aprichi
Le Driadi bionde sovra il piè leggero
E ammiranti a le tue forme gli antichi
Numi d'Omero.

Muoiono gli altri dèi: di Grecia i numi
Non sanno occaso; ei dormon ne' materni
Tronchi e ne' fiori, sopra i monti i fiumi
I mari eterni.

A Cristo in faccia irrigidì ne i marmi
Il puro fior di lor bellezze ignude:
Ne i carmi, o Lina, spira sol ne i carmi
Lor gioventude;



E, se gli evòca d'una bella il viso
Innamorato o d'un poeta il core,
Da la santa natura ei con un riso
Lampeggian fuore.

Ecco danzan le Driadi, e – Qual etade –
Chieggon le Oreadi – ti portò sì bella?
Da quali vieni ignote a noi contrade,
Dolce sorella?

Mesta cura a te siede in fra le stelle
De gli occhi. Forse ti ferì Ciprigna?
Crudel nume è Afrodite ed a le belle
Forme maligna.

Sola tra voi mortali Elena argea
Di nepente a gli eroi le tazze infuse;
Ma noi sappiam quanti misteri Gea
Nel sen racchiuse.

Noi coglierem per te balsami arcani
Cui lacrimâr le trasformate vite,
E le perle che lunge a i duri umani
Nudre Anfitrite.

Noi coglierem per te fiori animati,
Esperti de la gioia e de l'affanno:
Ei le storie d'amor de' tempi andati
Ti ridiranno;

Ti ridiranno il gemer de la rosa
Che di desio su 'l tuo bel petto manca,
E gl'inni, nel tuo crin, de la fastosa
Sorella bianca.

Poi nosco ti addurrem ne le fulgenti
De l'ametista grotte e del cristallo,
Ove eterno le forme e gli elementi
Temprano un ballo.


T'immergerem ne i fiumi ove il concento
De' cigni i cori de le Naidi aduna:
Su l'acque i fianchi tremolan d'argento
Come la luna.

Ti leverem su i gioghi al ciel vicini
Che Zeus, il padre, più benigno mira,
Ove d'Apollo freme entro i divini
Templi la lira.

Ivi, raccolta ne le aulenti sale
Nostre, al bell'Ila ti farem consorte,
Ila che noi rapimmo a la brumale
Ombra di morte. –

Ahi, da che tramontò la vostra etate
Vola il dolor su le terrene culle!
Questo raggio d'amor no 'l m'invidiate,
Greche fanciulle.

La cura ignota che il bel sen le morde
Io tergerò co 'l puro mèle ascreo,
L'addormirò co' le tebane corde.
Se fossi Alceo,

La persona gentil ne lo spirtale
Fulgor de gl'inni irradiar vorrei,
Cingerle il molle crin co' l'immortale
Fior de gli dèi,

E, mentre nel giacinto il braccio folce
E del mio lauro la protegge un ramo,
Chino su 'l cuore mormorarle – O dolce
Signora, io v'amo.

10-18 aprile 1872.


LXIV
PRIMAVERE ELLENICHE
(III. ALESSANDRINA)
Gelido il vento pe' lunghi e candidi
Intercolonnii ferìa, su tumuli
Di garzonetti e spose
Rabbrividian le rose

Sotto la pioggia, che, lenta, assidua,
Sottil, da un grigio cielo di maggio
Battea con faticoso
Metro il piano fangoso;

Quando, percossa d'un lieve tremito,
Ella il bel velo d'intorno a gli omeri
Raccolto al seno avvinse
E tutta a me si strinse:

Voluttuosa ne l'atto languido
Tra i gotici archi, quale tra' larici
Gentil palma volgente
Al nativo oriente.

Guardò serena per entro i lugubri
Luoghi di morte; levò la tenue
Fronte, pallida e bella,
Tra le floride anella

Che a l'agil collo scendendo incaute
Tutta di molle fulgor la irradiano:
E piovvemi nel cuore
Sguardi e accenti d'amore

Lunghi, soavi, profondi: eolia
Cetra non rese più dolci gemiti
Mai né sì molli spirti
Di Lesbo un dì tra i mirti.


Su i muti intanto marmi la serica
Vesta strisciava con legger sibilo,
Spargeanmi al viso i venti
Le sue chiome fluenti.

Non mai le tombe sì belle apparvero
A me ne i primi sogni di gloria.
Oh amor, solenne e forte
Come il suggel di morte!

Oh delibato fra i sospir trepidi
Su i cari labri fiore de l'anima
E intraviste ne' baci
Interminate paci!

Oh favolosi prati d'Elisio,
Pieni di cetre, ai ludi eroici
E del purpureo raggio
Di non fallace maggio,

Ove in disparte bisbigliando errano
(Né patto umano né destin ferreo
L'un da l'altra divelle)
I poeti e le belle!

[ 21-27 maggio 1872 ].

LXV
UNA RAMA D'ALLORO
Io son, Dafne, la tua greca sorella,
Che vergin bionda su 'l Peneo fuggia
E verdeggiai pur ieri arbore snella
Per l'Appia via.

Tra i cippi e i negri ruderi soletta
Sotto il ciel triste io memore sognava
D'un tumulo ignorato in su la vetta,
E riguardava.


Guardava i colli ceruli del Lazio,
E a l'aura che da Tivoli traea
Inchinandomi i fulgidi d'Orazio
Carmi dicea.

Mi udivano gli uccelli, e saltellanti
Per l'aer freddo su i nudati rami
A le rose ed al maggio e al sole e a i canti
Facean richiami.

Ahi sempre infesti a me i poeti fûro!
M'invidiò Enotrio a' sassi antichi e pii,
E tra le mani del poeta duro
Inaridii.

Avvolta in serto, oh, foss'io stata ombrella
A la tua fronte! su la chioma nera
Come esultato avrei, dolce sorella,
Io verde e altera!

E ne la lingua che tra noi s'intende,
China a l'orecchio puro e delicato,
Gli elleni amori e l'itale leggende
T'avrei cantato.

L'occhio tuo mesto a le fraterne note
Sorriso avrebbe con ardor gentile,
E rifiorito de le molli gote
Saria l'aprile.

Roma, 18 marzo 1877.


Giosuè Carducci
Centenario della morte
Giosuè Carducci
Rime Nuove
Bologna, N. Zanichelli