CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS









































UNA LEVATA DI CAPPELLO
INVOLONTARIA
1845

Rise Emilio1, perché nella funesta
Casa dei folli un dì con esso entrando,
Confuso allo spettacol miserando
Scoprii la testa.
Oh! s’ei dovesse a chi non ha cervello
Passar dinanzi dei villani al modo,
Tener potrebbe in capo con un chiodo
Fisso il cappello.
Onorar la sventura è mio costume,
E senza farisaica vernice
Nei casi meditar dell’infelice
La man di un Nume.
Accanto a illustre mentecatto, avvezzo
Al salutar d’un popolo di schiavi,
Accanto ai pazzi che la fan da savi
Passo, e disprezzo.
___________________

1 La satira è indirizzata a Emilio Frullani.
Ma il lume della fede
In lui scoppietta, come
Lucignolo bagnato,
Cristianello annacquato.
Canta l’Italia, i lumi,
Il popolo, il progresso,
Già già rettoricumi
Per gli Arcadi d’adesso:
Tuffato in cene e in balli,
Martire in guanti gialli1;
Per abbujar la monca
Vanità della mente,
Geme dell’ala tronca
All’ingegno crescente;
Di dottarelli in erba
Querimonia superba.
Si paragona al fiore
Che innanzi tempo cade,
A cui manca il tepore
E le molli rugiade;
E non ha cuor né senno.
Di dir: mi sento menno.
Ricco dell’avvenire,
Casca sull’orme prime;
Balbetta di morire...
E di che? Di lattime?
O anima leggiera,
Sfiorita in primavera,
Spossate ambizioni,
Scomposti desideri,
Mole, aborti, embrioni
Di stuprati pensieri,
E un correre alla matta
Col cervello a ciabatta,
In torbida anarchia
Ti tengono impedita.
Per troppa bramosia
D’affollarti alla vita,
T’arrabatti nel limbo,
Paralitico bimbo.
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1  Questa espressione fece fortuna. Scrive il Frassi che il martire in guantigialli, fu in breve sulle labbra di tutti
IL SORTILEGIO
1846

Il Lotto, ve lo dissi un’altra volta,
Il Lotto è un gioco semplice, innocente,
Che raddirizza ogni testa stravolta;
E chi si fonda in lui, non se ne pente:
Lo dissi e lo ridico, e n’ho raccolta
La più limpida prova ultimamente
In un bel fatto accaduto tra noi,
Che siamo al tempo che sapete voi.
In un Castello de’ nostri Appennini,
E il nome non importa, era saltato
Tanto nell’ossa di que’ montanini
L’estro del giocolin soprallodato,
Che nelle gole giù de’ Botteghini,
In ambi e in terni avean precipitato,
Colla speranza certa d’arricchire,
Fin le raccolte di là da venire.
La voce Botteghino non è mia:
E una protesta mi pare opportuna,
Se mai pensaste che la poesia
Parli a malizia, o secondo la luna:
Il Botteghino e la Prenditoria
Volgarmente son due in carne una.
Se il nome è brutto, il popolo inventore
N’ha colpa, e non ne sto mallevadore.
Dunque tornando a noi, que’ montanari
Fino alle scarpe avean data la via,
Sognando negli spazi imaginari
Di fare un buco in Depositeria.
Di giocator, di prodighi e d’avari
Oltre la borsa va la bramosia;
E come chi più n’ha più ne vorrebbe,
Chi più ne sciupa e più ne sciuperebbe.
Bazzicava lassù per que’ paesi
Un di que’ rivenduglioli ambulanti.
Che fan commercio a denari ripresi
Di berretti, di scatole, di Santi,
E di ferri da calze, e d’altri arnesi
Quanti n’occorre per cucire, e quanti
Ne porta in petto, al collo e sulla testa,
La villana elegante il dì di festa.
Oltre a codeste bricciche, costui

==>SEGUE
«... Ho scritto di sana pianta una specie di nenia cagnesca, in derisione dei paralitici di diciott’anni, vizio scrofolare del giorno.» Così ad Alessandro Manzoni nel gennajo 1846; ma due mesi prima in una lettera a Gino Capponi: «Seguito a lavorucchiare, e dai oggi, dai domani, a un mezzo versicciuolo per giorno son lì lì per chiudere quella filza di versi sul Bimbo- nonno.» Il vizio che questa satira punge, non è passato col Giusti. Chi non ha conosciuto quei giovinetti stanchi a vent’anni di tutto, senza aver sopportato una sola prova della vita, che ignorano le gioje e le febbri del lavoro, che tingono il disgusto e lo scetticismo per aver letto quelle pagine di Schopenhauer, come un tempo leggevano Werther, Ortis e Don Giovanni, che san di lattìme e son decrepiti, nojosi alle donne; senza energia d’uomini, eunuchi del cervello? Chi non ha conosciuto alcuni di quei genî incompresi, in collera colla società che deride le loro scipitaggini? È a costoro, vecchi e nuovi, che il Giusti accarezza le spalle colla sua sferza. È voce che il primo modello di questa satira sia stato un amico del Giusti stesso, il professore Giovan Battista Giorgini, uomo di non comune ingegno che, quand’era giovinetto, nel 1826 aveva pubblicato un volumetto di versi intitolati Preludi poetici, d’un dolciume, d’un sentimentalismo così esagerato da far venire il latte alle ginocchia: divenne poi genero del Manzoni e senatore del regno. Veramente il Giusti non lo trattò da amico, tanto più che il Giorgini gli era largo di pubbliche lodi: né questa volta si possono menar buone le solite proteste di non aver voluto alludere a persona. Narra il Ghivizzani nel Giuseppe Giusti e i suoi tempi che trovandosi il poeta in Siena ad una veglia, volgendosi al Giorgini che sedeva poco discosto, gli disse: «Senti il bel ritratto che t’ho fatto.» E recitò Il Giovinetto. Il Giorgini lo ascoltò attentamente; poi, senza scomporsi, colla sua aria stanca gli disse: «Eh via, che l’è roba vecchia: io la sapeva da ragazzo»: e senz’altro ripetè da cima a fondo la satira, senza sbagliarne sillaba. Colla sua prodigiosa memoria l’aveva ritenuta tutta, dopo una sola audizione! Il Giusti rimase più degli altri stupito, perché non aveva mostrata quella poesia ad alcuno. Del resto non lasciava mai passare occasione di rimproverare ai giovani l’affettata melanconia colla quale turbavano la gioja unica e fuggitiva dei primi anni. «Perché affettare (scriveva a un giovinetto poeta) un’infelicità che non potete sentire? perché offuscare con colori mesti le imagini delicate e soavissime che vi si affacciano alla mente? Assai è invalsa fra noi questa manìa di dolore. Gli echi d’Italia (direbbe un francese) dalle Alpi a Lilibeo non ripetono che lunghe e nojose Geremiate. L’assuefarsi a credersi infelice induce ad accusare d’ingiustizia l’ordine delle cose, ci fa credere d’esser soli sulla terra, e termina col precipitarci in quell’apatia che degradando l’uomo gli avvelena le più dolci affezioni, le più nobili facoltà, ne fa uno scettico infine.»


La sacca d’un giojello avea provvista,
Che tra le cose che giovano altrui
Va messo per ossequio in capo lista;
Cosa mirabilissima per cui
Splende alla mente una seconda vista,
Cosa che serve per tutti i bisogni;
E questa perla era il Libro de’ Sogni.
La famosa Accademia del Cimento,
L’Istituto di Francia e d’Inghilterra,
È tutta roba di poco momento
Appetto a quella che il gran libro serra.
«Credete a chi n’ha fatto esperimento»
Che quello è il primo libro della terra,
Onde lo privilegia, e con ragione,
La sacra e la profana Inquisizione.
Questo libro utilissimo, non solo
Egli lassù l’avea disseminato,
Ma nel mezzo di piazza al montagnolo
Spiegato con amore e postillato;
E il giorno dell’arrivo, al merciajolo,
Il popolo, il comune, e il vicinato
Correano a dire i sogni della notte,
Ladri, morti, paure, e gambe rotte.
Ed ei, presa la mano a far l’oracolo,
O rispondeva avvolto o stava muto;
Anzi, tra l’altre, aveva un tabernacolo
Con dentro un certo Santo sconosciuto,
Dal qual, secondo lui, più d’un miracolo,
E più d’un terno a molti era piovuto,
Pur di destare la sua cortesia
Pagando un soldo ed un’avemmaria.
Lo spolverava, l’apriva, e gridava
Che tutti si levassero il cappello;
Poi brontolando paternostri, andava
Torno torno a raccorre il soldarello:
E mentre ognuno pregava e pagava,
Più numeri, di sotto dal gonnello,
Tirava fuori agli occhi della folla
Il moncherino di quel Santo a molla:
Né volendo, se a vuoto eran giocati,
Parer col Santo e tutto, un impostore,
Egli è, dicea, per i vostri peccati,
Che non trovan la via di venir fuore.
Smunti così gran tempo e bindolati

