CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS




































________________

ALCUNE POESIE
SCELTE TRA LE
GIOVANILI E LE INEDITE
________________



SEGUITO
IO LIBERALE?!...

Io liberale? Signor Presidente!
Io che non penso che a Su’ Altezza Reale,
Io che pago e sto zitto, io liberale?
Mi creda, in verità, sono innocente.
Io anzi vivo spensieratamente,
Perché il Governo non se n’abbia a male;
Ma poi, che regni Pasquino o Pasquale,
Non me n’importa niente, niente, niente.
Per esser liberal (salvo mi sia)
Ci vuol testa e la testa è una gran noja,
Perché la testa dà malinconia;
E per la testa si rischian le cuoja,
E dalle funi di Vosignoria
Si va (con reverenza) in man del boja.
Guardi se per la foja
Di questa Italia, che sarà una perla,
Metta la pena di mostrar d’averla!
Per me tiro a tenerla
Sopra le spalle più anni che posso.
E di farmela dura come un osso:
Perciò vivo all’ingrosso,
Fumo, giuoco a primiera, e sto nel letto,
Arcisicuro di non dar sospetto;
E se mangio un galletto,
Lascio la cresta, che mi dicon buona,
Per la sua somiglianza alla corona.
La sarebbe minchiona
Che un nobile, uno ricco come me,
Si confondesse a pigliarla coi re:
E per concluder che?
Per perder sino all’ultimo quattrino,
E il benefizio d’andare al Casino;
Per vedersi vicino
Un figuro al teatro e all’osteria,
Che dorme a conto della Polizia;
Per chiudersi la via
D’esser chiamato a fare il ciambellano,
O messo per tener le mani in mano,
Con rescritto sovrano,
Qui, per esempio, nelle scarpe sue...
Sor Presidente mio, non son sì bue.

La memoria riman dei cari estinti,
Né valgon gli anni a cancellar lo scritto.
E d’infausto cipresso il crin ricinti,
Corron gli amici del perduto all’urna
A tributar le lacrime e i giacinti.
E la tenera sposa taciturna
Cova la doglia acerba, che l’istiga
L’odïata a fuggir luce diurna.
E di debito pianto il volto riga,
O splenda in cielo la benigna lampa,
O Febo asconda in mar la sua quadriga.
Così, diletto Carlo, in noi si stampa
Tua sospirata imago, e del desìo
Degli amplessi cessati ognuno avvampa.
Ond’è che intento a mesto ufficio e pio
Muovesi di compagni un ordin denso,
In bruna veste alla magion di Dio.
Ed implora a te requie, ed all’Immenso
Offre voti che al ciel ratti sen vanno,
Siccome nube candida d’incenso.
Gli ode placato il Nume, e il duro affanno
Dell’orbata famiglia appoco appoco
Calma pietoso, e ne conforta il danno.
O voi, che offende in questo basso loco
Cura molesta, o morbo grave e lento,
Sprezzate di fortuna il vario gioco.
Questo garzone innanzi tempo spento
V’additi che quaggiù vana è la speme,
Ed ombra che dileguasi il contento.
Per lui già già fiorìa l’eletto seme
Che dei più nella mente inerzia cela;
In lui grazia e virtù cresceano insieme.
Ma di repente s’infranse la vela
Che prometter parea sì lieto corso,
Né valse all’uopo la comun querela.
Se dunque il tempo d’improvviso morso
L’opre migliori di natura offende,
Alle lusinghe ree si volga il dorso.
Folle è colui che d’evitar pretende
La comun sorte: su ciascuno eguale
La provocata man di Dio si stende,
E nostra possa ad arrestarla è frale.
AL PADRE BERNARDO DA SIENA
1834

Non disse Cristo al suo primo convento,
Andate, e predicate al mondo ciance;
Ma diede lor verace fondamento.
DANTE, Paradiso, XXIX.
Al secol tolto nell’età più bella,
E unito al Cielo in vincolo d’amore
Nel sacro asilo di romita cella;
Fra gl’inni penitenti e lo squallore,
Da questa terra misera non hai
Sdegnosamente allontanato il core.
Ma ripensando agli infiniti guai
Che ti lasciasti a tergo, e fatto pio
Del nostro mal, peregrinando vai
Fido e diletto apostolo d’Iddio,
Che mal s’appaga del Pastor che giace
Lento all’ombre, e l’ovil lascia in oblio.
Di quella Mente interprete verace
Che dettò l’evangelica parola,
Sublime pegno di beata pace;
Come effluvio di rosa e di viola
Dalle tue labbra il nettare divino
Spira soave, e l’anima consola.
Partesi, per udirti, in sul mattino
Dalla capanna sua la vecchiarella
Per lungo e malagevole cammino:
Poi torna a casa a dar di te novella
Ai piccoli nipoti, e ne rammenta
Gli atti, le vesti, il volto e la favella.
S’asside al focolar tutta contenta,
Vigilando la vita che le avanza,
E le miserie sue par che non senta:
Ché d’altro gaudio e di più lieta stanza,
Abbandonando questo triste esilio,
Dalle parole tue prende speranza.
La giovinetta, cui tinge in vermiglio
Un primo amor la gota pudibonda,
Tacita ascolta serenando il ciglio:
Ché tu le annunzî i dì quando, feconda
Di bella prole, con materna cura
La famigliola sua farà gioconda:
E ne sospira, e a Dio volge secura

==>SEGUE
PER LA MORTE DELL’UNICA FIGLIA
DI URANIA E MARCO MASETTI
1841

Tu di un tenero padre
Eri l’unica gioja e la speranza:
Per te nei dì venturi,
Come in gajo dipinto,
Alla sua stanca età crescer vedea
Spettacol nuovo di sante dolcezze
Ed in altre carezze
Ai tardi anni senili
Restituirsi i tuoi baci infantili.
Perché da lui t’involi
Or che l’uopo di te sentìa maggiore?
Vedi, nel suo dolore
Il misero non ha chi lo consoli!
O anima gentil, pietà ti muova
Del mesto genitor che t’amò tanto!
A lui ritorna colle nuove piume
D’angelo, a serenarlo in mezzo al pianto.
Tu soave pensiero e caro lume
Eri della sua vita:
Ogni dolcezza sua teco è perita.

