CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS












































I DISCORSI CHE CORRONO
1847

Tutte le mutazioni pubbliche, siano pure benefiche, traggono sempre con sé spostamenti d’idee e d’interessi, i quali si rivelano nei malcontenti che accolgono ogni novità. Gli oppositori son sempre numerosi, non foss’altro per il disturbo di dover accogliere nella mente altri pensieri, di dover adattarsi a costumanze diverse. I fautori degli antichi regimi si trovano specialmente fra gli impiegati e i pensionati che, ligi al potere e spesso ciuchi, sono i conservatori naturali degli abusi e del vecchiume. A questi lodatori del passato, anche quando quel passato non rappresenta che prepotenza di birri, abjezione di servi e di corrotti, si contrappongono i fanatici d’ogni cosa nuova: fra essi poi van collocati i paurosi e gli indifferenti, che col loro scetticismo spengono ogni entusiasmo. Quale cuccagna, per un poeta satirico, tanta varietà di tipi in opposizione quotidiana! Il Giusti non si lasciò sfuggire l’occasione di ritrar dal vero quelle scene nelle quali l’elemento comico predominava; ma pubblicò solamente il brano I discorsi che corrono, che rivela però come avesse ordita in mente più vasta tela. Dopo la sua morte furono dati in luce due altri dialoghi, La guardia civica e Il Pauroso e l’Indifferente. Chi sa che se gli elettori di Buggiano non avessero avuto la melanconica idea di eleggerlo deputato, non avesse data all’Italia una commedia aristofanesca!
La scena pubblicata da lui, e quindi corretta e ripulita, ci presenta due caratteri disegnati con grande abilità psicologica. Non diremo, come un certo commentatore, d’aver davanti una scena di Shakspeare, perché ne avrebbe riso lo stesso Giusti, se fosse stato vivo; ma questa scena riproduce con arte finissima e con verità il brontolare d’un vecchio reazionario, un poltrone

==>SEGUE
       GRANCHIO (asciutto).
Non so.
       VENTOLA (con sommissione adulatoria).
Non vada in collera;
Badi, sarò una bestia;
Ma lei, sia per incomodi,
Sia per troppa modestia,
Sia per disgusti, eccetera,
Da non rinfrancescarsi369,
Ci servì nelle regole!.....
       GRANCHIO (facendo l’indiano).
Cioè dire?
       VENTOLA.
A ritirarsi.
       GRANCHIO (con modestia velenosa).
Oh, per codesto, a perdermi
Ci si guadagna un tanto:
Lo volevano? L’ebbero:
La cosa sta d’incanto!
Ora armeggiano, cantano,
Proteggono i sovrani,
Hanno la ciarla libera,
Lo Stato è in buone mani;
Va tutto a vele gonfie!
Il paese è felice:
Si vedranno miracoli!
       VENTOLA.
La dice lei, la dice.
Badi, se la mi stuzzica,
È un pezzo che la bolle!
       GRANCHIO (per attizzarlo).
Miracoli!
       VENTOLA (ci dà dentro).
Spropositi
Da prender colle molle!
       GRANCHIO (contento).
Oh, là là.
       VENTOLA.
Senza dubbio!
E il male è nelle cime.
       GRANCHIO (come sopra).
Pover’a voi! Chetatevi!
Quella gente sublime?
       VENTOLA (mettendosi una mano al petto).
Creda...                   ==>SEGUE
       E lì coll’orologio,
E diciotto di vino.
Che le pare?
       GRANCHIO (disprezzante).
Seccaggini!
       VENTOLA. Ma mi burla! E’ si lascia
Rifiatare anco un bufalo!
Quelli? O dente o ganascia.
       GRANCHIO ride e pipa.
       VENTOLA (rincarando).
Senta! Un povero diavolo
Che sia nato un po’ tondo,
Senza un modo di vivere,
Senza un mestiere al mondo,
Che nojato di starsene
Lì bruco e derelitto,
Cerchi di sgabellarsela
All’ombra d’un Rescritto;
Non c’è misericordia (contraffacendo):
«Scusi, le vengo schietto,
Il posto che desidera,
Veda, è difficiletto.
Ella, non per offenderla,
Ma non è per la quale.»
È carità del prossimo?
       GRANCHIO. Carità liberale!
       VENTOLA.
E vo’ potete battere,
Vo’ potete annaspare!
Moltiplicar le suppliche,
Farsi raccomandare,
Impegnarci la moglie,
Le figliole... è tutt’una!
Con questi galantuomini,
Chi sa poco, digiuna.
Guardi, non voglion asini!
       GRANCHIO (in cagnesco).
Cari!
       VENTOLA.
Gesusmaria!
S’è vista mai, di grazia,
Questa pedanteria?
       GRANCHIO gongola.
       
==>SEGUE
       GRANCHIO (gode e non vuol parere).
Zitto, linguaccia,
Facciamola finita.
       VENTOLA (serio serio).
Creda sul mio carattere,
Non ne voglion la vita.
       GRANCHIO (gongolando).
Oh, non ci posso credere:
Se mai, me ne dispiace.
       VENTOLA.
Dunque, siccome è storia,
Metta l’animo in pace.
       GRANCHIO riman lì in tronco.
       VENTOLA (non lascia cadere il discorso).
Vuol Ella aver la noja
Di sentire a che siamo?
Per me fo presto a dirglielo.
       GRANCHIO (se ne strugge).
Animo via, sentiamo.
       VENTOLA (atteggiandosi)
In primis et ante omnia,
Sappia che gl’impiegati,
Con codesti Sustrissimi
Son tutti disperati.
A quell’ora, li, al tribolo:
E o piova o tiri vento,
Non c’è Cristi: Dio liberi,
A sgarrare un momento!
Nulla nulla, l’antifona (caricando la voce):
«Signore, ella è pagato
Non per fare il suo comodo,
Ma per servir lo Stato.
La m’intenda, e sia l’ultima.»
       GRANCHIO (sgusciando gli occhi).
Alla larga!
       VENTOLA (trionfante).
O la veda
Se a tempo suo....
       GRANCHIO (dandogli sulla voce tutto contento).
Chetiamoci!
       VENTOLA.
O dunque la mi creda.
       GRANCHIO ride e pipa.
       ==>SEGUE
       VENTOLA (con tuono derisorio).
Del resto poi son umili,
Son discreti, son savi,
Fanno il casto, millantano
Di non volere schiavi!....
       GRANCHIO (scuotendo la pipa sul fuoco, e facendo
l’atto d’alzarsi per andare a posarla).
Filantropi, filantropi,
Filantropi, amor mio!
       VENTOLA (rizzandosi di slancio e togliendogli di
mano la pipa).
Dia qua, la non s’incomodi,
Gliela poserò io.
       GRANCHIO (piglia le molle e attizza il fuoco).
Giacché ci siete, o Ventola....
       VENTOLA (si volta in fretta).
Comandi.
       GRANCHIO.
Il fuoco è spento;
Pigliate un pezzo.
       VENTOLA (posa la pipa e trotta alla paniera della
legna).
Subito,
La servo nel momento.
(mette su il pezzo e si sdraja daccapo)
Del resto, per concludere,
Io, con tutta la stima
Di tutti... ho a dirla?
       GRANCHIO.
Ditela.
       VENTOLA (in musica).
Si stava meglio prima.
       GRANCHIO (modesto).
Non saprei.
       VENTOLA.
Per esempio,
Dica, secondo lei,
Questa baracca, all’ultimo,
Come andrà?
       