==>SEGUE
Qua sotto, empirlo di quell’acqua gialla,
E bollirci quel capo, e che di fuore
Non vada l’acqua, Dio guardi a versalla!
A mala pena spiccato il bollore,
Da’ primi ceci che verranno a galla
Avrete il terno; o se dico bugia,
Che non possa salvar l’anima mia. –
Quel dettar tutto sì minutamente,
Quel morto, quella pentola, e il gran guajo
D’aver bisogno, fece a quella gente
Girar la testa come un arcolajo;
E creduto per fede agevolmente
E rimandato libero il merciajo,
Stillano il modo di venire a capo
d’aver in mano, e di bollir quel capo.
Di fresco era lassù morto il curato,
E l’aveano sepolto dirimpetto
Alla porta di chiesa, ove il sacrato
Ha una lapide antica a questo effetto.
Quel prete, per disgrazia, infarinato
D’algebra, se di tempo un ritaglietto
Gli concedea la cura di montagna,
Era sempre a raspar sulla lavagna.
Quell’armeggìo di numeri venuto
A risapersi nel paese, il prete
Per un gran cabalista ora tenuto,
E che de’ terni avesse in man la rete.
E scalzarlo pareccchî avean voluto,
Mentre che visse, sull’arti segrete
Di menar la fortuna per il naso,
Pescando il certo nel gran mar del caso.
L’ultima carne maschia seppellita
Era il prete, la cosa è manifesta;
Dunque la testa che andava bollita
Era la sua, certissima anco questa;
E tanto più che avvezzi erano, in vita,
I numeri a bollirgli nella testa.
Così dicendo quella gente grossa
Pensò del prete violar la fossa.
Risoluti s’accordano costoro,
E si partiscon l’opere e le veci;
Ammannisca il coltello uno di loro,
Un altro il pentolone, un altro i ceci,
E poi tutti si trovino al lavoro

==>SEGUE
E sorta in piè la donna, a’ figlioletti
Incominciò malinconica e pia
A suggerir garrendo i sacri detti;
Maso, fermo sull’uscio, o non udia
La squilla, vaneggiando in altri objetti;
O se l’udì, non ebbe in quella sera
Né parola né cuor per la preghiera.
Notò la donna l’atto, e avendo piena
Già già la testa di mille paure,
Dentro se ne sentì crescer la pena,
Ma la represse, e attese ad altre cure.
E acceso il lume e il foco, e dato cena
E messe a letto quelle creature,
Ritrovò Maso come addormentato,
Col capo sulla mensa abbandonato.
Volea parlar, ma non le dette il cuore
D’aprir la bocca, e ste’ soprappensiero,
E quello imaginar pien di dolore
Le cose più che mai le volse in nero;
Poi, come fa chi dubbia e sente amore,
Che cerca e teme di sapere il vero,
Soavemente a lui che amava tanto
Si volse, e disse con voce di pianto:
– Maso, per carità, parla, che hai?
Via, parla, non mi dar questi spaventi:
Così confuso non t’ho visto mai;
Oh, Maso mio, perché non mi contenti?
Se non lo fai per me, se non lo fai,
Fallo per que’ tre poveri innocenti,
Che son di là che dormono: e non sanno
Lo snaturato di padre che hanno.
Maso, bada alla gente! Il viciname
Sparla di te, che ti se’ mal ridutto,
Che un giorno o l’altro quel giocaccio infame
T’ha da portare a qualcosa di brutto:
Oh senti, Maso mio, meglio la fame,
Andar nudi, accattare, è meglio tutto;
Ma, se non altro, non darmi il rossore
Che tu perda col pane anco l’onore. –
E sì dicendo, a lui s’era accostata
E dolcemente gli tendea la mano,
Continuando con voce affannata
A interrogarlo, a scongiurarlo invano;
Ché da sé la respinse, e dispietatamente
la minacciò quel disumano,
E di tacer le impose, e che di volo

==>SEGUE
Un morto che gridasse Gesù mio,
E una campana che sonasse a tocchi,
Riuscirebbe una notte co’ fiocchi.
A farlo apposta, tra le notti belle
Vedute al mondo, questa, a mia sfortuna,
Si potea dir bellissima: le stelle
Erano fuori, tutte, fin a una!
Se a sciuparmi le tenebre con quelle
Fosse venuta in ballo anco la luna,
Piantavo la novella, e buona sera:
Tiriamo avanti, la luna non c’era.
Zitti, spiando intorno, e come un branco
Di lupi ingordi... Adagio, e colle buone;
Il lupo è detto. – Di corvi? – Nemmanco,
Ché di notte non vanno a processione;
Sicché dunque dirò, lasciato in bianco,
Per questa volta tanto, il paragone,
Che s’avviò la frotta al cimitero,
(E passi per la rima) all’aer nero.
Intanto qua e là s’era aggirata
Ratta, intendendo la vista o l’udito,
Quella povera donna sconsolata
Inutilmente cercando il marito;
E stanca per que’ sassi, e disperata
Della traccia, per ultimo partito
Alla chiesa risolse incamminarsi,
E là piangere, e a Dio raccomandarsi.
Su per una viottola scoscesa
Va la meschina risolutamente,
E all’orlo del sacrato appena ascesa
Che fa piazzetta, sul poggio eminente,
Ode, e le pare, là, verso la chiesa
Un sordo tramenìo, come di gente
Che soprarrivi cheta e frettolosa,
E s’argomenti di tentar qualcosa.
Insospettita fermasi e s’acquatta
Giù rannicchiata, dietro a certi sassi
D’una vecchia casipola disfatta,
Distante dalla chiesa un trenta passi;
E di li guarda e scorge esterrefatta
Un gruppo strano, e parle che s’abbassi
In atto di sbarbar con violenza
Di terra, cosa che fa resistenza.
Ecco, si smuove una lapide, e tosto
S’alza quel gruppo, e indietro si ritira,
E di subito giunge là discosto

==>SEGUE
Non si sa come, un che di quel ritrovo,
E un Ser Vicario già n’era avvisato
Famoso per trovare il pel nell’ovo:
Ma tardi e male postisi in agguato
I bracchi, mossi a chiapparli sul covo,
Fallito il colpo della sepoltura,
Te gli avean côlti alla cucinatura.
Raggranellati tutti e fatto il mazzo,
La donna fu creduta della lega:
Il merciajolo citato a Palazzo,
Svesciando il caso dall’alfa all’omega,
Provò che per uscir dell’imbarazzo
Avea dato una mano alla bottega.
Tant’è chi ruba che chi tiene il sacco:
Dunque fu detto che battesse il tacco.
Con più giustizia, della falsa accusa
Uscì netta la misera innocente,
Ma di vergogna e di dolor confusa
Pericolò di perderne la mente;
Perocché fissa in quella notte, e chiusa
Nel proprio affanno continuamente,
Da paurose imagini assalita
S’afflisse e tribolò tutta la vita.
Veggano intanto i Re, vegga l’avaro
Gentame intento a divorar lo Stato,
Di quanti errori il pubblico denaro
E di che pianto sia contaminato!
Fuman del sangue sottratto all’ignaro
Popolo, per voi guasto e raggirato,
Le tazze che con gioja invereconda
Vi ricambiate a tavola rotonda.
Dritto e costume nel consorzio umano
Così, per vostre frodi, hanno discordia;
E cupidigia vi corrompe in mano
E la giustizia e la misericordia,
Ché assolver non si puote un atto insano
Che con legge e ragion rompe concordia;
Né giustamente l’error mio si danna,
Quando il giudice stesso è che m’inganna.
Premesso questo, è tempo di sbrigare
Anche quegli altri che lasciammo presi.
Dopo un gran chiasso e un grande almanaccare
Di spie, di birri, e di simili arnesi,
Dopo averli tenuti a maturare,
Come le sorbe, in carcere se’ mesi;
Dopo un processo lungo, lungo, lungo,
Si svegliò la Giustizia e nacque il fungo.
E fu, che resultava dal processo

==>SEGUE
Violato sepolcro, e sortilegio:
Ma visto che il delitto fu commesso
Per il Lotto, e che il Lotto è un gioco regio,
Chi delinque per lui, di per sé stesso,
Partecipa del Lotto al privilegio. –
Se fosse stata briscola o primiera,
Pover’a loro, andavano in galera.
_________________________

Il Sortilegio è una novella poetica della quale fornì l’argomento un fatto realmente accaduto in quel di Vernio secondo alcuni, o in quel di Piteglio, negli Appennini toscani, secondo altri. Il poeta lo racconta con semplicità affettuosa; qui non pensa, come nelle satire, a condensar pensieri, a tormentar frasi e a coniar vocaboli strani; ma si accontenta di essere pittore e di dipingere affetti veri. La descrizione della sera che precede il reato, dell’angosce e dell’amore della donna che cerca di strappare il segreto al chiuso marito, è fatta in ottave piene di un sentimento profondo che richiamano alla mente le novelle del Grossi. Incontrando questo Sortilegio così spontaneo in mezzo alle satire, la mente affaticata riposa e si commuove. «Con questa novella (diceva egli) torno per la seconda volta a battere il giuoco del Lotto.» La prima, come i lettori rammentano, fu coll’Apologia (pag. 132). La chiusa di questa novella contiene una generosa apostrofe ai re e ai governanti, che dovrebbe far meditare il popolo.
Questa novella fu dedicata a Enrico Mayer e a Leopoldo Orlandini colla seguente lettera:

«Miei cari,
«Nel 1844, quando io era quasi disperato della salute, voi due m’accoglieste successivamente in casa vostra, e per mesi e mesi mi teneste come fratello, sopportando infiniti fastidi per causa mia, e dividendo meco i patimenti e le malinconie di quello stato angoscioso. «Io non potrò mai rimeritarvi di tanto benefizio; ma per mostrarvi in qualche modo la mia riconoscenza, ho pensato di pubblicare col vostro nome questo racconto, assicurandovi che non intendo offrirvi cosa degna, di voi, se non quanto allo scopo al quale è diretto il componimento.
Vostro GIUSEPPE GIUSTI.»
LA GUERRA
1846