Giuseppe  Giusti - POESIE  SCELTE - parte VII
Pagina a cura di Nino Fiorillo           == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
Commento alla poesia
SANT'AMBROGIO
di Marisa Moles
__________________
La lirica prende spunto da un fatto realmente accaduto: mentre si trovava a Milano, ospite di Alessandro Manzoni, Giusti fece visita alla basilica di Sant’Ambrogio, al cui interno s’imbatté in un gruppo di soldati austriaci che a quei tempi occupavano il Lombardo-Veneto. Ad un primo sentimento di repulsione nei confronti dell’oppressore, si sostituisce una sorta di compartecipazione alla sorte di quei soldati che, lontani dalla patria, sono ridotti, forse loro malgrado, a strumento di sopraffazione. Il canto intonato da quei soldati suscita nel poeta una commozione inaspettata da cui scaturisce una riflessione profonda sulla sorte dei popoli che spesso sono soltanto delle marionette nelle mani di chi detiene il potere.
Giusti immagina di rivolgersi ad un alto funzionario della polizia o granducale (il poeta è pistoiese) o austriaca.
Fin dall’incipit si può osservare l’ironia con cui il poeta esprime la sensazione di essere guardato in cagnesco da quel funzionario che l’ha di certo etichettato come anti-tedesco perché nei suoi scherzucci si prende gioco dei birbanti (tiranni, traditori, finti liberali …). Dopo il preambolo, con quel O senta tutto toscano si appresta a raccontare al suo interlocutore ciò che gli era successo una mattina in occasione di una visita nella basilica di Sant’Ambrogio.
Il poeta si trova in compagnia del giovane figlio del Manzoni (forse Filippo), qui chiamato confidenzialmente Sandro e scherzosamente definito un di que’ capi un po’ pericolosi, riferendosi, senza mezzi termini, alla palese avversione che Manzoni nutriva nei confronti degli Austriaci e definendo il capolavoro del poeta lombardo romanzetto, prendendosi gioco anche di lui. L’intento di gabbare il funzionario si fa palese in quel Che fa il nesci (più o meno lo gnorri), salvo poi giungere alla conclusione che forse quel romanzo non l’ha letto perché il suo cervello ha tante altre faccende di cui occuparsi, prima fra tutte, è sottinteso, rendere infelici i poveri “oppressi”. Ecco che, proseguendo lo scherzo, arriva la sferzata per l’ignaro interlocutore: Dio lo riposi è un augurio che solitamente viene rivolto ai morti: il cervello del tale è, dunque, morto e sotterrato, constatazione che porta ironicamente l’attenzione del lettore sull’ignoranza e la pochezza di certi ufficiali.
Eccoci arrivati al racconto del fatto accaduto a Giusti in quel di Sant’Ambrogio. Nella basilica il poeta trova dei soldati, forse Boemi o Croati, popolazioni che allora facevano parte dell’Impero Austro-Ungarico. Erano lì, come i pali che sorreggono le vigne, a controllare l’ordine, mandati dai funzionari austriaci (le vigne); l’ironia si coglie anche qui in quell’impalati che li descrive nell’atteggiamento servile di chi è sempre pronto ad obbedire. Anche i baffi che Giusti paragona alla stoppa (capecchio), riferendosi ai caratteristici “colori” di quei popoli, perlopiù biondi, costituiscono una nota ironica che si accompagna a quel dritti come fusi davanti a Dio, come se dovessero stare sull’attenti anche davanti al Creatore. Ecco che il ribrezzo, la repulsione prende il sopravvento: Giusti non ha voglia di mischiarsi a quella “marmaglia”, un ribrezzo che, ovviamente, il funzionario non può provare, visto che ci vive in mezzo abitualmente e che, proprio grazie a questo suo impiego che gli garantisce lo stipendio, riesce a sopportare. L’aria, poi, là dentro è decisamente viziata (e non può essere altrimenti visti gli “ospiti”), talmente pesante da far sprigionare persino dalle candele un odore non simile alla cera (che allora doveva essere di ottima qualità) quanto al sego con cui i soldati si ungevano i baffi. Insomma, sembra proprio che la sacralità del luogo risenta dell’influsso negativo di quei soldati puzzolenti.
Quel Ma nell’incipit della nuova ottava riporta l’attenzione sulla sacralità del luogo e ispira nel poeta una sincera commozione religiosa. Le note di un canto (nell’ottava seguente verrà specificato che si tratta del coro dell’opera verdiana I Lombardi alla prima crociata) rende l’atmosfera soave e nel contempo drammatica: si parla di un popolo che soffre fra gli stenti ricordando tutto il bene che ha perduto. Come non leggere tra le righe la sofferenza dei Lombardi, contemporanei di Manzoni e di Giusti, sottoposti all’ingiusta tirannia austriaca?