==>SEGUE
               VENTOLA.
La dica un vitupero!
O toccare il vespajo
Di chi gli può ingollare,
Non è un volerle?
       GRANCHIO (allegro).
O cattera,
Lasciategliele dare.
       VENTOLA.
E che crede, che dormano?
       GRANCHIO.
Dove?
       VENTOLA (accennando lontano lontano).
In Oga Magoga?370
       GRANCHIO (allegro).
Eh! chi lo sa?
       VENTOLA.
Che durino!
Per adesso, si voga,
Ma se l’aria rannuvola?
       GRANCHIO (indifferente).
Che annuvola per noi?
       VENTOLA.
Vero! Bene! Bravissimo!
Li vedremo gli Eroi!
(s’alza e cerca il cappello)
       GRANCHIO.
Che andate via?
       VENTOLA.
La lascio
Perché sono aspettato.
       GRANCHIO.
Se avete un’ora d’ozio...
       VENTOLA (fa una reverenza, s’incammina e ogni
tanto si volta).
Grazie, troppo garbato.
       GRANCHIO.
Una zuppa da poveri...
       VENTOLA (come sopra).
Da poveri? Gnorsìe!
Anzi...
       GRANCHIO (facendo l’umiliato).
Non vedo un’anima!
       ==>SEGUE
LA GUARDIA CIVICA

ATTO SECONDO.
SCENA DECIMA.
Salotto con uno specchio grande a bilico.
CREMA, e poi VESPA.
       CREMA. (si guarda un pezzo allo specchio, poi fa
un atto di stizza e chiama).
Vespa.
       VESPA (di dentro).
Comandi.
       CREMA.
Vestimi;
Fa’ presto, voglio escire.
Qui sola..... (tra sé.)
       VESPA (di dentro).
Vengo.
       CREMA (impaziente).
Sbrigati.
Mi ci sento morire, (tra sé.)
Corna alla Guardia Civica!
Questa razza infingarda
Oh adesso oh non s’infuria
A un cencio di coccarda!
       VESPA (entra con un cappello in mano
e uno sciallesul braccio).
Ecco.
       CREMA (ripicchiandosi allo specchio
e brontolando a mezza voce).
La vita pubblica...
Dammi una spolverata, (Vespa la spolvera.)
L’ho a dire? È una gran noja
Per la vita privata.
La libertà, la patria,
Son cose belle e buone,
Ma intanto per la patria...
       VESPA (tra sé rifacendola).
Mi trovo in un cantone.
       CREMA.
Bandiere, armi, arzigogoli,
Pio Nono, Carlo Alberto...
       VESPA (forte).
Evviva!
       CREMA (voltandosi invelenita).
Evviva un cavolo!
Qui con questo deserto...
       ==>SEGUE

       VESPA (si finge mortificata).
Dico quello che dicono.
       CREMA.
Lo so: sono ammattiti
Modena, Birri, Napoli,
Tedeschi, Gesuiti,
Eh via... dammi la bavera.
       VESPA (forte, porgendole la bavera).
. . . . . . . . .
       CREMA.
Una donna educata,
Avvezza... Questa manica
È stretta assaettata
. . . . . . . . .
A vedersi venire
Una folla di giovani...
       VESPA (tra sé).
Fin troppi, sto per dire!
       CREMA.
Ora colla politica...
Piglia il fiocco di raso.
Gli amici che vi piovono...
       VESPA (tra sé, portando il fiocco).
Si contano col naso.
       CREMA.
In casa, si sbadiglia;
Fuori, ci par la peste:
Siamo aggiustati!...
       VESPA.
Oh proprio,
Per il dì delle feste.
       CREMA (a Vespa).
Che dici di quell’asino?
       VESPA.
Di quale?
       CREMA (impazientandosi).
Animo, i guanti...
Di quale! To, di Ninnolo!
       VESPA (affettando semplicità).
Scusi, n’aveva tanti!
       CREMA
Bene: quel coso pallido,
Stento, lungo, sottile,
Da non potere un sigaro...
       VESPA (ironica per indispettirla).
Figurisi un fucile!
       
==>SEGUE
CREMA (con stizza).
Brava! Codesta inutile
Carcassa moribonda,
O non mi scappa in gloria
Smaniante per la ronda?
       VESPA (con finta meraviglia).
Ronda?
       CREMA (mettendosi intirizzita e marciando con caricatura).
Ronda! Guardateli
Gli eroi che fa la piazza...
Elmo, fucile, sciabola...
E una nebbia gli ammazza.
       VESPA (tra sé, tentennando il capo).
. . . . . . . . .
       CREMA.
Eh? chi l’avrebbe detto!
       VESPA (forte in tuono di burla).
Proprio, le leggi i Principi
Le fanno per dispetto.
       CREMA.
N’avevo e n’ho. Che credono?
D’avermi canzonata?
Ne volessi degli uomini!
       VESPA (tra sé).
Sì: quest’altra mandata.
       CREMA.
Qui che pesci si pigliano?
       VESPA (da sé).
Uhm!
       CREMA.
Strolaghiam le stelle!
Facciamo il passerajo
Tra nojaltre gonnelle?
       VESPA. Giusto!
       CREMA.
Lasciarsi mettere
Tra le ciabatte smesse?
       VESPA.
Diamine!
       CREMA.
Andar nel nuvolo
Delle liberalesse?
       VESPA. Davvero!
       CREMA.
E che si pensano
Queste, a gridare in coro
Repubblica, Repubblica?
       
==>SEGUE
VESPA.
Chi sa! di farla loro.
       CREMA.
Oh questa gente libera
È una gente scortese.
       VESPA.
Lo vedo.
       CREMA.
Io, se mi piantano,
Ho in tasca il mio paese.
       VESPA. Brava!
       CREMA.
E se il nostro eccetera
Non viene e ci rimedia,
Colla signora Italia
C’è da morir d’inedia.
Addio: se mai ci capita...
Ma no: chiunque viene
Rimandalo.
       VESPA.
Non dubiti:
Si svaghi, farà bene.

LE PIAGHE DEL GIORNO.
IL PAUROSO E L’INDIFFERENTE.
1848

TRIPPA e GANGHERO.
       TRIPPA.
Ma sai che questi strepiti
Sono un brutto gingillo!
       GANGHERO.
Secondo orecchi.
       TRIPPA.
E all’ultimo?
       GANGHERO.
Indovinala grillo.
       TRIPPA.
Si, tu la pigli, al solito,
A un tanto la calata;
Ma io...
       GANGHERO.
Sentiamo.
       TRIPPA.
A dirtela,
Io la veggo imbrogliata.
       