Eh no, la guerra, in fondo,
Non è cosa civile:
D’incivilire il mondo
Il genio mercantile
S’è addossata la bega:
Marte ha messo bottega.
Le nobili utopie
Del secolo d’Artù,
Son vecchie poesie
Da novellarci su:
Oggi a pronti contanti
I Cavalieri erranti
Con tattica profonda
Nell’arena dell’oro,
A tavola rotonda
Combattono tra loro,
Strappandosi co’ denti
Il pane delle genti.
Sì, sì, pensiamo al cuoio,
E la gotta a’ soldati,
Cannone e filatojo
Si sono affratellati;
È frutto di stagione
Polvere di cotone.
Di guerresco utensile
Gli arsenali e le ròcche
Ridondano: il fucile
Sbadiglia a dieci bocche
De’ soldati alle spalle,
Affamato di palle.
Né mai tanto apparato
D’armi, crebbe congiunto
A umor sì moderato
Di non provarle punto.
Dormi, Europa, sicura;
Più armi e più paura.
Popoli, respirate;
E gli eroi macellari
Cedano alle stoccate
Degli eroi milionari;
La spada o un’arme stanca,
Scanna meglio la banca.
Bollatevi tra voi,
Re, ministri e tribune;
Gridate all’arme, e poi

==>SEGUE
Desinando in comune,
Gran protesto di stima,
E amici più di prima.
La pace del quattrino
Ci valga onore o gloria:
Guerra di tavolino
Facilita la storia.
Oh che nobili annali,
Protocolli e cambiali!
Hanno tanto gridato
Sulla tratta de’ Negri!
Eppure era mercato!
Tedeschi, state allegri;
Finché la guerra tace,
Ci succhierete in pace.
Ma che è questo scoppio
Che introna la marina?
Nulla: un carico d’oppio
Da vendersi alla China:
È una fregata inglese
Che l’annunzia al paese.
Qui, l’oppio capovolta
Dritti e filantropie!
Ma i Barbari una volta,
Oggi le mercanzie
Migrali da luogo a luogo,
Bisognose di sfogo.
Strumento di conquista
Fu già la guerra; adesso
È affar da computista:
Vedete che progresso!
Pace a tutta la terra;
A chi non compra, guerra1.
_________________________

1 L’Inghilterra era stata acerrima nemica della Rivoluziono francese, poi di Napoleone: e per amor di guadagno soffocando i diritti dei popoli, volle nel 1815 la pace in Europa; ma per i suoi interessi portava la guerra in Asia.


Giuseppe  Giusti - POESIE  SCELTE - parte IV
Pagina a cura di Nino Fiorillo           == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
Commento alla poesia
SANT'AMBROGIO
di Marisa Moles
__________________
La lirica prende spunto da un fatto realmente accaduto: mentre si trovava a Milano, ospite di Alessandro Manzoni, Giusti fece visita alla basilica di Sant’Ambrogio, al cui interno s’imbatté in un gruppo di soldati austriaci che a quei tempi occupavano il Lombardo-Veneto. Ad un primo sentimento di repulsione nei confronti dell’oppressore, si sostituisce una sorta di compartecipazione alla sorte di quei soldati che, lontani dalla patria, sono ridotti, forse loro malgrado, a strumento di sopraffazione. Il canto intonato da quei soldati suscita nel poeta una commozione inaspettata da cui scaturisce una riflessione profonda sulla sorte dei popoli che spesso sono soltanto delle marionette nelle mani di chi detiene il potere.
Giusti immagina di rivolgersi ad un alto funzionario della polizia o granducale (il poeta è pistoiese) o austriaca.
Fin dall’incipit si può osservare l’ironia con cui il poeta esprime la sensazione di essere guardato in cagnesco da quel funzionario che l’ha di certo etichettato come anti-tedesco perché nei suoi scherzucci si prende gioco dei birbanti (tiranni, traditori, finti liberali …). Dopo il preambolo, con quel O senta tutto toscano si appresta a raccontare al suo interlocutore ciò che gli era successo una mattina in occasione di una visita nella basilica di Sant’Ambrogio.
Il poeta si trova in compagnia del giovane figlio del Manzoni (forse Filippo), qui chiamato confidenzialmente Sandro e scherzosamente definito un di que’ capi un po’ pericolosi, riferendosi, senza mezzi termini, alla palese avversione che Manzoni nutriva nei confronti degli Austriaci e definendo il capolavoro del poeta lombardo romanzetto, prendendosi gioco anche di lui. L’intento di gabbare il funzionario si fa palese in quel Che fa il nesci (più o meno lo gnorri), salvo poi giungere alla conclusione che forse quel romanzo non l’ha letto perché il suo cervello ha tante altre faccende di cui occuparsi, prima fra tutte, è sottinteso, rendere infelici i poveri “oppressi”. Ecco che, proseguendo lo scherzo, arriva la sferzata per l’ignaro interlocutore: Dio lo riposi è un augurio che solitamente viene rivolto ai morti: il cervello del tale è, dunque, morto e sotterrato, constatazione che porta ironicamente l’attenzione del lettore sull’ignoranza e la pochezza di certi ufficiali.
Eccoci arrivati al racconto del fatto accaduto a Giusti in quel di Sant’Ambrogio. Nella basilica il poeta trova dei soldati, forse Boemi o Croati, popolazioni che allora facevano parte dell’Impero Austro-Ungarico. Erano lì, come i pali che sorreggono le vigne, a controllare l’ordine, mandati dai funzionari austriaci (le vigne); l’ironia si coglie anche qui in quell’impalati che li descrive nell’atteggiamento servile di chi è sempre pronto ad obbedire. Anche i baffi che Giusti paragona alla stoppa (capecchio), riferendosi ai caratteristici “colori” di quei popoli, perlopiù biondi, costituiscono una nota ironica che si accompagna a quel dritti come fusi davanti a Dio, come se dovessero stare sull’attenti anche davanti al Creatore. Ecco che il ribrezzo, la repulsione prende il sopravvento: Giusti non ha voglia di mischiarsi a quella “marmaglia”, un ribrezzo che, ovviamente, il funzionario non può provare, visto che ci vive in mezzo abitualmente e che, proprio grazie a questo suo impiego che gli garantisce lo stipendio, riesce a sopportare. L’aria, poi, là dentro è decisamente viziata (e non può essere altrimenti visti gli “ospiti”), talmente pesante da far sprigionare persino dalle candele un odore non simile alla cera (che allora doveva essere di ottima qualità) quanto al sego con cui i soldati si ungevano i baffi. Insomma, sembra proprio che la sacralità del luogo risenta dell’influsso negativo di quei soldati puzzolenti.
Quel Ma nell’incipit della nuova ottava riporta l’attenzione sulla sacralità del luogo e ispira nel poeta una sincera commozione religiosa. Le note di un canto (nell’ottava seguente verrà specificato che si tratta del coro dell’opera verdiana I Lombardi alla prima crociata) rende l’atmosfera soave e nel contempo drammatica: si parla di un popolo che soffre fra gli stenti ricordando tutto il bene che ha perduto. Come non leggere tra le righe la sofferenza dei Lombardi, contemporanei di Manzoni e di Giusti, sottoposti all’ingiusta tirannia austriaca?
Il coro porta ad una specie di trasfigurazione del poeta che si sente parte di quella gente, di quel branco che prima aveva osservato da lontano e con disprezzo, come se non fosse più lui, rapito dalla musica e dal canto che lo inebria e lo porta ad essere solidale con chi forse non soffre meno di lui. E sì, ormai è totalmente rapito da quel pezzo nostro, perché legato al concetto di patria, perché appartiene alla nostra cultura, quella italiana, di cui nessuno straniero potrà mai privarci. Sull’onda emotiva di quella musica suonata con arte, ovvero “maestria”, passano in secondo piano anche l’ubbie, i pregiudizi. Ecco, quindi, che al cessar della musica, il poeta vorrebbe ritornare allo stato iniziale, a quella repulsione provata all’entrata in chiesa, ma involontariamente viene giocato da un nuovo tiro: dalle bocche che parean di ghiro (il riferimento ironico è ai baffi dei soldati, simili a quelli del piccolo mammifero) viene intonato un altro canto, questa volta tedesco, che s’innalza verso l’altare, una preghiera che è allo stesso tempo un lamento, un suono grave e solenne, ma contemporaneamente flebile, che gli rapisce per sempre l’anima. L’emozione è, quindi, temperata dall’ironia con cui dipinge gli austriaci: cotenne, in riferimento all’insensibilità come quella della pelle spessa dei maiali, e fantocci esotici di legno, espressione in cui l’aggettivo esotici rimanda a tutto ciò che è estraneo alla nostra cultura. L’empatia, attraverso la musica, si fa incredibilmente concreta.
Anche nel coro tedesco il poeta percepisce la rinascita di quel sentimento nostalgico di infanzia e di patria lontana. Il cuore custodisce e ripete nei momenti di dolore i canti imparati da fanciullo: gli affetti familiari, il desiderio di pace, la voglia e l’inclinazione ad amare in modo disinteressato, il dolore per la lontananza dalla patria sono sensazioni che il poeta non può fare a meno di condividere con quei soldati in un primo momento detestati. Anche il tono della poesia cambia e questa ottava costituisce l’apice del pathos.
Inizia qui la riflessione profonda di Giusti. A ben vedere questi soldati sono vittime anch’essi del potere: un imperatore timoroso dei moti insurrezionali, tanto in Italia quanto nei paesi slavi, strappa alle loro case (evidente qui la metonimia tetti) questi uomini che tengono schiavi noi pur essendo schiavi anch’essi. (evidente qui il chiasmo che rende ancor più drammatica la considerazione del poeta). Provengono dalla Croazia e dalla Boemia ma non sono poi molto diversi da quelle mandrie di buoi che i pastori toscani portano in Maremma a svernare.
L’ottava inizia con un’enumerazione per asindeto che rende particolarmente lento il ritmo dei primi versi. È come se il poeta volesse sottolineare il senso della desolazione che caratterizza la vita dei soldati, incolpevoli strumenti della rapacità consapevole (occhiuta rapina) del sovrano, senza goderne i frutti. La rapacità, poi, riporta allo stemma austriaco, l’aquila grifagna. Essi, sottoposti ad una dura disciplina e costretti ad una condizione di vita difficile, soffrono in silenzio e solitudine, subendo la derisione di chi li odia per quel che rappresentano. È un odio che divide (efficace, qui, la litote non avvicina) i due popoli, l’italiano e il tedesco, giovando a chi regna e può confidare nell’impossibilità di una loro complicità pericolosa. È il concetto del divide et impera.
Nei primi versi dell’ottava finale c’è ancora spazio per la commozione del poeta: la comprensione arriva alla pietà nei confronti di questa povera gente, lontana dalla patria e costretta a subire l’atteggiamento ostile del paese che l’ospita. Ma presto la pietà sfuma in umorismo e chiude ciclicamente la lirica: l’arguzia di Giusti arriva a definire principale l’imperatore che, forse, i soldati intimamente mandano a quel paese. Magari, è pronto a scommetterlo, non lo sopportano esattamente come gli Italiani.
Ma l’immedesimazione qui si ferma: per non correre il rischio di abbracciare uno di quei soldati, l’autore, ricordandosi del suo spirito patriota, deve fuggire. Il caporale rimane lì, con il suo bastone di nocciolo (era l’insegna dei caporali austriaci), impalato esattamente come l’abbiamo trovato all’inizio della poesia, insieme ai suoi compagni di sventura.
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Avea que’ mammalucchi in quell’errore,
E col governo il traffico diviso,
E mescolato al vizio il paradiso.
Stanchi alla fine, e come accade spesso
D’uno che al gioco giochi anco il cervello,
Che invece di pigliarla con sé stesso
E’ se la piglia con questo e con quello,
Un dì che il rivendugliolo avea messo
Fuori i fagotti e il solito zimbello,
Da sei gli sono addosso, e con molt’arte
L’attorniano, e lo traggono in disparte.
E dopo averlo strapazzato, e dette
Cose del fatto suo proprio da chiodi,
Gl’intuonaron minaccie maledette,
E che voleano il terno in tutti i modi.
Messa lì su quel subito alle strette
La volpe che maestra era di frodi,
Facendo l’imbrogliato e il mentecatto,
Te gli abbonì che non parve suo fatto.
Poi protestando, che del trattamento
Non facea caso e lo mandava a monte,
Accennò roba, parlò d’un portento,
La prese larga, te li tenne in ponte,
E finse di raccogliersi un momento,
E chiuse gli occhi, e si fregò la fronte,
E disse: – Attenti, che non diate poi
A me la colpa che si spetta a voi.
Bisognerebbe, quando il gallo canta
Sull’alba, o appena il sole è andato sotto,
Novanta ceci secchi, sulla pianta
Côrre, senz’esser visti o farne motto;
E dall’uno giù giù fino al novanta
Scriverci sopra i numeri del Lotto,
Con una tinta che non si cancella,
Fatta di pece e d’unto di padella.
Affilare un coltello, essere accorto
Che chi l’affila non tocchi nessuno;
E un corpo maschio, defunto di corto,
Scavar di notte, in giorno di digiuno;
E tagliata e vuotata a questo morto
Ben ben la testa, dentro a uno a uno
Mettere i ceci, stando inginocchiati,
Tre volte scossi e tre volte contati.
Avere un pentolone, e a queste gore