Il coro porta ad una specie di trasfigurazione del poeta che si sente parte di quella gente, di quel branco che prima aveva osservato da lontano e con disprezzo, come se non fosse più lui, rapito dalla musica e dal canto che lo inebria e lo porta ad essere solidale con chi forse non soffre meno di lui. E sì, ormai è totalmente rapito da quel pezzo nostro, perché legato al concetto di patria, perché appartiene alla nostra cultura, quella italiana, di cui nessuno straniero potrà mai privarci. Sull’onda emotiva di quella musica suonata con arte, ovvero “maestria”, passano in secondo piano anche l’ubbie, i pregiudizi. Ecco, quindi, che al cessar della musica, il poeta vorrebbe ritornare allo stato iniziale, a quella repulsione provata all’entrata in chiesa, ma involontariamente viene giocato da un nuovo tiro: dalle bocche che parean di ghiro (il riferimento ironico è ai baffi dei soldati, simili a quelli del piccolo mammifero) viene intonato un altro canto, questa volta tedesco, che s’innalza verso l’altare, una preghiera che è allo stesso tempo un lamento, un suono grave e solenne, ma contemporaneamente flebile, che gli rapisce per sempre l’anima. L’emozione è, quindi, temperata dall’ironia con cui dipinge gli austriaci: cotenne, in riferimento all’insensibilità come quella della pelle spessa dei maiali, e fantocci esotici di legno, espressione in cui l’aggettivo esotici rimanda a tutto ciò che è estraneo alla nostra cultura. L’empatia, attraverso la musica, si fa incredibilmente concreta.
Anche nel coro tedesco il poeta percepisce la rinascita di quel sentimento nostalgico di infanzia e di patria lontana. Il cuore custodisce e ripete nei momenti di dolore i canti imparati da fanciullo: gli affetti familiari, il desiderio di pace, la voglia e l’inclinazione ad amare in modo disinteressato, il dolore per la lontananza dalla patria sono sensazioni che il poeta non può fare a meno di condividere con quei soldati in un primo momento detestati. Anche il tono della poesia cambia e questa ottava costituisce l’apice del pathos.
Inizia qui la riflessione profonda di Giusti. A ben vedere questi soldati sono vittime anch’essi del potere: un imperatore timoroso dei moti insurrezionali, tanto in Italia quanto nei paesi slavi, strappa alle loro case (evidente qui la metonimia tetti) questi uomini che tengono schiavi noi pur essendo schiavi anch’essi. (evidente qui il chiasmo che rende ancor più drammatica la considerazione del poeta). Provengono dalla Croazia e dalla Boemia ma non sono poi molto diversi da quelle mandrie di buoi che i pastori toscani portano in Maremma a svernare.
L’ottava inizia con un’enumerazione per asindeto che rende particolarmente lento il ritmo dei primi versi. È come se il poeta volesse sottolineare il senso della desolazione che caratterizza la vita dei soldati, incolpevoli strumenti della rapacità consapevole (occhiuta rapina) del sovrano, senza goderne i frutti. La rapacità, poi, riporta allo stemma austriaco, l’aquila grifagna. Essi, sottoposti ad una dura disciplina e costretti ad una condizione di vita difficile, soffrono in silenzio e solitudine, subendo la derisione di chi li odia per quel che rappresentano. È un odio che divide (efficace, qui, la litote non avvicina) i due popoli, l’italiano e il tedesco, giovando a chi regna e può confidare nell’impossibilità di una loro complicità pericolosa. È il concetto del divide et impera.
Nei primi versi dell’ottava finale c’è ancora spazio per la commozione del poeta: la comprensione arriva alla pietà nei confronti di questa povera gente, lontana dalla patria e costretta a subire l’atteggiamento ostile del paese che l’ospita. Ma presto la pietà sfuma in umorismo e chiude ciclicamente la lirica: l’arguzia di Giusti arriva a definire principale l’imperatore che, forse, i soldati intimamente mandano a quel paese. Magari, è pronto a scommetterlo, non lo sopportano esattamente come gli Italiani.
Ma l’immedesimazione qui si ferma: per non correre il rischio di abbracciare uno di quei soldati, l’autore, ricordandosi del suo spirito patriota, deve fuggire. Il caporale rimane lì, con il suo bastone di nocciolo (era l’insegna dei caporali austriaci), impalato esattamente come l’abbiamo trovato all’inizio della poesia, insieme ai suoi compagni di sventura.
_____________________
Il secreto pensiero e gli occhi belli,
Specchi dell’alma innamorata e pura.
Tu ridesti a virtude e rinnovelli
I giovanili petti, e gli richiami
Agli amplessi d’amici e di fratelli.
Ché il Signor di santissimi legami
Volle contento il suo popol diletto,
Perché s’unisca giubilando e s’ami.
Per occulta virtù, che dall’aspetto
Di bella verità prende argomento,
Tu n’avvicini al Ben dell’intelletto.
E in estasi di pace e di contento
L’anima lieta s’abbandona, e riede
Teco all’Amor che mosse il firmamento.
Per te gentil desìo sorger si vede
E d’onorati studî e d’atti onesti,
Di virtù sante e d’incorrotta fede.
Celeste Verità, che i brevi e mesti
Giorni di vita esalti e rassereni
Quando al guardo mortal ti manifesti;
E godi al raggio dell’Eterno, e tieni
L’alto segreto dalla man del Nume
Degli arcani superni e dei terreni:
Avvalorato del tuo santo lume
Questi che svolge all’avida pupilla
Delle attonite genti il tuo volume,
Tolto ai cari silenzi e alla tranquilla
Aura del chiostro, tornerà sovente
A destar fiamme della tua favilla.
E la terra commossa e riverente
Il suo Profeta esalterà, che porge
Nuovo conforto al core ed alla mente
Che omai dal fango si sviluppa e sorge.
________________________




