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Giosuè Carducci - RIME NUOVE





























































Rime nuove



La raccolta Rime nuove, in nove libri, che raccoglie i componimenti scritti tra il 1861 e il 1887, testimonia una svolta, non cessa l'impegno civile, ma esso si spoglia dei panni satirici, ironici, di protesta che caratterizzavano Giambi ed epodi, e accanto a questo emerge una marcata vena elegiaca che percorre in lungo e in largo tutto il libro. Le radici di questo mutamento sono ravvisabili probabilmente, in un avvenimento biografico. Infatti nel 1871 conosceva e si innamorava dell'allora ventiseienne Carolina Cristofori. L'idillio amoroso durò un decennio, fino a quel fatidico 25 febbraio del 1881 quando la povera Lina moriva a soli trentasei anni, di tubercolosi. La musa lo ispirò e gli aprì il cuore e le sue poesie assunsero tonalità più soavi e delicate. Lo stimolo alla lettura di autori stranieri, che ella donna di grande cultura (conosceva infatti il francese, il tedesco e l'inglese) e sensibilità artistico-poetica gli infuse, contribuì a scuotere un po' di quell'accademismo libresco in cui era caduto e ad una modernizzazione della sua poesia. Si tratta in effetti di un opera multiforme non solo per le tematiche ma anche per i metri, anche se per un discepolo di Orazio questo poteva essere piuttosto normale. Il primo e l'ultimo libro contengono un componimento ciascuno, rispettivamente Alla Rima e Congedo. Nel primo si fa un po' la storia della rima con intento apologetico, intendendo rispondere all'articolo di Domenico Gnoli, uscito nel numero di dicembre del 1876 sulla "Nuova antologia", che la screditava. Essa si spinge tra moti dell'animo e "volgimenti di danza" tra "piè de' mietitori" e "virtù de' vincenti". Una rima epica quella delle Chansons des gestes si trasforma in poesia trovadorica e d'amore. Ed essa camaleonticamente muta, piegandosi alle lusinghe di Dante e trionfa pur combattuta e riverita tra i moderni. Nel Congedo il poeta traccia la sua figura e la sua arte partendo da ciò che egli non vuol essere, un poeta parassita e cortigiano, un perdigiorno sognatore romantico o un verseggiatore utilitaristico, e giungendo all'icona del poeta artiere tutto muscoli, che piega alle regola del metro e della rima anche i sentimenti più alti e che forgia con il battere e ribattere sull'incudine una poesia vigorosa e sana ma anche varia che canta, le glorie, le memorie, la libertà, la convivialità, la vittoria. L'ispirazione, il furor poetico che ha in se un qualcosa di misterioso e divino, viene lavorato a prezzo di grande fatica ma con la gioia di contemplare l'altezza del proprio genio. Il resto della raccolta vede prevalere, nel secondo libro, tematiche intimistiche e personali oltre all'elogio dei grandi spiriti dell'arte e dell'azione. Una dimensione metapoetica domina la prima parte del secondo libro ed egli vuole pagare il suo tributo poetico ai grandi maestri quali Omero, Virgilio, Dante, Ariosto. Ad Omero dedica tre sonetti, in cui c'è un'iniziale atmosfera cupa (I), infatti il monte degli dei, l'Olimpo, è divenuto un ossario greco-ottomano, lo Scamandro è stato empiamente deviato dal suo corso, ma se pur ci saranno nuove invasioni (II), si leva una certezza, la poesia di Omero attraverserà i secoli divenendo immortale come: "Ercole dalle pire d'Eta fumanti al seno d'Ebe". Ma lo iato tra "le grotte di Calipso bionda", Circe seduttrice, la splendida Nausicaa e il presente (III), egli lo preannuncia già in quei "giudici cumei" che allontanarono Omero, ma esplode nei versi finali con l'amara considerazione che (vv. 12-14):"E se tu ritornassi al nostro mondo, / Novo Glauco per te non troverei: / Niun ti darebbe un soldo, o vagabondo". Nel sonetto X, dedicato a Virgilio, la luna dal bianco chiarore che illumina il "rio", immagine sempre cara al "divin poeta", fa da preludio alla melodia dell'usignolo e al "viatore" che pensa a colei che amò, dimenticando il tempo passato e presente. La madre che piange il figlio perduto pur s'acquieta, volgendo gli occhi dalla tomba a quel mite chiarore del cielo mentre allietano gli animi i monti e il mare lontano e tra la fronde spira una fresca aura, il verso virgiliano, che invade, sì dolce e rasserenante, l'animo del poeta. L'ultimo verso è traduzione del v. 45 dell'ecloga V, delle Bucoliche di Virgilio. In Dante, rifiuta gli ideali religiosi e politici che lo guidarono nella composizione e celebra la sua poesia, come un "possesso per sempre", dal momento che resiste alla storia e agli ideali stessi. In Dietro un ritratto, il divin lombardo, Ariosto, dopo aver ultimato l'Orlando Furioso, rendendosi conto in che condizioni era il mondo, non volle ossequio di "prence" e di "volgo" o amore di "teologal donna", bensì di donna reale, Alessandra Benucci. Il dualismo vita-morte percorre poi, Funere mersit acerbo, in cui il Carducci affida il figlioletto Dante all'omonimo fratello che riposa accanto al padre, Michele, "[…] su la fiorita / Collina tòsca […]". Ma esso si perpetua anche nelle quartine anacreontiche di Pianto antico, ove il ricordo, la memoria, appare ammantata di primavera, di colore e calore in quanto si tratta di un passato vitale. Ma quell'albero inaridito, metafora del poeta scosso dal dolore e privo di speranze, è il primo passo verso la degradazione, lo scolorimento, la decomposizione esistenziale e il freddo delle morte, che connota invece il presente. La lirica si ispira come ricorda Manara Valgimigli, ai versi di un carme funebre per Bione, attribuito a Mosco, poeta bucolico alessandrino del II sec. a.C.. Il tema dell'amore per Lina, emerge in Panteismo in cui il poeta non svela mai a nessuno il nome della sua amata, ma è l'eco del suo animo a dichiararsi alla natura e tutt'intorno si alza un chiacchierio tra i vari elementi e esseri finché il "gran tutto" gli mormora: "Ella t'ama". Anche lui fosco poeta ha ceduto, quindi, ad Amore, ineluttabile. Ma i frangenti amorosi non furono sempre così sereni tant'è che in Anacreontica romantica, egli escogita di seppellire Amore, in modo da liberarsi di esso. Ma come un vampiro egli si sveglia nottetempo e opprime e vessa la mente del poeta con ricordi e immagini della donna amata. Allora solo un esorcismo fatto di disprezzo e vino può spezzare questo servitium amoris. Ed è proprio la fine di quest'amore a spingerlo in Tedio invernale, a domande esistenziali avvolte da una trasognata atmosfera mitologica da aurea aetas e così il mondo classico-epico è un trionfo di luce e purezza, di bellezza e amore, di virtù e gloria, mentre l'"ora" ha tutto il sapore di una caliginosa, nebbiosa, giornata invernale. Elemento fondamentale della musa carducciana è anche la componente paesaggistica. Traversando la Maremma toscana, si caratterizza per la fusione tra il rigoglio ambientale abilmente tratteggiato e la dimensione della memoria. In essa la natura natia, forgia il carattere sdegnoso e passionale del poeta ed è anche catartica, infatti quando si addensa un atro sconforto, basta uno sguardo all'orizzonte per rasserenarsi. Anche in Idillio maremmano protagonista è la natura, fiorente e piena di colori, in cui si muove la bionda Maria. Questa realtà povera ma sincera, alletta moltissimo il "grande artiere", che ben volentieri avrebbe preferito vivere qui e non essersi sfinito dietro al verso o ad indagare l'universo. L'immagine finale del novellare, accanto al focolare, di imprese nella caccia conferisce, se ce ne fosse bisogno, un colore ancor più paesano e diventa un'attività migliore e più soddisfacente del "suonare dietro ai vigliacchi d'Italia e Trisottini". Già a partire dal quarto libro egli prefigura con le tre Primavere elleniche, la stagione delle Odi barbare, come un ritorno alla "rosea serenità dei greci" che vuol essere una reazione contro il "brutto" della realtà. Nella Eolica, c'è una spinta, che convince il poeta e la donna, ad abbandonare i rovelli della vita civile e politica, le ristrettezze e le pene del vivere quotidiano, per giungere in un mondo sereno e incontaminato dove la bellezza e la giovinezza sono imperiture, è la Grecia mai vista, ma ricreata dalla fantasia del poeta. I due spiriti ormai fusi con la nuova realtà, fuggono e dimenticano "le occidue macchiate rive". Il poeta nella Dorica, invita Lina a seguirlo in un viaggio nell'"isola bella", la Sicilia, anche qui mai vista ma delineata attraverso i miti di Aci e Galatea. Qui egli non cercherà gli edifici eminenti dei tiranni dove risuonò il verso di Pindaro, ma le amene e selvose valli, dove sboccia l'idillio e nasce il canto di Teocrito. Si affollano intorno alla donna amata, numi omerici e ninfe che per liberarla della mestizia la accompagnano in luoghi inaccessibili e gli svelano segreti reconditi. Ma il poeta teme che gliela possano sottrarre e quindi dichiara che sarà lui a consolarla con la sua poesia che non ha nulla da invidiare a quella degli antichi. L'ultima, l'Alessandrina, poco ellenistica, dominata com'è dal senso della morte è ispirata da una visita cimiteriale si articola in visioni sepolcrali in cui risplende il binomio amore - morte. In una fredda giornata di maggio, piovosa e ventosa, la figura dell'amata risalta languida e rabbrividente e si muove verso l'eterna primavera dell'Eliso classico. La storia è trasformata in ballata, teatralizzata, come avviene per La leggenda di Teodorico. Nata da una contaminazione di due leggende "la germanica odinica l'italiana cattolica" e concepita dopo la visione ispiratrice delle formelle del duomo di San Zeno in Verona, si snoda, sul ritmo della ballata popolare, in una caccia fatale in cui l'empio predatore si trasforma in supplice e blasfema preda, lui che aveva ucciso papa Giovanni I, Boezio e Simmaco, e finisce precipitato da un "nero caval" nei crateri di Lipari. La visione finale con l'apparizione di Boezio non è di motivazione religiosa ma serve per sottolineare una volta ancora, la superiorità del mondo latino. Le vicende storiche e politiche dei comuni dei primi secoli del anno mille attrassero molto l'interesse di Carducci e la sua penna spesso tratteggia mirabili bozzetti anche se non di rado punteggiati di quel sogno e di quella immaginazione che già altrove abbiamo visto viva e operante, del resto si tratta pur sempre di poesia. Ne Il comune rustico, si assiste ad una ricostruzione fantastica della vita di un comune del mille. Dalla prima parte di impostazione paesaggistico-temporale, si passa poi alla presentazione di gesti e sentimenti semplici, quali le distribuzioni delle terre, la difesa, la paura delle donne. La polemica mette in evidenza come questa realtà semplice ma virtuosa e virile è scomparsa e si è dissolta in un mondo di corruzione quale quello attuale. Mentre in Faida di comune, si presenta una vicenda di un dissidio locale tra Pisa e Lucca sul possesso di alcuni paesi, che era nato susseguentemente ad un estremo tentativo di mediazione, fallito per l'arroganza dei legati lucchesi. Nonostante il colore locale, la vitalità di alcune scene come quelle dell'arruolamento dei pisani, la crudezza di altre come quella finale di Tigrin Sassetta che trafigge un prigioniero per due volte, si nota una certa mancanza di approfondimento storico e tutto si gioca su una alterigia, una iubris, piuttosto aneddotica, personificata da Bonturo Dati, punita dalla tisis pisana, di cui è emblema Banduccio di Buonconte. Il grottesco domina la pur storicissima figura dell'imperatore, in La ninnananna di Carlo V, delineandolo come ricettacolo di tutti i mali che quasi per una nemesi storica gli deriverebbero dalla sua triplice stirpe. Questo sembra un po' richiamare il motivo della triplice alleanza avversata dal Carducci, conclusa dall'Italia con Prussia e Austria nel 1882, in barba alle terre "irredente". Il settimo libro, costituito dai dodici sonetti del Ça ira, è teatro della vittoria dei repubblicani francesi (1972) contro le resistenze interne dei nobili e l'invasione degli eserciti austro - prussiani che volevano restaurare la monarchia. Duplice e quindi la linea di azione dei personaggi che si muovono in questa pagina poetica in onore della Rivoluzione. Quella dei Ça ira, è una storia liviana, che vive di grandi gesti estremi e teatrali, di figure che da sole offuscano la scena come Kleber "dagli arruffati cigli / leone ruggente" e Hoche "sublime", Beaurepaire che alla resa di Verdun risponde con la vita, per non cadere in mano nemica e i titanici Domouriez e Kellermann che sconfissero gli austro-prussiani a Valmy e risente delle opere di Michelet e Blanc. Le traduzioni dal francese, dallo spagnolo, dal portoghese e soprattutto dal tedesco (Heine, Goethe, Platen) caratterizzano l'ottavo libro. Con questa attività c'è una legittimazione del grande romanticismo europeo, quello prima maniera, che al nostro poeta piacque tanto. Ma il lavoro non si ridusse a pedisseque traduzioni, ma a vere e proprie contaminazioni e libere interpretazioni che fondevano il carducciano sentire con gli spunti europei. Ne La figlia del re degli elfi, ballata popolare danese, la figlia rappresenta la forza misteriosa e malvagia della natura, l'invidia e la perfidia tese ad ostacolare e a distruggere la felicità altrui. Fonde due romanze spagnole e una portoghese per creare Il passo di Roncisvalle. Il padre Carlo Magno, scopre che nelle schiere che hanno combattuto contro i Mori, manca Beltrano, suo figlio. Lui stesso va a cercarlo per valli, pianure, strade sterrate, foreste, di giorno e di notte e con il cuore in gola e gli occhi invasi dalle lacrime. Ormai persa ogni speranza di ritrovarlo, in lui l'animo altero prevale e lo porta a maledire tutto, finanche sua moglie che gli ha dato un solo figlio. Ma quando lo ritrova ormai morto, grazie ad una indicazione, l'ira si scioglie in commozione e rampogna il cavallo per non averlo portato in salvo e curiosamente il cavallo gli risponde. Da Platen trae Il pellegrino davanti a San Just, meta coventuale, ultima dimora di Carlo V, dove si rifugiò, stanco e sconsolato, scendendo dal soglio imperiale. La protesta è viva e si rinfocola in L'Imperatore della Cina (da Heine) in cui Carducci dipinge la figura del re di Prussia, Federico Guglielmo IV, che in preda ai fumi della "zozza" (bevanda alcoloolica), vede aprirsi davanti a se un panorama splendido. La realtà è ben diversa ed è eloquente che il Carducci prenda in prestito una realtà arretrata e chiusa in se stessa come quella della Cina per delineare la situazione prussiana nel suo ritorno ad un retrivo regime aristocratico-feudale. Sempre rileggendo Heine ne I tessitori riprende la voce dei lavoratori della Bassa Slesia che nel 1872 si erano ribellati e che maledicono l'alleanza della religione, del re, della patria. Il nostro poeta alla fine degli anni settanta inizia a inserirsi, a calarsi e irreggimentarsi in quella realtà da lui molto spesso combattuta. Dopo gli antagonismi giovanili e le imprecazioni contro la borghesia ora, visti gli esiti poco felici fino ad allora raggiunti vuole tendere ad un miglioramento dall'interno.





