CULTURA
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GRANDI POETI
NEWS
























































LA GHIGLIOTTINA A VAPORE
1833

Hanno fatto nella China
Una macchina a vapore
Per mandar la ghigliottina:
Questa macchina in tre ore
Fa la testa a cento mila
Messi in fila.

L’istrumento ha fatto chiasso,
E quei preti han presagito
Che il paese passo passo
Sarà presto incivilito:
Rimarrà come un babbeo
L’Europeo.

L’Imperante è un uomo onesto;
Un po’ duro un po’ tirato,
Un po’ ciuco, ma del resto
Ama i sudditi e lo Stato,
E protegge i bell’ingegni
De’ suoi regni.

V’era un popolo ribelle
Che pagava a malincuore
I catasti e le gabelle:
Il benigno imperatore
Ha provato in quel paese
Quest’arnese.

La virtù dell’istrumento
Ha fruttato una pensione
A quel boja di talento,
Col brevetto d’invenzione,
E l’ha fatto mandarino
Di Pekino,

Grida un frate: oh bella cosa!
Gli va dato anco il battesimo.
Ah perché (dice al Canosa1
Un Tiberio in diciottesimo)
Questo genio non m’è nato
Nel Ducato!



Quando il Giusti, giunto alla maturanza dell'ingegno, ai 5 luglio del 1843, dava al marchese Carlo Torrigiani nell'"Avviso per la stampa a penna senza licenza dei superiori" l'elenco delle sue satire, scegliendo quelle che credeva degne d'essere conservate, metteva per prima La ghigliottina a vapore.  E nel 1845, quando lasciò fare la prima edizione ufficiale all'amico Frassi (perché i suoi versi correvano manoscritti per le mani di tutti ed erano stampati da librai ladri in edizioni così scorrette da far rizzare i capelli in testa) e nel 1849 quando preparava la raccolta completa delle poesie che gli avvenimenti politici prima e la morte poi gli impedirono di pubblicare, mantenne sempre la Ghigliottina in capofila.  Egli la considerava come la prima delle sue satire civili, e abbandonando i giovanili sonetti petrarcheschi, le canzonette dei facili amori e le declamazioni politiche scritte fra le speranze e i disinganni che agitarono l'Italia dal 1830 al 1833, intendeva cominciare da questa satira la sua vita di poeta.  Qual è lo scopo di questa satira scritta nel 1833 a Pisa, che per la sua bizzarrìa colpì vivamente le imaginazioni popolari?  L'autore l'aveva, in origine, intitolata: "La Ghigliottina a vapore - notizia da inserirsi nel giornale La voce della verità, all'articolo Arti e Mestieri"; e al suo amico Enrico Mayer scriveva che con essa voleva porre in ridicolo i brevetti d'invenzione che si davano a larga mano per le minime inezie"; in un'altra lettera confermava ch'era stata composta "contro i premi mal dati". Ma chi la legge e si trova davanti alle centomila teste tagliate di netto e ai rimpianti del duca di Modena e del suo consigliere, non può trattenersi dal pensare che il Giusti abbia voluto, colla spiegazione, aggiungere un'ironia di più ai versi. Che cosa c'entrano i premi bene o mal dati con questa sferzata ai tirannelli sanguinarî d'Italia?  I commentatori ripetono le parole del poeta, confessando di trovarle alquanto oscure; ma il Martini nel Giusti studente, porge una spiegazione più soddisfacente. Nel 1833 giravano di mano in mano, fra gli studenti di Pisa, le scritture del Mazzini (sparse specialmente dal Montanelli) e degli adepti alla Giovine Italia: notevole sopratutto era l'Insegnamento popolare di Gustavo Modena. Il famoso tragico aveva imaginato un dialogo fra due giovani, un sanfedista e un ascritto alla Giovine Italia. Questi convince l'altro dell'eccellenza del governo repubblicano e della necessità dell'alleanza dei popoli per ottenerlo. Si viene a parlare del Canosa; e siccome il sanfedista convertito mostra di non conoscerlo, l'altro esclama meravigliato: "Non conosci il Canosa? Egli è l'inventore della pena esasperata. A che servono quelle morti secche, sciapite, d'una fucilata, d'una recisione di capo che neanche t'accorgi di morire? l'animo non si delizia nelle varie convulsioni della morte. Il Canosa vuol goder la morte del liberale, egli vuole la ruota, la tanaglia, i colpi di fuoco.  Lo spiedo poi... lo spiedo e la graticola è l'idea tiranna dei suoi piaceri! Il Canosa prepara uno spiedo che s'appoggia all'Alpi e all'Appennino. L'Italia è appestata. Su presto, tutti gli Italiani arrostiti! fuoco! purificazione! le intere città sulla graticola. Così il Canosa insegna a regnare." Cambiate lo spiedo nella ghigliottina a vapore ed avete la satira del Giusti che finisce appunto coll'invocazione del duca di Modena al Canosa. Il poeta confessava egli stesso che "l'ultimo libro letto, l'ultimo caso accaduto erano la sua musa".
Il principe di Canosa era uno dei capi della setta dei sanfedisti che ritroveremo nella satira seconda; i liberali napoletani avevano costretto il re Ferdinando, di cui era ministro, a dimetterlo dall'ufficio e a bandirlo dal regno; ed egli, colle grandi ricchezze avute per compenso delle commesse scelleraggini, s'era ritirato a Pisa, indi a Genova, fuggito e maledetto da tutti. Il duca di Modena, Francesco IV, del quale dicemmo nella prefazione, lo trasse dal riposo per farlo capo della sua polizia. Principe e ministro avevano un'anima sola; e professavano per massima che unica legge dello Stato era la loro volontà. Tenevano per principio sacrosanto che "i sudditi dovessero obbedir ciecamente a ogni più turpe impero e che i ricalcitranti fossero tutti degni di forca perché nemici dell'altare e del trono". Avevano soppresso con un editto le forme giuridiche contro i rei di Stato, abbandonandosi agli sgherri e alle spie; e, dopo il supplizio di Menotti e di Borelli, tenevano obbligati i soldati con atroci giuramenti contro i possibili ribelli.

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1 Il Tiberio in diciottesimo, come già dicemmo di sopra, era Francesco IV duca di Modena, così chiamato dal Giusti sia per la crudeltà, sia per le grandi arie che si dava, pur essendo padrone di un piccolissimo Stato.  Nel 1830 rifiutò di riconoscere Luigi Filippo d’Orléans perché portato al trono  dalla rivoluzione. In Francia ne ridevano; e in una seduta del Corpo Legislativo, a chi parlava del contegno del duchino, il maresciallo Sebastiani rispose: "datemi quattro uomini e un caporale e gli faccio metter subito giudizio". Ma anche Francesco IV trovò i suoi panegiristi, fra' quali Cesare Galvani che ne scrisse le Memorie! il quale lo loda, qual campione della religione e dell'autorità, d'aver ajutato i frati, d'aver soccorso i Modenesi nella fame del 1816. L'imparziale Anelli, nella Storia d'Italia, scrive a questo proposito: "il duca di Modena, fattosi monopolista e ladro, metteva sui propri mercati ad altissimo prezzo, biade guaste e da lui condotte a vil costo dal mar Nero e dai porti d'Italia, e simulando generosità, le faceva distribuire in proprio nome, ma di odore sì reo che i porci stessi al solo annusarle davano indietro e talora in fuga". Del Canosa ne parliamo più sopra
RASSEGNAZIONE
E PROPONIMENTO DI CAMBIAR VITA
1833

Io non mi credo nato a buona luna:
E se da questa dolorosa valle
Sane a Gesù riporterò le spalle,
Oh che fortuna!
In quanto al resto poi non mi confondo:
Faccia chi può con meco il prepotente,
Io me la rido, e sono indifferente,
Rovini il mondo.
A quindici anni imaginava anch’io
Che un uomo onesto, un povero minchione,
Potesse qualche volta aver ragione:
Furbo, per Dio!
Non vidi allor che barattati i panni
Si fossero la frode e la giustizia:
Ah veramente manca la malizia
A quindici anni!
Ma quando, in riga di paterna cura1,
Un birro mi coprì di contumelia,
Conobbi i polli, e accorto della celia
Cangiai natura.
Cangiai natura: e adesso le angherìe
Mi sembrano sorbetti e gramolate:
Credo santo il bargello, e ragazzate
Le prime ubbìe.
Son morto al mondo: e se il padron lo vuole,
Al messo, all’esattore, all’aguzzino
Fo di berretta, e spargo sul cammino
Rose e viole.
Son morto al mondo; e se novello insulto
Mi vien da Commissarî o colli torti,
Dirò: che serve incrudelir co’ morti?
Parce sepulto!
Un diavol che mi porti o il lumen Christi2
Aspetto per uscir da questa bega;
Una maschera compro alla bottega
De’ Sanfedisti.
La vita abbujerò gioconda e lieta,
Ma combinando il vizio e la decenza,
Velato di devota incontinenza,
Dirò compieta.

==>SEGUE
Più non udrà l’allegra comitiva
La novelletta mia, la mia canzone;
Gole di frati al nuovo Don Pirlone3
Diranno evviva.
In un cantone rimarrà la bella
Che agli scherzi co’ cari occhi m’infiamma,
E raglierò il sonetto e l’epigramma
A Pulcinella.
Rispetterò il Casino4, e sarò schiavo
Di pulpiti, di curie e ciarlatani;
Alle gabelle batterò le mani,
E dirò, bravo!
Così sarò tranquillo, e lunga vita
Vivrò scema di affanni e di molestie;
Sarò de’ bacchettoni e delle bestie
La calamità.
Amica mi sarà la sagrestia,
La toga, durlindana e il Presidente5:
Sarò un eletto, e dignitosamente
Farò la spia.
Subito mi faranno cavaliere,
Mi troverò lisciato e salutato,
E si può dare ancor che sia creato
Gonfaloniere.
Allora, ventre mio, fatti capanna;
Manderò chi mi burla in gattabuia:
Dunque s’intuoni agli asini alleluja,
Gloria ed osanna.

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1 In riga di paterna cura: cioè quando un birro, sotto colore di ammonirlo paternamente, lo minacciò dei rigori polizieschi. 2 Lumen Christi, chiamavasi in Toscana una candela benedetta che i devoti tenevano in casa per accenderla nelle ore solenni d'una nascita o d'una morte. 3 Don Pirlone è il nome di un bacchettone vizioso  4 Il Casino era in molte città d'Italia il luogo dove i nobili si riunivano a conversazione e più spesso a giuocare. 5 Il presidente è quello del Buon Governo nome che si dava in Toscana alla Polizia. Il poeta intese qui dire che facendo l'ipocrita avrà le buone grazie dei preti, dei giudici, dei militari  e degli alti e bassi poliziotti, consueti alleati nella reazione.



La chiamata davanti al Commissario di Polizia per il chiasso accaduto in teatro, che abbiamo raccontato a pagina 24, aveva profondamente irritato il Giusti, sia perché, quella volta almeno, era fuor di posto, sia per il disgusto di trattar cogli sbirri il cui contatto suscita sempre nei galantuomini una naturale reazione. Le intemerate del padre gli avevan cresciuta la bizza; e si sfogò in questa satira nella quale si finge pentito e promette di curvare la schiena e l'anima, diventare servitore e ipocrita, soffocare gli entusiasmi giovanili e rinnegar la patria, per far fortuna e salire agli alti uffici.  Che più? Promette perfino, per colmo d'ironia, di farsi Sanfedista.  Questo nome oggi non ha più che un significato storico; nel 1833 suonava sinistro e terribile: era quello di una setta politico-religiosa che aveva per iscopo di combattere le idee, le istituzioni e gli uomini liberali in genere, ma più specialmente le società segrete dei Carbonari. Chi la dice creata dal De Maistre e trapiantata poi in Italia; chi nata nelle Romagne al tempo delle guerre napoleoniche per opporsi alle armi francesi. Il generale Lahoz aveva organizzato militarmente le bande dei contadini per opporle ai soldati del Bonaparte; ma finite quelle guerre, diventarono vere bande brigantesche e presero soldo dal Cardinal Rivarola, raddoppiando di ferocia e mosse soltanto dall'avidità del bottino.  Papa Gregorio credé di servirsene come di vera milizia. Nelle città i Sanfedisti formavano una società secreta tanto più famosa in quanto che penetrava nelle famiglie col mezzo delle donne e dello spionaggio, non rispettando alcuna santità di affetti. N'erano capi il duca di Modena e il Canosa: gli adepti ricevevano una medaglia coll'effige del papa o del duca, che serviva di riconoscimento: e giuravano "di alzare il trono e l'altare sulle ossa infami dei liberali e di sterminarli, non guardando a gridar di fanciulli, e pianger di vecchi e di donne". Sotto il manto di una falsa religione erano turpi di costumi e feroci negli odi; e non rifuggivano perfino dall'assassinio per raggiungere lo scopo.
La simulata paura del Giusti aveva un reale fondamento perché la Polizia era ai suoi tempi padrona di tutto in Toscana e una chiamata dal commissario poteva decidere dell'avvenire di un giovane. Colle sue arti il Buon Governo riduceva all'impotenza chiunque avesse velleità indipendenti, e la maggioranza lasciava fare, contenta del suo relativo benessere.  "Sono trecent'anni (scriveva il Giusti al D'Azeglio)che ci cullano: si sarebbe addormentato anco non so chi...noi Toscani siamo i più curiosi, i più sgloriati, i più beati pacifici della penisola." Giosuè Carducci, in un discorso apologetico premesso alle poesie del Giusti pubblicate dal Barbèra, scrive in proposito di questa satira: "i biglietti d'arresto e la Bastiglia formarono nella Francia dispotica Voltaire e Mirabeau; nella patriarcale Toscana le contumelie d'un birro dettero la mossa alle poesie civili del Giusti". Queste belle frasi non sono esatte, essendo che la mossa era stata data ben prima, perché il Giusti aveva già scritte satire civili e politiche e, com'egli stesso ripeté più volte, furono gli avvenimenti corsi tra il 1830 e il 1833 che "gli fecero come una crepa nel cervello" e gli misero la sferza in mano. Si può dire piuttosto che la chiamata dal commissario aumentò in lui l'odio agli sbirri che trabocca da quasi tutte le sue poesie, a danno della stessa varietà artistica. Amava la libertà e abborriva il dispotismo, si può dire, per natura; ed egli lo disse parlando di sé in terza persona: "entrato nel mondo si trovò ad abbracciare certe opinioni, senza che nessuno lo tenesse a battesimo, come per istinto, incapace di renderne ragione agli altri e a sé medesimo".
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IL «DIES IRAE»
1835

Dies irae! è morto Cecco;
Gli è venuto il tiro secco;
Ci levò l’incomodo.
Un ribelle mal di petto
Te lo messe al cataletto:
Sia laudato il medico.
È di moda: fino il male
La pretende a liberale:
Vanità del secolo!
Tutti i Principi reali
E l’Altezze Imperiali,
L’Eccellenze eccettera,
Abbruniscono i cappelli:
Il Balì Samminiatelli1
Bela il panegirico.
Già la Corte, il Ministero,
Il soldato, il birro, il clero,
Manda il morto al diavolo.
Liberali del momento,
Per un altro giuramento
Tutti sono all’ordine.
Alle cene, ai desinari
(Oh che birbe!) i Carbonari2
Ruttan inni e brindisi.
Godi, o povero Polacco3;
Un amico del Cosacco
Sconta le tue lacrime.
Quest’è ito; al rimanente
Toccherà qualche accidente:
Dio non paga il sabbato.
Ma lo Scita inospitale4
Pianta l’occhio al funerale
Sitibondo ed avido,
Come jena del deserto,
Annosando a gozzo aperto
Il fratel cadavere.
Veglia il Prusso e fa la spia5,
E sospirano il Messia
L’Elba, il Reno e l’Odera.
Rompe il Tago con Pirene

==>SEGUE
Ai 2 marzo del 1835 morì Francesco I imperatore d'Austria. Il Turchetti, condiscepolo del Giusti, scriveva in nota al Dies irae: "gli Italiani erano abituati a considerare Francesco I come il drago che custodiva il frutto a noi vietato, cioè la libertà e l'indipendenza della penisola che Metternich
chiamava una espressione geografica". Tedesco di sangue, era nato in Firenze il 12 febbraio 1768, ed aveva regnato quarantatrè anni: scarso d'ingegno, di studi, di coraggio personale, credeva che riforme, civiltà e rivoluzione fossero una sola cosa e le temeva e le abborriva tutte insieme. Metternich lo aveva messo a capo della coalizione contro Napoleone, e dopo la vittoria, le truppe austriache scorazzavano l'Italia, dal Napoletano alle Romagne ed al Piemonte, per abbattere
le teste che si sollevavano chiedendo il diritto. D'averlo chiamato in Lombardia pesa la grave colpa sull'aristocrazian specialmente milanese che si vendicava dell'abbassamento dovuto subire durante il regno d'Italia; e quando entrò in Milano ai 31 dicembre 1815 il podestà conte Giulini, salutava l'eroe che aveva ritolta l'Italia agli oppressori che la laceravano". L'imperatore (che sarà stato meravigliato, dopo le fughe davanti a Napoleone, di sentirsi chiamare eroe) castigò però anche quelli che gli si erano dati; costrinse i Lombardi e i Veneti a dividere i suoi debiti, li taglieggiò con imposizioni esagerate e capricciose, talché gli Italiani soggetti all'Austria, che non facevano neppure il settimo della popolazione dell'impero austriaco, sostenevano due terzi dei tributi ordinati per tutti. Sostegno alla monarchia cercava sia nello spionaggio, per il che spendeva fin cinque milioni del nostro danaro, sia nei soldati, difesa consueta dei principati cui manchi l'amore del popolo. Inesorabile verso i liberali, li faceva condannare a crudeli pene, disseminandoli nelle prigioni dell'impero, specie allo Spielberg, della qual fortezza teneva sul tavolino la pianta, e ordinava, racconta il Cantù, nella Storia degli Italiani, quel che dovesse soffrire il numero quindici, il numero venti, unica designazione di quegli esseri umani che si chiamavano Gonfalonieri, Pellico, Maroncelli, Gabriele Rosa. La Lombardia era prospera per il lavoro dei campi e delle officine; ed egli cercava che spegnesse le memorie nei divertimenti, trascurando gli studi, giusta quanto aveva detto al Congresso di Lubiana: "Voglio sudditi obbedienti, non cittadini illuminati." Quando giunse l'annunzio della sua morte, alla mente del Giusti si affacciarono tutti i dolori che il suo nome ricordava; e scrisse il Dies irae (nel metro latino dello Stabat Mater) contro colui che rappresentava la sciagurata politica austriaca in Italia. Non usò quegli ipocriti riguardi verso il morto, che sono una delle menzogne convenzionali del nostro tempo; il morto era un grande colpevole in faccia alla patria nostra, ed egli lo giudica e condanna.