I CASI DI STENTERELLO PORCACCI1
FRAMMENTO

Con questa poesia il Giusti si propone di colpire il vizio comune di non contentarsi del proprio stato. Difatti:
Vedete: il ciano invidia il bottegaio,
Il bottegajo invidia il negoziante,
Il negoziante invidia l’usurajo,
E l’usurajo invidia il benestante,
Quello i patrizi, e questi farabutti
Il sovrano, e il sovrano invidia tutti.
Il lavoro non è finito, anzi è abbozzato appena. Io mi proverò qui a darne al lettore un’idea, raccogliendo per così dire le sparse membra d’Absirto. Stenterello, come tutti sanno, era comico. Desiderando di migliorare la sua condizione, cerca ed ottiene un impiego dal Governo; poi è preso per liberale, ed è condotto dinanzi al Commissario, il quale gli domanda se sa perché l’ha chiamato. Stenterello risponde che nemmeno se l’imagina, non avendo mai avuto che fare col Tribunale, essendo un buonissimo ragazzo, e fa uno di quei discorsi lunghissimi e fuori di materia che in simili occasioni fanno le persone del popolo. Il Commissario, impazientito, l’interrompe dicendo:
La finisca con queste tiritere;
Se non lo sa, glielo farò sapere.
Sappia dunque che consta al Tribunale,
E perciò appunto l’ho chiamato qui,
Che lei, Signor Porcacci, è un liberale.
– Liberale? – Gnor sì. – Come? – Gnor sì.
– Ma, Gesù mio, non mi faccia patire!
Ma liberale che vuol egli dire?
– Che vuol dire? rispose; eh, signor mio,
Non faccia il nesci, non faccia l’inetto.
Cosa vuol dire? Glielo dirò io:
Vuol dir che lei è un pessimo soggetto,
Un nemico d’Iddio nato e sputato,
Un che congiura a danno dello Stato.
Come! ajutar le brighe oltramontane,
Legarsi, congiurar di sotto mano,
Un impiegato, uno che mangia il pane
Del nostro amorosissimo sovrano?
Un imbecille pieno di bisogni?
La vada via, la vada, e si vergogni.

       ==>SEGUE
Vede, giusto ero qui che l’aspettavo.
S’accomodi costì sul canapè,
Abbia pazienza, e lasci fare a me.
E seguitando a far le sue faccende,
Continuava: Qui vosignoria
Starà benone, già questo s’intende,
Se non foss’altro essendo in mano mia:
Avrà fuoco, avrà lume; in due parole
Chieda e domandi, avrà quello che vuole.
Stenterello non sa capire perché la prima volta che andò in prigione fosse, sebbene innocente, trattato tanto male, ed ora che si sente colpevole venga trattato così amorevolmente; ma non si ricorda che la prima volta era povero e creduto liberale, la seconda era creduto ricco e codino. Uscito di prigione, si mette a fare il sensale di cavalli; ma un contadino da lui messo in mezzo, di notte gli dà un carico di legnate. Visto che questo non era mestiere per lui, si dà a far l’antiquario. Fra i forestieri dilettanti di quadri, gli capita uno che si spaccia per principe russo, il quale compra tutta la galleria col patto di pagarla quando gli saranno venute le sue rimesse; le rimesse al solito non vengono più, e Stenterello perde ogni cosa. Fallitagli anco questa speculazione si dà a corteggiare una ricca vecchia, s’intende già coll’intenzione di pelarla; ma sul più bello giunge un altro e gli dà il gambetto. Allora riconosce i danni che recano i desiderî sfrenati, e così sembra dovesse chiudersi il poemetto: dico sembra, perché le sestine sono scritte con tal disordine, da non poter con certezza determinare il posto che loro destinava l’Autore. Prima peraltro di compiere questa specie d’estratto, non posso fare a meno di riportare un’altra sestina che doveva probabilmente appartenere all’ultima parte dei tentativi di Stenterello Porcacci. Ho già detto che si dà alla vita amorosa: per far più breccia pensa di provare la nobiltà della sua famiglia:
E detto fatto, appena consultati
I libri su delle Riformagioni3,
Si trovaron Porcacci magistrati,
Porcacci conti, Porcacci baroni,
Porcacci chiari in lettere o in bell’arti.
Porcacci insomma da tutte le parti.
________________________

L’OPPORTUNISTA

Felice te che nella tua carriera
T’avvenne di chiappar la via più trita,
E ti s’affà la scesa e la salita,
E sei omo da bosco e da riviera.

Stamani a Corte, al Circolo stasera,
Domattina a braccetto a un Gesuita;
Poi ricalcando l’orme della vita,
Doman l’altro daccapo, al sicutera.

Che se codesta eterna giravolta
A chi sogna Plutarco e i vecchî esempi
Il delicato stomaco rivolta,

Va pure innanzi e lascia dir gli scempi,
Ché tra la gente arguta e disinvolta
Questo si chiama accomodarsi ai tempi.


IL SETTARIO

Se leggi Ricordano Malespini,
Dino Compagni e Giovanni Villani,
E i cronisti Lucchesi ed i Pisani,
Senesi, Pistojesi, ed Aretini,

Genovesi, Lombardi, Subalpini,
Veneti, Romagnuoli e Marchigiani,
E poi Romani, e poi Napoletani,
E giù giù fino agli ultimi confini,

Vedrai che l’uom di setta è sempre quello:
Pronto a giocar di tutti, e a dire addio
Al conoscente, all’amico, e al fratello.

E tutto si riduce, a parer mio,
(Come disse un poeta di Mugello)
«A dire: esci di lì, ci vo’ star io.»
DOPO LA VENUTA DEGLI AUSTRIACI
1849

Signor mio, Signor mio, sento il dovere
Di ringraziarvi a fin di malattia,
Per avermi lasciato tuttavia
Della vita al difficile mestiere.

Se sia la meglio andare o rimanere
Io non lo so, per non vi dir bugìa;
Voi lo sapete bene, e così sia;
Accetto, vi ringrazio, e ci ho piacere.

Che se mi tocca a star qui confinato
Perché il polmone non mi si raffreschi,
Ci sto tranquillo e ci sto rassegnato.

Io faccende non ho, non ho ripeschi,
Non son un oste o un ministro di Stato,
Che mi dispiaccia il non veder Tedeschi.


IL DUCA PELAGRUE

Ho conosciuto il Duca Pelagrue,
La prima bestia che vanti il blasone:
Dà sempre torto e vuol sempre ragione,
E dice cose... cose tutte sue.