==>SEGUE
Giuseppe  Giusti - POESIE  SCELTE - parte V
Pagina a cura di Nino Fiorillo           == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
Commento alla poesia
SANT'AMBROGIO
di Marisa Moles
__________________
La lirica prende spunto da un fatto realmente accaduto: mentre si trovava a Milano, ospite di Alessandro Manzoni, Giusti fece visita alla basilica di Sant’Ambrogio, al cui interno s’imbatté in un gruppo di soldati austriaci che a quei tempi occupavano il Lombardo-Veneto. Ad un primo sentimento di repulsione nei confronti dell’oppressore, si sostituisce una sorta di compartecipazione alla sorte di quei soldati che, lontani dalla patria, sono ridotti, forse loro malgrado, a strumento di sopraffazione. Il canto intonato da quei soldati suscita nel poeta una commozione inaspettata da cui scaturisce una riflessione profonda sulla sorte dei popoli che spesso sono soltanto delle marionette nelle mani di chi detiene il potere.
Giusti immagina di rivolgersi ad un alto funzionario della polizia o granducale (il poeta è pistoiese) o austriaca.
Fin dall’incipit si può osservare l’ironia con cui il poeta esprime la sensazione di essere guardato in cagnesco da quel funzionario che l’ha di certo etichettato come anti-tedesco perché nei suoi scherzucci si prende gioco dei birbanti (tiranni, traditori, finti liberali …). Dopo il preambolo, con quel O senta tutto toscano si appresta a raccontare al suo interlocutore ciò che gli era successo una mattina in occasione di una visita nella basilica di Sant’Ambrogio.
Il poeta si trova in compagnia del giovane figlio del Manzoni (forse Filippo), qui chiamato confidenzialmente Sandro e scherzosamente definito un di que’ capi un po’ pericolosi, riferendosi, senza mezzi termini, alla palese avversione che Manzoni nutriva nei confronti degli Austriaci e definendo il capolavoro del poeta lombardo romanzetto, prendendosi gioco anche di lui. L’intento di gabbare il funzionario si fa palese in quel Che fa il nesci (più o meno lo gnorri), salvo poi giungere alla conclusione che forse quel romanzo non l’ha letto perché il suo cervello ha tante altre faccende di cui occuparsi, prima fra tutte, è sottinteso, rendere infelici i poveri “oppressi”. Ecco che, proseguendo lo scherzo, arriva la sferzata per l’ignaro interlocutore: Dio lo riposi è un augurio che solitamente viene rivolto ai morti: il cervello del tale è, dunque, morto e sotterrato, constatazione che porta ironicamente l’attenzione del lettore sull’ignoranza e la pochezza di certi ufficiali.
Eccoci arrivati al racconto del fatto accaduto a Giusti in quel di Sant’Ambrogio. Nella basilica il poeta trova dei soldati, forse Boemi o Croati, popolazioni che allora facevano parte dell’Impero Austro-Ungarico. Erano lì, come i pali che sorreggono le vigne, a controllare l’ordine, mandati dai funzionari austriaci (le vigne); l’ironia si coglie anche qui in quell’impalati che li descrive nell’atteggiamento servile di chi è sempre pronto ad obbedire. Anche i baffi che Giusti paragona alla stoppa (capecchio), riferendosi ai caratteristici “colori” di quei popoli, perlopiù biondi, costituiscono una nota ironica che si accompagna a quel dritti come fusi davanti a Dio, come se dovessero stare sull’attenti anche davanti al Creatore. Ecco che il ribrezzo, la repulsione prende il sopravvento: Giusti non ha voglia di mischiarsi a quella “marmaglia”, un ribrezzo che, ovviamente, il funzionario non può provare, visto che ci vive in mezzo abitualmente e che, proprio grazie a questo suo impiego che gli garantisce lo stipendio, riesce a sopportare. L’aria, poi, là dentro è decisamente viziata (e non può essere altrimenti visti gli “ospiti”), talmente pesante da far sprigionare persino dalle candele un odore non simile alla cera (che allora doveva essere di ottima qualità) quanto al sego con cui i soldati si ungevano i baffi. Insomma, sembra proprio che la sacralità del luogo risenta dell’influsso negativo di quei soldati puzzolenti.
Quel Ma nell’incipit della nuova ottava riporta l’attenzione sulla sacralità del luogo e ispira nel poeta una sincera commozione religiosa. Le note di un canto (nell’ottava seguente verrà specificato che si tratta del coro dell’opera verdiana I Lombardi alla prima crociata) rende l’atmosfera soave e nel contempo drammatica: si parla di un popolo che soffre fra gli stenti ricordando tutto il bene che ha perduto. Come non leggere tra le righe la sofferenza dei Lombardi, contemporanei di Manzoni e di Giusti, sottoposti all’ingiusta tirannia austriaca?
Il coro porta ad una specie di trasfigurazione del poeta che si sente parte di quella gente, di quel branco che prima aveva osservato da lontano e con disprezzo, come se non fosse più lui, rapito dalla musica e dal canto che lo inebria e lo porta ad essere solidale con chi forse non soffre meno di lui. E sì, ormai è totalmente rapito da quel pezzo nostro, perché legato al concetto di patria, perché appartiene alla nostra cultura, quella italiana, di cui nessuno straniero potrà mai privarci. Sull’onda emotiva di quella musica suonata con arte, ovvero “maestria”, passano in secondo piano anche l’ubbie, i pregiudizi. Ecco, quindi, che al cessar della musica, il poeta vorrebbe ritornare allo stato iniziale, a quella repulsione provata all’entrata in chiesa, ma involontariamente viene giocato da un nuovo tiro: dalle bocche che parean di ghiro (il riferimento ironico è ai baffi dei soldati, simili a quelli del piccolo mammifero) viene intonato un altro canto, questa volta tedesco, che s’innalza verso l’altare, una preghiera che è allo stesso tempo un lamento, un suono grave e solenne, ma contemporaneamente flebile, che gli rapisce per sempre l’anima. L’emozione è, quindi, temperata dall’ironia con cui dipinge gli austriaci: cotenne, in riferimento all’insensibilità come quella della pelle spessa dei maiali, e fantocci esotici di legno, espressione in cui l’aggettivo esotici rimanda a tutto ciò che è estraneo alla nostra cultura. L’empatia, attraverso la musica, si fa incredibilmente concreta.
Anche nel coro tedesco il poeta percepisce la rinascita di quel sentimento nostalgico di infanzia e di patria lontana. Il cuore custodisce e ripete nei momenti di dolore i canti imparati da fanciullo: gli affetti familiari, il desiderio di pace, la voglia e l’inclinazione ad amare in modo disinteressato, il dolore per la lontananza dalla patria sono sensazioni che il poeta non può fare a meno di condividere con quei soldati in un primo momento detestati. Anche il tono della poesia cambia e questa ottava costituisce l’apice del pathos.
Inizia qui la riflessione profonda di Giusti. A ben vedere questi soldati sono vittime anch’essi del potere: un imperatore timoroso dei moti insurrezionali, tanto in Italia quanto nei paesi slavi, strappa alle loro case (evidente qui la metonimia tetti) questi uomini che tengono schiavi noi pur essendo schiavi anch’essi. (evidente qui il chiasmo che rende ancor più drammatica la considerazione del poeta). Provengono dalla Croazia e dalla Boemia ma non sono poi molto diversi da quelle mandrie di buoi che i pastori toscani portano in Maremma a svernare.
L’ottava inizia con un’enumerazione per asindeto che rende particolarmente lento il ritmo dei primi versi. È come se il poeta volesse sottolineare il senso della desolazione che caratterizza la vita dei soldati, incolpevoli strumenti della rapacità consapevole (occhiuta rapina) del sovrano, senza goderne i frutti. La rapacità, poi, riporta allo stemma austriaco, l’aquila grifagna. Essi, sottoposti ad una dura disciplina e costretti ad una condizione di vita difficile, soffrono in silenzio e solitudine, subendo la derisione di chi li odia per quel che rappresentano. È un odio che divide (efficace, qui, la litote non avvicina) i due popoli, l’italiano e il tedesco, giovando a chi regna e può confidare nell’impossibilità di una loro complicità pericolosa. È il concetto del divide et impera.
Nei primi versi dell’ottava finale c’è ancora spazio per la commozione del poeta: la comprensione arriva alla pietà nei confronti di questa povera gente, lontana dalla patria e costretta a subire l’atteggiamento ostile del paese che l’ospita. Ma presto la pietà sfuma in umorismo e chiude ciclicamente la lirica: l’arguzia di Giusti arriva a definire principale l’imperatore che, forse, i soldati intimamente mandano a quel paese. Magari, è pronto a scommetterlo, non lo sopportano esattamente come gli Italiani.
Ma l’immedesimazione qui si ferma: per non correre il rischio di abbracciare uno di quei soldati, l’autore, ricordandosi del suo spirito patriota, deve fuggire. Il caporale rimane lì, con il suo bastone di nocciolo (era l’insegna dei caporali austriaci), impalato esattamente come l’abbiamo trovato all’inizio della poesia, insieme ai suoi compagni di sventura.
_____________________
GRANCHIO.
Non saprei.
       VENTOLA.
Oh male! Tutti scrivono,
Tutti stampano, tutti
Dicon la sua.
       GRANCHIO (ironico). Bravissimi!
       VENTOLA.
Senta, son tempi brutti!
       GRANCHIO (come sopra).
Perché?
       VENTOLA.
Quando un sartucolo.
Un oste, un vetturale,
La se lo vede in faccia
Compitare un giornale;
Quando il più miserabile
Le parla di diritti,
E’ non c’è più rimedio,
I Governi son fritti!
       GRANCHIO (come sopra).
Bene!
       VENTOLA.
Quelli s’impancano
A farci il maggiordomo;
Questi a trattare il Principe
Come fosse un altr’uomo:
       GRANCHIO (come sopra).
Benone!
       VENTOLA.
Uno s’indiavola,
Un altro s’indemonia.....
Questa è la vita libera?
Questa è una Babilonia.
       GRANCHIO (con tuono dottorale).
Che volete, s’imbrogliano,
E vanno compatiti.
       VENTOLA.
O quella di pigliarsela
Sempre co’ Gesuiti,
Non si chiama uno scandolo?
       GRANCHIO (serio).
Codesta, a dire il vero,
È una cosa insoffribile!
       ==>SEGUE


GANGHERO.
Imbrogliata? Per gli asini;
Ma non mica... so io.
       TRIPPA.
Come sarebbe?
       GANGHERO.
Oh, adagio!
       TRIPPA.
Via, per amor d’Iddio,
Dimmi qualcosa.
       GANGHERO.
È inutile:
Con te gli è fiato perso.
       TRIPPA.
No, da parte la celia;
Parliamo a modo e a verso.
C’è qualcosa per aria?
       GANGHERO. Uccelli.
       TRIPPA.
Animo, là;
C’è nulla?
       GANGHERO.
Uccelli e nuvoli.
       TRIPPA.
Codesta è crudeltà!
       GANGHERO.
Ma sai che mi fai ridere,
E ridere di cuore!
       TRIPPA.
Ridi: dimmi che...
Che sono un seccatore;
Ma non tenermi al bujo.
C’è qualche congiura?
       GANGHERO.
Picchia! Là, via, confessati:
Hai paura?
       TRIPPA.
Paura!
Paura no..., ma...
       GANGHERO.
Spicciati:
Si o no?
       TRIPPA.
Penso al poi.
       GANGHERO. Ho capito, un quissimile.
       TRIPPA.
Pigliala come vuoi.
       ==>SEGUE
TRIPPA.
O che?...
       GANGHERO.
Tira via.
       TRIPPA.
O che credi?...
       GANGHERO.
Che? sbrigati.
       TRIPPA.
To’, che faccia la spia?
       GANGHERO.
Di che? Le spie fallirono.
       TRIPPA.
Dunque, se sai codesto,
Che c’entra il male e il peggio?
       GANGHERO. Te lo dirò. Del resto
Per tornare a dov’eramo
Parli con altri?
       TRIPPA.
Sai,
A volte, per disgrazia,
Li nel gran viavai,
Mi batte di discorrere
O con Tizio o con Cajo.
       GANGHERO.E di che?
       TRIPPA.
Di pericoli.
       GANGHERO. Ci siamo: eccoti il guajo.
       TRIPPA.
Perché?
       GANGHERO.
Perché vedendoti
Sempre spericolato,
Sempre lì con quel solito
Capannello arrembato,
Sempre con mille fisime
D’uno che se ne piglia;
Cose che ti si leggono
Sul viso a mille miglia;
La gente, o ti corbellano,
O ti pigliano in tasca.
       TRIPPA.
O con chi vuoi ch’i’bazzichi?
Come vuoi che mi nasca
Nella testa altra voglia
Che di pensare a male?
Lo sai pure: ho famiglia,
Ho qualche capitale...
       ==>SEGUE
malcontento e giubilato che fa ciarlare uno scroccone, il quale abilmente interpreta i di lui segreti rimpianti e le ire contro le riforme liberali. La Guardia Civica, istituita dal Granduca nel 1847, fornisce il primo argomento al dialogo che scivola nei ricordi dell’ozio beato che godevano prima gli impiegati toscani. Quando si lesse questa scena, si pensò che Granchio fosse il ministro Pauer, amico dei Gesuiti, uomo nullo e stato messo in riposo nel 1847 coll’intera paga.
Ed ora lasciamo la parola al Giusti, che al dialogo premise la seguente spiegazione :