Pagina tratta da: giosuecarducci.iitalia.com/

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
LIBRO QUINTO

LXVI
RIMEMBRANZE DI SCUOLA
Era il giugno maturo, era un bel giorno
Del vital messidoro, e tutta nozze
Ne gli amori del sole ardea la terra.
Igneo torrente dilagava il sole
Pe' deserti del cielo incandescenti,
E al suo divino riso il mar ridea.
Non rideva io fanciullo: il nero prete
Con voce chioccia bestemmiava Io amo,
Ed un fastidio era il suo viso: intanto
A la finestra de la scuola ardito
S'affacciava un ciliegio, e co' i vermigli
Frutti allegro ammiccava e arcane storie
Bisbigliava con l'aura. Onde, obliato
Il prete e de le coniugazioni
In su la gialla pagina le file
Quai di formiche ne la creta grigia,
Io tutto desioso liberava
Gli occhi e i pensier per la finestra, quindi
I monti e il cielo e quinci la lontana
Curva del mare a contemplar. Gli uccelli
Si mescean ne la luce armonizzando
Con mille cori: a i pigolanti nidi
Parlar, custodi pii, gli alberi antichi
Pareano e gli arbuscelli a le ronzanti
Api ed i fiori sospirare al bacio
De le farfalle; e steli ed erbe e arene
Formicolavan d'indistinti amori
E di vite anelanti a mille a mille
Per ogni istante. E li accigliati monti
Ed i colli sereni e le ondeggianti
Mèssi tra i boschi ed i vigneti bionde,
E fin l'orrida macchia ed il roveto

E la palude livida, pareano
Godere eterna gioventù nel sole.
Quando, come non so, quasi dal fonte
D'essa la vita rampollommi in cuore
Il pensier de la morte, e con la morte
L'informe niente; e d'un sol tratto, quello
Infinito sentir di tutto al nulla
Sentire io comparando, e me veggendo
Corporalmente ne la negra terra
Freddo, immobile, muto, e fuor gli augelli
Cantare allegri e gli alberi stormire
E trascorrere i fiumi ed i viventi
Ricrearsi nel sol caldo irrigati
De la divina luce, io tutto e pieno
L'intendimento de la morte accolsi;
E sbigottii veracemente. Anch'oggi
Quel fanciullesco imaginar risale
Ne la memoria mia; quindi, sì come
Gitto di gelid'acqua, al cor mi piomba.
Bologna, novembre 1871.

LXVII
IDILLIO DI MAGGIO
Maggio, idillio di Dante e Beatrice,
Che di tentazioni
Le vie, d'acacie infiori la pendice,
Le case di mosconi:

Maggio, che sovra l'ossa ed i carcami
Rose educhi e viole,
Ed al postribol de la vita chiami
Divin lenone il sole:

Con le dolci memorie e i cari affanni,
Maggio, da me che vuoi?
Le sono storie omai di tremil'anni;
Vecchio maggio, m'annoi!


Va', molli sonni reca e susurranti
Ombre a pastori e cani,
A Maria fiori e litanie, briganti
De l'arsa Puglia a i piani:

Va' da maggesi e da nidi e da fronde
Ti cantin selve e prati,
E ti bestemmi chi ne l'ossa asconde
Di Venere i peccati:

A questo tuo, che fra cortili e mura
M'irride, etico raggio,
Io tempro una canzon forte e sicura,
E te la gitto, o maggio.

Lo so: roseo fra' tuoi molli vapori
Espero in ciel ridea,
E tra le prime stelle e i primi fiori
Ella uscì come dea.

De le viole onde avea colmo il grembo
Gittommi; e il volto ascose,
E fuggì. Sento il suo ceruleo lembo
Sibiliar tra le rose

Ancora: ancor su la sua testa bella
Soavemente inchina
Vedo tremar dal puro ciel la stella,
La stella vespertina.

E da la valle un fremito salìa,
Un nembo inebriante;
E correa per i colli un'armonia;
Ed io pensava, o Dante,

A te, quando t'arrise un verecondo
Viso tra i bianchi veli,
E tu sentivi piovere su 'l mondo
Amor da tutti i cieli.


– Come al sol novo un desio di viola
S'apre il mio cuore a te.
La costoletta mi ritorna a gola:
Fa' venire il caffè. –

Così diceami un giorno de i cortesi
Ippocastani al rezzo.
Deh, quante dinastie di re cinesi
Passaro in questo mezzo?

Or son quell'io? e questo è quel mio cuore,
Questo che in sen mi batte,
Qual procellosa l'ala del condore
Su l'alte selve intatte?

Oh come solo il mio pensiero è bello
Ne la sua forza pura!
Oh come scolorisce in faccia a quello
Questa vecchia natura!

Oh come è gretta questa mascherata
Di rose e di viole!
Questa volta del ciel come è serrata!
Come sei smorto, o sole!
Bologna, maggio 1869 [ - novembre 1872 ].

LXVIII
IDILLIO MAREMMANO
Co 'l raggio de l'april nuovo che inonda
Roseo la stanza tu sorridi ancora
Improvvisa al mio cuore, o Maria bionda;

E il cuor che t'obliò, dopo tant'ora
Di tumulti oziosi in te riposa,
O amor mio primo, o d'amor dolce aurora.

Ove sei? senza nozze e sospirosa
Non passasti già tu; certo il natio
Borgo ti accoglie lieta madre e sposa;


Ché il fianco baldanzoso ed il restio
Seno a i freni del vel promettean troppa
Gioia d'amplessi al marital desio.

Forti figli pendean da la tua poppa
Certo, ed or baldi un tuo sguardo cercando
Al mal domo caval saltano in groppa.

Com'eri bella, o giovinetta, quando
Tra l'ondeggiar de' lunghi solchi uscivi
Un tuo serto di fiori in man recando,

Alta e ridente, e sotto i cigli vivi
Di selvatico fuoco lampeggiante
Grande e profondo l'occhio azzurro aprivi!

Come 'l cìano seren tra 'l biondeggiante
Or de le spiche, tra la chioma filava
Fioria quell'occhio azzurro; e a te d'avante

La grande estate, e intorno, fiammeggiava;
Sparso tra' verdi rami il sol ridea
Del melogran, che rosso scintillava.