Convienmi udirlo per un’ora o due,
Seccandomi così per degnazione;
E poi, volta la stizza in compassione,
Piego le corna innanzi a questo bue;

E penso: è nato ricco, è nato solo,
Crede che tutti, eccetto i pari suoi,
Siamo arnesacci da pigliarsi a nolo;

E questa cosa la crede dappoi
Che fu fatto un sonetto a un suo figliuolo,
E gli fu dato di «Germe d’Eroi».
I TRENTACINQUE ANNI
1846

Grossi, ho trentacinque anni, e m’è passata
Quasi di testa ogni corbelleria;
O se vi resta un grano di pazzìa,
Da qualche pelo bianco è temperata.

Mi comincia un’età meno agitata,
Di mezza prosa e mezza poesia;
Età di studio e d’onesta allegria,
Parte nel mondo e parte ritirata.

Poi, calando giù giù di questo passo
E seguitando a corbellar la fiera,
Verrà la morte, e finiremo il chiasso.

E buon per me, se la mia vita intera
Mi frutterà di meritare un sasso
Che porti scritto: «non mutò bandiera».


LAMENTO DEL POETA

La nomèa di poeta e letterato
Ti reca, amico mio, di gran bei frutti,
E il più soave è l’essere da tutti
E lodato e cercato e importunato.

Il grullo, l’ebete, il porco beato.
Lo spensierato, ed altri farabutti,
Fanno in pace i lor fatti o belli o brutti,
Ed hanno tempo di ripigliar fiato.

Ma l’ingegno che spopola e che spalca
È l’asino d’un pubblico insolente
Che mai lo pasce e sempre lo cavalca,

E gli bisogna, o disperatamente
Piegar la groppa a voglia della calca,
O dare in bestia come l’altra gente.



D’arrivare alla soffitta.
Si condusse a fin di salmo
A procedere d’un palmo.
E noi pur tirando innanzi,
Aggiungiamo il nostro tanto,
Procacciam che in bene avanzi
l’edificio altero e santo,
Rimettiamone anco noi
Il suo tanto a chi vien poi.
Finirà l’opra mortale
Un artefice divino:
Si contenti il manovale
Di portare il sassolino
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ché non so dell’Architetto
Agguagliar gl’intendimenti.
Lascerò mettere il tetto
A chi pose i fondamenti,
E la fabbrica compita
Goderò nell’altra vita.
_______________________


1 Tolti dalla Vita di Giuseppe Giusti, scritta da Giovanni Frassi, del quale sono le parole che legano insieme i diversi brani di questa poesia. 2 Questo verso non è terminato. 3 Celebre Archivio in Firenze ove si conservano preziosi documenti di storia patria.

L’ARRUFFA POPOLI

Ateo, salmista, apostolo d’inganno
Vile, se t’odia, se ti palpa, abjetto,
Monco al ferro, centimano al sacchetto,
Nel no maestro di color che sanno;

Sotto l’ammanto dello stoico panno
Cela il cor marcio e ‘l mal dell’intelletto,
Invidïoso, oltracotante, inetto,
Libera larva di plebeo tiranno,

Tutto sfa, nulla fa, tutto disprezza,
Sonnambulo ha il cervello e la scrittura,
Sofista pregno d’infeconda asprezza,

Fecondità del mulo, a cui Natura
Diè forte il calcio e più l’ostinatezza,
Ed i coglioni per coglionatura.


ALLA MEMORIA DELL’AMICO
CARLO FALUGI
1833
ELEGIA

Anch’io del tempio fra i devoti marmi
Dunque l’estremo vale intuonar deggio
Al dolce amico con pietosi carmi?
Sacra è l’opra, ma tal che ben m’avveggio
Che saggio avvisa quei che della vita
Non cura i mali, perché teme il peggio.
Dalla pura sorgente dipartita,
L’alma si veste del caduco limo
Onde la dritta via spesso è smarrita.
Indi sazia sdegnando il tristo ed imo
Loco d’esilio, qual sottil vapore,
Lieta si riconduce al centro primo.
Allor perdono i sensi ogni vigore,
E la fragile spoglia, a cui vien manco
Virtù motrice, illanguidisce e muore.
Giunge di tacit’ali armata il fianco
l’età fugace, e balda in suo diritto
Sperde ciò che riman del cener stanco.
Ma impressa nella mente dell’afflitto
==>SEGUE
– Ma senta... – Non c’è ma, non vo’ sentire;
Ringrazi Iddio che siamo moderati;
Ché viceversa lo farei marcire
Nel maschio di Volterra... E non rifiati.
So vita e morte della sua persona...
E qui dove son io non si ragiona.
In questo punto il Commissario dà una strappata al campanello, e comparisce un usciere.
Senza processo, senz’essere inteso
Senza . . . . . . . . . . . .2
Costui mi porta in carcere di peso,
E mi ci tappa a tanto di chiavaccio.
Così mi trovo lì sotto sigillo:
E la ragione? Indovinala grillo.
Stenterello, uscito qualche tempo dopo di carcere, si mette a fare il tagliatore al giuoco del Faraone, e poi a far lo strozzino, e presta a un figliuolo di famiglia, o come suol dirsi, a babbo morto. Ma il male sta che invece di morire prima il padre e poi il figliuolo (secondo l’ordine naturale), muore prima il figliuolo, e Stenterello resta coll’obbligazione in mano. Un’altra volta poi, non avendo preso le precauzioni necessarie, è scoperto, arrestato, e condotto nuovamente al Tribunale.
Entro, e ti vedo nella stessa sedia
Lo stesso Commissario in carne e in ossa,
Quello, capite, che mi tenne in stia
Tre mesi a conto della polizia.
Ci siamo, dissi dentro di me stesso:
Se per un nulla mi trattò a quel modo,
Gesumaria, figuriamoci adesso
Che un’altra volta son tornato al chiodo
Sotto le ranfie di questo aguzzino
Colla nomèa di ladro e di strozzino.
E me ne stavo li rimpiccinito
Ad aspettare il lampo e la saetta;
Ma quello si mostrò tutto compito,
E menando la penna in fretta in fretta,
Mi disse: Eccomi veh! la pregherei
Di darmi due minuti, e son da lei.
Qui un’altra lacuna: ma sembra che il Commissario lo mettesse in prigione solamente pro forma. Il carceriere l’accolse con grandi complimenti.
E disse: Oh come sta? ben arrivato;
Si riposi, s’accomodi, via, bravo,
Un momentino e tutto è preparato.
       