LEGGE PENALE PER GL’IMPIEGATI
1835

Il nostro sapientissimo Padrone
Con venerato motuproprio impone,
Che da oggi in avanti ogn’impiegato,
Per il ben dello Stato,
(Per dir come si dice) ari diritto;
E in caso d’imperizia o di delitto,
Lo vuol punito scrupolosamente
Colla legge seguente.
Se un real Segretario o Cameriere
Tagliato, puta il caso, a barattiere,
Ficca, a furia di brighe, in tutti i buchi
Un popolo di ciuchi;
Se un Cancellier devoto della zecca
Sulle volture o sul catasto lecca1,
E attacca una tal qual voracità
Alla Comunità;
Se a caso un Ispettor di polizia
Sganascia o tiene il sacco, o se la spia
Inventa, per non perder la pensione,
Una rivoluzione:
Son piccoli trascorsi perdonabili,
Dall’umana natura inseparabili,
Né sopra questi allungherà la mano
Il benigno Sovrano.
Ma nel delitto poi di peculato,
Posto il vuoto di cassa a sindacato,
Chi avrà rubato tanto da campare,
Sia lasciato svignare.
Chi avrà rubato poco, si perdoni,
E tanto più se porta testimoni
D’essersi a questi termini ridotto
Per il giuoco del Lotto2.
Se un real Ingegnere o un Architetto
Ci munge fino all’ultimo sacchetto,
Per rimediare a questa bagatella
Si cresca una gabella.
Se saremo costretti a trapiantare
Un Vicario bestiale o atrabiliare,
Tanto per dargli un saggio di rigore
Sarà fatto Auditore.
Se un Consiglier civile o criminale
Sbadiglierà sedendo in Tribunale,

==>SEGUE
Visto che lo sbadiglio è contagioso,
Si condanni al riposo.
Se poi barella3, o spinge la bilancia
A traboccar dal lato della mancia,
Gl’infliggeremo in riga di galera
Congedo e paga intera.
Se un Ministro riesce un po’ animale,
Siccome bazzicava il Principale,
Titolo avrà di Consigliere emerito
E la croce del merito.

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1 Volture e catasti: si sa che il catasto è la definizione di tutti i beni immobili di un Comune colla relativa stima per imporvi le gravezze; e voltura è il trasferire sui registri del catasto il possesso di un fondo da un proprietario all’altro. 2 Il fatto di questo impiegato ladro è storico. Un vicario regio si appropriò i danari riscossi per le patenti di caccia, perché i danari proprî e dell’erario consumava nel giuoco del lotto. Egli, per tutta difesa, disse: «In che mai ho peccato? Da questa cassa regia ho messo i danari in quest’altra cassa del lotto ch’è regia del pari.» E fu mandato assolto. 3 Barella si dice propriamente di chi per ubriachezza non si regge bene in piedi nel camminare; qui nel traslato indica chi vacilla incerto nel render giustizia.
Di questa satira il Giusti si mostrò sempre poco soddisfatto.
Il suo antico maestro Andrea Francioni gliela chiese nel 1842, ed egli rispose: "Tu la devi avere; ma è una cosa misera e meschina bene. La scrissi sette anni sono in un momento di falso appetito: rileggila e vedrai che non te lo dico per modestia. Se toccasse a me n'accenderei il caminetto." Voleva correggerla, come scriveva al Torrigiani, "dietro certi lumi acquistati ultimamente dal signor padre".
La vita dell'impiegato, che ai sedici di ogni mese riscuoteva lo stipendio, era una delle idealità per i Toscani di quel tempo, scarsi di iniziative, di ambizioni, di bisogni; e ai posti pubblici si arrivava col mettersi in buona vista della Polizia e colle raccomandazioni presso il ministro Fossombroni, il suo confessore o la sua ganza. Lo stesso Gino Capponi, tanto prudente nei suoi giudizi, fu obbligato ad ammettere che si circondava di favorite e di favorite ch'egli accanitamente difendeva; e che, essendo integro personalmente (fenomeno che si ripeté in altri uomini di Stato) permetteva le dilapidazioni ed ogni peggior abuso degli impiegati subalterni.
Agli impieghi sceglieva i più inetti a bella posta, sia per non aver censori intorno, sia perché era persuaso che gli affari si sbrigassero egualmente coi buoni e cogli incapaci, ripetendo l'assioma favorito: "il mondo va da sé"; e la sua abilità consisteva nel farlo camminare senza scosse. Egli tollerava molto negli impiegati per essere più facilmente tollerato: è una complicità che si incontra in tutti i tempi. Il condiscepolo del Giusti, annotando questa satira, scrive: "è doveroso il dire che, meno un'estrema servilità e spesso una proverbiale insipienza, in generale la condotta degli impiegati era irreprensibile, e le prevaricazioni, le infedeltà in ufficio, i vuoti di cassa e i ladroneggi erano cose assai rare, sicché eravamo ben lungi dalla corruzione del giorno d'oggi". Il commentatore scriveva nel 1868: e osserviamo che per difendere gli impiegati toscani del 1835, premette ch'erano ignoranti e servili; né la servilità era un difetto esclusivo del tempo. L'essere rari i ladri non significa che mancassero; e vedremo nei versi del Giusti che c'erano anche quelli.
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ALL’AMICA LONTANA
1836

Te solitaria pellegrina, il lido
Tirreno e la salubre onda ritiene,
E un doloroso grido
Distinto a te per tanto aere non viene,
Né il largo amaro pianto
Tergi pietosa a quei che t’ama tanto.
E tu conosci amore, e sai per prova
Che, nell’assenza dell’objetto amato,
Al cor misero giova
Interrogar di lui tutto il creato.
Oh se gli affanni accheta
Questa di cose simpatia segreta;
Quando la luna in suo candido velo
Ritorna a consolar la notte estiva,
Se volgi gli occhi al cielo,
E un’amorosa lacrima furtiva
Bagna il viso pudico
Per la memoria del lontano amico,
Quell’occulta virtù che ti richiama
Ai dolci e melanconici pensieri,
È di colui che t’ama
Un sospir, che per taciti sentieri
Giunge a te, donna mia,
E dell’anima tua trova la via.
Se il venticel con leggerissim’ala
Increspa l’onda che lieve t’accoglie,
E susurrando esala
Intorno a te dei fiori e delle foglie
Il balsamo, rapito
Lunge ai pomari dell’opposto lito;
Dirai: quest’onda che si lagna, e questo
Aere commosso da soave fiato,
Un detto, un pensier mesto
Sarà del giovinetto innamorato,
Cui deserta e sgradita
Non divisa con me fugge la vita.
Quando sull’onda il turbine imperversa
Alti spingendo al lido i flutti amari,
E oscurità si versa
Sull’ampia solitudine dei mari,
Guardando da lontano
L’ira e i perigli del ceruleo piano;
Pensa, o cara, che in me rugge sovente
Di mille e mille affetti egual procella:

==>SEGUE


Ma se l’aere fremente
Raggio dirada di benigna stella,
È il tuo sereno aspetto
Che reca pace all’agitato petto.
Anch’io mesto vagando all’Arno in riva,
Teco parlo e deliro, e veder parmi
Come persona viva
Te muover dolcemente a consolarmi:
Riscosso alla tua voce
Nell’imo petto il cor balza veloce.
Or flebile mi suona e par che dica
Nei dolenti sospiri: oh mio diletto,
All’infelice amica
Serba intero il pensier, serba l’affetto;
Siccome amor la guida,
Essa in te si consola, in te s’affida.
Or mi consiglia, e da bugiardi amici
E da vane speranze a sé mi chiama.
Brevi giorni infelici
Avrai, mi dice, ma d’intatta fama;
Dolce perpetuo raggio
Rischiarerà di tua vita il viaggio,
Conscio a te stesso, la letizia, il duolo
Premi e l’amor di me nel tuo segreto;
A me tacito e solo
Pensa, e del core ardente, irrequïeto
Apri l’interna guerra,
A me che sola amica hai sulla terra.
Torna la cara imagine celeste
Tutta lieta al pensier che la saluta,
E d’un Angelo veste
L’ali, e riede a sé stessa, e si trasmuta
Quell’aereo portento,
Come una rosea nuvoletta al vento.
Così da lunge ricambiar tu puoi
Meco le tue carezze e le tue pene;
Interpreti tra noi
Fien le cose superne e le terrene:
In un pensiero unita
Sarà così la tua colla mia vita.
Il sai, d’uopo ho di te: sovente al vero
Di cari sogni io mi formava inganno;
E omai l’occhio, il pensiero
Altre sembianze vagheggiar non sanno;
Ogni più dolce cosa
Fugge l’animo stanco e in te si posa.
Ma così solo nel desìo che m’arde
Virtù vien manco ai sensi e all’intelletto,

==>SEGUE


E sconsolate e tarde
Si struggon l’ore che sperando affretto:
Ahimè, per mille affanni
Già declina il sentier de’ miei begli anni!
Forse mentr’io ti chiamo, e tu nol sai,
Giunge la vita afflitta all’ore estreme;
Né ti vedrò più mai,
Né i nostri petti s’uniranno insieme:
Tu dell’amico intanto
Piangendo leggerai l’ultimo canto.
Se lo spirito infermo e travagliato
Compirà sua giornata innanzi sera,
Non sia dimenticato
Il tuo misero amante: una preghiera
Dal labbro mesto e pio
Voli nel tuo dolore innanzi a Dio.
Morremo, e sciolti di quaggiù n’aspetta
Altro amore, altra sorte ed altra stella.
Allora, o mia diletta,
La nostra vita si farà più bella;
Ivi le nostre brame
Paghe saranno di miglior legame.
Di mondo in mondo con sicuri voli
Andran l’alme, di Dio candide figlie,
Negli spazi e nei soli
Numerando di Lui le meraviglie,
E la mente nell’onda
Dell’eterna armonia sarà gioconda.
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Crediamo che il lettore gradirà di leggere sette sonetti che alla medesima Amica il Giusti indirizzava negli anni giovanili:

I.
Così di giorno in giorno inoperoso
Seguo a gran passi di mia vita il corso,
E penso sospirando il tempo scorso
E in quello che verrà sperar non oso.

Quella per ch’io mi dolgo e sto pensoso,
Sel vede, e non può darmi alcun soccorso:
E in altra parte omai non ho ricorso
Ove l’anima mia trovi riposo.

Né già, se non da Lei cerco quïete,
Che m’è dolce il penar pensando ch’Ella,
Benché lontana, all’amor mio risponde.

E so che ne sospira, e di secrete
Lacrime bagna il viso, e a me favella,
E di tristezza tutta si confonde.

II.
China alla sponda dell’amato letto
Veggo la Donna mia, vigile e presta
Precorrendo ogni moto, ogni richiesta
Dell’adorato ed egro pargoletto.

Ora sospira, ed or lo stringe al petto,
E i lini e l’erbe salutari appresta;
E nella faccia desolata e mesta
Parla la piena del materno affetto.

Ebbro di nuova contentezza e pura,
Tacito seggo dall’opposto lato,
Tutto converso all’amorosa cura.

E negletto quantunque ed oblïato,
Non mi lagno di Lei, ché di natura
Basta la voce a rendermi beato.



Giuseppe  Giusti - POESIE  SCELTE - parte I
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La poesia di G. GIUSTI

di Paola Belloni
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La poesia di Giuseppe Giusti nasce, com’è noto, nel momento più difficile della politica italiana, quando le idee di unità, indipendenza e rinnovamento, alla base del Risorgimento, infiammavano gli animi spronando alla rivolta. Essa non trae origine da una delle solite forme impressionistiche che trovano le loro basi in un’idea frutto di sentimenti letterari, ma scaturisce da una reazione — alla sofferenza, al sopruso, al giogo straniero — che imprime nel cuore il desiderio di educare, formare e preparare il popolo al patriottismo. Ha uno straordinario ritmo agile e sincopato e, seppur costruita con grande attenzione e cura, sembra disinvolta e perfino ribelle alle regole. Con quell’arguzia e quell’impeto che gli sono abituali, Giusti produce versi fluidi e armoniosi che sanno “colpire il vizio” ed educare il lettore. Non mancano neppure le polemiche culturali e letterarie e nei suoi versi si ritrovano termini presi dal lessico quotidiano accostati a vocaboli dotti e raffinati, in latino e persino in francese, posti qua e là per rendere la provocazione ancor più violenta. Come in ogni buono scrittore di satira, ampio spazio è concesso alla rappresentazione ironica dei costumi del mondo italiano, colto negli aspetti più retrivi, ponendo alla berlina la politica reazionaria, il malgoverno e il malcostume; ma la sua satira mordace non raggiunge mai vette di estrema cattiveria, anzi si ripiega, talvolta, nella malinconia. Sulla fortuna letteraria di Giusti è stato scritto molto; esiste una bibliografia a dir poco sterminata. Eppure non è  un poeta “canonizzato”, la sua causa di “beatificazione” è, infatti, tuttora aperta; lo si considera, piuttosto, un poeta complesso, il “contemporaneo” di tutte le varie epoche. E se rimane — agli occhi di qualche lettore poco attento — troppo paesano e prosaico, forse più uomo che poeta, con il suo acume intelligente ha saputo notare passioni, vizi, debolezze proprie di tutti i tempi e descrivere scene che, seppur pensate in Toscana, durante il regno di Leopoldo II, potrebbero gustarsi in qualsiasi parte d’Italia e in ogni tempo. Il più bel commento al Poeta è dato dai lettori, soprattutto quelli più anziani, che ricordano a memoria gran parte delle sue poesie. Quando il popolo umile, modesto, lavoratore, cita appassionatamente un verso, o parla di un poeta con entusiasmo, ciò significa che l’arte di quel poeta ha penetrato il suo animo facendogli vibrare le corde del cuore.
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La vita di un Poeta