Questo Dialogo è tolto da una Commedia intitolata:
I DISCORSI CHE CORRONO.
L’azione è in un paese a scelta della platea, perché i discorsi che corrono adesso, corrono mezzo mondo. I personaggi
sono:
GRANCHIO. Giubilato e pensionato.
SBADIGLIO. Possidente.
ARCHETTO. Emissario.
VENTOLA. Scroccone.
E altri che non parlano o che non vogliono parlare. Questi soprannomi, l’Autore non gli ha stillati per lepidezza stenterellesca, ma per la paura di dare in qualche scoglio ponendo i nomi usuali. La Commedia è in versi, perché l’Autore sentendosi della scuola che corre, e sapendo per conseguenza di dover battere il capo o in una prosa poetica, o in una poesia prosaica, ha scelto quest’ultima, sicuro di non essere uscito di chiave. Siccome il tempo va di carriera, e il mettere in iscena una Commedia che non sia del tempo è lo stesso che uscire in piazza a fare il bello con una giubba tagliata, per esempio, nel millottocentoquattordici, potrebbe darsi che l’Autore, ritardato dalla fantasia, non potesse finire il lavoro a tempo, e che il pubblico non ne vedesse altro che questo brano.

ATTO SECONDO.
SCENA QUINTA.
Salotto.
Da un lato una tavola mezza sparecchiata. (GRANCHIO
e VENTOLA in poltrona al camminetto. GRANCHIO
pipa; VENTOLA si stuzzica i denti. Dopo un minuto di silenzio,
VENTOLA s’alza e va a guardare il barometro.
       GRANCHIO.
Che ci dice il barometro?
       VENTOLA (tentennando il barometro colle nocca).
Par che annunzi burrasca.
       GRANCHIO (per attaccar discorso).
Meglio!
       VENTOLA (capisce e lo seconda).
Scusi, a proposito,
Se vo di palo in frasca:
L’ha veduta la Civica?
       GRANCHIO (sostenuto).
L’ho veduta.
       VENTOLA.
Le piace?
       GRANCHIO (noncurante).
Non me n’intendo.
       VENTOLA (per dargli nel genio).
È un ridere.
Che guerrieri di pace!
       GRANCHIO (tastandolo).
Che la pigliano in celia?
       VENTOLA (con ammirazione burlesca).
In celia? e non fo chiasso!
La pigliano sul serio!
Per questo mi ci spasso.
       GRANCHIO.
Fate male.
       VENTOLA.
M’arrestino!
O la scusi: che quella
Le par gente da battersi?
       ==>SEGUE
       GRANCHIO (ironico).
O to’, sarebbe bella!
Una volta che il Principe
Le arrischia armi e bandiere,
Che gliele dà per dargliele?
       VENTOLA (mostrando di leggergli in viso).
La mi faccia il piacere!
Già la lo sa.... Diciamola
Qui, che nessun ci sente:
Ci crede lei?
       GRANCHIO (con affettazione).
Moltissimo!
       VENTOLA.
Io non ci credo niente.
Per me queste commedie
Di feste e di soldati,
Son perditempi, bubbole,
Quattrini arrandellati.
       GRANCHIO (facendo l’indifferente).
Può essere.
       VENTOLA.
Può essere?
È senza dubbio.... In fondo,
Con quattro motuproprii,
Che si rimpasta il mondo?
       GRANCHIO (agrodolce).
Dicon di sì.
       VENTOLA.
Lo dicano:
Altro è dire, altro è fare.
       GRANCHIO (come sopra).
Eh, crederei!
       VENTOLA.
Le chiacchiere
Non fan farina.
       GRANCHIO (come sopra).
Pare!
       VENTOLA (rintosta).
E poi, quelli che mestano
Presentemente, scusi,
Con me la può discorrere,
O che le pajon musi?
       ==>SEGUE

       VENTOLA (come sopra).
Guardi che porcherie!
       GRANCHIO (come sopra).
Eh gua’!...
       VENTOLA (come sopra).
Ma la non dubiti
Siamo ben cucinati!
       GRANCHIO (come sopra).
Questo, se mai, lasciatelo
A noi sacrificati.
       VENTOLA (come sopra).
A loro? a noi!
       GRANCHIO (in tuono mesto).
Finiamola,
Non tocchiamo una piaga!.....
Addio.
       VENTOLA (fa una reverenza e nell’andarsene dice
tra sé).
Povera vittima,
Con quel tôcco di paga!
__________________


       GANGHERO.
A questi
Lumi di luna?
       TRIPPA.
O diamine!
       GANGHERO.Là, là, signor Onesti,
Non venga colli scrupoli.
       TRIPPA.
No, lo dico in coscienza.
       GANGHERO. Anco codesta è ottima
Per salvar l’apparenza.
O che credi, perdiavolo,
Che io mi ci balocchi?
Che non vegga le borie
(Dicendola a quattrocchi)
Di questi Gonfianuvoli
Che tirano al comando?
Di questa gente in auge
Che arruffa dipanando?
       TRIPPA.
Di’ piano..
       GANGHERO.
È Vero...
Urlo e non me n’avvedo.
       TRIPPA.
Dunque?...
       GANGHERO.Eh altro se lo vedo!
Vedo, sto zitto, e gonfio,
Sai? Chi ha nella testa
Un’oncia di mitidio,
Tira a campare, e festa,
In fondo, che concludono
I buoni, i dotti, i bravi?
Oh, per me n’hanno voglia!
Chi l’ha a mangiar la lavi.
       TRIPPA.
Sicché dunque?...
       GANGHERO. Qui, con queste marmotte...
       TRIPPA.
Sentiamo.
       GANGHERO.
Un colpo al cerchio,
E quell’altro alla botte.
Insomma barcamenati
Così, tra le du’ acque.
       TRIPPA.
Ma...
       ==>SEGUE
GANGHERO.
Zitto. Esempigrazia,
Io so che ti dispiacque
Il tumulto di sabato.
       TRIPPA.
È vero.
       GANGHERO.
E là dal Presto
Tu ne facesti un passio.
       TRIPPA.
È vero anco codesto.
O come sai?
       GANGHERO.
Figurati
Se non lo so! Si sa
Fin le mosche che volano.
       TRIPPA.
Pur troppo!
       GANGHERO.
E che ti fa
Se la gente tumultua?
Che sei lo Stato?
       TRIPPA.
È vero:
Ma dunque, per non essere,
Non mi darà pensiero?...
       GANGHERO.
Che pensiero! Divertiti...
       TRIPPA.
Potere!
       GANGHERO.
Eh lascia andare
Il mondo è sempre...
Di chi lo sa burlare:
Dice bene il proverbio.
       TRIPPA.
Dirà bene, ma io,
Che vuoi, non mi capacito
Di certi...
       GANGHERO.
Trippa mio,
Se tu non ti capaciti,
Studia.
       TRIPPA.
Sì, tu discorri...
       GANGHERO. L’ho detto da principio,
Che predicava ai porri!
               ==>SEGUE
E là, te gli spiattella il taccuino.
Con una gran risata il commissario,
Lette tre righe, lo guardò nel muso,
E disse: – bravo il sor referendario!
La fa l’obbligo suo secondo l’uso:
Si vede proprio che ha perso il lunario,
E che ne’ pazzerelli è stato chiuso.
La non sa, signor mìo, che Su’ Altezza
Ora al buonsenso ha sciolta la cavezza?
– Su’ Altezza? al Buonsenso? E non corbello!
Al Buonsenso...? O non era un crimenlese?
Ma qui c’è da riperdere il cervello!
O dunque adesso chi mi fa le spese? –
So io dimolto? gli rispose quello;
Che fo l’oste alle birbe del paese?
Animo, venga qua, la si consoli,
La metterò di guardia a’ borsajoli.
_______________________
Ma già corresti: ti vedemmo a sera
Tra gente e gente entrato in comitiva,
E seguendo alla coda una bandiera
Biasciare evviva.
Cresciuta l’onda cittadina, e visto
Popolo e Re festante e rimpaciato,
E la spia moribonda, e al birro tristo
Mancare il fiato,
Tu, sciolto dall’ingenito tremore,
Saltasti in capofila a far subbuglio,
Matto tra i savi, e ti facesti onore
Del sol di luglio.
Bravo! Coraggio! Il tempo dà consiglio:
Consigliati col tempo all’occasione:
Ma intanto che può fare anco il coniglio
Cuor di leone,
Ficcati, Abbondio, e al popolo ammirato
Di te, che armeggi e fai tanto baccano,
Urla che fosti ancor da sotterrato,
Repubblicano.
Voi, liberali, che per anni ed anni
Alimentaste il fitto degli orecchi,
Largo a’ molluschi! o andate co’ tiranni
Tra i ferri vecchi.
A questo fungo di Settembre, a questa
Civica larva sfarfallata d’ora,
Si schioda il labbro e gli ribolle in testa
Libera gora.
Già già con piglio d’orator baccante
Sta d’un caffè, tiranno alla tribuna;
Già la canèa de’ botoli arrogante
Scioglie e raguna1.
Briaco di gazzette improvvisate,
Pazzi assiomi di governo sputa
Sulle attonite zucche, erba d’estate
Che il verno muta.
«Diverse lingue, orribili favelle»,
Scoppiano intorno; o altèra in baffi sconci
Succhia la patriotica Babelle
Sigari e ponci.
Dall’un de’ canti, un’ombra ignota e sola
Tien l’occhio al conventicole arruffato,
E vagheggia il futuro, e si consola
Del pan scemato2.
Stolta! se v’ha talun che qui rinnova
L’orgie scomposte di confusa Tebe,
Popol non è che sorga a vita nuova,
È poca plebe.