==>SEGUE


Il 1.° maggio del 1846 il Giusti pubblicò la satira alla Guerra. Come nota vi scrisse sotto: «Questo scherzo punge i predicatori della pace ad ogni costo, anco delle più vergognose bassezze: i quali poi, se capita il destro di guadagnare, danno un calcio ai loro sistemi e rovesciano il mondo.» A noi che stiamo fra due secoli e conosciamo le passioni, cui partecipammo, del decimonono e le aspirazioni ardite del ventesimo, e dopo le tante guerre che insanguinarono il mondo, aneliamo alla pace, la poesia e la nota del Giusti spiegano molto chiaramente il suo pensiero. Egli non fu mai un cannibale fautore della guerra; no, certo. I campioni della guerra erano per lui eroi macellari; ma non voleva che sotto la maschera della pace si perpetuasse la servitù. Quand’egli scriveva questa poesia, i più convinti apostoli della pace d’adesso eran quelli che gridavano più forte: guerra allo straniero, e correvano al campo. Ma v’erano, al tempo del poeta, quelli che temevano ogni turbamento che potesse recar danno ai loro privati negozî: e costoro, banchieri e mercatanti, gridavano pace ad ogni costo. Non li moveva un’idea umanitaria, perché se avessero creduto per la prosperità dei commerci opportuna una guerra, si sarebbero trasformati nei più feroci fautori d’armi e battaglie. «Nella Guerra (scrisse il Giusti) pungo la Banca e la dottrina del quattro e quattr’otto.»
Ma il poeta, nel considerare le condizioni d’Europa, fa le medesime osservazioni che noi, dopo più di cinquant’anni. Mai come allora era stato grande l’apparato delle armi, unito alle proteste di non volerle adoperare. I re armavano e poi desinavano in comune brindando alla pace: son versi che pajono fatti oggi. L’Europa è convertita in una grande caserma: l’America, stanca della saggezza ereditata da Washington e da Franklin, l’imita: e il progresso nuovissimo è una corsa pazza fra gli Stati del mondo a chi arriva prima ad inventare armi micidiali, e a sprecar maggior numero di milioni per fabbricarne. I popoli soffrono, si lamentano e insorgono, domandando che alla barbarie militare si sostituisca l’umanità dei rapporti civili, si sostituisca il lavoro, l’istruzione, la giustizia; e perfino i monarchi tratto tratto mostrano d’impensierirsi dei vuoti che il militarismo fa nell’erario e della miseria pubblica. Ma gli armamenti continuano – è il Giusti che ce lo dice – e continueranno fino a quando gli ordini sociali, invece di poggiare sulla forza, non avranno a fondamento che il diritto.
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SANT’AMBROGIO
1846

Vostra Eccellenza che mi sta in cagnesco
Per que’ pochi scherzucci di dozzina,
E mi gabella per anti-tedesco
Perché metto le birbe alla berlina,
O senta il caso avvenuto di fresco,
A me che girellando una mattina,
Capito in Sant’Ambrogio di Milano,
In quello vecchio, là, fuori di mano.
M’era compagno il figlio giovinetto
D’un di que’ capi un po’ pericolosi,
Di quel tal Sandro, autor d’un romanzetto
Ove si tratta di Promessi Sposi...
Che fa il nesci, Eccellenza? o non l’ha letto?
Ah, intendo: il suo cervel, Dio lo riposi,
In tutt’altre faccende affaccendato,
A questa roba è morto e sotterrato.
Entro, e ti trovo un pieno di soldati,
Di que’ soldati settentrionali,
Come sarebbe Boemi e Croati,
Messi qui nella vigna a far da pali:
Difatto se ne stavano impalati,
Come sogliono in faccia a’ generali,
Co’ baffi di capecchio e con que’ musi,
Davanti a Dio diritti come fusi.
Mi tenni indietro; ché piovuto in mezzo
Di quella maramaglia, io non lo nego
D’aver provato un senso di ribrezzo
Che lei non prova in grazia dell’impiego.
Sentiva un’afa, un alito di lezzo;
Scusi, Eccellenza, mi parean di sego,
In quella bella casa del Signore,
Fin le candele dell’altar maggiore.
Ma in quella che s’appresta il sacerdote
A consacrar la mistica vivanda,
Di subita dolcezza mi percuote
Su, di verso l’altare, un suon di banda.
Dalle trombe di guerra uscian le note
Come di voce che si raccomanda,
D’una gente che gema in duri stenti
E de’ perduti beni si rammenti.
Era un coro del Verdi; il coro a Dio
Là de’ Lombardi miseri assetati;
Quello: O Signore, dal tetto natio,
Che tanti petti ha scossi e inebriati.
Qui cominciai a non esser più io;

==>SEGUE
CONTRO UN LETTERATO PETTEGOLO
E COPISTA
1845

O chiarissimo ciuco1,
O cranio parasito
All’erudita greppia incarognito;
Tu del corvello eunuco
All’anime bennate
Palesi la virtù colle pedate.
Somigli uno scaffale
Di libri a un tempo idropico e digiuno,
Grave di tutti, inteso di nessuno;
O meglio un arsenale
Ove il sapere, in preda alle tignole,
Non serba altro di sé che le parole.
Poiché sfacciatamente
Copri de’ panni altrui l’anima nuda,
Scimia di forti ingegni e Zoilo e Giuda;
Smetti, o zucca impotente,
Di prenderti altra briga;
Strascica l’ostro sulla falsariga.