Al tuo passar, siccome a la sua dea,
Il bel pavon l'occhiuta coda apria
Guardando, e un rauco grido a te mettea.

Oh come fredda indi la vita mia,
Come oscura e incresciosa è trapassata!
Meglio era sposar te, bionda Maria!

Meglio ir tracciando per la sconsolata
Boscaglia al piano il bufolo disperso,
Che salta fra la macchia e sosta e guata,

Che sudar dietro al piccioletto verso!
Meglio oprando obliar, senza indagarlo,
Questo enorme mister de l'universo!


Or freddo, assiduo del pensiero il tarlo
Mi trafora il cervello, ond'io dolente
Misere cose scrivo e tristi parlo.

Guasti i muscoli e il cuor da la rea mente,
Corrose l'ossa dal malor civile,
Mi divincolo in van rabbiosamente.

Oh lunghe al vento sussurranti file
De' pioppi! oh a le bell'ombre in su 'l sacrato
Ne i dì solenni rustico sedile,

Onde bruno si mira il piano arato
E verdi quindi i colli e quindi il mare
Sparso di vele, e il campo santo è a lato!

Oh dolce tra gli eguali il novellare
Su 'l quieto meriggio, e a le rigenti
Sere accogliersi intorno al focolare!

Oh miglior gloria, a i figliuoletti intenti
Narrar le forti prove e le sudate
Cacce ed i perigliosi avvolgimenti

Ed a dito segnar le profondate
Oblique piaghe nel cignal supino,
Che perseguir con frottole rimate

I vigliacchi d'Italia e Trissottino.

Aprile 1867 [ settembre 1872 ].

LXIX
CLASSICISMO E ROMANTICISMO
Benigno è il sol; de gli uomini al lavoro
Soccorre e allegro l'ama:
Per lui curva la vasta messe d'oro
Freme e la falce chiama.


Egli alto ride al vomero che splende
In tra le brune zolle
Umido, mentre il bue lento discende
Il risolcato colle.

Sotto il velo de' pampini i gemmanti
Grappoli infiamma e indora,
E a gli ebri de l'autunno ultimi canti
Mesto sorride ancora.

Egli de la città fra i neri tetti
Un suo raggio disvia,
E a la fanciulla va che i giovinetti
Dì nel lavoro oblia,

E una canzon di primavera e amore
Le consiglia; a lei balza
Il petto, e ne la luce il canto e il cuore,
Come lodola, inalza.

Ma tu, luna, abbellir godi co 'l raggio
Le ruine ed i lutti;
Maturar nel fantastico viaggio
Non sai né fior né frutti.

Dove la fame al buio s'addormenta,
Tu per le impòste vane
Entri e la svegli, a ciò che il freddo senta
E pensi a la dimane.

Poi su le guglie gotiche ti adorni
Di lattei languori,
E civetti a' poeti perdigiorni
E a' disutili amori.

Poi scendi in camposanto: ivi rinfreschi
Pomposa il lume stanco,
E vieni in gara con le tibie e i teschi
Di baglior freddo e bianco.




Odio la faccia tua stupida e tonda,
L'inamidata cotta,
Monacella lasciva ed infeconda,
Celeste paolotta.

[ Settembre 1869 - 13 febbraio 1873].

LXX
VENDETTE DELLA LUNA
Te, certo, te, quando la veglia bruna
Lenti adduceva i sogni a la tua culla,
Te certo riguardò la bianca luna,
Bianca fanciulla.

A te scese la dea ne la sua stanca
Serenitade e con i freddi baci
China al tuo viso – O fanciulletta bianca,
Disse – mi piaci. –

E al fatal guardo, ove or s'annega e perde
L'anima mia, piovea lene il gentile
Tremolar del suo lume entro una verde
Notte d'aprile.

Ti deponea tra i labbri la querela
De l'usignuolo al frondeggiante maggio,
Quando la selva odora e argentea vela
Nube il suo raggio;

E del languor niveo fulgente, ond'ella
Ride a l'Aurora da le rosee braccia,
Ti diffondeva la persona bella,
La bella faccia:

Onde a' cari occhi tuoi, dal cui profondo
Tutto lampeggia quel che ama e piace,
Nel roseo tempo che sorride il mondo
Io chiesi pace:


Pace al tuo riso, ove fiorisce pura
La voluttà che nel mio spirto dorme,
E che promesso m'ha l'alma natura
Per mille forme.

Ahi, ma la tua marmorea bellezza
Mi sugge l'alma, e il senso de la vita
M'annebbia; e pur ne libo una dolcezza
Strana, infinita:

Com'uom che va sotto la luna estiva
Tra verdi susurranti alberi al piano;
Che in fantastica luce arde la riva
Presso e lontano,

Ed ei sente un desio d'ignoti amori
Una lenta dolcezza al cuor gravare,
E perdersi vorria tra i muti albori
E dileguare.

Febbraio-marzo 1873.

LXXI
Da la qual par ch'una stella si mova
G. CAVALCANTI
Era un giorno di festa, e luglio ardea
Basso in un'afa di nuvole bianche:
Ne la chiesa lombarda il dì scendea
Per le bifori giallo in su le panche.
Da la porta arcuata, che i leoni
Millenni di granito ama carcar,
Il rumor de la piazza e le canzoni
E i muggiti veniano in fra gli altar.

La messa era cantata, ed i boati
De l'organo chiamavano il Signore.
In fondo de la chiesa due soldati
Guardavan fisi ne l'altar maggiore.

Tra quella festa di candele accese,
Tra quella pompa di broccati e d'òr.
Ei pensavan la chiesa del paese
Nel mese di Maria piena di fior.

Sotto la volta d'una bruna arcata,
In tra due rosse colonnette snelle,
Stava la bella donna inginocchiata,
Giunte le mani, senza guanti, belle.
Umido a la piumata ombra del nero
Cappello il nero sguardo luccicò,
E in un lampo di fede il suo mistero
Quel fior di giovinezza a Dio mandò.

Io vidi, come un dì Guido vedea,
Uscir da quei levati occhi una stella,
E da i labbri, che a pena ella movea,
Un'alata figura d'angelella.
La stella tremolando un lume pio
Sorridea, sorridea, non so a che;
Salìa la supplicante angela a Dio
Chiamando in atti – Signor mio, mercé.

Si volse il prete a dire: Ite. Potente
Ruppe il sole a le nubi sormontando,
E incoronò d'un'iride scendente
La bella donna che sorgea pregando.
Corse tra le figure bizantine
Vermiglio un riso come di pudor;
Ma la Madonna le pupille chine
Tenea su 'l figlio, e mormorava – Amor.

11-12 luglio 1881.

LXXII
DAVANTI SAN GUIDO

I cipressi che a Bolgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar,
Quasi in corsa giganti giovinetti
Mi balzarono incontro e mi guardâr.

Mi riconobbero, e – Ben torni omai –
Bisbigliaron vèr me co 'l capo chino –
Perché non scendi? perché non ristai?
Fresca è la sera e a te noto il cammino.

Oh sièditi a le nostre ombre odorate
Ove soffia dal mare il maestrale:
Ira non ti serbiam de le sassate
Tue d'una volta: oh, non facean già male!

Nidi portiamo ancor di rusignoli:
Deh perché fuggi rapido così?
Le passere la sera intreccian voli
A noi d'intorno ancora. Oh resta qui!

– Bei cipressetti, cipressetti miei,
Fedeli amici d'un tempo migliore,
Oh di che cuor con voi mi resterei –
Guardando io rispondeva – oh di che cuore!

Ma, cipressetti miei, lasciatem'ire:
Or non è più quel tempo e quell'età.
Se voi sapeste!... via, non fo per dire,
Ma oggi sono una celebrità.

E so legger di greco e di latino,
E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtù;
Non son più, cipressetti, un birichino,
E sassi in specie non ne tiro più.


E massime a le piante. – Un mormorio
Pe' dubitanti vertici ondeggiò,
E il dì cadente con un ghigno pio
Tra i verdi cupi roseo brillò.

Intesi allora che i cipressi e il sole
Una gentil pietade avean di me,
E presto il mormorio si fe' parole:
– Ben lo sappiamo: un pover uomo tu se'.

Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse
Che rapisce de gli uomini i sospir,
Come dentro al tuo petto eterne risse
Ardon che tu né sai né puoi lenir.

A le querce ed a noi qui puoi contare
L'umana tua tristezza e il vostro duol;
Vedi come pacato e azzurro è il mare,
Come ridente a lui discende il sol!

E come questo occaso è pien di voli,
Com'è allegro de' passeri il garrire!
A notte canteranno i rusignoli:
Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire;

I rei fantasmi che da' fondi neri
De i cuor vostri battuti dal pensier
Guizzan come da i vostri cimiteri
Putride fiamme innanzi al passegger.

Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,
Che de le grandi querce a l'ombra stan
Ammusando i cavalli e intorno intorno
Tutto è silenzio ne l'ardente pian,

Ti canteremo noi cipressi i cori
Che vanno eterni fra la terra e il cielo:
Da quegli olmi le ninfe usciran fuori
Te ventilando co 'l lor bianco velo;


E Pan l'eterno che su l'erme alture
A quell'ora e ne i pian solingo va
Il dissidio, o mortal, de le tue cure
Ne la diva armonia sommergerà. –

Ed io – Lontano, oltre Appennin, m'aspetta
La Tittì – rispondea –; lasciatem'ire.
È la Tittì come una passeretta,
Ma non ha penne per il suo vestire.

E mangia altro che bacche di cipresso;
Né io sono per anche un manzoniano
Che tiri quattro paghe per il lesso.
Addio, cipressi! addio, dolce mio piano! –

– Che vuoi che diciam dunque al cimitero
Dove la nonna tua sepolta sta? –
E fuggìano, e pareano un corteo nero
Che brontolando in fretta in fretta va.

Di cima al poggio allor, dal cimitero,
Giù de' cipressi per la verde via,
Alta, solenne, vestita di nero
Parvemi riveder nonna Lucia:

La signora Lucia, da la cui bocca,
Tra l'ondeggiar de i candidi capelli,
La favella toscana, ch'è sì sciocca
Nel manzonismo de gli stenterelli,

Canora discendea, co 'l mesto accento
De la Versilia che nel cuor mi sta,
Come da un sirventese del trecento,
Piena di forza e di soavità.

O nonna, o nonna! deh com'era bella
Quand'ero bimbo! ditemela ancor,
Ditela a quest'uom savio la novella
Di lei che cerca il suo perduto amor!


– Sette paia di scarpe ho consumate
Di tutto ferro per te ritrovare:
Sette verghe di ferro ho logorate
Per appoggiarmi nel fatale andare:

Sette fiasche di lacrime ho colmate,
Sette lunghi anni, di lacrime amare:
Tu dormi a le mie grida disperate,
E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare. –

Deh come bella, o nonna, e come vera
È la novella ancor! Proprio così.
E quello che cercai mattina e sera
Tanti e tanti anni in vano, è forse qui,

Sotto questi cipressi, ove non spero,
Ove non penso di posarmi più:
Forse, nonna, è nel vostro cimitero
Tra quegli altri cipressi ermo là su.