Giuseppe Giusti nacque a Monsummano Terme, nella casa dei nonni paterni, il 12 maggio 1809. Il padre, Domenico, era un proprietario terriero che tenne per molti anni l’amministrazione delle Terme di Montecatini; la madre, Ester, era figlia di un fiero repubblicano di Pescia, Celestino Chiti, che subì persecuzioni e carcere durante la reazione del 1799, dopo la discesa degli Austro-Russi nel nostro paese, e si fece ammirare poi per la generosità mostrata contro i suoi persecutori quando, tornato Napoleone in Italia, fu chiamato a ricoprire una carica molto importante nella sua provincia. Il Nostro nutrì sempre, fin da ragazzo, una grande ammirazione per il nonno materno, di cui nel 1837 scriverà la biografia; l’esempio di Celestino Chiti dovette influire notevolmente sulla sua formazione morale e più tardi sul suo orientamento politico, con grande disappunto del padre che sperava, anzi pretendeva, che il figlio prendesse a modello della propria vita l’avo paterno, quello di cui portava il nome e che aveva assicurato alla famiglia un notevole benessere e un elevato rango sociale. Amico e confidente del granduca Pietro Leopoldo, il vecchio Giusti era stato chiamato da questi alla presidenza del Buon Governo, una specie di direzione generale della polizia con attribuzioni molto ampie. Dopo la caduta dei Lorena ed il trionfo di Napoleone, seppe barcamenarsi così abilmente coi nuovi padroni che Maria  Luisa, reggente del regno d’Etruria, lo nominò suo consigliere particolare e gli conferì un titolo nobiliare. Si capisce perciò che Domenico Giusti sognasse per quell’unico suo figlio maschio una carriera statale tanto brillante da rinverdire in famiglia le glorie paterne. Ma quel ragazzo, che pure mostrava un ingegno pronto e vivace, era destinato a dargli non poche delusioni: in primo luogo impiegando più anni
di quanti non ne fossero necessari ad ottenere una laurea in giurisprudenza e, in secondo luogo, mostrando ben presto una disposizione a mettere in burletta quelle istituzioni di cui avrebbe dovuto essere, nei sogni del padre, una solida colonna. Il cavalier Domenico, che a modo suo componeva versi ed aveva una gran passione per la musica e per la Divina Commedia, fu il primo maestro di quel figliolo ribelle ed inquieto, mentre la pratica religiosa fu affidata alla madre; «le prime cose che m’insegnò mio padre furono le note della musica e il canto del conte Ugolino», scriverà più tardi il Poeta in alcuni frammenti autobiografici:
Mio padre che avrebbe voluto fare di me un
Avvocato, un Vicario, un Auditore, insomma
un arnese simile, quando sapeva che io, invece
di stillarmi sul Codice, almanaccavo con
Dante, dopo aver brontolato un pezzo con me
e con gli altri finiva per dire: Già la colpa è
mia.
A sette anni, secondo l’uso delle famiglie agiate, fu affidato al precettore don Antonio Sacchi, guadagnando
parecchie nerbate una perfetta conoscenza
dell’ ortografia, nessuna ombra di latino, pochi
barlumi di storia […] e poi svogliatezza, stizza,
noia, persuasione interna di non esser buono a
nulla.
La modestia del primo precettore non impedì nell’allievo il formarsi precoce di un gusto letterario, orientato dai testi di scuola verso le biografie eroiche e gli episodi patetico- romanzeschi della presa di Gerusalemme. Nel 1821, all’età degli studi regolari, venne mandato a Firenze all’Istituto “Attilio Zuccagni”, dove ebbe per maestro Andrea Francioni, divenuto più tardi accademico della Crusca, il primo che gli metterà nel cuore «il bisogno e l’amore agli studi». La chiusura della scuola lo costrinse a lasciare Firenze per il liceo “Forteguerri” di Pistoia, dove si
fece notare più per la cattiva condotta che per il buon profitto. Nell’estate del ’23 passò al collegio “Carlo Lodovico” di Lucca e qui rimase due anni fino a quando fu espulso sempre per motivi disciplinari. A dodici anni iniziò a scrivere sonetti poi smarriti per incuria. Continuò a comporre anche una volta tornato a casa, a Montecatini, dove la famiglia si era trasferita dal 1815, e a Pisa, dove fu mandato per compiere gli studi universitari in giurisprudenza. Studente pigro e demotivato, dalla vocazione professionale insicura e ormai entrato in contrasto col padre, preferiva il Caffè dell’Ussero alle aule universitarie, mescolandosi ad allegre brigate, facendo conoscenze buone e cattive e collezionando debiti. La vita scapestrata e la «baraonda gioconda» che in Le memorie di Pisa si propongono come autentica lezione di conoscenza del mondo, culminano in un episodio di pubblica indisciplina: i tumulti studenteschi al Teatro dei Ravvivati, che gli fruttano una convocazione da parte dell’autorità di polizia. Il padre pretende che torni a casa, a Pescia, dove nel frattempo la famiglia si era trasferita. I tre anni seguenti sono i più tristi della sua vita: l’ambiente pesciatino ristretto e pettegolo lo priva di quelle soddisfazioni che Pisa gli aveva offerto; sola consolazione, sola àncora di salvezza, il continuo bisogno di scrivere versi: esercitazioni accademiche, sonetti amorosi, componimenti burleschi.
Così il tempo passa, ma intanto gli echi della rivoluzione parigina di luglio si propagano rapidamente in
Europa mentre, nel ducato di Modena, Ciro Menotti organizza quella temeraria insurrezione contro Francesco IV che gli sarebbe costata la vita. Giuseppe Giusti ne rimane colpito e commosso; le sue poesie di quel tempo, accese di un patriottismo generico ma sincero, restano a testimonianza della partecipazione spirituale ai nuovi ideali di libertà e d’indipendenza e segnano l’inizio di un impegno più serio nella sua attività di poeta. Questa improvvisa fiammata di sentimenti liberali rende ancor più difficili i rapporti col padre – conformista e devoto al Granduca – che, rassicurato dal fallimento dei moti romagnoli, lo rispedisce a Pisa per fargli riprendere gli studi. Nel giugno 1834, a venticinque anni, prende finalmente la laurea e si reca a Firenze per far pratica nello studio di Cesare Capoquadri, un principe del foro fiorentino; ma continua ad occuparsi di tutto fuorché di giurisprudenza. Tuttavia, dopo qualche tempo, per non rompere definitivamente col padre e per non dare un grosso dispiacere alla madre, ottiene l’abilitazione all’esercizio dell’avvocatura. Ma non volle mai esercitare la professione, anzi si arrabbiava se qualcuno lo chiamava avvocato. Intanto la sua fama di poeta era cresciuta, alcuni dei suoi vivaci scherzi satirici erano diventati popolarissimi, senza contare le liriche di stampo amoroso ispirate quasi tutte da Cecilia Burlini, maritata Piacentini, con la quale aveva stretto una relazione a Pescia nel 1829, relazione durata, tra alti e bassi, fino al 1836. La verità è che egli ebbe una sola grande passione: ‘la poesia’; per le donne della sua vita provò solo passioncelle e capricci nei quali avevano molta parte i sensi e poca il cuore. Si stabilì a Firenze. Intanto, però, la sua salute si stava aggravando e a nulla valsero i viaggi per ristabilirsi. Nel settembre del ’45 fu a Milano ospite di Alessandro Manzoni col quale aveva già intrecciato da tempo una relazione epistolare. L’affetto del grande “Sandro” e quello di Tommaso Grossi rappresentarono per lui la consacrazione letteraria, e gratificarono il bisogno di un apprezzamento anche umano della sua persona. Visitò Milano e i Laghi ma, soprattutto, discusse con Manzoni il fine della poesia ed accolse le critiche che questi muoveva sulla natura troppo personale della sua satira. Nell’inverno del 1845-46 si recò a Pisa a casa dell’amico Giovanni Frassi che avrebbe più tardi raccolto il suo epistolario e ne avrebbe scritto la biografia. Rientrato a Firenze, andò a stabilirsi nel palazzo dell’amico Gino Capponi, in via San Sebastiano – attuale via Gino Capponi –, dove rimase fino alla fine dei suoi giorni. Se le amicizie restano fedeli, tranne quelle oscurate in seguito da dissensi politici, i suoi amori si dispongono in un quadro più instabile e turbato. Al giovanile amore ideale per Isabella Fantoni, succede negli anni dell’università la tormentata relazione con Cecilia Piacentini. La bella signora pesciatina, madre del Giovannino destinatario di una lettera pedagogica, rappresenta un capitolo fondamentale della sua vita. La vicenda si conclude amaramente e con essa il Poeta congeda l’amica lontana e l’amore. Anche il legame con Isabella Rossi, poetessa e donna di fervidi interessi intellettuali, non lo rimuove dalla scelta di uno «scapolato» gaudente, appena incrinato da qualche rimpianto per la mancata vita familiare. Si susseguono poi alcune relazioni, per così dire, altolocate: quella con la marchesa Girolama U., nobildonna fiorentina, (a lei fu dedicato Il Sospiro dell’anima), e quella con Luisa d’Azeglio vedova di Enrico Blondel, fratello della prima moglie di Alessandro Manzoni. La “Marchesa” e il poeta si compresero e rimasero uniti da durevole affetto. Vedova e rimaritata, Luisa, nata Maumari, dovette essere consapevole della scelta fatta, per la quale ogni rapporto col marito, Massimo d’Azeglio, fu poi rotto per sempre. Ma, nonostante tutto, l’amore appartiene ormai per lui ad un universo di disvalori, e l’aridità interiore, rafforzatasi nella concentrazione sul proprio lavoro e sui propri mali fisici, autorizza il distacco e la freddezza. Nella quiete di palazzo Capponi continua il suo lavoro. La poesia, nel frattempo, accantona l’indagine sulla società e si lega alla cronaca politica, quasi a commento degli eventi che precedono il Quarantotto.
Il trionfo dell’ipotesi neoguelfa, dopo il Primato di Gioberti, modifica gli equilibri italiani ed incide sulla politica dei governanti. Le aperture di Leopoldo II, ottenute in seguito a vivaci sollecitazioni del partito moderato, creano un clima di attesa e di speranza che pare rispondere alle richieste mosse negli anni precedenti. Pur facendosi osservatore dei mutamenti positivi del momento, Giusti è in realtà spiazzato dagli avvenimenti. Assiste alle vicende rivoluzionarie della primavera del ’48 da palazzo Capponi e, solo
con l’ascesa al potere dei democratici, sposa la causa moderata. Nella primavera-estate del 1848 è occupato dall’organizzazione della Guardia Civica per la città di Pescia; eletto maggiore, al comando di un battaglione dimostra discrete capacità pratiche; partecipa alla prima e alla seconda legislatura concedendo il proprio appoggio ai governi moderati di Ridolfi e di Capponi e si attira, così, le ire della stampa di sinistra che lo accusa di tradimento. Nel 1849, però, non ha voti sufficienti per essere rieletto all’Assemblea Costituente creata dal governo democratico-rivoluzionario presieduto da Guerrazzi. La sfortunata campagna contro l’Austria conclusasi con l’armistizio di Salasco, il fallimento dell’ipotesi moderata, reso evidente dalla fuga di Leopoldo II e di Pio IX a Gaeta, il governo democratico a Firenze e la breve dittatura di Guerrazzi costituiscono eventi tragici per la sua lucidità mentale. Guerrazzi diventa il suo bersaglio e neppure la fine della dittatura e il ritorno del Granduca appoggiato dagli Austriaci lo distolgono dalla sua chiusura intellettuale. L’isolamento politico diventa anche solitudine morale e i dubbi sulla propria poesia si fanno così forti da costringerlo al silenzio. Alla satira sembra succedere il tentativo di un affresco collettivo.
Intanto, nell’aprile del 1848 viene eletto membro dell’Accademia della Crusca; tornato poi a Firenze all’inizio del 1850, dopo un inverno di malattia, muore in palazzo Capponi la mattina del 31 marzo, giorno di Pasqua, per soffocamento dovuto ad un improvviso flusso sanguigno. La sera del 1° Aprile il suo corpo viene portato nella chiesa di San Miniato al Monte, e lì seppellito. La vita e l’opera di Giuseppe Giusti furono segnate dalla concorrenza di due determinanti fondamentali: il conflitto nei rapporti col padre e il rifiuto del tipo di organizzazione e dei valori dominanti nella società italiana, e toscana in particolare, del suo tempo. Dal primo deriveranno quel rovello, quella insoddisfazione, quel senso di incompiutezza che caratterizzano la sua personalità e sono abbondantemente testimoniati sia dai versi che dalle prose (in specie quelle di tipo autobiografico o di confessione, assai frequenti nell’Epistolario). Esistono, nella sua struttura psichica, cariche atte a sviluppare tutta una serie di reazioni e difese, di spostamento e occultamento dell’ aggressività da una parte, di rassicurazione e riparazione dall’altra. Quelle della prima specie si identificano sostanzialmente col riso e con le sue forme giocose e satiriche, quelle della seconda comprendono l’apatia che è, a livello manifesto, disposizione a lasciarsi andare per sfuggire all’azione e ai contrasti e per sdrammatizzare le situazioni potenzialmente penose. All’angoscia della disgregazione e della morte si oppongono, quindi, tendenze costruttive, la tensione verso una comunione affettiva e sociale, assicurata da contrasti e dissonanze, che potremo chiamare il paesanismo-«chiocciolismo» giustiano:3 un massimo di chiusura ed esclusione del grande mondo che è poi solo una forma di rimpianto della condizione prenatale. Il condizionamento familiare va legato al contesto strutturale della società e del momento storico in cui il Poeta visse. Entro le coordinate storico-culturali proprie della Toscana, la sua posizione è tra le più singolari. Con chiara coscienza egli disdegnò di integrarsi nel sistema granducale della Restaurazione e, così, finì per essere un prototipo della figura moderna dell’intellettuale laureato disoccupato.
Di siffatta strozzatura storica, il nostro ebbe coscienza e cercò di definirla in una sua confessione:
Nella generale ipocondria che mette di mal’umore
i giovani del mio tempo, mi pare di ravvisare
un non so che di affettato e stucchevole.
[…] I desideri impronti, le speranze smoderate
ci avvezzano per tempo a stimarci degni di
ciò che è di meglio al mondo; d’altro canto,
una volontà fiacca in un corpiciattolo più fiacco
che mai c’inchiodano, per dir così, in una
poltrona di beata melensaggine ad aspettare
che la sorte ci dia l’imbeccata; intanto gli anni
passano, i sogni vanno in fumo e noi restiamo
lì grulli e scontenti, e buoni a nulla. […] Allora
versacci di rabbia intonacata di dolore, allora
romanzacci dove si calunnia Dio e l’umana
natura. Tempo fa la malinconia spingeva nei
monasteri o nei romitorii, oggi spinge a dar
fuori in istampa il disgusto di sé sotto colore di
romantiche ubbie.
La coscienza che avrà assai precisa della situazione del suo tempo fu condizionata a tutti i livelli dagli orientamenti della cultura dominante in Toscana. Un intellettuale come lui, specialmente negli anni giovanili, piuttosto che un ruolo di rappresentanza degli interessi di classe, sembra assumerne uno più mediato e universale. Negli anni pisani nutrì incomprensione per le posizioni più decise e radicali, specialmente se legate alle organizzazioni settarie, ma non fu esente da influenze democratico - repubblicane. La sua filosofia giudicativa fu il “buon senso”, saggezza pratica tratta dall’esperienza e dalla memoria paesana e campagnola (quella dei proverbi, di cui lui stesso fu sagace e convinto raccoglitore). Ma la “saggezza-buon senso” non gli consentiva di giungere all’analisi delle cause del problema toscano e italiano per cui la sua reazione rimase ad uno stadio emotivo e moralistico fatto di disagio e di ansia. Le sue idee, però, finirono con l’essere un adattamento alle posizioni della classe egemone, vale a dire di quel liberalismo moderato su cui modellò le proprie aspirazioni indipendentistiche e unitarie. E fu la poesia scherzoso-satirica il più efficace sfogo consentitogli; in questa, infatti, si confondono le due motivazioni della sua personalità: i dinamismi edipici – che lo portavano ad identificare il padre con gli oggetti del mondo socio-politico, emblemi di oppressione, inerzia e assenza di valori – ed il rifiuto della società della Restaurazione. Il suo mondo poetico è scomposto in “scene”, “scenette”, “farse”, “casetti”, la società appare come un confuso groviglio carnevalesco, gli uomini del suo tempo sembrano «burattini» o «pantomini», la sua stessa memoria, negli appunti presi, è fatta di «commedie vedute».5 Tale visione finirà con l’assumere un senso di espressione “corale”, è come se egli divenisse interprete degli oppressi e degli onesti in nome del buon senso. Affermazioni, queste, del tutto in linea con una poetica moderatamente romantica, di cui venne delineando i tratti per più di un decennio, dal ’35 in poi, ma senza un vero svolgimento. Fortemente influenzata dalle posizioni dell’“Antologia”, tale poetica è articolata sui principi dell’arte interprete dei bisogni del tempo, finalizzata al bene e all’utile, rappresentante del vero e destinata, almeno nelle intenzioni, al popolo. Il suo, però, è un romanticismo che si vuole collocare in una condizione di equidistanza dalle due scuole: libertà «dalle panie aristoteliche e dalle fuliggini sataniche» sul piano dei temi e dei motivi, per volontà di “paesanità”, e rifiuto dei suggerimenti stranieri in cui si paventa l’insidia di un asservimento anche intellettuale. Dunque egli non fu certo sprovvisto di una sua cultura
ma non fu neppure un gran lettore e non c’è ragione didubitare delle sue parole quando ad Atto Vannucci scrisse:
Ho avuto molta facilità di imparare, ho letto
pochi libri, ma credo d’averli letti bene assai;
del resto sono ignorantissimo di molte cose
essenziali, da far paura e pietà a me stesso.
Nella medesima lettera autobiografica accenna alla nascita e alla storia delle sue poesie:
Fino dal 1831, a forza di raspare senza guida e
senza concetto, m’era venuto fatto uno scherzo
sulle cose d’allora, e il favore degli amici, piuttosto
che il mio proprio giudizio, mi fece intendere
che poteva aprirmisi una via.
Subito dopo trascurò questa sorta di vocazione: si sentiva ignorante e aveva letto troppo poco. Poi riprese a comporre e
anno per anno ho seguitato, senza presunzione,
senza odio contro nessuno in particolare, e
senza tenere per moneta corrente tutto il bene
che me ne dicono e tutto il grido che me ne
promettono.
Così nascono gli Scherzi che si diffondono in copie manoscritte, per la Toscana prima e per l’Italia poi.
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Le cattoliche catene.
Brucia i frati e gongola6.
Sir John Bull propagatore
Delle macchine a vapore
Manda i tory a rotoli.
Il Chiappini si dispera,
E grattandosi la pera
Pensa a Carlo Decimo7.
Ride Italia al caso reo,
E dall’Alpi a Lilibeo
I suoi re si purgano.
Non temete; lo stivale
Non può mettersi in gambale;
Dorme il calzolajo8.
Ma silenzio! odo il cannone:
Non è nulla: altro padrone!
Habemus Pontificem.
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1 Il Balì Samminiatelli era il direttore del giornale La voce della verità 2 I Carbonari sono d’incerta origine. Secondo alcuni la Carboneria risalirebbe nientemeno che ai tempi di Francesco I re di Francia 3 La Polonia era insorta contro la Russia, illusa sulle simpatie europee e specialmente per lo sperato ajuto della Francia. 4 Lo Scita, lo Czar, invece di commoversi, aguzzava l’occhio sugli Stati del vicino per vedere se, nel perturbamento prodotto da quella morte, vi fosse modo di rosicchiar qualche lembo di terra. 5 La Prussia era stata chiamata il gendarme della Santa Alleanza 6 Nel Portogallo v’era l’insurrezione contro Don Miguel, nella Spagna la guerra dei Carlisti 7 Il Chiappini era Luigi Filippo 8 Dorme il calzolajo. Il popolo italiano dormiva nella servitù, e per questa ignavia i re, che facevano mal governo della penisola, potevano dimettere ogni paura.
III.
Se Amor m’invoglia di guardar colei,
Per cui mesto tacendo ardo o deliro,
Qua e là dapprima incerto il guardo giro,
Ché tutti temo intenti agli occhi miei.