==>SEGUE
È poca plebe: e d’oro e di penuria
Sorge, a guerra di cenci e di gallone:
Censo e Banca ne da, Parnaso e Curia,
Trivio e Blasone.
È poca plebe: e prode di garrito,
Prode di boria e d’ozio e d’ogni lezzo,
Il maestoso italico convito
Desta a ribrezzo.
Se il fuoco tace, torpida s’avvalla
Al fondo, e i giorni in vanità consuma;
Se ribollono i tempi, eccola a galla
Sordida schiuma.
Lieve all’amore e all’odio, oggi t’inalza
De’ primi onori sull’ara eminente,
Doman t’aborre, e nel fango ti sbalza,
Sempre demente.
Invano, invano in lei pone speranza
La sconsolata gelosia del Norde3.
Di veri e prodi eletta figliolanza
Sorge concorde,
E di virtù, d’imprese alte e leggiadre
L’Italia affida: carità la sprona
Di ricomporre alla dolente madre
La sua corona.
O popol vero, o d’opre e di costume
Specchio a tutte le plebi in tutti i tempi,
Levati in alto, e lascia al bastardume
Gli stolti esempi.
Tu modesto, tu pio, tu solo nato
Libero, tra licenza e tirannia,
Al volgo in furia e al volgo impastoiato
Segna la via.
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1 Canea, moltitudine di cani. 2 L’ombra ignota e sola è quella di un reazionario che gode di quelle intemperanze e di quell’arruffio, e confida che non duri il vento liberale, consolandosi con tale lusinga dei profitti mancati e della paga diminuitagli dai tempi nuovi. 3 Allude agli imperatori d’Austria e di Russia e al re di Prussia, che speravano di veder l’Italia tratta a rovina dagli eccessi degli intemperanti.
ISTRUZIONI A UN EMISSARIO
1847

In questa satira si rivela una brutta pagina della moderna storia dell’Austria. Questa, timorosa dell’agitazione simultanea in tutta Italia per le riforme che i regnanti erano costretti a concedere, cercava, dopo l’elezione di Pio IX, di suscitare disordini per mostrare il pericolo di scender la china delle concessioni e indurre i principi a rivolgersi a lei per chieder ajuto a reggersi. In Toscana sopratutto, dove Leopoldo II aveva subito largheggiato di riforme, questi emissarî, diversamente vestiti, s’insinuavano nei crocchi eleganti e fra il popolino per diffondere con abile arte il malcontento. Lo Zobi, nella Storia della Toscana, attribuisce a quegli emissarî i tumulti per la carestia, narrati a pagina 66: «il recondito movente di cosifatti disordini traeva certo impulso da stranieri agenti, i quali così speravano che, mandato tutto a soqquadro, avrebbero costretti i Governi a dimandar presto soccorso. Bel modo invero di scompigliar prima gli Stati per correre poi loro addosso ad opprimerli.» Questi emissarî non erano dunque fantasime create dalle paura: e le prove furono pur troppo dimostrate quando l’accorgersene non serviva più. Il Fanfani e il Turchetti raccontano dei fatti precisi accaduti sotto i loro occhi. Un tal S. fu raccomandato caldamente da Mazzini, la cui buona fede era facile sorprendere, al Guerrazzi quando questi governava la Toscana. Pareva un grande perseguitato e narrava di martiri sofferti dall’Austria, ai quali era per miracolo sopravvissuto: fu fatto comandante della Guardia Municipale di Firenze. Quando sopravvennero i tumulti e si richiedeva l’ajuto di quelle guardie, il comandante le tenne coll’armi al piede; e venuti gli Austriaci fu visto passeggiare per le vie a braccetto cogli i. r. ufficiali. Né basta. Nel Circolo Popolare di Pistoja si distingueva per l’entusiasmo clamoroso, per le proposte audaci, esagerate che trascinavano gli incauti e li facevano sordi ai ragionamenti calmi del buon senso. In ultimo scomparve. Quando gli Austriaci occuparono Pistoja, lo scomparso Gracco fu riconosciuto vestito da ufficiale nelle truppe straniere! A queste nefande insidie ricorreva l’Austria per ispegnere la libertà d’Italia.
Il poeta finge che parli il principe di Metternich.
Anderete in Italia: ecco qui pronte
Le lettere di cambio e il passaporto.
Viaggerete chiamandovi Conte,
E come andato per vostro diporto.
Là, fate il pazzo, fato il Rodomonte,
L’ozioso, il giocatore, il cascamorto;
E godete e scialate allegramente,
Ché son cose che fermano la gente.
Quando vedrete (e accaderà di certo)
Calare i filunguelli al paretajo,
Fate razza; parlate a cuore aperto;
Mostratevi con tutti ardito e gajo,
Dite che il Norde è un carcere, un deserto,
Un vero domicilio del gennajo,
Paragonato al giardino del mondo,
Bello, ubertoso, libero e giocondo.
Questa parola libero, buttata
Là nel discorso come per ripieno,
Guardate qua e là nella brigata
Se vi dà ansa di pigliar terreno.
Se casca, e voi battete in ritirata,
Seguitando a parlar del più e del meno;
Se, viceversa, v’è chi la raccatta,
Andate franco, ché la strada è fatta.
Franco ma destro. A primo non è bene
Buttarsi a nuoto come fa taluno,
Che quando ha dato il tuffo e’ non si tiene,
E tanto annaspa che lo scopre ognuno.
Prender la lepre col carro conviene,
Girar largo, non essere importuno,
Tastare e lavorar di reticenza,
Con quel giudizio che pare imprudenza.
Far la vittima no, non vi consiglio,
Perché il ripiego è noto alla giornata;
Da sedici anni in qua, codesto appiglio
Tanta gente in quei luoghi ha bindolata,
Che si conosce di lontano un miglio
La piaga vera e la falsificata.
Anzi vantate, e fatevene bello,
Che nessuno v’ha mai torto un capello.
Fatto che vi sarete un bravo letto
Nell’animo di molti, e decantato
Vi sentirete per un uomo schietto,
E dei fatti di qua bene informato,
Dite corna di me, ve lo permetto,
Dite che dormo, che sono invecchiato;
Inventatene pur, se ve ne manca,
Ché, come dico, vi do carta bianca.