Ansimando fuggìa la vaporiera
Mentr'io così piangeva entro il mio cuore;
E di polledri una leggiadra schiera
Annitrendo correa lieta al rumore.

Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
Rosso e turchino, non si scomodò:
Tutto quel chiasso ei non degnò d'un guardo
E a brucar serio e lento seguitò.

23-26 dicembre [ 18 agosto 1886].

LXXIII
NOTTE DI MAGGIO
Non mai seren di più tranquilla notte
Fu salutato dalle vaghe stelle
In riva di correnti e lucid'onde;
E tremolava rorida su 'l verde,

Rompendo l'ombre che scendean da' colli,
L'antica, errante, solitaria luna.

Candida, vereconda, austera luna:
Che vapori e tepor per l'alta notte
Salìano a te da gli arborati colli!
Parea che in gara a le virginee stelle
Si svegliasser le ninfe in mezzo il verde,
E un soave susurro era ne l'onde.

Non tale un navigar d'oblio per l'onde
Ebbero amanti mai sotto la luna,
Qual io disamorato entro il bel verde:
Ché solo a i buoni splender quella notte
Pareami, e da gli avelli e da le stelle
Spirti amici vagar vidi su i colli.

O voi dormenti ne i materni colli,
E voi d'umili tombe a presso l'onde
Guardanti in cielo trapassar le stelle;
Voi sotto il fiso raggio de la luna
Rividi io popolar la cheta notte,
Lievi strisciando su 'l commosso verde.

Deh, quanta parte de l'età mia verde
Rivissi in cima a i luminosi colli,
E vinta al basso rifuggìa la notte!
Quando una forma verso me su l'onde,
Disegnata nel lume de la luna,
Vidi, e per gli occhi le ridean le stelle.

Ricorditi: mi disse. Allor le stelle
Furon velate, e corse ombra su 'l verde,
E di sùbito in ciel tacque la luna;
Acuti lai suonarono pe' colli;
Ed io soletto su le flebili onde
Di sepolcro sentii fredda la notte.




Quando la notte è fitta più di stelle,
A me giova appo l'onde entro il bel verde
Mirar su i colli la sedente luna.

28-30 aprile 1885.

LXXIV
ALL'AUTORE DEL MAGO

O Severino, de' tuoi canti il nido,
Il covo de' tuoi sogni io ben lo so.
Ondeggiante di canape è l'infido
Piano che sfugge al curvo Reno e al Po.

Da gli scopeti de la bassa landa
Pigro il pizzaccherin si rizza a volo:
Con gli strilli di chi mercé dimanda
Levasi de le arzàgole lo stuolo,

Stampando l'ombra su per l'acqua lenta
Ove l'anguilla maturando sta.
Oh desio di canzoni, oh sonnolenta
Smania di sogni ne l'immensità!

Oh largo su gli alti argini del fiume
Risplender rosso de l'estiva sera!
Oh palpitante de la luna al lume
Tenero verdeggiar di primavera!

Quando i pioppi contemplano le stelle
Innamorati con lungo sospir,
Ed un lontano suon di romanelle
Viene da' canapai lento a morir!

Allor che agosto cada, o Severino,
E chiamin l'acqua le rane canore,
Noi tornerem poeti a l'Alberino,
Tutti solinghi in bei pensier d'amore;


Ed a' tuoi pioppi ne le notti chete
Noi chiederem con desiosa fé:
– O alti pioppi che tutto vedete,
Ditene dunque: Biancofiore ov'è?

Siede in riva a un bel fiume? o il colle varca
Tessendo al capo un cerchio agil di fiori?
O dentro una sestina del Petrarca
Beata ride i nostri vani amori? –

1 aprile 1884.

LIBRO SESTO

LXXV
I DUE TITANI


PROMETEO
L'avvoltoio, o fratello, il cuor mi lania
Con piaghe eterne e nuove:
Paziente fratel di Mauritania,
Maledetto sia Giove!

ATLANTE
Ed a me il ciel d'astri e di dèi fervente
Gli ómeri grava e il petto:
O di Scizia fratel mio sapiente,
Giove sia maledetto!

PROMETEO
Intorno a questo capo ove signore
Siede il pensiero eterno,
Intorno al sen che alberga tanto amore,
Stride perpetuo verno.


ATLANTE
Libica estate a me le membra incende.
Io brucio: questa pietra
Del granito, che tienmi, al sol si fende
Con un tinnir di cetra.

PROMETEO
In che peccai? La luce, etereo dono,
Arrisi in cuore e in volto
A l'uom: fatto ei l'avea triste e al suol prono,
Il re d'Olimpo stolto.

ATLANTE
Vil tiranno! dieci anni a faccia a faccia
Gli stetti contro in guerra:
Vòlto in bruto, ei fuggì da le mie braccia
Tremando per la terra.

PROMETEO
Ma io so ch'ei morrà, né per preghiere
Gli apro de i fati il velo:
Ond'ei del fulmin tutto dì mi fere,
Il vigliacco del cielo.

ATLANTE
Pomi a me crescon, di sue mense invidia:
L'Esperidi ognor deste
Guàrdanli a me: oh in vano ei me gl'insidia,
Il ghiottone celeste.

PROMETEO
Da lo scitico mare in lunghi manti
Le azzurre Oceanine
A me surgono, e d'inni e di compianti
Mi ghirlandano il crine.

ATLANTE
E a me danzando vengono amorose
Le Pleiadi, fiorenti

Mie figliuole, d'eroi feconde spose,
Madri d'inclite genti.

PROMETEO
Ferma Io la fatal fuga d'avante
A me, la fera faccia
Volgendo: io canto a la divina errante
La gloria ch'è in sua traccia.

ATLANTE
Cirene a me ne l'odorata sera
Spande le trecce belle,
E pie traverso quella chioma nera
Mi rodono le stelle.

-------------------------
Come opposta s'incontra la corrente
Che da' due poli move.
Te il forte ad una voce e il sapiente
Maledicono, o Giove.

Ottobre 1873.

LXXVI
LA LEGGENDA DI TEODORICO
Su 'l castello di Verona
Batte il sole a mezzogiorno,
Da la Chiusa al pian rintrona
Solitario un suon di corno,
Mormorando per l'aprico
Verde il grande Adige va:
Ed il re Teodorico
Vecchio e triste al bagno sta.

Pensa il dì che a Tulna ei venne
Di Crimilde nel conspetto
E il cozzar di mille antenne
Ne la sala del banchetto,

Quando il ferro d'Ildebrando
Su la donna si calò
E dal funere nefando
Egli solo ritornò.
Guarda il sole sfolgorante
E il chiaro Adige che corre,

Guarda un falco roteante
Sovra i merli de la torre;
Guarda i monti da cui scese
La sua forte gioventù,
Ed il bel verde paese
Che da lui conquiso fu.

Il gridar d'un damigello
Risonò fuor de la chiostra:
– Sire, un cervo mai sì bello
Non si vide a l'età nostra.
Egli ha i piè d'acciaro a smalto,
Ha le corna tutte d'òr. –
Fuor de l'acque diede un salto
Il vegliardo cacciator.

– I miei cani, il mio morello,
Il mio spiedo – egli chiedea;
E il lenzuol quasi un mantello
A le membra si avvolgea.
I donzelli ivano. In tanto
Il bel cervo disparì,
E d'un tratto al re da canto
Un corsier nero nitrì.

Nero come un corbo vecchio,
E ne gli occhi avea carboni.
Era pronto l'apparecchio,
Ed il re balzò in arcioni.
Ma i suoi veltri ebber timore
E si misero a guair,

E guardarono il signore
E no 'l vollero seguir.

In quel mezzo il caval nero
Spiccò via come uno strale,
E lontan d'ogni sentiero
Ora scende e ora sale:
Via e via e via e via,
Valli e monti esso varcò.
Il re scendere vorria,
Ma staccar non se ne può.

Il più vecchio ed il più fido
Lo seguia de' suoi scudier,
E mettea d'angoscia un grido
Per gl'incogniti sentieri:
– O gentil re de gli Amali,
Ti seguii ne' tuoi bei dì,
Ti seguii tra lance e strali,
Ma non corsi mai così.

Teodorico di Verona,
Dove vai tanto di fretta?
Tornerem, sacra corona,
A la casa che ci aspetta? –
– Mala bestia è questa mia,
Mal cavallo mi toccò:
Sol la Vergine Maria
Sa quand'io ritornerò. –

Altre cure su nel cielo
Ha la Vergine Maria:
Sotto il grande azzurro velo
Ella i martiri covria,
Ella i martiri accoglieva
De la patria e de la fé;
E terribile scendeva
Dio su 'l capo al goto re.


Via e via su balzi e grotte
Va il cavallo al fren ribelle:
Ei s'immerge ne la notte,
Ei s'aderge in vèr le stelle.
Ecco, il dorso d'Apennino
Fra le tenebre scompar,
E nel pallido mattino
Mugghia a basso il tósco mar.

Ecco Lipari, la reggia
Di Vulcano ardua che fuma
E tra i bómbiti lampeggia
De l'ardor che la consuma:
Quivi giunto il caval nero
Contro il ciel forte springò
Annitrendo; e il cavaliero
Nel cratere inabissò.

Ma dal calabro confine
Che mai sorge in vetta al monte?
Non è il sole, è un bianco crine;
Non è il sole, è un'ampia fronte
Sanguinosa, in un sorriso
Di martirio e di splendor:
Di Boezio è il santo viso,
Del romano senator.

[ Dicembre 1884 - 20 gennaio 1885 ].

LXXVII
IL COMUNE RUSTICO
O che tra faggi e abeti erma su i campi
Smeraldini la fredda orma si stampi
Al sole del mattin puro e leggero,
O che foscheggi immobile nel giorno
Morente su le sparse ville intorno
A la chiesa che prega o al cimitero


Che tace, o noci de la Carnia, addio!
Erra tra i vostri rami il pensier mio
Sognando l'ombre d'un tempo che fu.
Non paure di morti ed in congreghe
Diavoli goffi con bizzarre streghe,
Ma del comun la rustica virtù

Accampata a l'opaca ampia frescura
Veggo ne la stagion de la pastura
Dopo la messa il giorno de la festa.
Il consol dice, e poste ha pria le mani
Sopra i santi segnacoli cristiani:
– Ecco, io parto fra voi quella foresta

D'abeti e pini ove al confin nereggia.
E voi trarrete la mugghiante greggia
E la belante a quelle cime là.
E voi, se l'unno o se lo slavo invade,
Eccovi, o figli, l'aste, ecco le spade,
Morrete per la nostra libertà. –

Un fremito d'orgoglio empieva i petti,
Ergea le bionde teste; e de gli eletti
In su le fronti il sol grande feriva.
Ma le donne piangenti sotto i veli
Invocavan la Madre alma de' cieli.
Con la man tesa il console seguiva:

– Questo, al nome di Cristo e di Maria,
Ordino e voglio che nel popol sia. –
A man levata il popol dicea, Sì.
E le rosse giovenche di su 'l prato
Vedean passare il piccolo senato,
Brillando su gli abeti il mezzodì.