Rassicurato alquanto, i vaghi e bei
Sembianti in atto dubitando miro;
Ma un tremito m’assale, ed un sospiro
Palesa quello che celar vorrei.

Onde negar m’è forza altrui sovente
L’occulta fiamma, e quell’amor sincero
Che mi ragiona in cor sì dolcemente.

Ma invan tento celare il bel mistero,
Ché gli occhi mesti e la voce dolente
Son, mio malgrado, testimon del vero.

IV.
Poiché m’è tolto saziar la brama
Di quell’aspetto angelico e sereno,
E il cor dietro il desìo che non ha freno
Si riconduce a Lei che onora ed ama;

Seguo un mesto pensier che a sé mi chiama
Fuor d’ogni vaneggiar falso e terreno,
E solitario vivo, e di Lei pieno
Sulle carte mi volgo a cercar fama.

E se fortuna tanto mi concede
Che nome acquisti in opera d’inchiostro,
A Lei ritornerò pieno d’amore

E le dirò: lo studio e il dolce onore
E questa fama è beneficio vostro:
E le mie rime deporrolle al piede.

V.
Invido sguardo vigilando vieta
Che l’immenso amor mio tutto palesi:
L’occulta fiamma che a celare appresi,
Nota voglio a te sola, altrui segreta.

Ahi quante volte fu gioconda e lieta
La lingua, e gli occhi di letizia accesi!
Ché teco i miei pensieri erano intesi
D’amor, di brama ardente e irrequïeta.

T’amo, sì t’amo: oh! se ti parla in petto
Pietà di me deserto e sconsolato,
Schiudi l’alma gentile a tanto affetto.
==>SEGUE


Disdice orgoglio d’un amor spregiato
Alla dolcezza di sì caro aspetto:
Dimmi ch’io speri, e mi farai beato.

VI.
Da questi Colli i miei desiri ardenti
Volano sempre come amor gli mena,
Ove dietro al pensier giungono appena
Gli occhi per molte lacrime dolenti.

E allor che la città per le crescenti
Ombre dispare, e la campagna amena.
Cerco del ciel la parte più serena
E le stelle più care e più lucenti.

E se vicino a me muove uno stelo,
Muove spirando la notturna auretta,
Credo tu giunga, e al cor mi corre un gelo.

E quando te non vedo, o mia diletta,
Gli occhi si volgon desiosi al cielo,
Come alla parte onde talun s’aspetta.

VII.
Fra le care memorie ed onorate
Mi sarai nelle gioje e negli affanni.

Andrò da te lontano, i giorni e l’ore
Consumerò nel pianto e nell’affanno;
I più dolci pensier meco verranno,
Alimentando sempre il mio dolore.

Perduti insiem con te, mio dolce amore,
I beni della vita a me parranno;
Né giochi o danze rallegrar potranno
La mesta solitudine del core.

Gli anni ridenti fuggiranno, e muto
Sarà l’ingegno e l’amoroso verso,
Ch’or sorge a stento all’ultimo saluto.

E al cielo e al mondo e alla fortuna avverso,
Amando e sospirando il ben perduto,
Abbonirò me stesso e l’universo.

Il Giusti voleva esser nuovo e batter sentieri non calcati da altri. Vi riescì spesso nelle satire: non così nei versi d'amore.  Questa epistola all'amica lontana è bella di elegante semplicità e riboccante di melanconico affetto; ma non può essere certamente presentata come modello d'originalità. I pensieri non sono nuovi e neppure la forma: sia detto con buona pace degli ammiratori ad ogni costo. L'innamorato cedeva alla moda; e a ventisette anni (ché tanti ne aveva nel 1836 quando la scrisse), ed era prospero di salute e non soffriva ancora di quei malanni che più tardi l'afflissero, cantava di morire per ascendere al petrarchesco cielo degli amanti.  I lettori, che hanno avuto la pazienza di scorrere la biografia, conoscono la storia di questo amore (vedi pag. 21): e l'amico Frassi, al quale egli fece vedere la signora in teatro a Pisa, confidandogli l'amor suo col bisogno d'espansione che hanno i giovani, scrive ch'era "bellissima e, cosa strana, dal volto, dagli occhi, dal contegno pareva che non sapesse d'esser bella". Ma ahimè! poche settimane dopo averle mandati quei versi ai bagni di mare ov'essa s'era recata colla famiglia, la dolce catena si ruppe.
Pubblicò questa poesia nel 1841 nella strenna Viola del pensiero di Livorno col sottotitolo Lettere in versi e la nota: "Non ho osato mettere in cima a questi versi, scritti molti anni sono, nel primissimo fuoco della gioventù, ode, elegìa o altro titolo che potesse ricordare un dato genere di componimento e richiamare la mente di chi gli leggerà a fare confronti che mi riescirebbero svantaggiosi." All'amico Silvio Orlandini poi faceva la storia della poesia: "Mi dettò questi versi il bisogno di sfogare in qualche modo un amore vero, schietto, fortissimo, che mi sovrabbondava nell'animo. Eravamo nel luglio del 1836, e già da anni ed anni io era preso da quella alla quale furono indirizzati. A lei come a me correva l'obbligo di non ismentire un amore dal quale non potevamo tirarci indietro nessuno dei due. Di chi fosse la colpa non tocca a me a dirlo, ma il fatto è che fu sciolto poche settimane dopo che io le ebbi mandati questi versi. Dal dolore che n'ebbi, nacque in gran parte il nuovo giro che presero i miei pensieri e il mio stile."
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Il Giusti curava il sonetto come un'opera d'arte complessa e abborriva da quelli che sacrificavano i primi tredici versi all'ultimo, come se quelli fossero una traccia di polvere che va a dar fuoco a una bombarda. "I nostri primi padri iscriveva a Camillo Tommasi) scrissero il sonetto meglio di tutti sicuramente, e lo scrissero semplice semplice, con un andamento piano e malinconico, come quello che era riserbato a trattare cose d'amore. Taciuta quella prima, vergine, vigorosa forza delle passioni, il Sonetto doventò Madrigale, poi Epigramma di quattordici versi..."


PRETERITO PIÙ CHE PERFETTO
DEL VERBO «PENSARE»
1839

Il mondo peggiora
(Gridan parecchi),
Il mondo peggiora:
I nostri vecchi
Di rispettabile,
D’aurea memoria,
Quelli eran uomini!
Dio gli abbia in gloria.
È vero: i posteri
Troppo arroganti,
Per questa furia
D’andare avanti,
All’uman genere
Ruppero il sonno,
E profanarono
L’idee del nonno.
In illo tempore,
Quando i mortali
Se la dormivano
Fra due guanciali;
Quand’era canone
Di Galateo
Nihil de Principe,
Parum de Deo;
Oh età parifiche,
Oh benedette!
Non c’impestavano
Libri e gazzette;
Toccava all’Indice
A dire: io penso1;
Non era in auge
Questo buon senso,
Questi filosofi
Guastamestieri,
Che i dotti ficcano
Tra i Cavalieri2.
Pare impossibile!
La croce è offesa
Perfin sugli abiti!
(Pazienza in Chiesa!)
E prima i popoli
Sopra un occhiello
Ci si sciupavano
Proprio il cappello.

==>SEGUE


Per questo canchero
Dell’Uguaglianza
Non v’era requie
Né tolleranza;
Non era un martire
Ogni armeggione
Dato al patibolo
Per la ragione3.
Tutti serbavano
La trippa ai fichi:
Oh venerabili
Sistemi antichi!
Per viver liberi
Buscar la morte?
È meglio in gabbia,
E andare a Corte,
Là servo e suddito
Di regio fasto,
Leccava il Nobile
Cavezza e basto.
E poi dell’aulica
Frusta, prendea
La sua rivincita
Sulla livrea.
Ma colle borie
Repubblicane
Non domi un asino
Neppur col pane;
E in oggi, a titolo
Di galantuomo4,
Anco lo sguattero
Pretende a omo.
Prima trattandosi
D’illustri razze,
A onore e gloria
Delle ragazze,
Le mamme pratiche,
E tutte zelo,
Voleano il genero:
Con il trapelo5.
Del matrimonio
Finiti i pesi
Nel primo incomodo
Di nove mesi,
Si rimettevano
Mogli e mariti
L’uggia reciproca
Di star cuciti;

==>SEGUE


E l’Orco, e i magici
Sogni ai bambini,
Eran gli articoli
Del Lambruschini6.
Oggi si predica
E si ripiglia
La santimonia
Della famiglia.
I figli, dicono,
Non basta farli;
V’è la seccaggine
Dell’educarli.
E in casa il tenero
Babbo tappato,
Cova gli scrupoli
Del proprio stato;
E le Penelopi
Nuove d’Italia,
La bega arcadica
Di far la balia.
Oh tempi barbari!
Nessun più stima
Quel vero merito
Di nascer prima,
Dolce solletico
Di un padre al cure:
Ah l’amor proprio
È il vero amore!
Tu, tu, santissimo
Fide-commesso,
Da questi Vandali
Distrutto adesso7,
Nel Primogenito
Serbasti unito
L’onor blasonico,
Il censo avito,
E in retta linea
D’età in età
Ereditaria
l’asinità.
Ora alla libera
Vede un signore
Potarsi l’albero
Dal creditore;
L’usura, il codice,
Ne ròse i frutti;
Il Messo e l’Estimo
Pareggia tutti;

==>SEGUE


Chi non sa leggere
Si chiama un ciuco,
E inciampi cattedre
Per ogni buco.
Per gl’illustrissimi,
Funi e galere
Un giorno c’erano
Per darla a bere;
Ma in questo secolo
Di confusione
Si pianta in carcere
Anco un Barone;
E s’aboliscono
Senza giudizio
La corda, il boia,
E il Sant’Uffizio.
Il vecchio all’ultimo,
Saldando ai Frati
Quel po’ di debito
De’ suoi peccati.
I figli poveri
Lasciava, e pio
Mettea le rendite
In man di Dio.
Oggi ripiantano
L’a ufo in Cielo8,
E a’ pescivendoli
Torna il Vangelo.
E se il Pontefice
Fu Roma e Toma9,
Or non dev’essere
Nemmanco Roma:
E si scavizzola,
Si stilla tanto,
Che adesso un Chimico
Rovina un Santo.
Prima il Battesimo
Ci dava i re,
In oggi il popolo
Gli unge da sé;
E se pretendono
Far da padrone
Colle teoriche
Del re leone,
Te li rimandano
Quasi per ladri:
Beata l’epoca
De’ nostri Padri!



Il primo titolo di questa poesia, che il Giusti chiama uno scherzo piuttosto che una satira, era ancor più lungo, come quasi sempre accadeva al poeta che esponeva nel titolo il concetto che lo aveva guidato al fare; s’intitolava: Preterito più che perfetto del verbo pensare conjugato da un cinico: poi lo ridusse al titolo che leggiamo in fronte a questi versi. Il poeta volle mettere di fronte i due secoli manzoniani, l’uno armato contro l’altro: o, per dir più esattamente, i costumi della generazione che precedette la Rivoluzione francese e lo spirito informatore del secolo nostro che è di eguaglianza e di libertà. Prima del 1796 si lasciava che per tutto facessero i pochi e che questi emanassero ordini che si obbedivano, buoni o cattivi che fossero, senza discuterli. «Riponevasi (scrive Cesare Cantù nella Storia degli italiani) il bene supremo nel riposo; si camminava nel solco antico e sugli esempi e il pregiudizio; e per risparmiarsi la fatica del pensare e dell’operare, si pensava e si agiva secondo la moda altrui.» V’erano bensì quelli che avevano sentito nell’aria il mutamento, ed aprivano le menti alle libere dottrine di filosofia, di diritto, di economia pubblica, preparando sé e gli altri alle innovazioni, specialmente nella Lombardia, nella Toscana e a Napoli; ma la trasformazione decisiva doveva accadere per il fatto violento della Rivoluzione i cui principi furono qui portati dagli eserciti repubblicani col Bonaparte. Però il poeta ci presenta come fatti compiuti parecchi postulati della civiltà che, dopo sessant’anni, sono ancora semplici aspirazioni.
________________________________


1 La Congregazione dell’Indice pensava per tutti, e vieta tuttavia la lettura dei libri che accennino a qualsiasi libertà di pensiero. 2 Questa strofa era scritta originariamente cosi:
Né avean filantropi
Guastamestieri
Confusi i poveri
Coi cavalieri.
Colla diversa forma il poeta intese dire che, grazie alle nuove idee, oggidì si fan cavalieri anche i dotti; ma nella strofa seguente, quasi presago del discredito nel quale dovevan cadere le croci prodigate alla folla per ogni sorta di servigi, si affretta a soggiungere che mentre una volta tutti si inchinavano a chi portava un nastrino all’occhiello dell’abito, omai più nessuno si cura di questo distintivo della vanità. 3 I vecchi chiamavano armeggioni quelli che propagavano le idee di libertà e di giustizia; e gli odierni conservatori non chiamano diversamente i novatori che preparano i trionfi del domani. 4 A titolo di galantuomo. Con queste idee di eguaglianza che son nell’aria, anche il guattero solamente perché galantuomo, pretende d’essere un uomo, un cittadino come gli altri. Il Fioretto ricorda, a questo punto, il detto di quel nobile tedesco: «L’uomo comincia per me dal barone in su.» 5 Il trapelo è il cavallo che nelle salite si aggiunge a quelli che tirano la carrozza. In senso traslato si chiama trapelo ogni genere d’ajuto; e la satira accenna a quelle mamme provvide le quali volevano che nel contratto nuziale si stipulasse l’obbligo del cavalier servente, ajuto allo sfiaccolato marito e conforto alla pudica sposa. Il Giusti aveva scritto prima:
Di quella scuola
Piena di scrupoli
Per la figliuola,
Volea, nel rogito
Del sacro rito,
Un onestissimo
Vice-marito.
6 Gli sposi, una volta avuto un figlio erede del nome e del censo, si consideravano come sciolti da ogni obbligo reciproco. Il figlio cresceva fra i servi che gli turbavano la debole mente colle favole dell’orco, del lupo mannaro e di tutte le diavolerie della superstizione; e tali racconti tenevan luogo degli insegnamenti dei moderni pedagogisti. Fra questi il Giusti nomina Raffaele Lambruschini, uomo mite e retto, nato nel 1788 in Genova e morto a Firenze nel 1873, la cui Guida dell’educatore
aveva menato, a quei tempi, gran rumore. Era abate; ma, devoto alla patria, si staccò da Roma, ad onta del corruccio dello zio segretario di Stato con Gregorio XVI. 7 Leopoldo I, come dicemmo nelle note alla Vestizione, abolì i fidecommissi che trasmettevano le ricchezze al primogenito, spogliando gli altri figli che dovevano andar soldati o preti o entrare in un monastero, affine di conservare integri gli averi a chi continuava il nome e il lustro della famiglia. Al posto di questa sola strofa, il poeta ne aveva scritte tre che condensò con vantaggio del concetto che voleva esprimere:
Oh legge provvida
Dei maggioraschi!
Il patrimonio
(Fra donne e maschi
Da falsi codici
Or manomesso)
Reggendo un utile
Fidecommesso
E dando titoli
E borsa opima
Al vero merito
Di nascer prima,
Nel primogenito, ecc.
8 Una volta i ricchi furfanti, dopo essere vissuti inchinati da tutto il mondo che onora la fortuna, quando stavano per morire, credevano di comperare l’indulgenza per il paradiso lasciando gli averi ai frati; oggi in paradiso si va invece senza spesa, a ufo. Vuolsi che l’a ufo derivi dalle parole ex Uff., cioè d’ufficio, che si metteva sulle lettere dei funzionari che una volta viaggiavano senza pagare diritti di posta. 9  Questa locuzione è usata fuor di luogo dal Giusti, che è tanto accurato nella scelta delle frasi.
AFFETTI D’UNA MADRE