Chi fosse questo letterato ciuco che eccitò la musa del Giusti, non si sa; ma di letterati pettegoli e copisti non ci fu mai penuria in alcun tempo.
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1 Dar del chiarissimo ad uno per il Giusti equivaleva a insultarlo. Il chiarissimo era il titolo che si scambiavano i letterati: e il poeta saliva su tutte le furie se lo leggeva sulla sopraccarta di una lettera indirizzategli. A Matteo Trenta scriveva fin dal 1840 che il chiarissimo era un superlativo «che tutti danno e tutti vogliono a tutto pasto, tanto che oramai bisognerà dire nelle mattutine e nelle vespertino orazioni (o correggere anco nelle preghiere della Chiesa) a peste, fame et clarissimo, libera nos Domine. Non so se sappiate che in quest’altro Congresso sarà proposto dai professori di fisica di dar piuttosto del Diafano o, più italianamente parlando, del Trasparente. A me piacerebbe molto potere scrivere: Al Diafanissimo signor, ecc. Al Molto Trasparente Professore, ecc.» Scrisse anche una cicalata in forma di lettera in data 31 dicembre 1844, stampata dalla Rivista di Firenze col titolo: Il capitolo delle debolezze umane: sull’uso del Chiarissimo. «Il popolo (scrive) felicissimo nei suoi paragoni, quando parla d’una cosa limpida o d’una verità manifesta, è solito dire: chiara come l’acqua, chiara come l’ambra, chiara come la luce del sole. Ma il sole, sebbene sia popolarissimo, credo che nella sua dignità debba indispettirsi d’essere messo in un fascio e quasi alla pari con l’acqua e con l’ambra, come il vero sapiente deve pigliarsela con tutti coloro che te l’annaffiano in branco coll’asperges del Chiarissimo.» E propone di pesare bene il merito di colui cui si scrive, e dare quindi all’uno di Limpido, all’altro di Lucido, a questo di Trasparente, a quello di Folgorante; e poi di Molto sfavillante, di Scintillantissimo, e anco d’Opaco e di Nebuloso secondo il bisogno.»
IL GIOVINETTO
1845

Misero! a diciott’anni
Si sdraja nel dolore
D’aerei disinganni,
E atteggia al mal umore
Il labbro adolescente,
Che pipa eternamente.
Beccando un po’ di tutto,
Ossia nulla di nulla,
Col capolino asciutto
Si sventola e si culla
In un presuntuoso
Ozio, senza riposo.
Pallida, capelluta
Parodìa d’Assalonne,
Circuendo alla muta
Geroglifiche donne,
Almanacca sul serio
Un pudico adulterio.
E mentre avido bee
L’insipido veleno
Delle Penelopee,
Che si smezzano in seno
Il pudore, l’amore,
Il ganzo e il confessore,
Petrarca da commedia,
Eunuco insatirito,
Frignando per inedia
Elegiaco vagito,
Rimeggia il tu per tu
Tra il Vizio e la Virtù.
Convulso, semivivo,
Sfiaccolato, cascante;
Amico putativo
E putativo amante,
Annebbiando il cipiglio
Tra l’inno e lo sbadiglio;
In asmatiche scede
Di Dio cincischia il nome:

==>SEGUE

Di nottetempo, là dopo le dieci,
Nel giorno da Mosè dato all’altare,
Ed alle streghe nell’era volgare.
Tutto quel giorno che precesse il fatto,
Maso, un di quelli dell’accordellato,
Girò per casa mutolo, distratto
E torbo come mai non era stato:
La moglie era presente, e di soppiatto
Coll’occhio che alle donne amore ha dato,
Lo guardava e guardava, a quella vista
Facendosi anco lei pensosa e trista.
Erano sposi da cinqu’anni, e stati
Sempre insieme su su da piccolini,
Poi coll’andar del tempo innamorati,
S’eran congiunti da onesti vicini.
E dal dì che l’altar santificati
Avea gli affetti lor, già tre bambini
Rallegravan la rustica dimora
Che tre rose parean côlte d’allora.
A forza di risparmio e di lavoro
Conducean vita semplice e frugale,
Poveri sì ma in pace, e con decoro,
Contenti nel pudor matrimoniale;
Quando ecco il Lotto a ficcarsi tra loro,
Il Lotto, gioco imperiale e reale,
E quella pace e quel vivere onesto
Subito in fumo andar con tutto il resto.
Vani usciti i consigli erano, e vani
Con lui gli affanni di quella meschina,
Che sempre più vedea d’oggi in domani
Esso e la roba andarsene in rovina;
Ed or facea concetti o sogni strani
Del vederselo lì dalla mattina
Senza toccar lavoro, o far parola,
O consolarla d’un’occhiata sola.
E come più la sera s’appressava,
Più lo vedea smaniante e pensieroso.
Un po’ sedeva, un po’ cantarellava,
Come fa l’uom che aspetta e non ha poso:
Ed or prendeva in braccio, ora scansava,
Un fanciulletto, che tutto festoso
Con più libero piè degli altri dui,
Salterellava dalla madre a lui.
L’aria imbrunì, suonò l’Avemmaria,

==>SEGUE


Il grave puzzo che l’avello spira.
Senza alitare o muoversi di posto,
Trema la donna misera, e s’ammira
Qual chi dorme e non dorme, e in sogno orrendo
Volteggia col pensier stupefacendo.
Lenta calarsi dentro e risalire
Una figura vede dall’avello,
E sorta, accorrere i compagni, e dire
Un non so che di testa e di coltello.
E allor le parve vedere e sentire
Ricollocar la lapide bel bello;
Poi tutti verso lei tendere al piano,
E innanzi un d’essi con un peso in mano.
Quel vederli venire alla sua volta
Tanto le crebbe tremito e spavento,
Che dentro si sentì tutta sconvolta
E chiuse gli occhi e uscì di sentimento.
Quelli che con molt’impeto e con molta
Fretta correano in basso all’altro intento,
Raccolti in branco e presa la calata,
L’ebber senza notarla oltrepassata.
Non molto andaro in giù, che dalla via
Torsero a manca, e pervennero in loco
Ove per molti ruderi s’uscia
Ne’ campi, scosti dalle case un poco.
La poveretta che si risentia,
Ecco vede laggiù sorgere un foco,
E parecchi d’intorno affaccendati
Dal baglior delle fiamme illuminati.
Brillò la fiamma appena, che non lunge
Da lei, più gente a gran corsa si sferra,
E giù piombata in un attimo, giunge
Là dove lo splendor s’alza da terra:
E altra gente gridar che sopraggiunge,
E d’un’altra che fugge il serra serra,
E su e giù per fossi e per macchioni
Stormir di frasche, e salti e stramazzoni.
S’alza un alterco... ahi misera! è la voce,
È la voce di Maso; e par che tenti
Di liberarsi d’uno stuol feroce
Che lo serri d’intorno e gli s’avventi.
Tosto drizzata in piè, scende veloce
Onde venìale il suon de’ fieri accenti,
Quand’ecco che la ferma un duro sgherro
Con un artiglio che parea di ferro.
Le spie del luogo avean raccapezzato,

==>SEGUE
Qui, se non fuggo, abbraccio un Caporale,
Colla su’ brava mazza di nocciuolo1,
Duro e piantato lì come un piolo.
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1 La mazza di nocciuolo era il distintivo dei caporali che bastonavano i soldati, perché l’esercito austriaco si governava a colpi di bastone. Giuseppe Ferrari nell’opuscolo La rivoluzione e le riforme in Italia raccontava nel 1848: «Ogni capo di compagnia ha diritto d’infliggere al soldato la pena di 25 colpi di bastone senza appello, senza incorrere in veruna responsabilità; ogni colonnello può far infliggere 50 colpi e sempre senza appello. Il paziente pallido e malconcio, levandosi dalla panca, deve ringraziar l’ufficiale delle sollecitudini che ha per lui...» Questo ringraziamento era obbligatorio sotto pena d’altre legnate. Il Ferrari faceva il calcolo che in ogni compagnia si distribuivano in media almeno 30 bastonate al giorno e quindi nell’esercito austriaco si applicavano circa 150 mila, colpi di bastone ogni ventiquattr’ore. Per certi reati si bastonava fino alla morte.

Al pari di tutte le nature delicate d’artista, il Giusti sentiva fortemente l’influenza dell’ambiente: e lo mostrano la forma e il pensiero di ciascun suo scritto. Il mese che passò a Milano con Alessandro Manzoni, col Grossi, col Torti, fece nascere il Sant’Ambrogio, una poesia che si stacca da tutte le altre per un carattere speciale che diremmo quasi manzoniano. Vi domina una serenità e una calma insolita, l’ironìa si muta a poco a poco in affetto, il riso perde ogni asprezza e fra i versi che sgorgano limpidi e perspicui, freme una commozione sincera: il poeta s’affretta a finir la satira, perché al posto dello scherzo tremola una lagrima. Senza declamazioni, senza esagerazioni, senza apostrofi, senza caricature, è di una equanimità mirabile, mai smentita dal principio alla fine. Il poeta si reca a messa, con un figlio di Manzoni, nell’antica basilica ambrosiana e la vede piena di soldati austriaci venuti dal Castello e dalla vicina caserma. Sulle prime il sangue gli dà un tuffo: e prova un senso disgustoso di ribrezzo. Il soldato austriaco era il rappresentante della forza brutale e i cittadini si vendicavano, come tutti gli oppressi, coll’odio e colla satira. I Milanesi avevano fatto del croato il tipo della buaggine ridicola; e ogni mattina si diffondeva per la città un nuovo aneddoto, vero o inventato, sulla avidità, la ignoranza, la ghiottoneria, la rozzezza, la sudiceria di quei soldati che, durante le Cinque Giornate e nei mesi che seguirono, si mostrarono purtroppo crudeli e rapaci. I monelli li beffavano nel proprio dialetto fin sotto i lor baffi appuntati col sego: e il Giusti al trovarsi vicino a loro, si ritrae nauseato e sta per andarsene. Ma in quel punto la banda militare suona per l’elevazione dell’ostia; è un coro dei Lombardi: e il poeta si sofferma scosso a quella invocazione di soffrenti. Ed ecco inalzarsi, da quei soldati, un canto flebile e solenne che pareva pieno di memorie e di rimpianti: il poeta si commove ancor più e pensa ai dolori intimi di quei soldati, abborriti senza conoscerli, e pensa che i re della terra han separato i popoli che, lasciati a sé stessi, non avrebbero offesi gli uni gli altri, e sarebbero vissuti in pace. E pensando ciò, scappa via per paura d’intenerirsi troppo. Questa nota di giustizia mancava alla satira contro gli Umanitarî: e il Giusti si ricordava del Sant’Ambrogio, un anno dopo averlo pubblicato, quando scriveva al Collegno (lettera 7 dicembre 1847): «Potrà il cuore ai magnanimi Ungheresi e ai magnanimi Boemi d’essere cacciati qua a spegnere il fuoco sacro al quale essi stessi si ritemprano? E i loro fremiti generosi là saranno fremiti d’uomo, e qua fremiti di bestia? La causa dei popoli non è tutt’una in tutta Europa?...»
Abbiam detto della spontaneità dei versi; ma questa spontaneità è come quella di Manzoni, ottenuta colla pazienza della lima. Il Frassi pubblicò il fac-simile di due strofe del Sant’Ambrogio: un sol verso è rifatto magari quattro volte! e ciascuna volta l’idea si affina, diventa più chiara, più precisa, fino ad assumere la forma esatta e affettuosa che ci par sgorgata senza stento dal cervello. Per questo poteva scrivere al Grossi: «queste cosarelle mi costano tanto, che beato me se ne valessero la metà!»
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LA RASSEGNAZIONE
AL PADRE CONSERVATORE DELL’ORDINE DELLO Statu-quo.
1846