Piano d'Arta, 10-12 agosto 1885.


LXXVIII
SUI CAMPI DI MARENGO
LA NOTTE DEL SABATO SANTO 1175
Su i campi di Marengo batte la luna; fósco
Tra la Bormida e il Tanaro s'agita e mugge un bosco;
Un bosco d'alabarde, d'uomini e di cavalli,
Che fuggon d'Alessandria da i mal tentati valli.

D'alti fuochi Alessandria giù giù da l'Apennino
Illumina la fuga del Cesar ghibellino:
I fuochi de la lega rispondon da Tortona,
E un canto di vittoria ne la pia notte suona:

– Stretto è il leon di Svevia entro i latini acciari:
Ditelo, o fuochi, a i monti, a i colli, a i piani, a i mari.
Diman Cristo risorge: de la romana prole
Quanta novella gloria vedrai dimani, o sole! –

Ode, e, poggiato il capo su l'alta spada, il sire
Canuto d'Hohenzollern pensa tra sé – Morire
Per man di mercatanti che cinsero pur ieri
A i lor mal pingui ventri l'acciar de' cavalieri! –

E il vescovo di Spira, a cui cento convalli
Empion le botti e cento canonici gli stalli,
Mugola – O belle torri de la mia cattedrale,
Chi vi canterà messa la notte di natale? –

E il conte palatino Ditpoldo, a cui la bionda
Chioma per l'agil collo rose e ligustri inonda,
Pensa – Dal Reno il canto de gli elfi per la bruna
Notte va: Tecla sogna al lume de la luna. –

E dice il magontino arcivescovo – A canto
De la mazza ferrata io porto l'olio santo:
Ce n'è per tutti. Oh almeno foste de l'alpe a' varchi,
Miei poveri muletti d'italo argento carchi! –


E il conte del Tirolo – Figliuol mio, te domane
Saluterà de l'Alpi il sole ed il mio cane:
Tuoi l'uno e l'altro: io, cervo sorpreso da villani,
Cadrò sgozzato in questi grigi lombardi piani. –

Solo, a piedi, nel mezzo del campo, al corridore
Suo presso, riguardava nel ciel l'imperatore:
Passavano le stelle su 'l grigio capo; nera
Dietro garria co 'l vento l'imperial bandiera.

A' fianchi, di Boemia e di Polonia i regi
Scettro e spada reggevano, del santo impero i fregi,
Quando stanche languirono le stelle, e rosseggianti
Ne l'alba parean l'Alpi, Cesare disse – Avanti!

A cavallo, o fedeli! Tu, Wittelsbach, dispiega
Il sacro segno in faccia de la lombarda lega.
Tu intima, o araldo: Passa l'imperator romano,
Del divo Giulio erede, successor di Traiano. –

Deh come allegri e rapidi si sparsero gli squilli
De le trombe teutoniche fra il Tanaro ed il Po,
Quando in cospetto a l'aquila gli animi ed i vessilli
D'Italia s'inchinarono e Cesare passò!

6 aprile 1872.

LXXIX
FAIDA DI COMUNE
Manda a Cuosa in val di Serchio,
Pisa manda ambasciatori:
Del comun di santa Zita
Ivi aspettano i signori.

Ecco vien Bonturo Dati,
Mastro in far baratterie:
Ecco Cino ed ecco Pecchio,
Che spazzarono le vie:


Ecco il Feccia ed ecco il Truglia,
Detti ancor bocche di luccio:
Il miglior di tutti è Nello,
Merciaiuol popolaruccio.

Tutti a nuovo in bell'arnese,
Co 'l mazzocchio e con la spada:
Il fruscìo de le lor séte
Empie tutta la contrada.

Il fruscìo de le lor séte
Chiama il popolo a raccolta:
Gran dispregio han su le ciglia:
Parlan tutti in una volta.

Ma Banduccio di Buonconte,
Grave d'anni e più di gloria
(Tre ferite ebbe di punta,
Due di mazza a la Meloria),

Stando a capo de i pisani,
Come vecchio e maggior deve,
Fatto pria cenno d'onore,
Così disse onesto e breve:

– Vincitori sì, ma stanchi
Di contese e cristiani,
Noi veniamo a segnar pace
Co' lucchesi, noi pisani.

Render Buti, Avane, Asciano,
Prometteste: or ce li date.
E viviam, fratelli, in pace,
Se viviamo in libertate. –

Qui Bonturo si fa innanzi
Tra i lucchesi ambasciatori
Di tre passi, e parla adorno
Con retorici colori.


– Bel castello è Avane, e corte
Fu de i re d'Italia un giorno.
Vi si sente a mezza notte
Pe' querceti un suon di corno.

Vi si sente a mezza notte
La real caccia stormire,
Dietro ad una lepre nera
Un caval nero annitrire.

Perché Astolfo longobardo
D'una lepre ebbe contesa
Con l'abate Sighinulfo,
Qual de' due l'avesse presa:

Onde il re venuto in ira
Trasse in faccia al santo abate
Una mazza, e tutte gli ebbe
Le mascelle sgretolate.

Gran ricordi, e, come a seggio
Di marchese, a Lucca grati.
Pure Avane ed i suoi boschi
Noi vogliam che vi sian dati.

Brutto borgo è Buti: a valle
Tra le rocce grige e ignude
Il Riomagno brontolando
Va di Bientina al palude.

Ma su alto oh come belli
D'ubertà ridono i clivi,
Ma su alto oh come lieti
Ne l'april svarian gli ulivi!

Bacchian li uomini le rame,
Le fanciulle fan corona,
E di canti la collina
E di canti il pian risona,


Mentre pregni d'abondanza
Ispumeggiano i frantoi
Scricchiolando. Il ricco Buti
Noi cediam, pisani, a voi.

Ma d'Asciano in van pensate:
Quando a voi lo conquistammo,
Su le torri del castello
Quattro specchi ci murammo,

A ciò che le vostre donne,
Quando uscite a dameggiare,
Negli specchi dei lucchesi
Le si possan vagheggiare. –

E qui surse tra i lucchesi
Uno sconcio suon di risa.
A i pugnali sotto i panni
Miser mano quei di Pisa.

Ma Banduccio di Buonconte
Con un cenno di comando
Frenò l'ire, e, su i lucchesi
Fieramente riguardando,

– Otto giorni – disse, e tese
Contro Lucca avea le mani, –
E vedrete quali specchi
Han le donne de i pisani. –

Sette giorni: e a Pisa, in ponte,
Tra gli albor crepuscolari,
Era accesa una candela
Di sol dodici denari.

Stava presso la candela,
Tremolante nel bagliore,
Co' pennoni del comune
A cavallo un banditore.


E sonava a più riprese
De la tromba, e urlava forte:
– Viva il popolo di Pisa
A la vita ed a la morte!

Cittadini di palagio,
Mercatanti e buoni artieri;
E voi conti di Maremma
Da i selvatici manieri;

Voi di Corsica visconti,
Voi marchesi de' confini;
Voi che re siete in Sardegna
Ed in Pisa cittadini;

Voi che in volta dal levante
Mainaste or or la vela:
Pria che arrossi la Verruca
E si spenga la candela,

Fuori porta del Parlascio,
Su, correte arditamente!
Su, su, popolo di Pisa,
Cavalieri e buona gente!

Fuori porta del Parlascio,
Con gran cuore, a lancia e spada!
Uguccion de la Faggiola
Messo ha in punto la masnada.

Tutto ferro l'ampio busto,
Ed il grande capo ignudo,
Sta su 'l grande caval bianco
E imbracciato ha il grande scudo,

Che ben quattro partigiane
Regge, e, come fosser ceci,
De' lucchesi i verrettoni
Regge infitti a dieci a dieci. –



Così grida il banditore,
E la gente accorre armata.
Va co 'l sole di novembre,
Va la fiera cavalcata.

Va per grige irsute stoppie
Da la brina inargentate,
Va per languidi oliveti,.
Va per vigne dispogliate.

Forte odora per le ville
La vendemmia già matura:
Ahi, quest'anno san Martino
Dà la mala svinatura!

O lucchesi, il vostro santo
Non è più, mi par, con voi.
Il pisan cacciasi avanti
Contadini e carri e buoi,

E battendo ed uccidendo
Corre il misero paese;
Fugge innanzi a quella furia,
Fugge il popolo lucchese.

Così giunge a San Friano
La feroce cavalcata.
Lucca dietro le sue torri
Téme l'ultima giornata.

I pisani oltre le mura
Gittan faci e verrettoni.
– Togli su, pantera druda,
Togli su questi bocconi.

Tali specchi, o Lucca bella,
Pisa manda a le tue donne. –
E rizzaron su la porta
Due lunghissime colonne;


E due specchi in vetta in vetta,
Grandi e grossi come bótti,
V'appiccarono: ed intorno
Menan balli e dicon motti.

Ma Tigrin de la Sassetta,
Faccia ed anima cattiva,
Trasse a corsa pe' capelli
Un lucchese che fuggiva,

E la spada per le reni
Una volta e due gli fisse;
Tinse il dito entro quel sangue,
Su la porta così scrisse:

– Manda a te, Bonturo Dati,
Che i lucchesi hai consigliati,
Da la porta a San Friano
Questo saluto il popolo pisano. –

Marzo 1875.

LXXX
NINNA NANNA DI CARLO V
In Brusselle, a l'ostel, sola soletta,
Di tre giovini sposi vedovetta,
Sta Margherita d'Austria; e s'affretta
Una camicia bianca ad agucchiare.

A lei da canto il nipotino in culla
Con un magro levriero si trastulla:
Ha le mascelle a guisa di maciulla,
Cascante il labbro sotto; e infermo pare.

Di maligna caligine velate
Intorno a lui si volgono tre fate,
E del mal di tre secoli beate
Tessono intorno a lui questo cantare.


– Salve, o fanciul da la faccia cagnazza:
Salve, o figliuol di Giovanna la pazza:
Salve, o pollone de la mista razza
Che dee la terra cristiana aduggiare.

La discordia de i sangui per tre rivi
E il bulicame de i pensier cattivi
E l'accidia de gl'impeti mal vivi
Sale nel tuo cervello a fermentare. –

Poi l'una: – Io son la furia di Borgogna
Che nulla attinge e tutto il mondo agogna.
Io trassi il Temerario con vergogna
Nel toro d'Uri indomito a cozzare.