==>SEGUE
EPIGRAMMI

Il Buonsenso, che già fu capo-scuola,
Ora in parecchie scuole è morto affatto
La Scienza, sua figliuola,
L’uccise, per veder com’era fatto.
* * *
Gino mio, l’ingegno umano
Partorì cose stupende
Quando l’uomo ebbe tra mano
Meno libri e più faccende.
* * *
Il fare un libro è meno che niente,
Se il libro fatto non rifà la gente.
* * *
Chi fe’ calare i Barbari tra noi?
Sempre gli Eunuchi da Narsete in poi.

FRAMMENTI
1848

Di tenersi nel confine
Della propria intelligenza,
E l’umane discipline
E l’eterna sapïenza,
Ammoniscono le menti
D’ogni freno impazienti.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il divieto di quel pomo
Che, sedotta dal serpente,
Pregustato offerse all’uomo
La consorte incontinente;
E lo sforzo di Babele
Che confonde le loquele;
E Fetonte che alle prove
Si scottò la mano ardita,
E colei che fu di Giove
Nell’amplesso incenerita,
Fanno il saggio circospetto
Nell’ardir dell’intelletto.
Colla vista in alto assorta
Muove Empedocle le piante,
E cadendo non ha scorta

==>SEGUE

La voragine davante.
Che ti val studio del vero,
Se fallisci il tuo sentiero?
Che ti vale il forte acume
Della mente irrequieta,
Se t’abbagli in troppo lume,
Se sbattuto oltre la meta
Ricadesti in cieco errore
Per trascorso di vigore?
A ciascuno è dato un punto
Al suo sé convenïente:
O varcato o non raggiunto
Tu disperdi egualemente
La virtù che ti misura
Il Signor della natura.
Chi per manco di potere,
O per troppa lontananza,
Inesperto fromboliere
Non avvista la distanza,
Vide il sasso andar distratto,
O morire a mezzo il tratto.
Chi sostenne a forte altezza
Del pensier la gagliardìa
Moderò colla saviezza
Del saper la bramosìa,
E si mosse a certo segno
Colla foga dell’ingegno.
Nobilmente obbedïenti
Alla man che c’incammina
Siamo arnesi differenti
Di mirabile officina,
E fornire indarno spera
Uno solo all’opra intera.
E la vita una magione
Che c’è data a seguitare
Sul disegno del Padrone
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Quando il compito hai pagato,
Cedi l’opera; e conviene
Ripigliar l’addentellato
A colui che sopravviene;
E così di mano in mano
Acquistar l’ultimo piano.
Ogni secolo, ogni gente,
Lavorando alla diritta,
E pensando arditamente

==>SEGUE
GITA DA FIRENZE A MONTECATINI
1846
LETTERA A GIUSEPPE VASELLI

Sai che l’uomo propone e Dio dispone,
Come dice il proverbio (uno de’ mille
Che il popolo non sa d’avere in bocca;
E li regala a noi, gente d’attacco,
Pronta a farsene bella): avea promesso
Venire a Siena da Firenze, e teco
Chiudermi in villa, a succhiellar l’ottobre
Tranquillamente. Che ne dici? All’ergo
D’incamminarmi per Porta Romana,
Mi prese un dirizzone e venni a casa.
Se me ne chiedi la cagione, è detta
In due parole: Son figliuolo! ho visto,
Tutte le volte che di qua mi parto,
Pianger mia madre e mio padre, e lagnarsi
Di rimanere a tavola a quattr’occhi;
Mentre Ildegarda, la sorella mia,
Si maritò lontana ottanta miglia,
E me, puntello della casa Giusti,
Principe nato a ereditare il trono
Delle noje domestiche e de’ saldi,
O l’uggia, o gl’intestini, o il mal de’ nervi
Spingono in giro, come un arcolajo,
Nove, un anno per l’altro, o dieci mesi.
Solita fine de’ nostri e di noi!
Essi ci danno la vita, ci danno
Lume, soccorso, danaro, felici
Di contentarci, di vederci entrare
E stare a garbo in un mondo sgarbato,
Che duramente poi ci ruba a loro,
E mai del loro amor non ci compensa!
Torno al viaggio, e come fece Flacco
Del suo da Roma a Brindisi (quel Flacco
Che di sommo maestro e sommo porco
Fra’ poeti di corte ha la corona),
Te ne racconto i minimi accidenti,
Per celia; per veder se li so dire
Senza le gretterie de’ mestieranti.
Venni per Diligenza, o se tu vuoi
In uno di quei trespoli ritinti
* E battezzati poi per Diligenze1;
Nome francese, che con altri mille
Portati qua dagli usi oltramontani,
       