Presso alla culla in dolce atto d’amore,
Che intendere non può chi non è madre,
Tacita siede e immobile; ma il volto
Nel suo vezzoso bambinel rapito,
Arde, si turba e rasserena in questi
Pensieri della mente inebriata.
Teco vegliar m’è caro,
Gioir, pianger con te: beata e pura
Si fa l’anima mia di cura in cura;
In ogni pena un nuovo affetto imparo.
Esulta, alla materna ombra fidato,
Bellissimo innocente!
Se venga il dì che amor soavemente
Nel nome mio ti sciolga il labbro amato;
Come l’ingenua gota e le infantili
Labbra t’adorna di bellezza il fiore,
A te così nel core
Affetti educherò tutti gentili.
Cosi piena e compita
Avrò l’opra che vuol da me natura;
Sarò dell’amor tuo lieta e sicura,
Come data t’avessi un’altra vita.
Goder d’ogni mio bene,
d’ogni mia contentezza il Ciel ti dia!
Io della vita nella dubbia via
Il peso porterò delle tue pene.
Oh, se per nuovo objetto
Un dì t’affanna giovenil desio,
Ti risovvenga del materno affetto!
Nessun mai t’amerà dell’amor mio.
E tu nel tuo dolor solo e pensoso
Ricercherai la madre, e in queste braccia
Asconderai la faccia;
Nel sen che mai non cangia avrai riposo.
____________________________
Aggiungiamo qui, affinché i lettori possano seguire lo svolgimento del pensiero del poeta, anche la poesia ad Amalia Rossi-Restoni per la nascita del di lei primo figlio, che generò gli Affetti d’una madre:

L’abito è disadorno,
Negletto il culto delle molli chiome;
Ripete un caro nome;
E alle carezze, ai baci, è breve il giorno
Nelle forme leggiadre
Del bambinello assorta,
D’etereo cibo in lui si riconforta
Che mai gustar non può chi non è madre
Dalla romita stanza
Per poca ora s’invola,




Qui parla il cuore: il suo linguaggio vero e semplice non ha bisogno di commenti. Quando si parla o si scrive della madre, la parola trova da sé le espressioni più dolci e acquista una soavità piena di tenerezza e di melanconia. Il Giusti aveva per la madre un vero culto perché essa lo comprendeva nelle sue aspirazioni e anche nelle sue debolezze, lo ajutava di nascosto dal padre, ed era altrettanto affettuosa quanto quello era rigido. Nel 1837 aveva scritto alcune strofe per una signora beata per la nascita d’un figliuolo; due anni dopo le rifuse in questa poesia che pubblicò nella strenna La Viola del pensiero di Livorno del 1839. All’amico Giannini scriveva: «La madre, gli affetti della quale ho cercato di interpretare in questi pochi versi, semplici e nudi affatto d’ogni ornamento poetico; non è la Giulia di Rousseau, né la donna libera di Saint-Simon: è una donna nostrale, una donna di casa. La troppa dottrina e il poco ritegno nuocciono del pari alle donne...»
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E fra le genti le par d’esser sola
Pensando a quella sua dolce speranza.
Con lui parla, e risponde
Una favella da lei sola intesa;
E l’uno all’altro il suo desir palesa,
E l’un nell’altro l’amor suo trasfondo.
Presso la culla amata
Tacita siede, e immobil la diresti;
Ma parla il volto, o si tramuta in questi
Pensieri della mente innamorata:
– A questa prima vita
Nove mesi in me stessa io ti formai,
Or dal mio latte avrai
nuovo incremento a questa prima vita.
Teco vegliar m’è caro,
Gioir, pianger con te: sublime e pura
Si fa l’anima mia di cura in cura,
Ché in ogni pena un nuovo affetto imparo.
Come sul caro viso
Per me ti spunta di bellezza il fiore,
A te così nel core
Il giglio educherò di Paradiso.
Deh cresca alla materna ombra fidato
Il peregrino stelo,
E ognor benigno il cielo
Vivido a me lo serbi, e intemerato.
Oh se per nuovo objetto
Un dì t’affannerà gentil desìo,
Ti risovvenga del materno affetto!
Nessuno t’amerà dell’amor mio.
E tu nel tuo dolor mesto o pensoso
Ricercherai la madre, e in queste braccia
Asconderai la faccia,
Come sull’origlier del tuo riposo.
PER IL PRIMO CONGRESSO DEI DOTTI
TENUTO IN PISA NEL 1839

Di sì nobile Congresso
Si rallegra con sé stesso
Tutto l’uman genere,
Tra i Potenti della penna
Non si tratta, come a Vienna,
D’allottare i popoli1.
E per questo un tirannetto
Da quattordici al duetto
Grida: oh che spropositi2!
Questo Principe toscano,
Per tedesco e per sovrano,
Ciurla un po’ nel manico3.
Lasciar fare a chi fa bene?
Ma badate se conviene!
Via, non è da Principe.
Inter nos, la tolleranza
È una vera sconcordanza,
Cosa che dà scandalo.
Non siam re mica in Siberia:
Dio ‘l volesse! Oh che miseria
Cavalcar l’Italia!
Qui, nell’aria, nel terreno,
Chi lo sa? c’è del veleno:
Buscherato il genio!
Un’Altezza di talento
Questo bel ragionamento
Taccia a sé medesimo:
Se la stessa teoria
Segue, salvo l’eresia,
Il morale e il fisico;
Anco il lume di ragione,
Per virtù di riflessione,
Cresce e si moltiplica.
E siccome a chi governa
È nemica la lanterna
Che portò Diogene4,
Dal mio Stato felicissimo
(Che per grazia dell’Altissimo
Serbo nelle tenebre)
Imporrò con un decreto
Che chi puzza d’alfabeto
Torni indietro subito;
E proseguano il viaggio,
Purché paghino il pedaggio,



==>SEGUE


Solamente gli asini.
Ma quel matto di Granduca
Di tener la gente ciuca
Non conosce il bandolo.
Qualche birba lo consiglia;
O il mestare è di famiglia
Vizio ereditario5.
Guardi me che so il mestiere,
E che faccio il mio dovere
Propagando gli ebeti.
Per antidoto al progresso,
Al mio popolo ho concesso
Di non saper leggere.
Educato all’ignoranza,
Serva, paghi, e me n’avanza:
Regnerò con comodo.
Sì, son Vandalo d’origine6,
E proteggo la caligine,
E rinculo il secolo.
Maledetto l’Ateneo
Che festeggia il Galileo,
Benedetto l’Indice.

1 Nel Congresso di Vienna del 1815, la trionfante reazione che aveva schiacciata l’idea rivoluzionaria si divise i popoli alla lotteria, come fossero stati branchi di pecore pascolanti su poderi abbandonati. 2 Da quattordici al duetto. Il duetto era una moneta toscana che valeva due quattrini. Francesco IV come vedemmo, era un tirannello di piccola autorità, impotente a far altro che il male. 3 Leopoldo II, austriaco, mancava ai suoi obblighi verso l’imperatore, capo della famiglia, col non mostrarsi reazionario al pari di lui. 4 Il duca di Modena ragiona qui come quel rajà delle Indie al quale un ufficiale inglese spiegava l’arte della stampa. Il despota ascoltò con molta attenzione la lezione, e quando l’altro ebbe finito esclamò: «Con quest’arte i miei sudditi imparerebbero troppe cose e diventerebbero eguali a me: essi avrebbero finito di obbedire, io di comandare.» Solamente in Inghilterra, fra gli Stati d’Europa, la stampa può dirsi veramente libera. 5 Allusione a Leopoldo I che diede alla Toscana le famose riforme nel secolo passato. 6 Vandalo d’origine. Il nonno di Francesco IV era uno dei tanti figli di Maria Teresa: il poeta gli fa dire d’essere un discendente dei Vandali, cioè di quei rozzi stranieri scesi al saccheggio d’Italia.



I Congressi dei Dotti, che si tennero in Italia dal 1839 al 1847, giovarono efficacemente a diffondere l’idea di patria col metter insieme gli studiosi delle diverse regioni che, divisi da barriere e da dogane, si conoscevano a malapena di nome o non si conoscevano punto. In quelle riunioni si parlava di scienza, ma di questa si studiavano e vantavano i progressi per l’onore della patria comune, che sebbene sminuzzata da sette confini, era idealmente una di nome e di cuore; si dissipavano pregiudizi regionali, si stringevano utili amicizie; e tornando alle loro case quei dotti portavano ai rimasti confortevoli parole di misteriosa speranza. «Poco fecero per la scienza, ma molto per la liberazione della nazione», scriveva il Farini; e il maresciallo Radetzky, sempre vigile contro le aspirazioni liberali, giudicava quei Congressi intesi «a gettare le fondamenta dell’opera infernale della rigenerazione italiana». La Toscana ebbe l’onore d’iniziatrice, ospitando i naturalisti del primo Congresso che si tenne in Pisa. Il granduca Leopoldo II, che aveva l’ambizione di imitare il nonno filosofo e riformatore, fece fare per quell’occasione la famosa tribuna di Galileo al museo di storia naturale, e inaugurò nell’Università la statua del grande scienziato, opera del Demi; poco dopo iniziava la pubblicazione di tutte le opere del Galilei. Era quello il tempo della prima maniera del granduca; dopo il 1849 doveva mostrarsi ancor lui austriaco e oppressore tristo al par degli altri. Nel 1839 non tutti i regoli d’Italia la pensavano come il granduca; e specialmente erano a questi Congressi avversi papa Gregorio XVI e il duca di Modena, paurosi d’ogni luce d’intelletto, perché ben sapevano che la scienza passeggia a braccetto della libertà. Da tale avversione ebbe origine questa satira. Qual meraviglia del resto che Francesco di Modena fosse avverso ai dotti? Il suo complice Canosa insegnava ai principi: «Una causa dello sconquassamento del mondo è la troppa diffusione delle lettere. Ci vuole una gran massa di gente buona e tranquilla, la quale si contenti di vivere sulla fede altrui e lasci che il mondo sia guidato coi lumi degli altri, senza pretendere di guidarlo coi lumi propri... Se si trovasse un maestro il quale con una sola lezione potesse rendere tutti gli uomini dotti come Aristotele e civili come il maggiordomo del re di Francia, questo maestro bisognerebbe ammazzarlo subito per non vedere distrutta la società.»
____________________________________
IL BRINDISI DI GIRELLA
DEDICATO AL SIGNOR DI TALLEYRAND BUON’ANIMA SUA
1840

Girella (emerito
Di molto merito),
Sbrigliando a tavola
L’umor faceto,
Perde la bussola
E l’alfabeto;
E nel trincare
Cantando un brindisi,
Della sua cronaca
Particolare
Gli uscì di bocca
La filastrocca.
Viva Arlecchini
E burattini
Grossi e piccini:
Viva le maschere
D’ogni paese;
Le Giunte, i Club, i Principi e le Chiose1.
Da tutti questi
Con mezzi onesti,
Barcamenandomi
Tra il vecchio e il nuovo,
Buscai da vivere,
Da farmi il covo.
La gente ferma,
Piena di scrupoli,
Non sa coll’anima
Giocar di scherma;
Non ha pietanza
Dalla Finanza.
Viva Arlecchini
E burattini;
Viva i quattrini!
Viva le maschere
D’ogni paese,
Le imposizioni e l’ultimo del mese2.
Io, nelle scosse
Delle sommosse,
Tenni, per ancora
D’ogni burrasca,
Da dieci o dodici
Coccarde in tasca.
Se cadde il Prete,

==>SEGUE


Io feci l’ateo,
Rubando lampade,
Cristi e pianete,
Case e poderi
Di monasteri.
Viva Arlecchini
E burattini,
E Giacobini;
Viva le maschere
D’ogni paese,
Loreto e la Repubblica francese.
Se poi la coda
Tornò di moda,
Ligio al Pontefice
E al mio Sovrano,
Alzai patiboli
Da buon cristiano.
La roba presa
Non fece ostacolo;
Ché col difendere
Corona e Chiesa,
Non resi mai
Quel che rubai.
Viva Arlecchini
E burattini,
E birichini;
Briganti e maschere
D’ogni paese,
Chi processò, chi prese e chi non rese.
Quando ho stampato,
Ho celebrato
E troni e popoli,
E paci e guerre;
Luigi, l’Albero,
Pitt, Robespierre,
Napoleone,
Pio sesto e settimo,
Murat, Fra Diavolo,
Il Re Nasone,
Mosca e Marengo;
E me ne tengo3.
Viva Arlecchini
E burattini,
E Ghibellini,
E Guelfi, e maschere
D’ogni paese;
Evviva chi salì, viva chi scese.
Quando tornò

==>SEGUE


Lo statu quo,
Feci baldorie;
Staccai cavalli,
Mutai le statue
Sui piedistalli.
E adagio adagio
Tra l’onde e i vortici,
Su queste tavole
Del gran naufragio,
Gridando evviva
Chiappai la riva.
Viva Arlecchini
E burattini;
Viva gl’inchini,
Viva le maschere
D’ogni paese,
Viva il gergo d’allora e chi l’intese.
Quando volea
(Che bell’idea!)
Uscito il secolo
Fuor de’ minori,
Levar l’incomodo
Ai suoi tutori4,
Fruttò il carbone,
Saputo vendere,
Al cor di Cesare
D’un mio padrone
Titol di Re,
E il nastro a me.
Viva Arlecchini
E burattini
E pasticcini;
Viva le maschere
D’ogni paese,
La candela di sego e chi l’accese5.
Dal trenta in poi,
A dirla a voi,
Alzo alle nuvole
Le tre giornate,
Lodo di Modena
Le spacconate;
Leggo giornali
Di tutti i generi;
Piango l’Italia
Coi liberali;
E se mi torna,
Ne dico corna.
Viva Arlecchini

==>SEGUE


E burattini,
E il Re Chiappini6;
Viva le maschere
D’ogni paese,
La Carta, i tre colori e il crimen laesae.
Ora son vecchio;
Ma coll’orecchio
Per abitudine
E per trastullo,
Certi vocaboli
Pigliando a frullo,
Placidamente
Qua e là m’esercito;
E sotto l’egida
Del Presidente7
Godo il papato
Di pensionato.
Viva Arlecchini
E burattini,
E teste fini;
Viva le maschere
D’ogni paese,
Viva chi sa tener l’orecchie tese.
Quante cadute
Si son vedute!
Chi perse il credito,
Chi perse il fiato,
Chi la collottola
E chi lo Stato.
Ma capofitti
Cascaron gli asini;
Noi valentuomini
Siam sempre ritti,
Mangiando i frutti
Del mal di tutti.
Viva Arlecchini
E burattini,
E gl’indovini;
Viva le maschere
D’ogni paese.
Viva Brighella che ci fa le spese8.