==>SEGUE

Del ministro di là dite lo stesso
Ne’ caffè, ne’ teatri, in ogni crocchio;
Anzi, a questo proposito, v’ho messo
Sul passaporto un certo scarabocchio,
Che vuol dire, inter nos, ordine espresso
Di lasciar fare e di chiudere un occhio.
Andiamo: ora che siete in alto mare,
Ecco la strada che vi resta a fare.
Fatevi centro della parte calda
Che campa di susurri e di gazzette,
E sia roba in giacchetta o roba in falda,
Delira sempre e mai capisce un ette.
Agevolmente a questa si riscalda
Con nulla il capo, e quando uno la mette
Nel caso di raspare in tempi torbi,
Arruffa tutto, e fa cose da orbi.
Compiangete il paese; screditato
Quell’andamento, quel moto uniforme;
Deridete le zucche moderate,
Come gente che ciondola e che dorme;
Censurate il Governo; predicate
Che la pace, le leggi, le riforme,
Son bagattelle per chetar gli sciocchi,
E per dar della polvere negli occhi.
Soprattutto attizzate i malcontenti
Sul ministrume della nuova scuola,
Che sopprime i vocaboli stridenti,
E vuol la cosa senza la parola.
Quello è un boccone che m’allega i denti,
E che mi pianta un osso per la gola,
Mentre per me sarebbe appetitosa,
Colla parola intorbidar la cosa.
Spargete delle idee repubblicane;
Dite che i ricchi e tutti i ben provvisti
Fan tutt’uno del popolo e del cane,
E son tutti briganti e sanfedisti:
Che la questione significa pane,
Che chi l’intende sono i comunisti,
E che il nemico della legge agraria
Condanna i quattro quinti a campar d’aria.
Quando vedrete a tiro la burrasca,
E che il vento voltandosi alla peggio,
La repubblica santa della tasca1
Cominci a brontolare e a far mareggio,
Dategli fune, e fatemi che nasca2
Una sommossa, un tumulto, un saccheggio;
Tanto che i re di là, messi alle strette,
Chieggano qua congressi o bajonette.

==>SEGUE
Tra i Re del paese
Qualcuno l’intese;
E a dirla tal quale,
Più bene che male
N’ottenne fin qui.
Stentando la briglia,
Tornò di famiglia;
Temeva in quel passo
Di scendere in basso,
E invece salì.
Giudizio, Messere!
Facendo il cocchiere
In urto alla ruota,
Si va nella mota,
Credetelo a me.
Pensando un ripiego
Io salvo l’impiego
E voi (dando retta),
Rivista e corretta,
La paga di re.
_____________________

1 Scarpa, il freno che si mette alle carrozze nelle discese.

IL CONGRESSO DEI BIRRI
DITIRAMBO
1847

Quanto i birri fossero a ragione odiati in Toscana, lo abbiam detto nella biografia: essi erano i veri padroni dell’onore e della roba. Erano persecutori dei giovanotti troppo allegri, delle donnine allegre e dei liberali, poi tolleravano i ladri e gli assassini quando non ne erano sfacciatamente conniventi. Nelle Memorie inedite il Giusti racconta questa storiella: «Facevano il santo nelle cose da poco, sugli omicidi o sui furti o chiudevano un occhio o facevano a mezzo. A un contadino erano stati rubati due agnelli che erano a sorte di mantello facilmente riconoscitivo; fattane ricerca nel vicinato, pensò d’andare al bargello del capoluogo e farne il referto; trova l’uscio aperto, sale su e entrando nella prima stanza che gli si parò davanti, inciampa in un non so che che penzolava dal palco. Alza gli occhi e ti vede uno dei suoi agnelli sgozzato di fresco, e appeso lì. Tornò indietro per non avere il male, il malanno e l’uscio addosso.» Nelle stesse Memorie racconta pure la caccia ai birri e alle spie, che affrettò la caduta di questi tristi strumenti di governo quando il ministro Ridolfi abolì la vecchia Polizia: «Cominciò a Livorno, poi a Firenze e nell’una e nell’altra città furono assaliti i guardioli, bruciate le carte, rotti gli arnesi e condotti in carcere a furia di popolo quanti trovarono di quei tristi. Poi andarono a scavizzolare qua e là per le case quanti erano diffamati per delatori o per manutengoli della polizia e te li ingabbiarono come gli altri, con mille scherni, ma senza manometterli... Le autorità lasciavano correre quel chiasso, anzi so che uno seduto molto alto ci ebbe gusto, quasiché il popolo gli avesse risparmiata la fatica o data occasione di sbrigarsene più presto; ma non bisognava lasciar distruggere la vecchia polizia senza rifarne subito un’altra di sana pianta; e il male di non aver fatto ciò si fece sentire in seguito.» Quando la satira venne in luce, qualcuno rimproverò il Giusti d’aver aggiunto olio al fuoco dei persecutori dei birri; ma egli rispose: «I quondam della bassa polizia (Dio li riposi in pace) appena licenziati, invece d’andarsene ognuno al suo paese, sono rimasti qua e là nei luoghi dove ebbero regno, come se lo scettro non fosse caduto loro di mano, a grande stizza degli abitanti, ai quali quei re
==>SEGUE
Soltanto il letterato.
Amico, ora le balie
L’insegnano a’ bambini;
E quel nome, dagli Arcadi
Passò ne’ contadini.
Sì, le spie s’arrabattano.
E lo so come voi:
Ma in fondo che conclusero
Dal quattordici in poi?
Se allora le degnavano
Perfino i cavalieri,
Ora, non ce le vogliono
Nemmanco i caffettieri.
I processi, le carceri
Fan più male che bene:
Un liberale, in carcere,
C’ingrassa, e se ne tiene;
E quando esce di gabbia
Trattato a pasticcini,
È preso per un martire,
E noi per assassini.
Gua’, spero anch’io che i popoli
Vadano in perdizione:
Ma se toccasse ai principi
A dare il traballone?
Colleghi, il tempo brontola:
E ovunque mi rivolto,
Vi dico che per aria
C’è del bujo, e dimolto!
Il mondo d’oggi è un diavolo
Di mondo sì viziato,
Che mi pare il quissimile
D’un cavallo sboccato:
Se lo mandate libero,
O si ferma, o va piano;
Più tirate la briglia,
E più leva la mano.
Io, queste cose, al pubblico,
Certo, non le direi:
In piazza fo il cannibale,
Ma qui, signori miei,
Qui, dove è presumibile
Che non sian liberali,
Un galantuomo è in obbligo
Di dirle tali e quali.
Sentite: io per la meglio
Mi terrei sull’intese;
Vedrei che piega pigliano
Le cose del paese;
E poi, senza confondermi
Né a sinistra né a destra,

==>SEGUE



O principe o repubblica,
Terrei dalla minestra. –
Il centro acclamò,
La manca sbuffò:
Un terzo Demostene
In piedi salì,
Al quale agitandosi
La dritta annuì.
Silenzio, silenzio,
Udite la parte,
La parte che sfodera
Il Verbo dell’Arte.
– Gli onorandi colleghi, a cui fu dato
Prima di me d’emettere un parere,
Non hanno a senso mio bene incarnato
Lo scopo dell’ufficio e l’arti vere:
Qui non si tratta di salvar lo Stato,
Di cattivarsi il popolo o messere,
D’assicurarsi nella paga un poi;
Si tratta d’aver braccio e d’esser Noi.
Io non ho per articoli di fede
E non rifiuto il sangue e la vendetta:
Dico, che il forte è di tenersi in piede;
Rispetto al come, è il caso che lo detta.
Senza sistemi, il saggio opera e crede
Sempre ciò che gli torna e gli diletta:
Mirare al fine è regola costante,
E chi soffre di scrupoli è pedante.
Ciò che preme impedire è, che tra loro
S’intendano governo e governati:
Se s’intendono, addio: l’età dell’oro,
Per noi tanto, finisce, e siamo andati.
Dunque convien raddoppiare il lavoro
D’intenebrarli tutti, e d’ambo i lati
Dare alle cose una certa apparenza
Da tenerli in sospetto e in diffidenza.
Noi non siam qui per prevenire il male:
Giusto! Va là, sarebbe un bel mestiere!
La così detta pubblica morale
Anzi è l’inciampo che ci dà pensiere.
Il vegliare alla quiete universale
È un reggere a’ poltroni il candeliere:
Quando uno Stato è sano e in armonia,
Che figura ci fa la Polizia?
Se cesseranno i moti rivoltosi,
Se scemeranno i tremiti al Governo,
Nel pubblico ristagno inoperosi
Dormirete nel fango un sonno eterno.
Popoli in furia e principi gelosi
Son del nostro edifizio il doppio perno.
Perché giri la ruota e giri bene,