==>SEGUE


Cittadinanza dalla Crusca aspetta;
E l’otterrà: ché il cambio delle voci
Fra gente e gente, come l’ombra al corpo,
Tien dietro al cambio delle cose umane;
Né straniero vocabolo corrompe
L’intrinseca virtù d’una favella,
Quando lo stile riman paesano,
Quando il campo de’ versi e delle prose
Non è pestato vandalicamente
Dai nostri poliglotti. . . . . . .
* Grammatici di sarti e di stallieri.
Al contrattar de’ posti, un certo arnese
Incavernato in tondo a uno stambugio,
E che pareva un ragnolo, o il Minosse
(Come direbbe un Arcade, buon’anima)
De’ mezzani di ruote, assicurava.
Sulla santa onestà di casa sua,
Che comodo, pulito, ottimo il legno,
Lesti i poliedri, e più che galantuomo
Il vetturino, ci avrebbe in tre ore
Sbarcati al posto. Ed eccoti la biga,
Ch’avea figura d’una cazzarola,
Con due cavalli, anzi due cavallette
Di quelle di Mosè là dell’Egitto,
Che della pena di lasciar la stalla
Ansavan come mantici. Piovuto
Dalla croce sinistra del Calvario
Credei lo sciamannato Automedonte
Frusta-carogne; ma il cappello torto,
La ghigna, il pelo, il sigaro e il mal garbo
Mascheravan da birba un briacone,
Buon diavolaccio. Cinquanta facchini,
Cosacchi di Dogana e d’osteria,
S’avventarono addosso alle valige;
E caricando, inzeppando, legando,
Accatastando il misero bagaglio,
S’urtano e si scanagliano tra loro,
Con fitta ortografia di giurammii
Nuovi, arditi, da far testo di lingua.
Indugiammo, pagammo, contrastammo,
Poi c’infilammo dentro per la cruna
D’uno sportello, che non vi fu cristi
Che stesse mai né aperto né serrato.
M’era compagno un Potestà, Pilato
D’un paesuccio di questi contorni,
Che venuto a seccare il Presidente

       ==>SEGUE


Per crescita di paga, o per mutarsi
* A birreggiare in un altro pollajo,
Se ne tornava colle tasche piene
Del solito vedremo, penseremo:
(Verso che ho speso già nel Gingillino).
Era seco la moglie: una figura
Tra le due selle, né bella né brutta,
Né giovane né vecchia, e riportava
Alla Potesteria grave tesoro
Di fagotti e di scatole, con dentro
Cuffie, ciarpe, cappelli e vestitini,
Da fare invidia a quante bottegaje
Vanno le feste alla messa cantata.
Accanto a me, dal lato delle brenne,
Una povera donna montanina
Lieta recava al petto un trovatello
Preso là nel buglione, ove s’insacca
Dal matrimonio e dallo stupro a gara,
O legittima o no, l’umana carne.
Oh benedetta, miseri innocenti,
La pubblica pietà che vi ricovra
Nudi, piangenti, abbandonati! A voi
Il casto grembo della cara madre,
E del tetto paterno il santo asilo,
Che dà l’essere intero, e dolcemente
L’animo leva a dignità di vita,
Error, vergogna, delitto e miseria
Chiuser per sempre! Crescerete soli,
Soli all’affetto e malsecuri in terra;
Al disamor di genitori ignoti,
Come la pianta che non ha radice,
Maledicendo! – Prendemmo le mosse
Con un chiocco di frusta e un gran sagrato
Che tuonò da cassetta: e allor tra noi
Strimizziti in quel bugno, incominciò
Un incrociar di gambe, un tramenio
Di pastrani, di scialli e d’altri cenci,
E un baratto di scuse e di lamenti,
E di profferte fatte a mal in cuore.
Parlai col Potestà del più e del meno,
E ci tastammo reciprocamente,
Egli su i liberali, io sulle spie.
Conobbi al fin de’ conti esser costui
Uno dei tanti che posti a ciucare
Sotto un governo di scrivani, tirano,
A dare un colpo al cerchio, uno alla botte,

==>SEGUE
E a morir giubbilati e pensionati:
Chi casca casca, e rimanga chi vuole:
Esso, dal canto suo, sentì l’umore
O lo sapeva: insomma delle somme2,
Io rispettai l’impiego, esso l’Italia,
E passammo la strada in santa pace.
Giunti al Poggio a Cajano, un brulichìo
Di livree, di galloni, e di soldati,
Segno ci fu che fosse Su’ Altezza
Passato in villa e a rimettersi in gamba,
Dalle paralisìe governative.
Lì m’aocchiò di volo un segretario
Di quelli da campagna, e dal cancello
Ratto mi salutò con quel saluto
Dell’uom che dice: guardami e va’ via.
Andai. La grave nebbia che ponzava
Fino dall’alba, incominciò di vena
A liquefarsi in lentissima pioggia,
Fredda, spessa, minuta, come quella
Che cade al mesto cader delle foglie,
E si suol dire che gabba il villano:
E a me che soffro di paturne, e un suono,
Un detto, un cenno, un varïar di cielo
Rivocano alla mente i casi andati,
* Quel piover lento ricordò la stanza
* Ov’io là nell’autunno i dì piovosi
Rallegrava con te, sacro Alighieri,
Con te che le toscane corde armasti,
E suon rendesti alla romana lira,
Che per lungo silenzio parea fioca:
Ma più alto d’Omero, e più di quello
Che ti fu guida giù nel cieco mondo,
E su pel monte che l’anime cura,
Non tanto il forte imaginar ti leva
E l’impeto di larga onda vocale,
Quanto la nuova, che da Dio ti venne,
Luce intellettual piena d’amore,
E ti rapì dal senso al primo vero,
All’eterno del tempo. Oh come allora
M’inebrïasti della tua parola!
Come l’ingegno incerto illuminasti!
Teco il solingo amante onde a Valchiusa
Manda sospiri ogni anima gentile;
E teco era colui che di portenti
E di sogni e di fole empiè le carte,
A perigliosi voli affaticando