Il Brindisi di Girella fu, tra le opere del Giusti, quella che diede grande fama al suo autore oltre i confini della patria. Di questa si compiaceva singolarmente e la metteva cogli Umanitarî e col Re Travicello, dicendo che in essi vi era «quel poco di meglio che aveva saputo «fare». Nulla di più comune dello spettacolo di apostasie politiche; i nostri tempi ne hanno al par di quelli del Giusti, e fors’anco altrettante e più ne vedranno i nostri figli. Sarebbe troppo bello per i combattenti in nome di un principio, se non fossero, nei giorni dubbi, abbandonati e rinnegati da quelli che corron dietro al tornaconto individuale. Anche il Kempis, nella Imitazione di Cristo, ricorda che molti seguivano il Maestro nei trionfi di Gerusalemme e partecipavano alla cena, ma nessuno lo assisteva nei dolori della croce. Chi riesce ha ragione, chi cade ha torto; e i Girella si volgono sempre verso il sole. In un momento d’espansione, sul finir di un banchetto, il Girella del poeta (che doveva contare una settantina d’anni per aver potuto assistere al succedere di tanti avvenimenti) confessa con tutta ingenuità i suoi voltafaccia e si vanta di aver saputo barcamenare in mezzo alle burrasche politiche del suo tempo, guadagnando sempre qualcosa ad ogni voltar di livrea. Tenendo dieci o dodici coccarde in tasca, compariva nell’ora del mietere coi colori del vincitore; coi giacobini spogliò le chiese, cogli austriaci e coi papisti mandò alla forca i giacobini; servì Napoleone e i nemici che lo sconfissero; fu carbonaro e vendette i compagni: fece il cortigiano, la spia, il truffatore d’accordo colla legge; e dopo aver tutti alla lor volta ingannati, s’è ritirato con un ricco patrimonio, la croce all’occhiello e la pensione, fortune che non capitano alla gente ferma che ha gli scrupoli della coscienza. Un amico strappò di mano al Giusti questa satira appena scritta, per leggerla in un crocchio: chi l’udì la volle copiare, e in poco tempo, a forza di girar di soppiatto per la città, ne varcò le mura, si diffuse per le provincie, corse rapidamente tutta l’Italia e passò le Alpi. In ciascuna città se ne faceva l’applicazione a qualcuno: quei versi fecero molti impallidire, tanti erano i fortunati Girella nella penisola! Giuseppe Ferrari la lesse a Parigi, e ne scrisse grandi elogi nella Revue des Deux Mondes; elogi che impaurirono il poeta, il qual viveva indisturbato nella quieta Toscana. La satira non aveva nome d’autore. Il Giusti mandava fuori anonime le cose sue, salvo poi a richiamarle, correggerle e finalmente stamparle. Un signor Borsini lesse il Brindisi e gli piacque tanto che lo stampò come roba sua con tanto di nome e cognome, alterando per di più la forma delle strofe. Un amico mandò copia di questa stampa all’autore vero, che, presa la penna, scrisse al ladro la seguente lepida letterina sferzandolo in pieno viso: «Grazie dell’adozione. Senza la sua carità quel povero Brindisi sarebbe andato smarrito per il mondo, come un trovatello e chi sa a quanti stalloni delle vergini muse sarebbe stato attribuito. Ella ha fatto un’opera veramente pia degnandosi di metterlo là come nidiandolo tra la sua figliuolanza. Ha voluto spingere la sua cortesia fino a darlo per suo, cosa secondo lei facilissima per la ragione incontrastabile della distanza che corre fra il paese che ora abita lei e quello di chi l’ha scritto, e perché questi non avrebbe mai potuto reclamarlo senza paura del boja; mi duole però di dirle che questo suo atto di somma benignità sarebbe caduto a vuoto, perché oramai si sa che c’è il padre legittimo come se fosse battezzato col Padre Mauro per compare, e non sarebbe creduto al putativo. Ammiro la nuova distribuzione delle membra di quel povero ragazzo e le stroppiature dalle quali è stato onorato, oltre a quelle impresse a lui dal peccato originale del cervello che l’ha pisciato. Se poi l’alloggiare in casa propria un figliuolo non smarrito, non rigettato e non ismentito dal padre, sia atto d’uomo libero o licenza da ciompo e da sanculotto, giudichi lei. Stia sano e si diverta.» Né qui si fermarono le vicende del Brindisi. Un avvocato «salito agli impieghi per la scala colla quale Giuda sali sul fico» si lamentò d’esser stato messo in ridicolo da quella satira. Fu convinto che non era vero: ed allora sparse la voce che era diretto ad infamar la memoria di Francesco Forti, giovane di alto ingegno, compaesano del Giusti e che aveva, pur troppo, per ambizione mutato bandiera, ma ch’era morto a trentun anni, mentre il Girella era un veterano dei tradimenti. Rimane a dire della dedica. Il principe di Talleyrand, nato a Parigi nel 1754 e morto nel 1838, fu il tipo classico degli apostati. Fu vescovo cattolico, agente generale del clero francese, giuocatore negli affari con Calonne per guadagnare il danaro

==SEGUE
necessario ai suoi vizi: fu deputato agli Stati generali, presidente dell’assemblea nel 1790, poi membro del Direttorio e scomunicato. Servì Napoleone primo console e, fiutato il vento, lo seguì nella sua carriera ascendente, diventando ciambellano dell’imperatore, conte di Benevento e cancelliere di Stato. Non ricordandosi più dei voti antichi, prese moglie; quando Napoleone cadde, ajutò a dargli il calcio e diventò ministro degli esteri con Luigi XVIII; i tanti tradimenti gli avevano conferita autorità di grande diplomatico e riverito e inchinato morì fra gli onori e le ricchezze, rappattumandosi, per ultima burla, colla chiesa. Nessuno poté contare i tanti giuramenti ch’egli prestò e che tradì. Era dunque veramente degno della dedica che gli fece il Giusti. Il nome del protagonista fu suggerito dal Dictionnaire des Girouettes, stampato a Parigi nel 1815 appunto per castigare i voltafaccia politici.
_____________________________________________________

1 In questo verso è riassunto l’abito dell’Arlecchino politico con tutti i colori: le Giunte, ovvero i tribunali statarî, i Club, luoghi di riunione dei liberali, i re e clericali. 2 Nelle prime edizioni si leggeva «il sedici del mese» perché in Toscana gli impiegati governativi si pagavano al sedici d’ogni mese e venivano detti sedicini, come oggi gli impiegati del regno d’Italia si chiamano ventisettisti dallo stipendio che riscuotono ai ventisette. Più tardi il Giusti vi sostituì «l’ultimo del mese» per dare alla satira colore generale italiano. 3 È superfluo dire al lettore che Luigi è il re ghigliottinato noi 1793, l’Albero è quel della libertà, Pitt è il ministro inglese ferocemente avverso alla rivoluzione francese della quale Robespierre fu uno dei principali rappresentanti: Fra Diavolo era il brigante patentato dei Borboni e il re Nasone, Ferdinando I di Napoli. 4 Uscito il secolo fuor de’ minori: Girella considera il secolo come un uomo che diventa maggiorenne a ventun’anni e proprio nel 1821 l’Italia voleva liberarsi dai tutori impostigli dal trattato di Vienna. I moti eran suscitati dai Carbonari: ed è noto l’appoggio promesso da Carlo Alberto allora principe di Carignano, a Santa Rosa ed agli altri cospiratori che domandavano la costituzione, ed è pur noto come fosse tradita la concepita fiducia. Carlo Alberto, canta il Giusti, fu fatto re in premio del tradimento («il carbone saputo vendere»), e Girella per averlo ajutato, ebbe il nastro di cavaliere. 5 La candela di sego era in quel tempo un’espressione popolare per indicare gli Austriaci. I soldati dell’Austria si stiravano i baffi a punta col sego e i Milanesi aggiungevano anche che lo mangiavano. Il verso quindi significa: vivano gli Austriaci e Carlo Alberto che li condusse col general Bubna in Piemonte. Il poeta aveva scritto prima il seguente verso che poi sostituì coll’attuale molto più espressivo: «Gennaro, Kaiserlicchio e il Piemontese» (vale a dire il re di Napoli, l’Austria e Carlo Alberto). 6 Il re Chiappini: Luigi Filippo: vedi la nota al Dies irae. 7 Il presidente era il capo della polizia detta allora Buon Governo.
8 Brighella: col nome di questa maschera il Giusti, anche in parecchie lettere, chiama il granduca di Toscana. Però può anche per Brighella intendersi il popolo che paga per tutti gli imbroglioni della politica.
IL SOSPIRO DELL’ANIMA

Suonar nel mio segreto odo una voce
Che a sé mi tiene dubitando inteso,
E non sento l’età fuggir veloce
In quella nota attonito e sospeso.
Così rapido scorre e inavvertito
Il libro, quando, per diversa cura,
In sé fermato l’animo e rapito,
Non procede coll’occhio alla lettura.
Chi sei che parli sì pietoso e umile?
Un lieto sogno della mente? O sei
Misterïoso spirito gentile
Che ti compiangi degli affanni miei?
Nella mestizia più benigno sorge,
E tesori di gioje a me rivela;
A me dubbioso e stanco aita porge,
E così meco parla e si querela:
«Perché sì pronto vai per il cammino
Soave che per grazia il ciel ti diede,
E sei fatto simile al pellegrino
Che per umida valle affretta il piede?
No, no, questa non è terra di pianto,
È giardino di fiori e d’acque ameno;
Sofferma il passo, ah! non t’incresca tanto
Il tuo gentile italico terreno.
«Ma un sentier che la pace ha per confine,
Laghi, perenni fonti, aure beate,
Pianure interminabili e colline
Di perpetua verdura inghirlandate,
Sempre innanzi alla mente desiosa
Siccome sogni ricordati stanno,
E il forte imaginar che non ha posa
Di stupor t’empie e di segreto affanno.
«Qui l’avida pupilla non s’appaga
Nelle bellezze della donna amata,
Né tu vedesti mai cosa più vaga,
Né mai diversa donna hai desïata;
O non ravvisi in lei l’Angelo vero
Così velato di corporea forma,
O quella che amoreggia il tuo pensiero
Sopra i fior di quaggiù non posa l’orma.
«Vegliando incontro ai bei sogni ridenti,
Ogni più chiuso albergo apre al dolore;
E quasi armato di sé stesso, il core
Vigor si fa degl’intimi tormenti.
Di cosa lieve pueril talento
Mai nol travolge seco in lungo oblìo,

==>SEGUE


E mai non seppe abbandonarsi, lento
Seguendo inerzia, a lubrico pendìo.
«Virtù d’amor non lieve e non mentita
Come gemma derisa asconde e serba;
La sua non terge per l’altrui ferita,
Ma del comun gioir si disacerba;
Non corre a maledir con facil piede
Se il fatto non risponde all’alta idea,
Vagheggia in sé coll’occhio della fede
Secoli di virtude, e là si bea.
«Però la mente tua, quando si cessa
Dall’opre e dalle cure aspre del giorno,
Ama, tutto tacendo a lei d’intorno,
In quel silenzio ricercar sé stessa.
E all’azzurro sereno, al puro lume
Degli astri intendi l’occhio lagrimoso,
Come augelletto dall’inferme piume
Appiè dell’arboscel del suo riposo.
«Quest’ardito desio, vago, indistinto,
È una parte di te, di te migliore,
Che sdegnando dei sensi il laberinto,
Anela un filo a uscir di breve errore;
Come germe che innanzi primavera
Dell’involucro suo tenta la scorza,
Impaziente s’agita, e la vera
Sentita patria conseguir si sforza.
«Però t’incresce il dolce aere e la terra
Ch’ogni mortal vaghezza addietro lassa,
E raro spunta dall’interna guerra
Riso che sfiora il labbro e al cor non passa.
Gli aspetti di quaggiù perdon virtute
Delle pensate cose al paragone,
E Dio, centro di luce e di salute,
Ne risospinge a sé con questo sprone.
«Onde gl’inni di lode e il fiero scherno
Che del vizio si fa ludibrio e scena,
Muovon da occulta idea del bello eterno
Come due rivi d’una stessa vena.
Questo drizzar la vela a ignota riva,
Questo adirarsi d’una vita oscura
E la lieta virtù che ne deriva,
Son larve, di lor vero arra e figura»1.
Ma quasi stretto da tenace freno
Dire il labbro non può quel che il cor sente;
E più dolce, più nobile, più pieno
Mi resta il mio concetto entro la mente:
E gareggiando colla fantasia,
Lo stile è vinto al paragon dell’ale;

==>SEGUE


E suona all’intelletto un’armonia
Che non raggiunse mai corda mortale.
Ah sì! lunge da noi, fuor della sfera
Oltre la qual non cerchia uman compasso,
Vive una vita che non è men vera
Perché comprender non si può qui basso.
Cinta d’alto mistero arde una pura
Fiammella in mar d’eterna luce accesa,
Da questo corpo che le fa misura
Variamente sentita, e non intesa.
Come Eliotropio, che l’antica mente
Pingea Ninfa mutata in fior gentile,
Segue del sole il raggio onnipotente,
Del sol che più tra gli astri è a Dio simile;
Continuando la terrena via,
Rivolta sempre al lume che sospira,
Seguirà, seguirà l’anima mia
Questo laccio d’amor che a sé la tira.
Ahi misero colui che circoscrive
Sé di questi anni nell’angusto giro,
E tremante dell’ore fuggitive
Volge solo al passato il suo sospiro!
Principio e fine a noi d’ogni dimora
Nell’esser, crede il feretro e la culla;
Simili a bolla che da morta gora
Pullula un tratto e si risolve in nulla.
_________________________
1 Verso orribile che stride con sei erre.
_________________________


Non è questa una delle migliori poesie del Giusti; ma egli vi si ostinò sopra coll’amore dei padri per i figli sgraziati. Confessava d’avere scelto un tema vago, indeterminato, mistico, contrario alla sua indole, ma ne dava la colpa all’aver voluto seguire la moda e «ai libracci forestieri che qualche volta ho la breve pazzia di leggere, che mi lasciano nella testa una striscia d’argento falso come fa la lumaca». Ma sappiamo come il Giusti avesse invece il torto di conoscere troppo poco le letterature straniere. Scrisse il Sospiro nel 1840: tre anni dopo lo metteva a frutto presso una signora e incaricava Luigi Alberti di stamparlo nella strenna la Rosa di Maggio colla dedica: «Alla signora M. G. U.», indirizzo, aggiungeva, che «agli epigrafaî parrà secco e sciapito, e ch’io non muterò se non sarà trovato tale anche dalla persona gentile alla quale
intendo di offrire la composizione». In un’altra lettera scriveva d’aver attinti questi versi dall’anima «che sente ogni tanto il bisogno di levarsi da questa mota nella quale ho anche troppo imbrattate le mani, toccando la corda del ridicolo». Allorché li pubblicò nel volumetto Versi di serio argomento l’amico Francesco Silvio Orlandini gli scrisse che avrebbe dovuto porre in fondo o in cima di ciascuna poesia l’epoca della sua nascita; ma il Giusti gli rispose che non lo faceva per aver veduto praticar simile uso «da tali che puzzano d’arroganza», però, per accontentar l’amico, avrebbe appuntato colla penna sulla copia a lui destinata ciascuna delle sei poesie. E accanto al Sospiro dell’anima scrisse: «In tutta questa composizione vi è un certo che d’aereo e d’indefinito, colpa o del subjetto medesimo o di me che non ho saputo svolgerlo più pienamente. Posso dirti che la scrissi per bisogno, in uno di quei momenti che il cuore e l’intelletto si abbandona quasi estatico al sentimento e alla contemplazione del bello e del buono.» I lettori trovarono questi versi piuttosto oscuri; e il poeta si lagnava della magra accoglienza che avevano avuta in una lettera a Carlo Bastianelli, dicendo che non erano stati intesi perché non maturi; e ch’egli voleva in essi «dal tedio del presente, dall’impazienza. dell’avvenire, dall’imaginare cose sempre più perfette delle cose vedute, dedurre l’esistenza di un principio immortale e di una vita non peritura». Infine, per spiegare ancor meglio il suo pensiero, fece di questa poesia la parafrasi in prosa, il che non trovò necessario di fare per alcun’altra poesia.
Ciascun confusamente un bene apprende
Nel qual si quieti l’animo.
DANTE, Purg.