Che la mandi il disordine conviene.
Tempo già fu, lo dico a malincuore,
Che di giustizia noi bassi strumenti,
Addosso al ladro, addosso al malfattore,
Miseri cani, esercitammo i denti;
Ma poi che i re ci presero in favore,
E ci fecer ministri e confidenti,
Noi, di servi de’ servi, in tre bocconi
Eccoci qui padroni de’ padroni.
Dividete e regnate.... – A questo punto
Suonò d’evviva la piazza vicina
Al principe col popol ricongiunto,
All’Italia e alla Guardia Cittadina.
Fecero a un tratto un muso di defunto
Tutti, nel centro, a dritta ed a mancina;
E morì sulle labbra accidentato
Il genio di quel birro illuminato.
__________________________

       GANGHERO.
Lo so, lo so: ma, sentimi,
Giusto perché lo so,
Ti vo’ dare un consiglio.
       TRIPPA
Di stare a casa?
       GANGHERO.
No.
       TRIPPA.
Di star zitto?
       GANGHERO.
Al contrario
. . . . . . . . .
. . . . . . . . .
. . . . . . . . .
Anzi devi discorrere,
E con tutti, e di tutto:
Non gridare sperpetue,
Non fare il muso brutto.
Se urlano, che urlino;
Se vanno all’aria i sassi,
Lasciali andare. Scusami:
Che t’importa de’ chiassi?
Senti lodare il popolo?
E tu, popolo. Senti
Dir corna, per esempio,
Dei ministri presenti?
E tu, corna. Ti dicono
Bene del principato?
Sissignore. Repubblica?
Signor sì. Se lo Stato
È in man de’ galantuomini,
Tieni dal galantuomo;
Delle birbe confondersi!
Anco la birba è omo.
       TRIPPA.
O codesta poi, sentimi,
Non è da te.
       GANGHERO.
Sarà
Da qualcun altro.
       TRIPPA.
Scusami,
Ci va dell’onestà.
       GANGHERO.
Onestà? sei ridicolo!
       TRIPPA.
Son ridicolo!
       ==>SEGUE
ALLI SPETTRI DEL 4 SETTEMBRE 1847
1847

Questo scherzo nacque col nome di Inno a Don Abbondio, perché in esso il poeta intendeva di dare «un colpo di accetta ai muti che ora urlano». (Lettera al dott. Franceschini.) La ragione del titolo la spiegava al marchese Parinola, genero di Gino Capponi: «La Gazzetta di Firenze, dopo il fatto della Guardia Civica, ha dato in cembali, e le è presa la parlantina, come a Don Abbondio, saputa la morte di Don Rodrigo. Ma la Gazzetta di Firenze non è il solo Don Abbondio che scappi fuori a questo proposito. Anzi questo è il tempo degli spiriti e dei morti risuscitati, ed io me ne veggo davanti certuni che dal trentatré in poi erano scomparsi affatto.» Il Giusti aveva bene il diritto di ridere di quei liberali improvvisati, perché egli aveva parlato quando gli altri non l’osavano. Ma ingenua è la sua meraviglia nel vedere quelli che nulla avevan fatto, mettersi fra i primi a gridar più forte per attribuirsi il merito della vittoria; e quanti assistettero a mutamenti politici han veduto ogni volta ripetersi l’istessa farsa. A quelli che han dissodato il terreno e seminato, basta la coscienza dell’utile lavoro fatto: agli altri, arrivati il giorno della messe, spettano i facili clamorosi vanti e i profitti. Quei Don Abbondii del Giusti, quando furono ben sicuri delle riforme, diventarono sì calorosi liberali, che, appetto loro, gli antichi e veri parevano dormigliosi e tiepidi: e non si accontentavano di far l’esagerato per conto loro, ma gridavano per i caffè e per le piazze provocando tumulti.
Quella notizia gli aveva dato una disinvoltura, una parlantina, insolita
da gran tempo.
Promessi Sposi, cap. 38.


Su Don Abbondio, è morto Don Rodrigo,
Sbuca dal guscio delle tue paure:
È morto, è morto: non temer castigo,
Destati pure.
Scosso dal Limbo degl’ignoti automi,
Corri a gridare in mezzo al viavai
Popolo e libertà, cogli altri nomi,
Seppur li sai.

==>SEGUE
sebbene scoronati, fanno tuttavia afa e uggia. So che molti di quei regnanti non hanno domicilio vero, perché le loro dinastie nomadi si sono propagate qua e là come quelle degli zingari; ma pure un luogo dal quale venne la loro radice nobilissima deve esserci, e in questo luogo appunto sarebbe bene che tornassero a germogliare. Ogni paese si rassegna a succhiarsi quelli nati nel suo seno, tenendo questa peste ambulante in conto di quelle malattie endemiche che infestano questa e quella regione e contro le quali non vi è che il tempo e una coltura migliore che ce ne possano.» Proseguiva raccontando «che anco in Pescia eran rimasti birri non pesciatini e che la popolazione li voleva cacciare a sassi e bastonate; epperò doveva pensare il magistrato a farli partire.»
Nel Congresso vi sono le tre categorie in cui si dividono i birri, che il poeta chiamava: dei carnefici, degli sdrajati e degli imbroglioni.
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A scanso di rettorica, ho pensato
Di non fermarmi a descriver la stanza
Che in grembo accolse il nobile Senato.
Solamente dirò che l’adunanza
In tre schiume di birri era distinta,
Delle Camere d’oggi a somiglianza.
A dritta, i birri a cui balena in grinta
Il sangue puro; a manca gli arrabbiati;
Nel centro, i birri di nessuna tinta:
Birrucoli cioè dinoccolati,
Birri che fanno il birro pur che sia;
Bracchi no, ma locuste degli Stati.
Taglierò corto anco alla diceria
Che fece con un tuono da Compieta
Il gran capoccia della sbirreria;
Che deplorò giù giù dall’A alla Zeta,
E le glorie birresche, e i guasti orrendi
Che porta il tempo come l’acqua cheta;
E parlò di pericoli tremendi,
E d’averli chiamati a parlamento
Per consultarli sul modo tenendi
Di riparare in tempo al fallimento.
Dalla manca, oratore
Di que’ birri bestiali,
Sbucò pien di furore
Un mangialiberali;
E, sgretolando i denti,
Proruppe in questi accenti:

==>SEGUE

CONSIGLIO A UN CONSIGLIERE
1847

Quando un ministero liberale faceva sperare che il granduca stava per concedere lo Statuto, il Giusti scrisse questo scherzo che diceva: «breve, snello e fors’anco magro, nel quale, si accenna la necessità di camminare colle cose del mondo». E un repubblicano che parla a un consigliere di Stato e ministro e nettamente gli dice che solamente col riconoscere e rispettare le libertà popolari, col provvedere ai bisogni della nazione, col non porre impedimento allo sviluppo delle idee si conserva il trono e la paga di re. È il sistema inglese dove il re è pagato per lasciar libera la propaganda e la stampa e mantenere inviolata la libertà.

Signor Consigliere,
Ci faccia il piacere
Di dire al Padrone
Che il mondo ha ragione
D’andar come va,
Dirà: Padron mio,
La mano di Dio
Gli ha dato l’andare;
Di farlo fermare
Maniera non v’ha.
Se il volo si tarpa
Calando la scarpa1
A ruota nostrale,
Che ratta sull’ale
Precipita in giù,
La ruota del mondo
Andrà fino in fondo;
Né un moto s’arresta
(Stiam lì colla testa)
Che vien di lassù.
Per tutto si vede
Che il carro procede,
Con dietro una calca
Che seco travalca
Con libero piè.
E mentre cammina,
Con sorda rapina
I gretti, i poltroni,
I servi, i padroni,
Travolge con sé.