E boccon giacque, corpo dispogliato,
Tra i ghiacciuoli d'un lago innominato.
Questo l'augurio il simbolo ed il fato
Che lo tuo regno segua in terra e in mare. –

– La vertigine io son – quell'altra dice –
Che tragge Max di pendice in pendice
Per l'alpe del Tirolo: e l'infelice,
Seguendo me, dismenta l'accattare.

Hallalì, hallalì, gente d'Habsburgo!
Ad una caccia eterna io con te surgo;
Poi nel sangue de i popoli mi purgo,
E nel tuo, dal travaglio del cacciare. –

– Ed io son la pazzia – la terza fata
Dice –, e son de la morte innamorata:
La bara per il talamo ho scambiata,
E sol nel cataletto io posso amare.

Non odi tu Giovanna che si lagna?
T'aspetto a Yust. Vuo', sotto il ciel di Spagna,
Perché la razza tua meco rimanga,
Il mostruoso Escurial murare. –


Poi tutt'e tre – Nel cuor tuo brabanzone
Il mezzogiorno ed il settentrione
Saran con torbid'impeti a tenzone.
Per poi in calma livida fiaccare.

O primo ereditario imperatore,
O primo d'Europa accentratore,
Su 'l vecchio tempo che libero muore
Vien' la rete dinastica a gettare.

Su 'l nuovo tempo che libero nasce,
A cui Lutero dislaccia le fasce
E di midolla di pensier lo pasce,
Vien' la rete ecclesiastica a gettare.

E tu, Margotta, cucitrice ardita,
Che in fretta meni su e giù le dita,
La camicia di Nesso è ancor finita?
Presto! vogliam l'Europa imbavagliare.

Piano d'Arta, agosto 1885 [ 1887 ].

LXXXI
A VITTORE HUGO
(XXVII FEBBRAIO MDCCCLXXXI)
Da i monti sorridenti nel sole mattutino
Scende l'epos d'Omero, che va fiume divino
Popolato di cigni pe 'l verde asiaco pian.
Sorge aspra la tragedia d'Eschilo nel fatale
Orror, fuma e lampeggia, e freme e tuona, quale
Sovra il mar di Sicilia per la notte un vulcan.

L'ode olimpia di Pindaro, aquila trionfale,
Distende altera e placida il remeggio de l'ale
Nel fulgente meriggio su i fòri e le città.
Era quei libri di canti, nel mio studio, o Vittore,
La tua canuta effige, piegata nel dolore
La profetica testa su la man destra, sta.







Pensi i figli o la patria? pensi il dolore umano?
Non so; ma quando, o vate, raccolgo in quell'arcano
Dolore gli occhi e il cuor,
Scordo i miei danni antichi, scordo il recente danno.
E rammemoro gli anni che fûro e che saranno
E ciò che mai non muor.

Colsi per l'Appia via sur un tumulo ignoto
E posi a la tua fronte, segnacol del mio vóto,
Un ramuscel d'allòr.
Poeta, a te il trionfo su la forza e su 'l fato!
Poeta, co 'l lucente piede tu hai calcato
Impero e imperator!

Chi novera a te gli anni? che cosa è a te la vita?
Tu di Gallia e di Francia sei l'anima infinita,
Che al tuo gran cuor s'accolse per i secoli a vol.
In te l'urlo de' nembi su la britanna duna,
E i sogni de' normanni piani al lume di luna.
E l'ardor del granito di Pirene erto al sol.

In te la vendemmiante sanità borgognona,
Il genio di Provenza che armonie greche suona,
L'estro che Marna e Senna gallico limitò.
Tu vedevi i tettòsagi carri al grand'Ilio intorno,
Udivi in Roncisvalle del franco Orlando il corno,
Ragionavi a Goffredo a Baiardo a Marceau.

Come quercia druidica sta il tuo fatal lavoro.
Biancovestite muse taglian con falce d'oro
Del sacro visco il fior.
Da' soleggiati rami pendon l'armi de gli avi,
Pendon l'arpe de' bardi; ma l'usignol ne' cavi
Scudi canta d'amor.

Danzan le figlie a l'ombra, del maggio tra i susurri,
E i fanciulletti guardan con i grandi occhi azzurri,
Sparsi i capelli d'òr;

Però ch'ardua la vetta si perde ne la sera,
E vi passa per entro co' lampi e la bufera
Il dio vendicator.

Poeta, su 'l tuo capo sospeso ho il tricolore
Che da le spiaggie d'Istria da l'acqua di Salvore
La fedele di Roma, Trieste, mi mandò.
Poeta, la Vittoria di Brescia a te d'avante
Ne la parete dice – Qual nome e qual fiammante
Anno nel sempiterno clipeo descriverò? –

Passan le glorie come fiamme di cimiteri,
Come scenari vecchi crollan regni ed imperi:
Sereno e fiero arcangelo move il tuo verso e va.
Canta a la nuova prole, o vegliardo divino,
Il carme secolare del popolo latino;
Canta al mondo aspettante, Giustizia e Libertà.

27 febbraio 1881.

LIBRO SETTIMO

ÇA IRA

LXXXII
Lieto su i colli di Borgogna splende
E in val di Marna a le vendemmie il sole:
Il riposato suol piccardo attende
L'aratro che l'inviti a nuova prole

Ma il falcetto su l'uve iroso scende
Come una scure e par che sangue cóle:
Nel rosso vespro l'arator protende
L'occhio vago a le terre inculte e sole,

Ed il pungolo vibra in su i mugghianti
Quasi che l'asta palleggiasse, e afferra
La stiva urlando: Avanti, Francia, avanti!


Stride l'aratro in solchi aspri: la terra
Fuma: l'aria oscurata è di montanti
Fantasimi che cercano la guerra.

11-13 marzo 1883.

LXXXIII
Son de la terra faticosa i figli
Che armati salgon le ideali cime,
Gli azzurri cavalier bianchi e vermigli
Che dal suolo plebeo la Patria esprime.

E tu, Kleber, da gli arruffati cigli,
Leon ruggente ne le linee prime;
E tu via sfolgorante in tra i perigli,
Lampo di giovinezza, Hoche sublime.

Desaix che elegge a sé il dovere e dona
Altrui la gloria, e l'onda procellosa
Di Murat che s'abbatte a una corona;

E Marceau che a la morte radiosa
Puro i suoi ventisette anni abbandona
Come a le braccia d'arridente sposa.

15 marzo 1883.

LXXXIV
Da le ree Tuglierì di Caterina
Ove Luigi inginocchiossi a i preti,
E a' cavalier bretanni la regina
Partìa sorrisi lacrime e segreti,

Tra l'afosa caligin vespertina
Sorge con atti né tristi né lieti
Una forma, ed il fuso attorce e china,
E con la rócca attinge alta i pianeti.


E fila e fila e fila. Tutte sere
Al lume de la luna e de le stelle
La vecchia fila, e non si stanca mai.

Brunswick appressa, e in fronte a le sue schiere
La forca; e ad impiccar questa ribelle
Genia di Francia ci vuol corda assai!

13 marzo 1883.

LXXXV
L'un dopo l'altro i messi di sventura
Piovon come dal ciel. Longwy cadea.
E i fuggitivi da la resa oscura
S'affollan polverosi a l'Assemblea.

– Eravamo dispersi in su le mura:
A pena ogni due pezzi un uom s'avea:
Lavergne disparì ne la paura:
L'armi fallìan. Che più far si potea? –

– Morir – risponde l'Assemblea seduta.
Goccian per que' riarsi volti strane
Lacrime: e parton con la fronte bassa.

Grande in ciel l'ora del periglio passa,
Batte con l'ala a stormo le campane:
O popolo di Francia, aiuta, aiuta!

10 aprile 1883.

LXXXVI
Udite, udite, o cittadini. Ieri
Verdun a l'inimico aprì le porte:
Le ignobili sue donne a i re stranieri
Dan fiori e fanno ad Artois la corte,

E propinando i vin bianchi e leggeri
Ballano con gli ulani e con le scorte.

Verdun, vile città di confettieri,
Dopo l'onta su te caschi la morte!

Ma Beaurepaire il vivere rifiuta
Oltre l'onore, e gitta ultima sfida
L'anima a i fati a l'avvenire e a noi.

La raccolgon dal ciel gli antichi eroi,
E la non nata ancor gente ci grida:
- O popolo di Francia, aiuta, aiuta.

14 aprile 1883.

LXXXVII
Su l'ostel di città stendardo nero
– Indietro! – dice al sole ed a l'amore:
Romba il cannone, nel silenzio fiero,
Di minuto in minuto ammonitore.

Gruppo d'antiche statue severo
Sotto i nunzi incalzantisi con l'ore
Sembra il popolo: in tutti uno il pensiero
– Perché viva la patria, oggi si muore. –

In conspetto a Danton, pallido, enorme,
Furie di donne sfilano, cacciando
Gli scalzi figli sol di rabbia armati.

Marat vede ne l'aria oscure torme
D'uomini con pugnali erti passando,
E piove sangue donde son passati.

27 febbraio 1883.

LXXXIX
Una bieca druidica visione
Su gli spiriti cala e gli tormenta:
Da le torri papali d'Avignone
Turbine di furor torbido venta.


O passion degli Albigesi, o lenta
De gli Ugonotti nobil passione,
Il vostro sangue bulica e fermenta
E i cuori inebria di perdizione.

Ecco la pena e il tribunale orrendo
Che d'ombra immane il secol novo impronta!
Oh, sei la Francia tu, bianca ragazza

Che su 'l tremulo padre alta sorgendo
A espiare e salvar bevi con pronta
Mano il sangue de' tuoi da piena tazza?

Roma, 25 aprile 1883.

LXXXIX
Gemono i rivi e mormorano i venti
Freschi a la savoiarda alpe natia.
Qui suon di ferro, e di furore accenti:
Signora di Lamballe, a l'Abbadia.

E giacque, tra i capelli aurei fluenti,
Ignudo corpo in mezzo de la via;
E un parrucchier le membra anco tepenti
Con sanguinose mani allarga e spia.

– Come tenera e bianca, e come fina!
Un giglio il collo e tra mughetti pare
Garofano la bocca piccolina.

Su, co' begli occhi del color del mare,
Su, ricciutella, al Tempio! A la regina
Il buon dì de la morte andiamo a dare. –

11 febbraio 1883.


XC
Oh non mai re di Francia al suo levare
Tale di salutanti ebbe un drappello!
La fósca torre in quel tumulto pare
Sperso nel mezzodì notturno uccello.

Ivi su 'l medio evo il secolare
Braccio discese di Filippo il Bello,
Ivi scende de l'ultimo Templare
Su l'ultimo Capeto oggi l'appello.

Ecco, mugge l'orribile corteo:
La fiera testa in su la picca ondeggia,
E batte a le finestre. Ed il re prono

Da le finestre de la trista reggia
Guarda il popolo, e a Dio chiede perdono
De la notte di San Bartolommeo
27 marzo 1883.