Con derise polemiche indigeste,
Sguajato Giosuè di casa d’Este,
Fermare il sole.
Solo a Roma riman Papa Gregorio9,
Fatto zimbello delle genti ausonie.
Il turbin dell’età, nelle colonie
Del Purgatorio,
Dell’indulgenze insterilì la zolla
Che già produsse il fior dello zecchino:
Or la bara infruttifera il becchino
Neppur satolla.
D’Arpie poi scese una diversa pêste
Nel santuario a dar l’ultimo sacco:
O vendetta d’Iddio! pesta il Cosacco
Di Pier la veste10.
O destinato a mantener vivace
Dell’albero di Cristo il santo stelo,
La ricca povertà dell’Evangelo
Riprendi in pace.
Strazii altri il corpo; non voler tu l’alma
Calcarci a terra col tuo doppio giogo:
Se muor la speme che al di là del rogo
S’affissa in calma,
Vedi sgomento ruinare al fondo
D’ogni miseria l’uom che più non crede;
Ahi! vedi in traccia di novella fede
Smarrirsi il mondo.
Tu sotto l’ombra di modesti panni
I dubitanti miseri raccogli:
Prima a te stesso la maschera togli,
Quindi ai tiranni.
Che se pur badi a vender l’anatema,
E il labbro accosti al vaso dei potenti,
Ben altra voce all’affollate genti:
«Quel diadema
Non è, non è (dirà), de’ santi chiodi11,
Come diffuse popolar delirio:
Cristo l’armi non dà del suo martirio
Per tesser frodi.
Del vomere non è per cui risuona12
Alta la fama degli antichi Padri:
È settentrional spada di ladri,
Tôrta in corona.
O latin seme, a chi stai genuflesso?
Quei che ti schiaccia è di color l’erede;
È la catena che ti suona al piede
Del ferro istesso.
Or via, poiché accorreste in tanta schiera,

==>SEGUE


L’INCORONAZIONE
1838

Al Re dei Re che schiavi ci conserva,
Mantenga Dio lo stomaco e gli artigli:
Di coronate Volpi e di Conigli
Minor caterva
Intorno a lui s’agglomera, e le chiome
Porgendo, grida al tosator sovrano:
Noi toseremo di seconda mano,
Babbo, in tuo nome.
Vedi i ginocchi insudiciar primiero
Il Savojardo di rimorsi giallo1,
Quei che purgò di gloria un breve fallo
Al Trocadero2.
O Carbonari, è il Duca vostro, è desso
Che al palco e al duro carcere v’ha tratti;
Ei regalmente del ventuno i patti
Mantiene adesso3.
Colla clamide il suol dietro gli spazza
Il Lazzarone paladino infermo4:
Non volge l’anno, in lui senti Palermo
La vecchia razza.
Di tant’armi che fai, re Sacripante?
Sfondar ti pensi il cielo con un pugno?
Smetti, scimia d’eroi; t’accusa il grugno
Di Zoccolante.
Il Toscano Morfeo vien lemme lemme5
Di papaveri cinto e di lattuga,
Che per la smania d’eternarsi asciuga
Tasche e Maremme.
Co’ Tribunali e co’ Catasti annaspa;
E benché snervi i popoli col sonno,
Quando si sogna d’imitare il nonno,
Qualcosa raspa.
Sfacciatamente degradata torna
Alle fischiate di sì reo concorso,
Lei che l’esilio consolò del Côrso
D’austriache corna6.
Ilare in tanta serietà si mesce
Di Lucca il protestante Don Giovanni7
Che non è nella lista de’ tiranni
Carne né pesce.
Né il Rogantin di Modena vi manca8,
Che avendo a trono un guscio di castagna,
Come se fosse il Conte di Culagna,
Tra i Re s’imbranca.
Roghi e mannaje macchinando, vuole

==>SEGUE


Piombate addosso al mercenario sgherro;
Sugli occhi all’oppressor baleni un ferro
D’altra miniera;
Della miniera che vi diè le spade
Quando nell’ira mieteste a Legnano
Barbare torme, come falce al piano
Campo di biade.»
Ahi che mi guarda il popolo in cagnesco,
Mentre, alle pugne simulate vôlto,
Stolidi viva prodiga al raccolto
Stormo tedesco!
Il popol no: la rea ciurma briaca
D’ozio, imbestiata in leggiadrie bastarde,
Che cola, ingombro, alle città lombarde
Fatte cloaca:
Per falsi allori e per servil tïara
Comprati mimi; e ciondoli e livree
Patrizie, diplomatiche e plebee,
Lordate a gara;
E d’ambo i sessi adulteri vaganti,
Frollati per canizie anticipata;
E con foja d’amor galvanizzata
Nonni eleganti;
Simili al pazzo che col pugno uccide
Chi lo soccorre di pietà commosso,
E della veste che gli brucia addosso
Festeggia e ride.

___________________________
Ferdinando I d’Austria, salito al trono dopo la morte del padre Francesco, era fiacco di corpo e d’ingegno per lunga malattia sofferta. Il padre, quando si sentì morire, lo chiamò al suo letto per raccomandargli di non discostarsi da quella politica che aveva fatta l’Austria potente; e infatti, appena divenuto imperatore, Ferdinando confermò gli antichi consiglieri e ministri, lo zio arciduca Luigi e Clemente Metternich, tenacissimi campioni dell’assolutismo. Però esercitò un atto di volontà, forse l’unico in vita sua, coll’ordinare un’amnistia ampia, incondizionata per tutti i condannati politici; ma il viceré e Metternich la ridussero parziale, lesinando su ciascun nome dei patrioti perseguitati, e prolungandone la prigionia. Quell’atto di cuore destò molte speranze di miglioramento; e allorché Ferdinando si recò a Milano nel 1838 a farsi incoronare, furono feste mai più finite che lasciarono dietro sé le vergogne della delusione. Fu quella una brutta pagina nella storia del popolo milanese, bruttissima poi per l’aristocrazia, che si abbassò a inaudite servilità. I nobili dalle tradizioni liberali si trovavano allora, come il Gonfalonieri, allo Spielberg o in esilio; rimaneva la maggioranza conservatrice, logica nel festeggiare l’austriaco perché l’aveva chiamato nel 1814 dopo l’assassinio del Prina, temendo che sugli avanzi dell’impero napoleonico potesse il popolo costituirsi in libertà. I nobili milanesi supplicarono umilmente l’imperatore di accettare una guardia nobile, si camuffarono da ciambellani, vestirono i figliuoli da paggi; e mentre si prostravano nella polvere davanti al trono, ostentavano di far rivivere i costumi superbi anteriori al 1796, già messi in ridicolo da Parini, e traevano fuori dagli armadî tarlati le parrucche colla cipria e tornavano a far correre i lacchè davanti alle carrozze. Si voleva far dimenticare la parata dell’incoronazione di Napoleone con parate e bassezze peggiori. V’erano pure alcuni i quali pensavano che l’imperatore, col farsi incoronare re del Lombardo-Veneto, si impegnava a concedere una certa larghezza almeno amministrativa, che avrebbe permesso a questi disgraziati paesi di formare uno Stato a sé, legato all’Austria dal vincolo federale, ma libero di reggersi a proprio talento, di sviluppare tutte le sue attività; e questo sarebbe stato un avviamento alla completa indipendenza. Il popolo «che vorrebbe poter liberarsi dal grave carico d’odiare e di maledire» (Correnti), vedendo tanto splendore di feste vi partecipò pieno di fiducia e plaudì alle adulazioni senza dignità; e il barone Hübner potè ricordare con compiacenza i sorrisi e le amabilità delle nobilissime dame milanesi agli ufficiali e ai diplomatici austriaci. Solamente pochi si tenevano in disparte; era il gruppo di Alessandro Manzoni e d’altri che rinserrati nella propria fede rimanevano spettatori addolorati dell’orgia cortigiana, e furono poi denigrati, col mutar dei tempi, da quelli che avevano  servito l’imperatore nell’incoronazione e che lo abbandonavano al volgere della fortuna. Quelle feste ebbero un’eco dolorosa fra i patrioti del resto d’Italia; e di questa indignazione il Giusti si fece degno interprete. Nell’edizione di Capolago del 1853 leggesi una prefazione che allo stile appare di Cesare Correnti, che ricorda quanto sia stata questa satira cercata e letta nella Lombardia, «già vergognosa e pentita della inutile magnificenza colla quale, sotto specie di festeggiare l’incoronazione d’un suo Re, aveva cercato un cencio che coprisse la obbrobriosa nudità della conquista. Quel fiero carme piacque, più che ad altri, a coloro stessi che n’erano rimorsi; e quel dì, nella patria del Parini, del Berchet e del Manzoni, il poeta fiorentino fu acclamato interprete della coscienza nazionale.» I versi erano trascritti e storpiati, guasti, interpolati come portavano il frettoloso segreto, gli sbagliati manoscritti e la poca pratica dei dialetti toscani; ma che importava? tutti li ripetevano e commentavano «con un ghigno minaccioso ch’era brontolio di procelle popolari».
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1 Il Savojardo è Carlo Alberto. 2 Carlo Alberto, per scontare il breve fallo liberale andò in Ispagna a combattere a favore della monarchia assoluta contro i costituzionali 3 Alla morte di Carlo Felice, divenne re Carlo Alberto. 4 Il Lazzarone, cioè Ferdinando II Borbone, re di Napoli. 5 Il Toscano Morfeo. Nel giudizio del poeta sopra Leopoldo II di Toscana non si trova quella equanimità che risponde alla verità storica. 6 Costei è la spregevole Maria Luigia duchessa di Parma e Piacenza, sposata già a Napoleone, e che avvilì negli erotici capricci il nome che aveva e la dignità di donna, mentre i parenti austriaci distruggevano con nefanda corruzione la vita del figliuolo. 7 Il duca Carlo Lodovico di Lucca, che si firmava talora confidenzialmente le petit tyran des Lucques, ridendo del suo microscopico ducato, era un singolare miscuglio di bene e di male. 8 Di Francesco IV di Modena abbiamo già parlato parecchie volte. Culagna è un paesello vicino a Castelnuovo nei Monti: e si trova il Conte di Culagna nel poema eroicomico della Secchia rapita. Il Rogantino è noto essere una maschera romana. Il duca che faceva tanto rumore in Italia aveva 700 mila sudditi in tutto. 9 Papa Gregorio XVI fu uno dei più inetti che abbiano portata la tiara.I cardinali ministri, ignoranti e corrotti, facevano delle Romagne il peggior governo, e sperperavano disastrosamente l’erario aumentando i già grossi debiti dello Stato.  10 I Polacchi, cattolici fervorosi, s’erano sollevati contro i Russi per difendere la patria e la fede: papa Gregorio, capo dei cattolici, li abbandonò non solo, ma porse la mano al loro carnefice. 11 La leggenda pretende che il cerchio di ferro che si trova nell’interno della corona dei re d’Italia, che si conserva in Monza, e che gli dà il titolo di ferrea, sia uno dei chiodi della croce di Cristo ridotto a lamina. La leggenda è priva d’ogni fondamento storico. 12 Il Giusti allude a un’assurda tradizione, poco diffusa, secondo cui la lamina della corona ferrea sarebbe fatta con un pezzo del ferro dell’aratro che servì a Romolo per tracciare il giro delle mura dell’eterna città.
A UN AMICO
1841

Momo s’è dato al serio;
E di lingua maledica,
Oggi gratta il salterio,
O, se corregge, predica.
Cede il riso al dolore,
Lo scherzo al piagnisteo;
Doventa il malumore
Legge di Galateo.
Pasciuto Geremia,
Malinconicamente
Sbadiglia in elegia
Gli affanni che non sente;
Anelano al martirio
Mille caricature,
Vendendone il delirio
In bibliche freddure.
Le sante ipocrisie,
Gl’inni falsificati,
Eran cabale pie
Di Monache e di Frati;
Il Frate ora è tarpato,
Ma dall’Alpi a Palermo
Apollo tonsurato
Insegna il cantofermo.
Velati tutti quanti
Di falsa superficie,
Vedrai Diavoli e Santi
Che appestan di vernice1,
Ognun del pari ostenta
Bestemmie e miserere;
Tutto, tutto doventa
Arte di non parere.
Secolo anfibio, inetto
Al vizio e alla virtù,
Dal viva Maometto
Torna al viva Gesù.
Ma, sempre puzzolente
Di baro e d’assassino,
Fuma all’Onnipotente
L’avanzo di Caino.
Vedi che laida guerra,
Che matassa d’inganni!
Si campa sulla terra
Gol baratto dei panni:
L’asino butta via

==>SEGUE


Il basto per la sella,
Si vende per Messia
Chi nacque Pulcinella.
Predica in frase umana
La Fede, la Speranza,
La Carità Cristiana,
Ma non la tolleranza.
Difatto a tempo e luogo,
Questo fior dei credenti,
Se non t’accende il rogo,
Ti bacerà co’ denti.
Amico, il mio pianeta
Mi vuol caratterista:
Sebbene oggi il poeta
Si mascheri a salmista,
Io la mia parte buffa
Recito, né do retta
A chi la penna tuffa
Nell’acqua benedetta.
E ruminando spesso
De’ tempi miei la storia,
Fo dentro di me stesso
Questa giaculatoria:
Degnatevi, o Signore,
D’illuminar la gente
Sui bindoli di cuore,
Teologi di mente.
__________________

1 Appestar di vernice. La poesia di tutti questi poetucoli che fingono la disperazione alla Byron o grattano l’arpa davidica, è tutta apparenza, tutta vernice: sotto havvi il vuoto.
______________________________
In questo luogo trova il suo posto l’inno sacro per le feste di Pescia, ch’era stato ritenuto finora un lavoro giovanile del Giusti e come tale messo in appendice alle sue poesie perfino nelle edizioni ufficiali del Le Monnier. Anzi il Fanfani lo trovava tale «da far indovinare fin d’allora chi il Giusti sarebbe diventato». Aveva già scritto il Dies ire, l’Incoronazione, il Girella, la Vestizione, le sue satire più belle! La prima volta fu pubblicato nel 1841 a Pescia senza il nome dell’autore, perché era il tempo in cui gridava più forte contro l’Apollo tonsurato.



PER LE FESTE TRIENNALI DI PESCIA.

Quando lieto Israele
Movea coll’arca santa ai dì festivi,
E coi Leviti il popolo fedele
Alternava armonia d’inni giulivi;
Davidde umile e pio,
Dimessa ogni grandezza innanzi a Dio.
In man l’arpa togliea,
E precedendo il carro benedetto.
Sciolta l’aura vocal che gli fremea
Entro i meati del divino petto,
Del cantico inspirato
Empìa d’intorno il ciel rasserenato.
Il nome tuo, Signore,
Narrano i Cieli e annunzia il firmamento;
E dolce senso di vitale odore
Come da vaso d’incorrotto unguento
Dal tuo favor discende,
All’anima di lui che in te s’intende.
Tu beato in te stesso
Quand’anco il tempo e la vita non era,
Pur di te nel creato un segno espresso.
Qual di suggello d’oro in molle cera,
volesti, e si compose
Questo mirabil ordine di cose.
Come pugno d’arena
Disseminasti pel vano infinito
L’eteree faci: il moto e la catena
Tu reggi delle sfere, e tu col dito
Segni l’ultime sponde
Ai fuochi occulti e al fremito dell’onde.
D’invisibili penne
Armi la ruinosa ala dei venti;
Per te si versan da fonte perenne
I fiumi, e quasi corridor fuggenti
La verga tua gli spinge
Nel mar che tutto intorno il suol recinge.
l’aere, la terra e l’acque
Di varia moltitudine infinita
Diversamente popolar ti piacque.
Il cerchio universal di tanta vita
Che il tuo valore adorna,
Da te muove, in te vive, a te ritorna.
Or dall’empirea reggia
Donde piove di grazia almo ristoro,
Come artista che infuse e rivagheggia

==>SEGUE


Tanta parte di sé nel suo lavoro,
Padre, rivolgi a noi
La benigna virtù dogli occhi tuoi.
Come l’umil villano
La casa infiora, e tien purgato e netto
L’ovile intorno, se il signor lontano
Ode che venga al suo povero tetto;
Oggi così le genti
T’invocano fra loro, e reverenti
Questa pompa devota
t’offrono nel desìo di farti onore.
Mille voci concordi in una nota
E mille alme che infiamma un solo amore;
Come vapor d’incenso
Salgono a te pel chiaro etere immenso.
I colli circostanti.
In tanto lume di letizia accesi,
Ridono a te che di luce t’ammanti
E nella luce parli e ti palesi,
Rompendo col fulgore
Della tua maestade ombre d’errore.
Tale il pastor di Jetro
Che tolse al giogo il tuo popol giudeo,
Prima che tanta si lasciasse addietro
Ruina di tiranni all’Eritreo,
Sul rovo fiammeggiante
Ti vide e t’adorò tutto tremante.
Bello dei nostri cuori
Farti santo olocausto in primavera,
Or che l’erbe novelle e i nuovi fiori
Tornan la terra alla beltà primiera,
E rammentar ne giova
Quell’aura di virtù che ci rinnova.
Era così sereno,
Così fecondo il cielo, e sorridea
Di vivace ubertà ricco il terreno,
Quando l’uomo, di te gentile idea,
Prese lieta, innocente
Vita, nell’atto dell’eterna mente.