       ==>SEGUE
Mirabilmente l’italica musa.
La vereconda, nell’ardita foga
Scompose i veli e palpitò sovente
Della caduta; e poi ch’ebbe condotto
Per man Torquato a più battuta cima,
Sazia cessò molt’anni, e si nascose.
La Potestessa invece, a intorbidarsi,
A fare un viso di dolor di corpo,
A guardar fuori per aria, e contare
Le nuvole e le gocciole, e pregarci
Di gridar, ferma, e chiedere se bene
Erano assicurati, eran coperti
I bauli, le scatole, i fagotti
Dietro, sopra e davanti. E il vetturino
E noi tre (il Potestà, la balia ed io)
A consolarla, a dire, a spolmonarci
Che tutto era tappato, arcisicuro,
Che nemmanco il diluvio universale
Le avrebbe fatto l’avarìa d’un nastro.
Fiato perduto: – quanta fu la via
Un muso, un fiotto, una continua smania.
E siccome la donna è timorata,
Ossia fa bestemmiare e non bestemmia,
Rispettato Messer Domine Dio,
Se la prese col tempo, colle miglia,
Con sé, colle carogne e col marito,
Che un po’ rideva, e un po’ scoteva il capo.
Intanto quella rozza montagnola
Che traboccava di latte e sentìa
Del colmo petto il pondo e le punture,
Allettava alla poppa il bambinello,
Che nato il giorno innanzi, ancor capace
Delle mamme non era. Ed essa, fatta
Dell’indice e del medio una forcella,
Tenea schiusi i labbruzzi all’inesperto,
E l’accostava al seno e lo ninnava,
Con baci e baci, come fosse suo.
Quel dolce atto amoroso, a me sì caro
E al Potestà, parea che stomacasse
La vana femminuccia imbestialita
Per l’eleganze sue pericolanti.
Qui, per modo di dire, al pover uomo
Chiesi se avea figliuoli; e la Signora:
No, grazie a Dio. – Sorrisi amaramente:
Nessun fiatò; la contadina intese.
Così Pistoja, tra l’acqua e la mota,
La sconquassata Diligenza varca,
Lenta scricchiando e tentennando, al passo

       ==>SEGUE
Di certi serenissimi Governi,
E ci depone a un trivio. Alla sua strada
La balia se ne va colla vettura,
Dormendole sul braccio il dolce peso;
Il Potestà per una via traversa
Mena la moglie al covo; io per un’altra
Cavalco al mio pinacolo, con sotto
Una sella da farci i semicupi
E un Brigliadoro che gira il frantojo,
Fratello nato di quegli altri due.
Mi segue un contadin di Fattoria
Che mi discorre d’olio e di bestiame,
E mi domanda quando piglio moglie;
Sfruconandomi dietro il palafreno
E ansimando su su per la salita
Con un sacco in spalla, ove son chiusi
Dante, Virgilio, Giovenale, un rotolo
Di fogli rabescati, un libricciolo
Di mezza serqua di sonetti, dono
D’un manescalco del cavallo alato.
E con questi altri arnesi alla rinfusa,
Giubbe, panciotti, pantaloni e guanti,
Come conviensi a un animale anfibio
Tra la dottrina e la galanteria,
Su su, su su, mi trovo scaricato
Nelle braccia dei miei: poi sul guanciale
Che da tant’anni sa d’un capo infermo
Le vespe, i grilli, i nodi e le girelle:
E fortuna per me che non le dice!
Quassù, leggo, girandolo, mi fermo,
Estatico dall’alto ai colpi d’occhio,
Colla testa lì meco, o chi sa dove;
E a volte penso, rumino, almanacco
Viaggi, amori e versi come questi;
O mi figuro di starmi con voi3
A dire a mente le mie bizzarrie,
A riandar le classiche bellezze,
A passeggiare, e disputar del Papa,
Spiraglio aperto in barba a Metternicche.
_____________________________________________

1 I versi così segnati, si trovano con asterisco anche nell’autografo; forse il Giusti vi voleva tornar sopra con la lima. 2 Si legge sotto la cancellatura, e dopo questo verso: Esso dal canto suo, chiaro e lampante/ Vide d’averla a far con un poeta/ Che sa di pagar l’estimo, e la bocca/ Solito d’ungere alla sua scodella,/ Le butta là come le pensa. In fondo/ Io rispettai, ecc. Montecatini, 18 ottobre 1846. 3 Questa epistola era da prima diretta al Vaselli, e a Francesco Silvio Orlandini.

ADDIO1

Addio per sempre, albergo avventurato,
Soave asilo di gioja e piacer:
Teco abbandono il più felice stato.
Ogni speranza, ogni dolce pensier.
Ti resti eternamente
Quest’anima dolente:
Soave albergo di gioja e di amor,
Teco abbandono la pace del cor.
Da te lontano empio destin mi mena,
E mi divide per sempre da te.
Andrò ramingo in qualche ignota arena,
Le tue memorie portando con me.
Lunge da te sgradita
Mi sembrerà la vita:
Soave albergo di gioja e d’amor,
Teco abbandono la pace del cor.
Da te mi parto, e poi mi volgo addietro,
E della vista staccarmi non so:
Al ciel sospiro, e lagrimando impetro
Quella fermezza che in petto non ho.
Ah tu, chi sa se mai
Tornar mi rivedrai!
Soave albergo di gioja e d’amor,
Teco abbandono la pace del cor.
Intatto serba il peregrino fiore
Che il ciel cortese t’elesse a serbar:
Basti alla sorte il lungo mio dolore,
E il caro aspetto non giunga a turbar.
Felice asilo, addio!
Ti resti l’amor mio.
Soave albergo di gioja e d’amor,
Teco abbandono la pace del cor.
_______________________

1 Questa poesia fu messa in musica e si cantava in tutta Italia nel 1848 insieme alle canzoni patriotiche.


PER LE NOZZE
D’OLIVO GABARDI E D’ISABELLA ROSSI
1841
ODE

D’affetti, di pensier, di nomi nuovi
Or lieta, or mesta, muovi
A diverse contrade, ad altre genti,
E noi lasci dolenti
Qual di cosa smarrita
Che più soave ci facea la vita.
I pellegrini objetti
Dal segno del dolor disvieranno
Te dolcemente tacita e pensosa;
Ma noi rimasti qui pieni d’affanno
Ti tenderem le braccia
Con quel mesto desìo che senza posa
Vola d’un ben perduto in sulla traccia.
Oh ti conceda il cielo
E pace e fede non corrotta mai!
Già già ride il futuro a te di pure
Gioje e di care imagini leggiadre. –
Alle solenni cure
E di sposa e di madre
Nei giorni della gioja e del dolore
Ti guidi sempre e ti conforti Amore.
_________________________