==>SEGUE
               VENTOLA.
La ride? Aspetti al meglio!
Quand’uno è lì, bisogna
Per se’ ore continue,
Peggio d’una carogna,
Assassinarsi il fegato,
Logorarsi le schiene;
E c’è anco di peggio,
Che bisogna far bene.
Se no, con quella mutria (caricando la voce):
«Noi, non siamo contenti:
Noi, vogliamo degli uomini
Capaci, onesti, attenti;
Degli uomini che intendano
Quale è il loro dovere.»
Ma eh?
       GRANCHIO (con un attaccio).
Pare impossibile!
       VENTOLA.
Son quelle le maniere?
       GRANCHIO gode e pipa.
       VENTOLA (continuando).
Di se’ ore di gabbia,
Con lei, sia benedetto,
E’ ne potevan rodere,
Non è vero? un pajetto.
Mezz’ora, a dondolarsela
Prima di andare al sizio;
Un’altra mezza, a chiacchiera
Girando per l’Uffizio;
Un’altra, sciorinandosi
Fuori con un pretesto;
E un’altra, sullo stendere,
Andando via più presto.
Poi la fede del medico
Ogni quindici giorni;
I Bagni; un mese d’aria
Qui per questi dintorni;
Via, tra ninnoli e nannoli,
E’ si potea campare.
Ora? bisogna striderci
O volere o volare.
Eccoli là che sgobbano
Piantati a tavolino;
==>SEGUE
GANGHERO.
Sta bene! O dunque sentimi:
Ma zitto, e tieni a mente.
       TRIPPA.
Non temere.
       GANGHERO.
Rispondimi:
Ne vedi della gente?
       TRIPPA.
Dove?
       GANGHERO.
Dove! In America!
       TRIPPA.
In paese?
       GANGHERO.
In paese.
       TRIPPA.
Ne vedo.
       GANGHERO.
A maraviglia!
In segreto o in palese?
       TRIPPA.
In palese.
       GANGHERO.
Benissimo!
Dimmi: ne vedi assai?
       TRIPPA.
Anche troppa.
       GANGHERO.
Buaggini!
E nei caffè ci vai?
       TRIPPA.
Ci vo. Che vuoi? ci badano!
Lo fo per non parere.
       GANGHERO. Con chi parli?
       TRIPPA.
Coi soliti.
       GANGHERO. Cioè?
       TRIPPA.
Col cancelliere...
       GANGHERO.
Male.
       TRIPPA.
Col commissario...
       GANGHERO.
Peggio.
       
==>SEGUE
       TRIPPA.
Vuoi ch’io faccia l’ipocrita:
E a me non mi riesce.
       GANGHERO.
Fa’ tu.
       TRIPPA.
Non so nascondermi.
       GANGHERO.Eh, gua’, me ne rincresce.
       TRIPPA. Dunque?
       GANGHERO.
Dunque?
       TRIPPA.
Consigliami.
       GANGHERO. Divertiti a tremare.
       TRIPPA.
Ma io...
       GANGHERO.
Chi non sa fingere,
Bimbo, non sa regnare.
       TRIPPA.
Sì, ma se poi ti scoprono?
       GANGHERO. Chi è minchione suo danno.
       TRIPPA.
O se mai, per casaccio
Ti si desse il malanno
Che nel tempo medesimo
Ti venissero a mano,
Di qua, puta, un monarchico,
Di là un repubblicano?
Come se n’esce?
       GANGHERO.
Facile:
Coll’eh, coll’ah, coll’oh,
Coll’uh, coll’ih, tenendosi
Così tra il sì e il no.
       TRIPPA. Codesto passi.
       GANGHERO.
Pròvati.
       TRIPPA.
Mi proverò, ma...
       GANGHERO.
Ma!
Che c’entra il ma?
       TRIPPA.
Proviamoci:
Sarà quel che sarà.
STORIA CONTEMPORANEA
1847

Il mutamento politico avvenne sì rapido negli anni 1847- 48, che le menti n’erano rimaste colpite da stupore. I Toscani erano passati da un assolutismo, non troppo grave invero, a una specie di libertà senza grandi fatiche, senza sacrifizî, senza dolori. Se non si poteva sottrarre il Giusti, che al mutamento aveva lavorato, a tale senso di meraviglia, imaginarsi quel che doveva essere dei birri costretti da un momento all’altro a mutar registro, a sentirsi cantar sotto il naso gli inni e gli evviva che prima perseguitavano! Ecco l’argomento di questo semplice scherzo intorno alle spie.

Nel marzo andato, un asino di spia,
Fissato il chiodo in certa paternale
Buscata a conto di poltroneria,
Fu rinchiuso per matto allo spedale.
Dopo se’ mesi e più di frenesia,
Ripreso lume e svaporato il male,
Tornò di schiena al solito mestiere
Per questa noja di mangiare e bere.
Si butta a girellar per la città,
S’imbuca ne’ caffè, nell’osterie,
E sente tutti di qua e di là,
– Saette a’ birri, saette alle spie,
Popolo, Italia, Unione, Libertà,
Morte a’ Tedeschi, – ed altre porcherie;
Porcherie per orecchi come i suoi
Quasi puliti dal trentuno in poi.
– Corpo di Giuda! che faccenda è questa?
Dicea tra sé quel povero soffione;
O io vagello sempre colla testa,
O qui vanno i dementi a processione.
Basta, meglio così: così alla lesta,
Senza ficcarmi o star qui di piantone,
Vado, m’affaccio sulla via maestra,
E sbrigo il fatto mio dalla finestra. –
Entra in casa, spalanca la vetrata
Con lì pronta la carta e il calamajo,
E un’ora sana non era passata
Che già n’avea bollati un centinaio.
Contento per quel dì della retata,
Chiappa le scale e trotta arzillo e gajo,
De’ tanti commissarî al più vicino,

==>SEGUE
Se v’occorre di spendere, spendete,
Ché i quattrini non guastano: vi sono
Birri in riposo, spie se ne volete,
Sfaccendati, spiantati... è tutto buono.
Se vi da di chiapparmeli alla rete,
Di far tantino traballare un trono,
Spendetemi tesori, e son contento,
Ché gli avrò messi al secento per cento.
Ché, nel dubbio che qualcun vi scopra,
Avvisatene me: tutto ad un tratto
Vi scoppia addosso un fulmine di sopra,
E doventate martire nell’atto:
Ecco il ministro a fare un sottosopra,
Ecco il Governo che vi dà lo sfratto:
E così la frittata si rivolta,
E siete buono per un’altra volta.
Per non dar luogo all’uffizio postale
Di sospettar tra noi quest’armeggio,
Corrispondete qua col Tal di Tale
E siate certo pur che l’avrò io.
Egli, come sapete, è liberale,
E ribella il paese a conto mio.
Ci siamo intesi: lavorate, e poi,
Se c’incastra una guerra, buon per voi.
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1 Repubblica della tasca: il poeta allude a quelli che fingevano d’essere repubblicani per far guadagno. 2 Dategli fune: ajutate, porgete i modi, i mezzi di fare.
Pare impossibile,
Che in un paese,
Nel quale ammorbano
Di crimenlese
Anco gl’ipocriti
Del nostro Uffizio,
Si perda in chiacchiere
Tempo e giudizio!
Quando col mietere
Di poche teste
Si può d’un soffio
Stirpar la peste,
Perché, cullandosi,
Lasciar che cresca
Questa fungaja
Liberalesca;
E manomettere
Stato e monarca,
E a suon di ninnoli
Mandar la barca?
Stolto chi reggere
Pensa un Governo
Colle buaggini
d’un far paterno!
Riforme, grazie,
Leggi, perdono,
Son vanaglorie,
Pazzie, sul trono.
Lisciare un popolo
Che fa il padrone?
Supporre in bestie
Dritto e ragione?
Lodare un regio
Senno, corrotto
Di questa logica
Da sanculotto?
No; nel carnefice
Vive lo Stato:
Ogni politica
Sa d’impiccato;
E un re che a cintola
Le man si tiene,
Se casca, al diavolo!
Caschi, sta bene.
Che c’entra il prossimo?
Io co’ ribelli
Sono antropofago,
Non ho fratelli!
Non dico al principe:
Allenta il freno,
Tentenna, scaldati

La serpe in seno;
E quando il pelago
Sale in burrasca,
Affoga e ficcati
Le leggi in tasca.
Io vecchio, io vergine
D’idee sì torte,
Colla canaglia
Vo per le corte.
Tenerli d’occhio,
(Sia chi sia)
Impadronirsene,
Colpirli, e via.
Ecco la massima
Spedita e vera:
Galera e boja,
Boja e galera.
Disse: e al tenero discorso
Di quell’orso – a mano manca
Ogni panca – si commosse.
Non si scosse – non fe’ segno
O di sdegno – o d’ironia
L’albagia – seduta a dritta,
E ste’ zitta – la platea.
Si movea – lenta in quel mentre
Giù dal ventre – della stanza
La sembianza – rubiconda
E bistonda – d’un vicario
Del salario – innamorato;
Che, sbozzato – uno sbadiglio,
Con un piglio – di majale
Sciorinò questa morale.
– Non dico: la mannaja,
Purché la voglia il tempo,
Rimette a nuovo un popolo,
E il resto è un perditempo.
Ma quando de’ filantropi
Crebbe la piena, e crebbe
Questa flemma di codici
Tuffati nel giulebbe;
Quando alla moltitudine,
Bestia presuntuosa,
Il caso ha fatto intendere
Che la testa è qualcosa;
Darete un fermo al secolo
Lì, col boja alla mano?
Collega, riformatevi:
Siete antidiluviano.
Voi vi pensate d’essere
A quel tempo beato,
Quando gridava Italia