L’amico è Pietro Giordani, il letterato stimato e temuto, che nella prima metà di questo secolo teneva a battesimo quelli che spuntavano all’arte e che oggi i novatori han messo in un canto. Il Giusti richiedeva spesso il critico di consigli sui propri versi, e l’amava specialmente per due ragioni, perché aveva preso a difendere il Leopardi contro il Tommaseo e perché era nemico del guelfismo lombardo. A lui indirizzò nel 1839 questa satira contro i poetucoli che inondavano l’Italia di bigotterie letterarie; qualcuno, che n’ebbe copia, la fece stampare premettendovi il titolo: Versi a Pietro Giordani contro Nicolò Tommaseo. Il Giusti si lamentò di ciò con Alessandro Manzoni «come che (scriveva) io avessi l’anima di un cortigiano da straziare Tommaseo per lisciare Giordani sapendo che non se la dicono. Ora se il Tommaseo vedrà quei versi intitolati a quel modo, dirà che sono un briccone; e che ci si fa?» Il Tommaseo veramente rispose col chiamare il Giusti poeta mediocre; però, anche da lui interrogato, non gli aveva risparmiato franche e giuste critiche per le frasi eccessivamente torturate che nuocevano alla perspicuità del pensiero. E noi, ad onta delle denegazioni del poeta, non possiamo prestargli fede, perché era avversario del Tommaseo che, scrivendo al Giordani, metteva fra «certi arfasatti che non meritavano neppure d’esser rammentati in dispregio.» Inoltre in una strofa di questa satira accusa gli innajuoli di mancare di tolleranza e di lacerare coi denti le riputazioni altrui, difetto del quale il dalmata scrittore era accusato specialmente. Ma la maldicenza fra letterati è male ereditario da secoli ed incurabile; e il pubblico pesa queste denigrazioni con bilancio speciale. La scuola dei neo-guelfi, fiorente in Lombardia per le tradizioni storiche ch’erano repubblicane ed avverse al ghibellinismo, cioè all’imperatore d’Austria, non era stata studiata e quindi tanto meno capita dal Giusti. Fu una manifestazione del pensiero nazionale che contribuì colla propaganda di Mazzini, con quella di Gioberti, con quella di Niccolini e del Giusti stesso a preparare la riscossa. Ugo Foscolo era stato un antesignano del neo-guelfismo, quando voleva, nei discorsi sulla servitù dell’Italia, una confederazione delle città indipendenti d’Italia, col papa principe elettivo e italiano. Nel 1847 il Giusti fu egli pure sedotto da Pio IX, e uno degli ultimi a perdere le illusioni nel fantasma che l’imaginazione italiana aveva creato. Oggi, per buona fortuna, son discussioni inutili: sparirono e guelfi e ghibellini, perché tutti han compreso che l’Italia non è degli uni né degli altri, né del papa né dell’imperatore, ma solamente degli Italiani. In questa satira sono sferzati gli innajuoli seguaci del Manzoni. Anche qui è necessaria una spiegazione. Il Giusti non osò attaccar mai il Manzoni, perché era troppo alto per generale consenso; ma se la piglia coi suoi seguaci, accusandoli in blocco di fingere una fede che non sentivano. Di molti era infatti così; ma non meritano quest’accusa il Cantù, il Borghi, il Biava e altri che scrissero inni sacri sulle orme del maestro, parlando agli oppressi di una giustizia che dovevano ottenere e ch’era loro niegata, – unica forma di protesta permessa dalla polizia austriaca ben diversa dalla toscana. Questo sia detto per la verità storica.  Quando poi il Giusti scrive contro gl’innajuoli falsarî, allora tutti son con lui. Fra i suoi scritti vari si legge un articolo A quelli che verseggiano la religione, nel quale giustamente
scrive: «Apollo per doventar cattolico, apostolico, romano aveva bisogno di fare un noviziato più lungo; ma impaziente com’è, grattò l’arpa idumea senza sapere il canto fermo e col pollice tuttavia mezzo pagano. Una lettura della Bibbia fatta nell’ore avanzate: una filza di frasi pie e di figure orientali prese di qua e di là dalle prediche o da Lamennais, è l’ordito che riempiono della loro mistica vanità i nostri Daviddi in giubbino, i moderni Lattanzî con la corvatta..... La fede erudita di questi nostri maestri in divinità, è più un’idropisia del cervello che un affetto refrigerante del cuore. Riformatevi, fratelli. Attaccate per ora il salterio a un chiodo e esercitatevi sopra uno strumento più usuale, più casalingo, se mi è permesso di chiamarlo così. Toccate la corda degli affetti di famiglia, di fratellanza, di patria...» Queste savie parole non vi sarà chi non le approvi; però, proprio nel 1841, l’anno in cui metteva in giro questa satira riveduta e corretta, scriveva anch’egli, il Giusti, uno di quegli inni sacri contro i quali insorgeva tanto implacabile, e cantava le Feste triennali di Pescia con larga copia di quelle imagini bibliche che avrebbe voluto bandite dalle poesie di chi non aveva un profondo sentimento religioso.

PER UN REUMA D’UN CANTANTE
1841

V’e tal che mentre canti, e in bella guisa
Lodi e monete accatastando vai,
Rammenta i dolci che non tornan mai
Tempi di Pisa,
Quando di notte per la via maestra,
Il Duo teco vociando e la romanza,
Prendea diletto di chiamar la ganza
Alla finestra.
E a lui gli amici concedeano vanto
Di ben temprato orecchio all’armonia,
E dalla gola giovinetta uscìa
Facile il canto.
Pazzo che almanaccò per farsi nome,
Con un libraccio polveroso e vieto,
Lasciando per il suon dell’alfabeto
Crome e biscrome!
Or tu Mida doventi in una notte;
E via portato da veloce ruota,
Sorridi a lui che lascia nella mota
Le scarpe rotte:
Ed ei lieto risponde al tuo sorriso,
E l’antica amistà sente nel seno
Che a te lo ravvicina, a te che almeno
Lo guardi in viso.
Vedi? passa e calpesta il galateo
Lindoro, amor d’inverniciate dame,
E d’elegante anonimo bestiame
Tisico Orfeo1.
Eccolo; ognun si scansa, ognun trattiene
L’alito, e schianta ansando dalla tosse;
E creste all’aria e seggiole commosse...
Ei viene, ei viene.
Svenevole s’inoltra e sdolcinato;
Gira, ciarla, s’inchina, e l’occhio pesto
Languidamente volge, e fa il modesto
E lo svogliato,
Pregato e ripregato, ecco sorride
In atto di far grazia ai supplicanti;
I baffi arriccia in su, si tira i guanti,
E poi si asside.
La giovinetta convulsa e sbiadita
Très-bien gorgoglia con squarrata voce2,
Mentr’ei tartassa il cembalo, e veloce
Mena le dita;
E nelle orecchie imbriacate muore

==>SEGUE


Semifrancese lambiccato gergo
Di frollo Adon che le improvvisa a tergo
Frizzi d’amore.
Piange intanto il filosofo imbecille,
E dietro l’arte tua chiama sprecato
L’oro che può lo stomaco aggrinzato
Spianare a mille.
Piange di Romagnosi, che coll’ale
Dell’alto ingegno a tanti andò di sopra,
E i giorni estremi sostentò coll’opra
D’un manovale3.
Pianto sguajato, che del mondo vecchio
In noi l’uggia trapianta e il malumore!
Purché la pancia il cuoco, ed un tenore
C’empia l’orecchio,
Che importa a noi del nobile intelletto
Che per l’utile nostro anela e stenta,
Del poeta che bela e ci sgomenta
Con un sonetto?
Dell’ugola il tesoro e dei registri
Di noi stuccati gli sbadigli appaga:
Torni Dante, tre paoli: a te, la paga
Di sei Ministri.
Signor! Tu che alla pecora tosata
Volgi in aprile il mese di gennajo,
E secondo il mantel tarpi a rovajo
L’ala gelata,
Salva l’educatrice arte del canto;
A te gridano i palchi e la platea:
Miserere, Signor, d’una trachea
Che costa tanto.
Anzi del cranio rattrappiti e monchi
Gli organi lascia che non danno pane,
E la poca virtù che vi rimane
Cali ne’ bronchi.
S’usa educar, lo so; ma è pur corbello,
Bimbi, chi spende per tenervi a scuola!
Gola e orecchi ci vuole, orecchi e gola;
Pêste al cervello!

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Ecco una satira che è di tutti i tempi, perché non si correggono troppo rapidamente i costumi e non rinsavisce la società nelle sue smanie per i divi del canto. Il Giusti era condiscepolo a Pisa del tenore Napoleone Moriani, e ricordava che un lor compagno soleva accompagnare cantando per diletto il futuro artista, e squillavano le voci insieme nei notturni duetti per le vie della città addormentata o sotto le finestre della bella. Ma il Moriani coltivò l’ugola, divenne famoso conservandosi ottimo uomo e guadagnò una discreta sostanza che si ritrasse a godere in pace; l’altro studiò come un martire e rimase un pitocco. Da questo ravvicinamento vivo nei suoi ricordi, il poeta trasse l’inspirazione a questa satira, e gli amici, fra cui il Turchetti, ricordano quand’egli lo diceva al Moriani stesso, sebbene più tardi abbia, secondo l’abitudine, protestato di non aver pensato, nello scrivere ad alcuno. Egli mette in confronto il guadagno che fa un cantante con quattro note e quello d’un pensatore con un’intera vita di lavoro; ma se assurdamente avido è il cantante che per isfoggiare la bella voce un mese esige un capitale che sarebbe la ricchezza di una famiglia, stolta è la società che glielo paga per udire uno sforzo sonoro e procurarsi un diletto passeggero. Educatrice è la musica ed alte e nobili sono le impressioni che cagiona; essa procura piaceri intellettuali, emozioni dolci e potenti; ma per questo sarà permesso agli esecutori vocali di essa, che sono anche troppo spesso scarsi d’ingegno e di coltura, pretendere le ingenti somme che son distolte a più utili impieghi? Abbia il cantante paga di cantante, cioè adeguata all’opera che presta, e alla funzione sociale che adempie; e l’abbiano pur adeguata l’operajo e il maestro, chi lavora e chi studia. Il Giusti beffeggia anche le ammirazioni esagerate delle svenevoli dame per i cantanti; mentre, allor ch’egli scriveva, la patria aveva bisogno di uomini forti per redimerla, e vi ha sempre bisogno in ogni tempo dei forti e degli intelligenti per farla prospera.
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1 Il poeta passa a descrivere una conversazione alla moda, dove un dilettante di musica, un giovane Lindoro mezzo tisico, è festeggiato da tutti, e si lascia in disparte il filosofo il quale pensa che col danaro profuso a un cantante si possono sfamare le migliaja di poveri. 2 Squarrata, voce: voce fessa e ingrata. Squarrato si dice delle canne fesse. 3 Il Giusti o non conoscerà la verità sulla morte del Romagnosi, ovvero caricò le tinte per ottenere maggior effetto. Il grande filosofo, morto in Milano nel 1835, sofferse le strettezze della povertà negli ultimi anni della vita, perché l’Austria gli aveva vietato ogni modo di guadagno ed era ridotto a scrivere pareri legali per altri avvocati. Ma veniva, con delicata cura, sovvenuto dal suo amico, il negoziante Luigi Azimonti, che non era certo un manovale. Morì circondato dagli scolari ed ammiratori, fra cui Cattaneo, Sacchi ed altri che non l’avrebbero lasciato nella penuria.
GLI UMANITARÎ
1841

Ecco il Genio Umanitario
Che del mondo stazionario
Unge le carrucole.
Per finir la vecchia lite
Tra noi, bestie incivilite
Sempre un po’ selvatiche,
Coll’idea d’essere Orfeo
Vuol mestare in un cibreo1
L’Universo e reliqua.
Al ronzìo di quella lira
Ci uniremo, gira gira,
Tutti in un gomitolo.
Varietà d’usi e di clima
Le son fisime di prima;
È mutata l’aria.
I deserti, i monti, i mari,
Son confini da lunari,
Sogni di geografi.
Col vapore e coi palloni
Troveremo gli scorcioni2
Anco nelle nuvole;
Ogni tanto, se ci pare,
Scapperemo a desinare
Sotto, qui agli Antipodi;
E ne’ gemini emisferi
Ci uniremo bianchi e neri:
Bene! che bei posteri!
Nascerà di cani e gatti
Una razza di mulatti
Proprio in corpo e in anima.
La scacchiera d’Arlecchino
Sarà il nostro figurino,
Simbolo dell’indole.
(Già per questo il Gran Sultano
Fe’ la giubba al Musulmano3
A coda di rondine!)
Bel gabbione di fratelli!
Di tirarci pe’ capelli
Smetteremo all’ultimo.
Sarà inutile il cannone;
Morirem d’indigestione,
Anzi di nullaggine.
La fiaccona generale
Per la storia universale
Farà molto comodo.

==>SEGUE


Io non so se il regno umano
Deve aver Papa e Sovrano;
Ma se ci hanno a essere,
Il Monarca sarà probo
E discreto: un re del globo
Saprà star ne’ limiti4.
Ed il capo della Fede?
Consoliamoci, si crede
Che sarà Cattolico.
Finirà, se Dio vuole,
Questa guerra di parole,
Guerra da pettegoli.
Finirà: sarà parlata
Una lingua mescolata,
Tutta frasi aeree;
E già già da certi tali
Nei poemi e nei giornali
Si comincia a scrivere.
Il puntiglio discortese
Di tener dal suo paese,
Sparirà tra gli uomini.
Lo chez-nous d’un vagabondo
Vorrà dire in questo mondo,
Non a casa al diavolo.
Tu, gelosa ipocondria,
Che m’inchiodi a casa mia,
Escimi dal fegato;
E tu pur chetati, o Musa,
Che mi secchi colla scusa
Dell’amor di Patria.
Son figliuol dell’Universo,
E mi sembra tempo perso
Scriver per l’Italia.
Cari miei concittadini,
Non prendiamo per confini
L’Alpi e la Sicilia.
S’ha da star qui rattrappiti
Sul terren che ci ha nutriti?
O che siamo cavoli?
Qua o là nascere adesso,
Figuratevi, è lo stesso:
Io mi credo Tartaro.
Perché far razza tra noi?
Non è scrupolo da voi:
Abbracciamo i Barbari!
Un pensier cosmopolita
Ci moltiplichi la vita,
E ci slarghi il cranio.

==>SEGUE


Il cuor nostro accartocciato,
Nel sentirsi dilatato,
Cesserà di battere.
Così sia: certe battute
Fanno male alla salute;
Ci è da dare in tisico.
Su venite, io sto per uno;
Son di tutti e di nessuno;
Non mi vo’ confondere.
Nella gran cittadinanza,
Picchia e mena, ho la speranza
Di veder le scimie.
Si sì, tutto un zibaldone:
Alla barba di Platone
Ecco la Repubblica!5
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1 Il cibreo è una vivanda fatta con interiora di pollo e di uova mescolate insieme: qui è posto per significare una confusione di cose. 2 Gli scorcioni, cioè le scorciatoie. 3 Il sultano cominciava in quei tempi a introdurre nella sua corte le mode europee del vestire. 4 Arguto giuoco di parole: essendo il re dell’umanità signore del mondo tutto, e non avendo quindi confini, dovrebbe stare per forza nei confini o nei limiti. 5 Alla barba di Platone, perché il filosofo voleva che la repubblica fosse composta d’una selezione di uomini.
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Lo scherzo degli umanitarî era dei tre prediletti del poeta. Ma le idee son corse, e questi versi rimasero l’espressione di tempi passati. Nello scriverli il Giusti non aveva voluto guardare innanzi a sé e s’era invece ristretto in quell’angusto amor di patria che considera la terra natale come isolata dal resto del mondo. Egli temeva che le idee umanitarie potessero affievolire l’odio contro i dominatori stranieri: vedeva l’Italia schiava e avrebbe voluto non sentir parlare d’amore fra i popoli, ma bensì d’ira e di sangue finché vi fossero oppressi ed oppressori. D’altra parte però non gli piaceva il Guerrazzi che, ne’ suoi libri usciva in quelle tremende apostrofi che facevano balzare i cuori dei giovani. Il punto di partenza quindi della poesia era buono; ma volle esagerare e volgere in burla l’unione possibile degli uomini oltre le singole patrie.                                         ==>SEGUE

Eppure a questa unione aspira l’umanità: e il tendere ad essa, il mostrare la bellezza e la bontà di questo ideale è opera benefica, perché diffonde i principi della fratellanza. L’amore per l’umanità non ha mai diminuito quel della patria; anzi trova il suo fondamento nella patria che è la naturale associazione degli uomini e degli interessi. Scrisse lo scherzo contro gli Umanitarî nel 1840: e sei anni più tardi, riprendendo lo stesso argomento nella poesia La Rassegnazione, modificava così il suo pensiero:
Prima padron di casa in casa mia,
Poi cittadino nella mia città;
Italiano in Italia, e così via
Discorrendo, uomo dell’umanità...
Pensiero che aveva spiegato in una sua lettera: «Scrissi questo ghiribizzo per dare un po’ la baja a questi filosofi umanitarî, i quali, battendo la comoda campagna delle generalità, si provano ad imporre alla vana moltitudine col vaniloquio delle loro aeree dottrine. Quando ogni nazione fosse padrona in casa sua, si potrebbe cominciare a parlare di fratellanza universale.»
Nel mandare la satira al prof. Luigi Pacini l’accompagnava con queste parole: «Ecco lo scherzo agli Umanitarî. Non ci sentirai il colpo dell’accetta, ma il pungiglione della zanzara. A me piacerebbe usare sempre questa lieve ironìa, perché la credo più efficace; ma i tempi sono idrofobi: chi non
urla ha l’aria di sbadigliare e lo sbadiglio è contagioso...» (Lettera 9 settembre 1840). Ma quando fece stampare la satira, scriveva al Mayer (29 novembre 1844) di far porre in fronte agli Umanitarî: «Alla memoria di quel gran filosofo trascendentale di Nembrotte. – E questo (aggiungeva) mi piace sia posto, non tanto per il suo lavoro andato a vuoto, quanto per la confusione delle lingue che vi avvenne; e se l’allusione non e intesa, pazienza.»
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