Dite un po’, Padre mio, sarebbe vero
Che ci volete tanto rassegnati
Da giulebbarci in casa il forestiero
Come un cilizio a sconto de’ peccati,
E a Dio lasciare la cura del poi,
Come se il fatto non istesse a noi?
Eh via, Padre, parliamo da cristiani:
Se vi saltasse un canchero a ridosso,
Lascerete là là d’oggi in domani
Che col comodo suo v’arrivi all’osso?
Aspetterete lì senza chirurgo
Che vi levi da letto un taumaturgo?
Uno che nasce qui nel suo paese,
Che di nessuno non invidia il covo,
Se non fa posto, se non fa le spese
A chi gli entra nel nido e ci fa l’ovo,
Se non gli fa per giunta anco buon viso
Secondo voi, si gioca il paradiso?
Noi siam venuti su colla credenza
Che il mondo è largo da bastare a tutti:
E ci pare una bella impertinenza,
Che una ladra genìa di farabutti
Venga a imbrogliar le parti di lontano
Che fa Domino Dio di propria mano1.
Questa dottrina di succhiarsi in pace
Uno che ci spelliccia allegramente,
Padre, non è in natura, e non ci piace
Appunto perché piace a certa gente:
Caro Padrino mio, questa dottrina,
Secondo noi, non è schietta farina.
Vedete? Ognuno di scansar molestia
Si studia a più non posso e s’arrabatta:
E morsa e tafanata, anco una bestia
Vedo che si rivolta e che si gratta:
E noi staremo qui come stivali
Senza grattarci quest’altri animali?
«Siamo fratelli, siam figli d’Adamo,
Creati tutti a imagine d’Iddio;
Siam pellegrini sulla terra; siamo,
Senza distinzion di tuo né mio,
Una famiglia di diverse genti...»
Bravo, grazie, non fate complimenti;
E facciamo piuttosto in carità

==>SEGUE
Fino a non far pasticci, e all’utopie
Tenere aperto l’occhio e l’uscio chiuso;
Fino a sfidare il carcere, le spie,
L’esilio, il boja, e ridergli sul muso;
Fino a dar tempo al tempo, oh Padre mio,
Fin qui ci sono, e mi ci firmo anch’io.
Ma la prudenza non fu mai pigrizia.
Vossignoria se canta o sesta o nona,
Canta: Servite Domino in laetitia;
E non canta: servitelo in poltrona.
Chi fa da santo colle mani in mano,
Padre, non è cattolico, è pagano.
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1 Genìa di farabutti, cioè gli Austriaci. In una lettera al Reumont, ministro di Prussia, scriverà: «Iddio ha fatto le parti: ognuno stia contento a quella che gli ha toccata, e senza invadere i campi del vicino, pensi che del mondo ne avanza a tutti.» (Lettera 31 gennajo 1848.) 2 Il poeta scriveva nel 1842 al Vaselli: «Lontana da noi ogni cervellotticherìa cosmopolita o umanitaria: quando ci saremo fatti paesani a casa nostra, chiederemo la cittadinanza del mondo: quando saremo tutti una famiglia qui tra noi, anderemo a pescare la fratellanza anco al di là delle Alpi.» Anche i Milanesi, dopo le Cinque Giornate, dicevano agli Austriaci: «Passate l’Alpe e tornerem fratelli.» 3 Al sizio, cioè agli estremi, perché Gesù quando stava per morire, esclamò: sitio, ho sete. 4 Struggibuco, parola volgare, usata per dinotare d’essere in grande ansietà.
Non confondiamo le carte: quando il Giusti scrisse la satira contro gli eroi della rassegnazione, intese parlare di quelli che in Toscana, in Lombardia, in Piemonte predicavano doversisopportare con pazienza i mali della servitù, per ispegnere ogni ardore di riscossa. I commentatori, quando giungono a questi versi, evocano anche il nome del Manzoni e degli scrittori della sua scuola, asserendo che «senza saperlo, cospiravano coi Farisei che ingrassano nel ristagno della «società». Si ripete così la vecchia leggenda che il libro dei Promessi Sposi, il più perfetto monumento letterario del secolo decimonono, e le tragedie e gli inni siano decotti papaverici addormentatori di animi. La storia ha già dimostrato la falsità della diceria perché il romanzo del Manzoni (che aveva pur cantato i primi tentativi per l’indipendenza del 1815 e del 1821) è la storia degli oppressi e dei deboli che trionfano sui forti oppressori. Che più? La Lombardia e il Veneto furono le regioni dove nel 1848 si diedero le prime battaglie trionfali dell’Italia contro lo straniero – ed erano la sede dei manzoniani. Sulle barricate milanesi si invocava il nome di Dio e si sparavano le fucilate: non è quindi per i manzoniani che poteva essere scritta la Rassegnazione: e ciò sia detto per parecchi commentatori, perché la satira per sé stessa non può essere più santamente vera.
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IL «DELENDA CARTHAGO»
1846

E perché paga Vostra Signoria
Un grullo finto, un sordo di mestiere,
Uno che a conto della Polizia
Ci dorma accanto per dell’ore intere?1
Questo danaro la lo butta via,
Per saper cose che le può sapere,
Nette di spesa, dalla fonte viva:
Glielo voglio dir io: la senta e scriva.
In primis, la saprà che il mondo e l’uomo
Vanno col tempo; e il tempo, sento dire,
Birba per lei e per noi galantuomo,
Verso la libertà prese l’a ire.
Se non lo crede, il campanil del Duomo
È là che parla a chi lo sa capire:
A battesimo suoni o a funerale,
Muore un Brigante e nasce un Liberale2.
Dunque, senta, se vuol rompere i denti
Al tarlo occulto che il mestier le rode,
O scongiuri le tossi e gli accidenti
Di risparmiar quest’avanzo di code;
Se no, compri le balie, e d’innocenti
Faccia una strage, come fece Erode:
Ma avverta, che il Messia si salva in fasce,
E poi, quando l’uccidono, rinasce.
I sordi tramenii delle congiure,
Il far da Gracco e da Robespierrino,
È roba smessa, solite imposture
Di birri, che ne fanno un botteghino3.
Questi romanzi, la mi creda pure,
Furono in voga al tempo di Pipino;
Oggi si tratta d’una certa razza
Che vuole storia, e che le dice in piazza.
Sicché, non sogni d’averla da fare
Col carbonaro, né col frammassone,
O giacobino che voglia chiamare
Chi vive al moccolin della ragione;
Si tratta di doversela strigare
Con una gente che non vuol Padrone;
Padrone, intendo, del solito conio,
Ché un po’ tarpati, e’ non sono il Demonio4.
Dunque, Padrone no! L’ha scritto? O bravo!
Padrone no! Sta bene e andiamo avanti:
Repubblica, oramai, Tiranno, Schiavo,
E altri nomi convulsi e stimolanti,
Sì, lasciamoli là: giusto pensavo

==>SEGUE
Che senza tante storie e senza tanti
Giri, si può benone in due parole
Tirar la somma di ciò che si vuole.
Scriva. Vogliam che ogni figlio d’Adamo
Conti per uomo, e non vogliam Tedeschi:
Vogliamo i Capi col capo; vogliamo
Leggi e Governi, e non vogliam Tedeschi.
Scriva. Vogliamo, tutti, quanti siamo,
L’Italia, Italia, e non vogliam Tedeschi;
Vogliam pagar di borsa e di cervello,
E non vogliam Tedeschi: arrivedello.
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1 Le spie orano dette orecchianti, appunto perché nella finta dormiveglia ascoltavano i discorsi. 2 In altre edizioni si legge: «Muore un codino e nasce un liberale.» Questa dizione ci parrebbe più giusta perché il contrapposto di liberale non e il brigante: inoltre, come osserva il Turchetti, come non tutti i giovani son fior di virtù, così non tutti i vecchi son briganti. 3 È sempre la vecchia storia per la quale andò famosa la polizia di Napoleone III. Le spie si fingono altrettanti Robespierre per trarre nella pania gli ingenui. 4 Un po’ tarpati: vale a dire principi, il potere dei quali fosse ridotto dalla costituzione. Il repubblicano, pur di far l’Italia, si rassegnava ai principi costituzionali.
Il detto di Catone, Est delenda Carthago, che il vecchio non ristava dal ripetere in Senato fino a quando la nemica città fu distrutta, era stato alla fine del 1846, dopo che la elezione di Pio IX e l’amnistia avevano eccitato negli Italiani le maggiori speranze, adottato dal Montanelli nel giornale Il Corriere Livornese per battere le spie. Le spie di Toscana, pagate 56 centesimi per sera, andavano nei teatri, nei caffè, nelle osterie e, accovacciati in un angolo, fingevano di dormicchiare e tendevano le orecchie: poi riportavano in Polizia quanto avevano udito. Il Giusti si rivolge con questo scherzo al ministro e gli dice: Perché pagare le spie e gli sbirri per sapere quel che può conoscere direttamente? Le spie, come han fatto e come fanno sotto tutti i governi, inventano le congiure e i complotti per mostrare di guadagnar la paga, e magari, per farsela aumentare: e fin quando non si libererà da questa gente abjetta, non troverà salvamento. In conclusione quel che vogliamo, senza bisogno di ricorrere alle spie, eccolo: «non vogliamo più padroni stranieri, domandiamo la costituzione e sopratutto non vogliamo più Tedeschi».
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Dunque su questo mare a cui ti fide
Pericolando con sì poca vela,
Il nembo sempre e la procella stride,
E de’ sommersi il pianto e la querela?
E mai non posa l’onda, e mai non ride
L’aere, e il sol di perpetue ombre si vela?
Di questa ardita e travagliata polve
Che teco spira, e a Dio teco si volve,
Altro che vizio a te non si rivela?
E chi sei tu che il libero flagello
Ruoti, accennando duramente il vero,
E che parco di lode al buono e al bello,
Amaro carme intuoni a vitupero?
Cogliesti tu, seguendo il tuo modello,
Il segreto dell’arte e il ministero?
Diradicasti da te stesso in pria
E la vana superbia e la follia,
Tu che rampogni, e altrui mostri il sentiero?
Allor di duol compunto, sospirando,
De’ miei pensieri il freno a me raccolgo;
E ripetendo il dove, il come, il quando,
La breve istoria mia volgo e rivolgo.
Ahi del passato l’orme ricalcando
Di mille spine un fior misero colgo!
Sdegnoso dell’error d’error macchiato,
Or mi sento co’ pochi alto levato,
Ora giù caddi e vaneggiai col volgo!
Misero sdegno, che mi spiri solo,
Di te si stanca e si rattrista il core!
O farfalletta che rallegri il volo,
Posandoti per via di fiore in fiore,
E tu che sempre vai, mesto usignolo,
Di bosco in bosco cantando d’amore,
Delle vostre dolcezze al paragone,
In quanta guerra di pensier mi pone
Questo che par sorriso ed è dolore!
Oltre la nube che mi cerchia e in seno
Agita i venti e i fulmini dell’ira,
A più largo orizzonte, a più sereno
Cielo, a più lieto vol l’animo aspira,
Ove congiunti con libero freno
I forti canti alla pietosa lira,
Di feconda armonia l’etere suoni,
E sian gl’inni di lode acuti sproni
Alla virtù che tanto si sospira.
O Gino mio, se a te questo segreto
Conflitto della mente io non celai,
Quando accusar del canto o mesto o lieto