XCI
Al calpestìo de' barbari cavalli
Ne l'avel si svegliò dunque Baiardo?
E su le dolci orleanesi valli
La Pulcella rileva il suo stendardo?

Da l'Alta Sona e dal ventoso Gardo
Chi vien cantando a i mal costrutti valli
Sbarrati di tronchi alberi? È il gagliardo
Vercingetòrix co' suoi rossi Galli?

No: Dumouriez, la spia, nel cor riscuote
Il genio di Condé: sopra la carta
Militare uno sguardo acceso lancia,

Ed una fila di colline ignote
Additando – Ecco – dice –, o nuova Sparta,
Le felici Termopile di Francia. –
Roma, 27 aprile 1883.


XCII
Su i colli de le Argonne alza il mattino
Brumoso, accidioso e lutolento.
Il tricolor bagnato in su 'l mulino
Di Valmy chiede in vano il sole, e il vento.

Sta', sta', bianco mugnaio. Oggi il destino
Per l'avvenire macina l'evento,
E l'esercito scalzò cittadino
Dà co 'l sangue a la ruota il movimento.

– Viva la patria – Kellermann, levata
La spada in tra i cannoni, urla, serrate
De' sanculotti l'epiche colonne.

La marsigliese tra la cannonata
Sorvola, arcangel de la nova etate,
Le profonde foreste de le Argonne.
30 marzo 1883.

XCIII
Marciate, o de la patria incliti figli,
De i cannoni e de' canti a l'armonia:
Il giorno de la gloria oggi i vermigli
Vanni a la danza del valore apria.

Ingombra di paura e di scompigli
Al re di Prussia è del tornar la via:
Ricaccia gli emigrati a i vili esigli
La fame il freddo e la dissenteria.

Livido su quel gran lago di fango
Guizza il tramonto, i colli d'un modesto
Riso di sole attingono la gloria.

E da un gruppo d'oscuri esce Volfango
Goethe dicendo: Al mondo oggi da questo
Luogo incomincia la novella storia.
31 marzo 1883.



LIBRO OTTAVO

XCIV
LA FIGLIA DEL RE DEGLI ELFI
Da Stimmen der Völker
di GOTTFR. V. HERDER
Cavalca sir Óluf la notte lontano
Per fare gl'inviti, ch'è sposo diman.
Or danzano gli elfi su 'l bel verde piano:
La donna de gli elfi gli stende la man.

– Ben venga sir Óluf! Perché vuoi scappare?
Vien dentro nel cerchio: vien, balla con me. –
– Ballare non devo, non posso ballare:
È giorno di nozze dimani per me. –

– Se meco tu balli, scudiero gentile,
Due d'oro speroni donare io ti vo',
Ed una camicia di seta, sottile,
Che al lume di luna mia madre imbiancò. –

– Ballare non posso, non devo ballare:
È giorno di nozze dimani per me. –
– Sir Óluf, ascolta: ti voglio donare
Un cumulo d'oro, se balli con me. –

– Il cumulo d'oro ben venga; ma poi
Ballare non posso, ché ho nozze diman. –
– Se meco, sir Óluf, ballare non vuoi,
Il morbo e il contagio ti accompagneran. –

E un colpo gli batte leggero su 'l cuore:
Tal doglia sir Óluf più mai non sentì.
Poi bianco il rialza su 'l suo corridore:
– Ritorna a la sposa, ritorna così. –


E quando a la porta di casa egli venne,
Sua madre al vegnente guardò con terror:
– Ascolta, figliuolo: di' su, che t'avvenne?
Perché così smorto? che è quel pallor? –

– Come esser non debbo sì pallido e smorto?
Nel regno de gli elfi m'avvenne d'entrar. –
– Figliuolo, la sposa sarà qui di corto:
Che devo a la sposa, figliuolo, contar? –

– Le di' che a sollazzo cammino pe 'l bosco
Con cane e cavallo, provandolo al fren. –
Ed ecco (il mattino tremava ancor fósco)
La sposa e l'allegro corteggio ne vien.

Recavano cibi, recavano vino,
– Ov'è il mio sir Óluf? lo sposo dov'è? –
– Usciva a sollazzo pe 'l bosco vicino
Con cane e cavallo, verrà presto a te. –

La sposa una rossa cortina solleva,
E morto lì dietro sir Óluf giaceva.

24-25 dicembre 1879.

XCV
IL RE DI TULE
Dalle Ballate di W. GOETHE
Fedel sino a l'avello
Egli era in Tule un re:
Morì l'amor suo bello,
E un nappo d'òr gli diè.

Nulla ebbe caro ei tanto,
E sempre quel vuotò:
Ma gli sgorgava il pianto
Ognor ch'ei vi trincò.


Venuto a l'ultim'ore
Contò le sue città:
Diè tutto al successore,
Ma il nappo d'òr non già.

Ne l'aula de gli alteri
Suoi padri a banchettar
Sedé tra i cavalieri
Nel suo castello al mar.

Bevé de la gioconda
Vita l'estremo ardor,
E gittò il nappo a l'onda
Il vecchio bevitor.

Piombar lo vide, lento
Empiersi e sparir giù;
E giù gli cadde spento
L'occhio e non bevve più.
[ 27 marzo 1869 ].

XCVI
I TRE CANTI
Dalle Ballate di L. UHLAND
Re Sifrido tien corte. – Arpeggiatori,
Il più bel canto qual di voi mi sa? –
E un giovinetto esce di schiera fuori
Snello: in man l'arpa, spada al fianco egli ha.

– Tre canti, o re, so io. Del primo è spento
Da tempo ogni ricordo entro il tuo cor:
Tu m'hai morto il fratello a tradimento;
Tu m'hai morto il fratello, o traditor.

L'altro canto una notte, e urlava forte
Il turbine, una notte ebbi a pensar:
Tu hai da pugnar meco a vita e morte,
A vita e morte hai meco da pugnar. –


E appoggia l'arpa al tavolo; e già fuore
Tratte han le spade arpeggiatore e re:
Pugnano a lungo con fiero fragore
Fin che cade ne l'alta sala il re.

– Or canto il terzo, il canto mio più vago,
Né mai stanco a ridirlo mi farà:
Giace Sifrido re nel rosso lago
Del sangue suo, morto nel sangue sta.
21 giugno 1874.

XCVII
LA TOMBA NEL BUSENTO
Dalle Ballate di A. V. PLATEN
Cupi a notte canti suonano
Da Cosenza su 'l Busento,
Cupo il fiume gli rimormora
Dal suo gorgo sonnolento.

Su e giù pe 'l fiume passano
E ripassano ombre lente:
Alarico i Goti piangono,
Il gran morto di lor gente.

Ahi sì presto e da la patria
Così lungi avrà il riposo,
Mentre ancor bionda per gli ómeri
Va la chioma al poderoso!

Del Busento ecco si schierano
Su le sponde i Goti a pruova,
E dal corso usato il piegano
Dischiudendo una via nuova.

Dove l'onde pria muggivano
Cavan, cavano la terra;
E profondo il corpo calano,
A cavallo, armato in guerra.


Lui di terra anche ricoprono
E gli arnesi d'òr lucenti:
De l'eroe crescan su l'umida
Fossa l'erbe de i torrenti!

Poi, ridotto a i noti tramiti,
Il Busento lasciò l'onde
Per l'antico letto valide
Spumeggiar tra le due sponde.

Cantò allora un coro d'uomini:
– Dormi, o re, ne la tua gloria!
Man romana mai non vìoli
La tua tomba e la memoria! –

Cantò, e lungo il canto udivasi
Per le schiere gote errare:
Recal tu, Busento rapido,
Recal tu da mare a mare.

5-6 luglio 1872.

XCVIII
IL PASSO DI RONCISVALLE
DALLO SPAGNUOLO E DAL PORTOGHESE
– Fermi, fermi, cavalieri,
Ché il re mandavi a contar. –
E contarono e contarono,
Uno sol venne a mancar:
Era questi don Beltrano
Sì gagliardo a battagliar.
Là ne' campi d'Alventosa
Tutti a dosso a lui serrâr:
Sol de' monti al tristo passo
Lo poterono ammazzar.

Tiran sette volte a sorte
Chi dovesse irlo a cercar.

Su 'l buon vecchio di suo padre
Tutt'e sette ricascâr:
Le tre fu la rea fortuna,
Quattro fu malvagità.
Volge la briglia al cavallo,
A l'amara cerca va:
Va la notte per la strada,
Per la selva il giorno va.

Vanne il vecchio e seco piange,
Cheto piange ne l'andar,
A i pastori dimandando
Se han veduto indi passar
Cavaliere d'armi bianche
Sur un sauro a cavalcar.
– Cavaliere d'armi bianche
Sur un sauro a cavalcar
Non vedemmo in queste parti,
Non vedemmo alcun passar. –

E cavalca via e cavalca
Fin che giunge a Roncisval.
Fra la strage va il vegliardo,
Fra la strage lento va.
Tanto volta e volta i morti
Che le braccia stracche n'ha:
Non ritrova quel che cerca,
E né meno il suo segnal:
I francesi vide tutti,
Ma non vide don Beltran.

Malediva, andando, il vino;
Malediva, andando, il pan,
Quel che mangia il saracino
E non quello del cristian.
Malediva arbor che nasce
Solo a i campi senza ugual,
Ché del ciel tutti gli uccelli

Vi si vengono a posar,
Né di rami né di foglie
Non lo lascian rallegrar.

Maledia cavalier ch'usi
Senza paggio cavalcar:
Se gli cade in via la lancia,
Non ha uno a raccattar;
Se gli cade in via lo sprone,
Non ha uno a ricalzar.
Malediva anche la donna
Che un sol figlio seppe far:
Se l'uccidono i nemici,
Non ha uno a vendicar.

A l'uscir del pian sabbioso,
D'una gola in su l'entrar,
Vide un moro a una bertesca
Solo e ritto a vigilar.
Gli parlò l'araba lingua,
Come quei che ben la sa:
– Moro, prègoti per Dio:
Moro, dimmi in verità:
Cavaliere d'armi bianche
Vedestù passar di qua?

Lo vedesti a notte bruna
O del gallo su 'l cantar?
Ché se tu lo tieni preso,
Peso d'oro te 'n vo' dar:
Ché se tu lo tieni morto,
Rendimel per sotterrar;
Poi che corpo senza l'alma
Un denaro più non val. –
– Dimmi, amico, il cavaliere
Dimmi tu, che segni ha? –

– Le sue armi sono bianche,

Ed è sauro il suo caval.
Ne la guancia destra ha un segno
Che un sparvier lasciato gli ha:
Lo beccò ch'era bambino,
E ne porta anche il segnal.
Su la punta de la lancia
Leva un candido zendal;
Ricamòglielo la dama
Tutto di punto real. –

– Questo cavaliere, amico,
In quel prato morto sta:
Ha le gambe dentro l'acqua,
Ne la rena il corpo egli ha.
Sette punte egli ha nel petto,
Non si sa qual più mortal;
Ché per l'una gli entra il sole,
La luna per l'altra va,
Ne la più piccola stavvi
L'avvoltoio a divorar. –

– Non do colpa al mio figliuolo,
Né vo' a' Mori colpa dar;
Do la colpa al suo cavallo,
Che no 'l seppe ritornar. –
O miracol! chi 'l direbbe,
Chi 'l potrebbe raccontar?
Il cavallo mezzo morto
Così prese a favellar:
– Non mi dare a me la colpa.
Che no 'l seppi ritornar.

