CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS













































Arturo Graf


LE RIME
DELLA SELVA

3



DOMANDA E RISPOSTA

Una domanda oziosa
Che io mi fo tal fïata:
C’è ancora al mondo una cosa
Ch’io già non abbia assaggiata?

Se c’è, ci sia. Di gran cuore
La cedo a ognuno, senz’aggio:
So troppo bene all’assaggio
Quale ne sarà il sapore.



ALL’ACQUA MORTA

Lucida sei? Non importa.
Chiusa tra scabri vivagni,
Muta ed immobile stagni.
Sei lucida, ma sei morta.

Lucida sei, ma di vetro.
Ah, quel tuo scuro nitore,
Dove non passa un tremore,
Quel tuo nitor, com’è tetro!

Invan l’arbusto fiorito
Piega, a baciarti, i suoi rami:
Tu ne rifletti i ricami,
Ma non intendi l’invito.

Invan la rondine sale
E poi su te s’abbandona:
Tu, spera gelida e prona,
Non fremi al tocco dell’ale.

Invan sui campi fiorenti,
Invan sull’erte e le gole,
Dall’alto sfolgora il sole:
Tu non lo vedi, nol senti.

Tacita posi ed assorta.
Non fiato appanna il tuo specchio;
Non suono giunge all’orecchio...
Lucida sei, ma sei morta.



SULL’ERBA

L’erba è una buona cosa
Per l’insetto e pel branco,
E ancor per l’uomo stanco,
Per l’uom che si riposa.

Mentr’ei siede sull’erba,
Fuor dell’usata gabbia,
Ogni rancor ch’egli abbia
Si smorza e disacerba.

Mentre supino giace
Sui flessuosi steli,
Vede nell’alto i cieli
E può sognare in pace.

Si rizza a lui dattorno
Qualche succinto fiore:
Vive il fior poche ore;
Vive l’uom qualche giorno.

Una minuta plebe
Ivi presso fatica:
Come l’uom la formica
Si struscia per le glebe.

Adagio un grillo miete;
Vïaggia nel rigagno
Una chiocciola; il ragno
Distende la sua rete.

Tra’ fuscelli si spalla
Una lumaca inerme:
Ronza un moscone; il verme
Disprezza la farfalla.

E l’uom che si riposa
Sente d’esser fratello
Del verme e del fuscello
E d’ogni nata cosa.

Mentr’ei giace sull’erba
Nauseato, sfinito,
Gli passa ogni prurito
Ed ogn’idea superba.

==>SEGUE


Mentr’ei stassi a giacere,
Vede fuggir per l’aria
L’illusïone varia
Delle nubi leggiere.

Mentr’ei giace supino,
Vede assai lunge il cielo;
Sente, fra stelo e stelo,
La terra assai vicino.

AL FIORELLIN DI MEMORIA

O tenero fiorellino,
Che su pei margini ignudi,
E lungo i rivoli, schiudi
Il picciol occhio turchino.

O fiorellino, che cosa,
Senza dir nulla, ricordi
Ai pigri, ai sordi, ai balordi,
Alla ciurmaglia oblïosa?

Non sai che a molti dispiace
Rimescolar le memorie;
Aizzare con vecchie storie
La coscïenza che tace?

Non sai che a molti è importuno
Quel razzolar nel passato,
Dopo d’aver desinato,
O la mattina, a digiuno?

Vive nell’ora presente,
Nell’ora corta e declive,
Senza saper come vive,
Per la più parte, la gente.

O fior dell’anima, serba
Il mite olezzo alla bassa
Proda, al rigagnolo, all’erba,
All’aura vana che passa.

SCIOPERO

La notte scorsa il mio core
Batteva stracco, indeciso;
Poi si fermò d’improvviso,
E stette fermo quattr’ore.

Quattr’ore buone. La cosa
Vi farà forse stupire,
E anche a me, s’ho da dire,
Parve un tantin curïosa.

Mah! ora scioperan tutti,
Tutti gli afflitti e gli oppressi...
Se scioperassero anch’essi,
Qualche volta, i farabutti! —

Io, gli dicevo: Fratello,
Non far così; non è un modo.
Mentre si struscia il cervello,
Tu te la dormi? — e lui sodo.

Io gli dicevo: Figliolo,
È troppo contro al diritto
Ch’egli, il cervello, sia solo
A travagliare: — e lui zitto.