==>SEGUE


In me la nota o la cagione udrai,
Narra quel forte palpito inquieto,
Tu che in altrui l’intendi e in te lo sai,
Di quei che acceso alla beltà del vero
Un raggio se ne sente nel pensiero,
E ognor lo segue e non lo giunge mai.
E anch’io quell’ardua imagine dell’arte,
Che al genio è donna e figlia è di natura,
E in parte ha forma dalla madre, in parte
Di più alto esemplar rende figura;
Come l’amante che non si diparte
Da quella che d’amor più l’assecura,
Vagheggio, inteso a migliorar me stesso,
E d’innovarmi nel pudico amplesso
La trepida speranza ancor mi dura.
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1 Ho tentato di rimettere in corso questo metro antico, dal quale, sebbene difficilissimo, credo si possa trar partito per aggiungere gravità e solennità all’ottava. Direi d’usarlo ne’ componimenti brevi; alla lunga forse stancherebbe. (Nota di G. Giusti.)
AL MEDICO CARLO GHINOZZI
CONTRO L’ABUSO DELL’ETERE SOLFORICO.
1847

Ghinozzi, or che la gente
Si sciupa umanamente,
E alla morbida razza
Sollecita il groppone
Filantropica mazza
Fasciata di cotone,
Lodi tu che il dolore,
Severo educatore,
C’impaurisca tanto?
Che l’uom, già sonnolento,
Dorma perfin del pianto
All’alto insegnamento?
Gioja e salute scende
Dal pianto, a chi l’intende;
Né solo il bambinello
Per le lacrime fuori
Riversa dal cervello
I mal concetti umori1.
A chi sé stesso apprezza,
Chiedi se in vile ebrezza
Cercò rifugio a’ guai:
Se sofisma di scuola
Gli valse il dolce mai
D’una lacrima sola!
Liberamente il forte
Apre al dolor le porte
Del cor, come all’amico;
E a consultar s’avvezza
Il consigliere antico
D’ogni umana grandezza.
Ma a gente incarognita,
I mali della vita
Sentono di barbarie;
È bel trovato d’ora
Accarezzar la carie
Che l’osso ci divora.
Se dal vietato pomo
Venne la morte all’uomo,
Oggi è medicinale
All’umana semenza,
Cotto dallo speziale,
L’albero della scienza.
Su, la fronte solleva,
Povera figlia d’Eva;
Lo sdegno del Signore
Il fisico ti placa,
E tu senza dolore

==>SEGUE



Partorirai briaca.
Chiudi, chiudi le ciglia,
E sogna una quadriglia:
Che importa saper come
Del partorir le doglie
Ti fan più caro il nome
E di madre e di moglie?
Bello, in pro del soffrente
Corpo, annebbiar la mente!
E quasi inutil cosa.
Nella mortale argilla
Sopire inoperosa
La divina scintilla!
Ma, dall’atto vitale,
La parte spiritale
Rimarrà senza danno
Nello spasimo, assente?
Forse i chimici sanno
Dell’esser la sorgente?
Sanno come si volve
Nell’animata polve
La sostanza dell’Io?
E la vita e la morte,
Segreti alti d’Iddio,
Soggiacciono alle Storte?
Amico, io non m’impenno,
Poeta inquisitore2,
Se benefico senno,
Guidato dall’amore,
Rimuove utili veri
Dall’ombra de’ misteri;
Sol dell’Arte ho paura,
Quando orgogliosa in toga,
La sapiente Natura
D’addottorar s’arroga,
E l’animo divelle
Per adular la pelle.
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1 Dicono che i bambini, piangendo, si ripurghino il cervello; simbolo forse di ciò che accade a tutti coll’andare degli anni, partecipando alle comuni avversità. (Nota di G. Giusti.) 2 Qui, nel calore del comporre, mi venne fatto senza addarmene di capovolgere le due ultime strofe e non so rimediarlo. Mi sia perdonato, purché il senso comune non sia andato anch’esso a capo all’ingiù. (Nota di G. Giusti.)
«Nell’Eterizzazione (brutto vocabolo) pungo questa poltroneria di volere sempre scansare ogni patimento, quasiché il patire non fosse apprendere.» Così scriveva il poeta e, nello stampar la satira, cambiò il titolo nell’abuso dell’etere solforico. Si noti ch’egli parla giustamente dell’abuso, non dell’uso dell’etere (sostituito oggi dal cloroformio) perché, senza ricorrere ad un anestetico, certe operazioni chirurgiche che esigono la completa immobilità dell’ammalato sarebbero impossibili. Forse però havvi nella satira una certa esagerazione spartana non troppo d’accordo colla intolleranza sua dei mali fisici, che gli facevano scrivere quasi contemporaneamente ai versi: «i patimenti dell’animo rialzano, quelli del corpo abbattono» (lettera 22 dicembre 1846 alla D’Azeglio). E infatti il dolore morale può insegnare talora a vivere e tutti possono trovare nell’animo la virtù di sopportarlo: il dolore fisico lo si sopporta o meno secondo le forze del corpo: e sul dolore morale scriveva il Giusti queste splendide parole al Vaselli: «la provvidenza dà i solenni insegnamenti del dolore a chi è capace di sentirli, perché dal dolore, dal solo dolore nascono le grandi cose e sorgono i forti caratteri, come il fiore dalla spina. Nella gioja l’uomo è sbadato, imprevidente, infecondo: le belle qualità dell’animo e della mente o non sono o non si palesano negli uomini felici: una sventura le fa scintillare come l’acciajo la pietra focaja.»
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E come se que’ côsi doventati
Fossero gente della nostra gente,
Entrai nel branco involontariamente.
Che vuol ella, Eccellenza, il pezzo è bello,
Poi nostro, o poi suonato come va;
E coll’arte di mezzo, e col cervello
Dato all’arte, l’ubbìe si buttan là.
Ma cessato che fu, dentro, bel bello
Io ritornava a star come la sa;
Quand’eccoti, per farmi un altro tiro,
Da quelle bocche che parean di ghiro,
Un cantico tedesco lento lento
Per l’aer sacro a Dio mosse le penne:
Era preghiera, e mi parea lamento,
D’un suono grave, flebile, solenne,
Tal, che sempre nell’anima lo sento:
E mi stupisco che in quelle cotenne,
In que’ fantocci esotici di legno,
Potesse l’armonia fino a quel segno.
Sentìa nell’inno la dolcezza amara
De’ canti uditi da fanciullo; il core
Che da voce domestica gl’impara,
Ce li ripete i giorni del dolore:
Un pensier mesto della madre cara,
Un desiderio di pace e di amore,
Uno sgomento di lontano esilio,
Che mi faceva andare in visibilio,
E quando tacque, mi lasciò pensoso
Di pensieri più forti e più soavi.
Costor, dicea tra me, Re pauroso
Degl’italici moti e degli slavi,
Strappa a’ lor tetti, e qua senza riposo
Schiavi gli spinge per tenerci schiavi;
Gli spinge di Croazia e di Boemme,
Come mandre a svernar nelle Maremme.
A dura vita, a dura disciplina,
Muti, derisi, solitarî stanno,
Strumenti ciechi d’occhiuta rapina
Che lor non tocca e che forse non sanno:
E quest’odio che mai non avvicina
Il popolo lombardo all’alemanno,
Giova a chi regna dividendo, e teme
Popoli avversi affratellati insieme.
Povera gente! lontana da’ suoi,
In un paese qui che le vuol male,
Chi sa che in fondo all’anima po’ poi
Non mandi a quel paese il principale!
Gioco che l’hanno in tasca come noi. –