Ben tre volte trassi a dietro
Per poterlo in salvo trar:
Tre mi diè di sprone e briglia
Pe 'l desio di battagliar,
E tre apersemi le cigne,
Allargommi il pettoral:



A la terza caddi a terra
Con questa piaga mortal. –

10 aprile 1881.

XCIX
GHERARDO E GAIETTA
Dalle Romanze in francese
antico pubbl. da K. BARTSCH
Sabato sera in fin di settimana
Gaietta e Orior sua sorella germana
Van per mano a bagnarsi a la fontana.
Soffi il vento, crolli la rama:
Dolce dorme chi ben s'ama.

Scudier Gherardo vien da la quintana,
Scorta ha Gaietta sopra la fontana,
Tra le braccia la tien soave e piana.
Soffi il vento, crolli la rama:
Dolce dorme chi ben s'ama.

– Quando tu avrai tratto de l'acqua, Oriore
Tórnati a dietro: io sto co 'l mio signore,
Che ben m'ha presa, e co 'l suo dritto amore. –
Soffi il vento, crolli la rama:
Dolce dorme chi ben s'ama.

Ora se 'n va bianca e smarrita Oriore,
Piange de gli occhi, sospira del core,
Ché non rimena Gaia e n'ha dolore.
Soffi il vento, crolli la rama:
Dolce dorme chi ben s'ama.

– Lassa – Orior dice – ed in mal'ora nata!
Mia sorella lasciai ne la vallata;
Gherardo al suo paese l'ha menata. –
Soffi il vento, crolli la rama:
Dolce dorme chi ben s'ama.



Scudier Gherardo e a lui Gaia abbracciata
La via per la città han seguitata:
Come vi venne, tosto l'ha sposata.
Soffi il vento, crolli la rama:
Dolce dorme chi ben s'ama.

Gennaio 1881.

C
LA LAVANDAIA DI SAN GIOVANNI
Dalle Romancero Castellano
Mi levai per San Giovanni,
Ch'era il sole per levar:

Vidi, o madre, una fanciulla
Sola sola in riva al mar.

Lava, attorce, e in un rosaio
Stende i panni a rasciugar.

Mentre i panni il sol rasciuga,
La fanciulla canta al mar:

– Dove, l'amor mio, dove,
Dove l'anderò a cercar? –

Su dal mare, giù dal mare.
Va dicendo il suo cantar:

Pettin d'oro ha ne le mani,
La sua chioma a pettinar.

– Dimmi tu, bel marinaio,
Così Dio ti voglia aitar,

Se l'hai visto l'amor mio,
Se l'hai visto là passar. –

24-29 dicembre 1879.


CI
IL PELLEGRINO DAVANTI A SAINT JUST
Dalle Ballate di A. V. PLATEN
È notte, e il nembo urla più sempre e il vento.
Frati spagnoli, apritemi il convento.

Lasciatemi posar sino a i divini
Misteri e al suon de' bronzi matutini.

Datemi allor quel che potete dare;
Date una bara ed uno scapolare,
Date una cella e la benedizione
A chi di mezzo mondo era padrone.

Questo capo a la chierca apparecchiato
Fu di molte corone incoronato,

Questo a le rozze lane ómero inchino
Levossi imperial ne l'ermellino.

Or morto in vista pria che in cimitero
Ruino anch'io come l'antico impero.
12 luglio 1871.

CII
CARLO I
Dal Romancero di H. HEINE
Cupo e solo, nel bosco, a la capanna
Del carbonaio, il re sedeva un dì:
A la culla sedea, la ninna nanna
Ei brontolava al pargolo così.

– Ninna nanna! Che cosa si rimescola
Ne la paglia? perché bela l'ovil?
Tu porti il segno in fronte, e ridi orribile
In mezzo al sonno, o bambolo gentil.


Il gatto è morto, ninna nanna! In fronte
Tu il segno porti: crescerai d'età,
E brandirai la scure, uomo fatto: al monte
Treman le querce e ne la selva già.

Sparì del carbonar l'antica fede:
Del carbonaro il figlio, ecco, su vien:
Nel buon Dio, ninna nanna, ei più non crede
E nel re, ninna nanna, ancora men.

Il gatto è morto, e i topi allegramente
Ballan d'intorno: il dì lungi non è
Che diverremo favola a la gente,
Dio nel ciel, ninna nanna, e in terra io re.

Ahi mi cade il coraggio, e fuor di spene
Io mi sento malato ogni dì più!
Ninna nanna, lo so, lo veggo bene:
Carbonaietto, il mio boia sei tu.

È ninna nanna a te l'oscuro e lento
Salmo di morte a me. Cresci a tagliar
Questi grigi cernecchi: al collo, ahi, sento
Il freddo de le forbici strisciar.

Ninna nanna! qualcosa ne la paglia
Si rimescola: il regno hai preso tu!
Or via dal vecchio tronco abbatti e scaglia
Questo mio capo: il gatto è morto: giù.

Ninna nanna! la paglia si rimescola,
Belan le capre ne lo stabbio pien,
Il gatto è morto e i topolini ballano.
Dormi, boietto mio, dormi per ben! –

[ Giugno 1871 ].

CIII
L'IMPERATORE DELLA CINA
Da Zeitgedichte di H. HEINE
Mio padre era un balordo astemio Cesare,
Un sornione in trono:
Io bevo la mia zozza, ed un magnanimo
Imperatore io sono.

Oh magica bevanda, indovinata
Dal mio paterno core!
Io bevo la mia zozza, e si dilata
La Cina tutta in fiore.

Il mio regno del centro apre e si spampana
Come un bocciuol di rosa.
Io quasi quasi un uom divento, e gravida
Si trova la mia sposa.

È una cuccagna! I moribondi in festa
Dànno calci a le bare:
Del mio Confucio imperial la testa
Annaspa idee più chiare.

A' miei prodi soldati il pan di segala
Diventa mandorlato,
E gli straccioni de l'impero marciano
Tutti in seta e in broccato.

Quegli invalidi frolli, quelle ignude
Zucche de' mandarini,
Ripigliano il vigor di gioventude
E scuotono i codini.

Compiuta è al fin la gran pagoda, mistico
Asil di fede e imago:
Già gli ultimi giudei vi si battezzano
E han l'ordine del drago:


Posa ogni senso di ribellione,
E gridano i Mansciù:
– Noi non vogliam la costituzione,
Noi vogliamo il kansciù,

Vogliam la verga! – Il medico di corte
Fa gli occhi spaventati.
Esculapio, io vo' ber fino a la morte
Per il ben de' miei stati.

E zozza ancora! e zozza ancora! un gócciolo
Ancor di questa manna!
Il mio popol, vedete, è in visibilio,
E canta – Osanna osanna!

Agosto 1872 [ 1871 ].

CIV
I TESSITORI
Da Zeitgedichte di H. HEINE
Non han ne gli sbarrati occhi una lacrima,
Ma digrignano i denti e a' telai stanno.
– Tessiam, Germania, il tuo lenzuolo funebre,
E tre maledizion l'ordito fanno.
Tessiam, tessiam, tessiamo!

Maledetto il buon Dio! Noi lo pregammo
Ne le misere fami, a i freddi inverni:
Lo pregammo, e sperammo, ed aspettammo:
Egli, il buon Dio, ci saziò di scherni.
Tessiam, tessiam, tessiamo!

E maledetto il re! de i gentiluomini,
De i ricchi il re, che viscere non ha:
Ei ci ha spremuto infin l'ultimo pìcciolo,
Or come cani mitragliar ci fa.
Tessiam, tessiam, tessiamo!


Giosuè Carducci
Centenario della morte
Giosuè Carducci
Rime Nuove
Bologna, N. Zanichelli
Maledetta la patria, ove alta solo
Cresce l'infamia e l'abominazione!
Ove ogni gentil fiore è pesto al suolo,
E i vermi ingrassa la corruzione!
Tessiam, tessiam, tessiamo!

Vola la spola ed il telaio scricchiola.
Noi tessiamo affannosi e notte e dì:
Tessiam, vecchia Germania, il lenzuol funebre
Tuo, che di tre maledizion s'ordì.
Tessiam, tessiam, tessiamo! –

27 giugno - 6 luglio 1872.

LIBRO NONO

CV
CONGEDO
Il poeta, o vulgo sciocco,
Un pitocco
Non è già, che a l'altrui mensa
Via con lazzi turpi e matti
Porta i piatti
Ed il pan ruba in dispensa.

E né meno è un perdigiorno
Che va intorno
Dando il capo ne' cantoni,
E co 'l naso sempre a l'aria
Gli occhi svaria
Dietro gli angeli e i rondoni.

E né meno è un giardiniero
Che il sentiero
De la vita co 'l letame
Utilizza, e cavolfiori
Pe' signori
E viole ha per le dame.


Il poeta è un grande artiere,
Che al mestiere
Fece i muscoli d'acciaio:
Capo ha fier, collo robusto,
Nudo il busto,
Duro il braccio, e l'occhio gaio.

Non a pena l'augel pia
E giulìa
Ride l'alba a la collina,
Ei co 'l mantice ridesta
Fiamma e festa
E lavor ne la fucina;

E la fiamma guizza e brilla
E sfavilla
E rosseggia balda audace,
E poi sibila e poi rugge
E poi fugge
Scoppiettando da la brace.

Che sia ciò, non lo so io;
Lo sa Dio
Che sorride al grande artiero.
Ne le fiamme così ardenti
Gli elementi
De l'amore e del pensiero

Egli gitta, e le memorie
E le glorie
De' suoi padri e di sua gente.
Il passato e l'avvenire
A fluire
Va nel masso incandescente.

Ei l'afferra, e poi del maglio
Co 'l travaglio
Ei lo doma su l'incude.
Picchia e canta. Il sole ascende,

E risplende
Su la fronte e l'opra rude.

Picchia. E per la libertade
Ecco spade,
Ecco scudi di fortezza:
Ecco serti di vittoria
Per la gloria,
E diademi a la bellezza.

Picchia. Ed ecco istoriati
A i penati
Tabernacoli ed al rito:
Ecco tripodi ed altari.
Ecco rari
Fregi e vasi pe 'l convito.

Per sé il pover manuale
Fa uno strale
D'oro, e il lancia contro 'l sole:
Guarda come in alto ascenda
E risplenda,
Guarda e gode, e più non vuole.

[ Agosto 1873 - 10 giugno 1887 ].