==>SEGUE
Tanti fratelli, altrettanti castelli!
Di quella razza di fraternità
Anco Abele o Caino eran fratelli;
Finché ci fanno il pelo e il contrappelo,
Che c’entra stiracchiare anche il Vangelo?
Questo vostro dolciume umanitario,
Questa fraternità tanto esemplare,
Che di santa che fu là sul Calvario
L’hanno ridotta ad un intercalare,
Vo’ l’usereste, ditemi, appuntino
Tanto al ladro diritto che al mancino?
Oh io, per ora, a dirvela sincera,
Mi sento paesano paesano:
E nel caso, sapete in qual maniera
Sarei fratello del genere umano?
Come dice il proverbio: amici cari,
Ma patti chiari e la borsa del pari.
Prima, padron di casa in casa mia;
Poi, cittadino nella mia città;
Italiano in Italia, e così via
Discorrendo, uomo nell’umanità:
Di questo passo do vita per vita,
E abbraccio tutti e son cosmopolita2.
La Carità l’è santa, e tra di noi
Che siamo al sizio venga e si trattenga3;
Ma verso chi mi scortica, po’ poi,
Io non mi sento carità che tenga:
Padrino, chi mi fa tabula rasa,
Pochi discorsi, non lo voglio in casa.
Questa marmaglia di starci sul collo
Non si contenta, ma tira a dividere,
Tira a castrare e a pelacchiare il pollo,
Come suoi dirsi, senza farlo stridere:
E la pazienza in questo struggibuco4
La mi doventa la virtù del ciuco.
L’ira è peccato! Sì, quando per l’ira
Se ne va la giustizia a gambe all’aria.
Ma se le cose giuste avrò di mira,
L’ira non sento alla virtù contraria.
Fossi Papa, scusatemi, a momenti
L’ira la metterei tra’ sacramenti.
Cristo, a questo proposito, ci ha dato,
Dolce com’era, un bellissimo esempio
(E lo lasciò perché fosse imitato),
Quando, come sapete, entrò nel tempio
E sbarazzò le soglie profanate
A furia di santissime funate.


==>SEGUE
Questa lirica nobilissima è la confessione del poeta, un capitolo della sua vita intima e rientrata, com’egli argutamente la qualificava. Aveva conosciuto Gino Capponi nel 1836 e a poco a poco era entrato con lui in tanta dimestichezza da andar a stare in casa sua. Il Reumont (Gino Capponi e il suo secolo) scrive che «il contatto del Capponi nobilitò la natura del Giusti, Sebbene tra i due amici fossero
molte divergenze d’opinioni, ammirava Gino il genio del poeta e ne stimava i sentimenti.» Osserviamo però che quando il Capponi poté esercitare l’influenza inconsapevole del viver comune, la fama del Giusti era già stabilita e le migliori cose già scritte; cominciava una nuova maniera nella quale non sappiamo come sarebbe riuscito: e il Capponi, nel difendere la memoria dell’amico nella Revue des deux Mondes, nel 1850 scriveva: «Dio gli tolse una vita che appena appena incominciava a tutta svolgere sé medesima; né tutti peranche aveva prodotto quei frutti migliori dei quali era essa capace, né interamente appalesato il vero suo pregio e la più intima sua bontà.» Scrisse il poeta questi versi in Pisa nel dicembre del 1846 in un momento nel quale si sentiva oppresso e melanconico. Lavorava a correggere la Rassegnazione preparata da alcun tempo e che rifece da cima a fondo; aveva scritto il Sant’Ambrogio «sopra un caso avvenutogli in Milano» e si sfogava colla D’Azeglio, sua confidente, che gli pareva di trovarsi in un’isola separata dal mondo, nella quale abitassero il sonno, il silenzio e le ombre dei trapassati. «Io (proseguiva) così segregato dalle cose odierne, sono dietro a un metro antico che vorrei vedere di rimettere in voga perché mi sembra bellissimo sebbene sia difficilissimo; e difatti ci sudo sangue, per poi far credere di non avercelo sudato.» Le stanze sono di nove versi, e l’ultimo, che chiude il pensiero, rima col secondo, quarto e sesto: si trova questo metro in un poemetto intitolato La intelligentia, che si vuole del secolo XIII e fu attribuito a Dino Compagni.
Il Giusti racconta all’amico le tormentose battaglie del pensiero: tutto ciò che vede lo inspira, ma gli pare di non poter giungere ad esprimerlo colle parole; poi, nella solitudine, ritrova le impressioni già provate che gli accendono di nuovo l’estro e s’accinge a fermarle sulla carta; ma lì comincia l’aspra pugna fra l’idea e la forma. Lo tormenta inoltre l’angoscia d’esser stato sempre pronto a deridere le colpe altrui, mentre invece soffre nell’animo al vederle: e così passa dalle illusioni agli sconforti, anelando alla perfezione con intenso amore e con trepida speranza. La lirica fu mandata al Capponi colla seguente lettera:

«Vedi un po’, Gino mio, che cosa vuol dire l’aver che fare co’ Poeti! Non contenti di scapriccirsi, rimando sul conto degli altri e sul proprio, chiamano anco gli amici a parte dei loro capricci, chi per affetto e chi per far gente. Anni sono, intitolai a te quella tirata sulle Mummie Italiche, scherzo cagnesco che risente della stizza dei tempi nei quali fu scritto; oggi che abbiamo tutti il sangue più addolcito, accetta Questa aspirazione a cose migliori, scritta, come tu sai, quando il buono era sempre di là da venire, e anzi pareva lontanissimo. A chi sapesse che tu sei il solo al quale ho ricorso in tuttociò che passa tra me e me, non farà meraviglia questa pubblica confessione che io t’indirizzo; a chi non lo sapesse, ho voluto dirlo in versi, tanto più che dal Petrarca in poi pare una legge poetica che le affezioni dei rimatori siano sempre di pubblica ragione. Lasciami aggiungere, e lascia sapere a tutti, che io ti son tenuto di molti conforti e di molte raddirizzature: che se tuttavia mi restano addosso delle magagne, la colpa non è dell’ortopedico.
Tuo Affezionatissimo
GIUSEPPE GIUSTI.»
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Andasse a letto, e lo lasciasse solo.
Andò la dolorosa, e mezza morta
Senza spogliarsi in letto si distese:
E là piange, e si strugge e si sconforta,
Cheta, in sospetto e sempre sull’intese;
Né molto sta, che cigolar la porta
Udendo, sorge, e coll’orecchie tese
Sente, pian piano, con sordo stridore,
A doppia chiave riserrar di fuore.
Balza da letto, e prima che s’involi
Del tutto, vuol seguirlo arditamente:
E poi non si risolve, e de’ figlioli
Sorge il pensiero a divider la mente;
Ma tosto il dubbio di lasciarli soli
Cede al timor più vivo, e più presente;
Scende e tenta la toppa, e nulla avanza,
E del forzarla è vana ogni speranza.
Più l’ostacolo è forte, e più s’esalta
L’animo in quello; ond’essa audace e destra
Si lancia ove ricorre angusta ed alta
Cinque braccia da terra una finestra;
L’apre la donna e su vi monta, e salta
Speditamente nella via maestra,
E per molti sentieri erra, e s’invesca
Senza molto saper dove riesca.
In questo mentre i compagni di Maso
A mezza costa, fuor dell’abitato,
Celatamente avean le legna e il vaso
Per la strana cottura apparecchiato:
Egli co’ ferri che faceano al caso
D’alzar la pietra e scorciare il curato.
Per altra via, coll’animo scontento
Ultimo venne al dato appuntamento
Qui ci vorrebbe una notte arruffata
Una notte di spolvero, che quando
Alla tedesca fosse strumentata,
Paresse una casa-al-diavolo, salvando.
Se, per esempio, la nota obbligata
D’un par di gufi avessi al mio comando,
E fulmini a rifascio, e un’acqua tale
Da parere il diluvio universale:
E una romba di vento, e il rumor cupo
D’un fiume, d’un torrente, o che so io,
Che giù scrosciando d’un alto dirupo
Rintostasse de’ tuoni il brontolio;
Di quando in quando un bell’urlo di lupo,

==>SEGUE
A GINO CAPPONI
1847

Come colui che naviga a seconda
Per correnti di rapide fiumane,
Che star gli sembra immobile, e la sponda
Fuggire, e i monti e le selve lontane;
Cosi l’ingegno mio varca per l’onda
Precipitosa delle sorti umane:
E mentre a lui dell’universa vita
Passa dinanzi la scena infinita,
Muto e percosso di stupor rimane1.
E di sordo tumulto affaticarme
Le posse arcane dell’anima sento,
E guardo, e penso, e comprender non parme
La vista che si svolve all’occhio intento,
E non ho spirto di sì pieno carme
Che in me risponda a quel fiero concento:
Così rapito in mezzo al moto e al suono
Belle cose, vaneggio e m’abbandono,
Come la foglia che mulina il vento.
Ma quando poi remoto dalla gente,
Opra pensando di sottil lavoro,
Nelle dolci fatiche della mente
Al travaglio del cor cerco ristoro,
Ecco assalirmi tutte di repente,
Come d’insetti un nuvolo sonoro,
Le rimembranze delle cose andate;
E larve orrende di scherno atteggiate
Azzuffarsi con meco ed io con loro.
Così tornata alla solinga stanza
La vaga giovinetta in cui l’acuta
Ebrietà del suono e della danza
Né stanchezza né sonno non attuta,
Il fragor della festa e l’esultanza
Le romba intorno ancor per l’aria muta,
E il senso impresso de’ cari sembianti,
E de’ lumi e de’ vortici festanti,
In faticosa visïon si muta.
Come persona a cui ratto balena
Subita cosa che d’obliar teme,
Così la penna afferro in quella piena
Del caldo imaginar che dentro freme.
Ma se sgorgando di difficil vena
La parola e il pensier pugnano insieme,
Io, di me stesso diffidando, poso
Dal metro audace, e rimango pensoso,
E l’angoscia d’un dubbio in cor mi geme.

==>SEGUE