Io gli dicevo: Compare,
Pensa un pochino al futuro.
Non vuoi tu più lavorare?
Che vuoi tu fare? — e lui duro.

Allor, poiché non sentivo
Di star né meglio né peggio,
Dissi: A me par d’esser vivo...
O quasi... infatti verseggio.

Dissi eziandio: Pazïenza!
Si levi pure il capriccio.
Il core, in fondo, è un impiccio:
Se ne potrebbe far senza. —

Ma, dopo lunga dimora,
Il vecchio cor sonnolento
Prese a picchiar lento lento,
E vedi qua, picchia ancora.






Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
Arturo Graf
(1848-1913) e
Giacomo Leopardi (1798-1837)
_________

di Ayleen Boon
__________________
Leopardi e Graf

In questo capitolo cerchero di spiegare quali sono le differenze tra Leopardi e Graf nelle loro correnti e nei pensieri filosofici, e nelle differenze e le analogie nell.uso de luoghi poetici da parte di Graf e da parte di Leopardi.

Differenze e analogie:
Le idee e il modo
di usare i topoi

Per capire le differenze e analogie nel modo di usare il topos, dobbiamo analizzare le idee e la filosofia di Graf. La concezione pessimistica del poeta ha una duplice origine; si e sviluppata da un.innata deviazione della mente (cioe proprio una malattia psicologica) e dall.influenza dei poeti Leopardi e Baudelaire; quest.ultimo poeta infatti e predominante e la maggior parte dei suoi lavori tristi sono stati composti mentre stava camminando metaforicamente nel suo giardino avvelenato e artificiale. In Leopardi prevale una perfezione classica, sfumata pero con un pathos romantico. Le poesie di Graf lasciano il disgusto nel cuore, e non con quel senso di un.enorme bellezza che, come in Leopardi, s.erge sopra la sua desolazione disperata. La differenza tra Graf e Leopardi si trova nella raffinatezza dei pensieri e nella melodia dell.anima della poesia. In Graf sta crescendo il pensiero malvagio nelle tenebre, silenzioso; lentamente riempie tutta l.anima smarrita. Ho visto che il poeta ha un gusto malato per la bruttezza e per il bizzarro e il macabro. A parte questo, alcune delle sue poesie sono poco realistiche e piene di fantasie. La sua mente e uno specchio, offuscato dalla nebbia del dubbio, dai pensieri scuri, dalle idee incongruenti, in base alla filosofia di Schopenhauer. Come esuli volontari, questi filosofi si ritirano dal mondo degli uomini, e mantengono fino all.ultimo sospiro la loro attitudine nemica contro la vita. Graf riconosce in se un fiero spirito ribelle, duro per se stesso, nato per essere la sua rovina e per causare disagio agli altri. E terrorizzato dal potere di forze inspiegabili, dall.immensita dello spazio dove ogni cosa vede la nascita e la morte di innumerevoli mondi, i quali vengono buttati nei .golfi inesplorati. delle .fontane inesauribili e ardenti. dell.abisso. Parla dell.orrore dell.oceano infinito e senza fondo nel quale, per sempre, le ore passano e spariscono e nel quale l.eta muore. Egli parla anche del cielo nero e profondo, in cui la vanita del mondo, clamorosa e variopinta, svanisce come la nebbia.
Nella sua concezione, l.universo diventa per lui un enigma odioso; nei suoi incubi lui si perde nei boschi, dove la morte lo aspetta; il poeta vaga sulle pianure desolate, lungo le paludi grigie; egli si eleva nello spazio senza limiti, dove le stelle si sono diffuse come la polvere dei fiori. Ed egli si paragona a una meteora ardente, che vola attraverso il buio pauroso della notte infinita. La poesia diventa per lui un tormento, un immenso dolore. Leopardi invece non ha una testa cosi ribelle e despotica come quella di Graf. Egli e in grado di vagheggiare le sue illusioni piacevoli, le segue e le ama ed e triste quando viene riportato alla realta che distrugge i suoi sogni perche in lui domina il sentimento. Leopardi sa distinguere la fantasia dalla ragione, ma quando vive la vita dove predomina la ragione, il suo cuore cerca di contraddirlo e lo conduce ai mondi diversi, nei suoi sogni. Il cuore o il sentimento di Graf non ardisce di contraddire la ragione. Ha soltanto il sentimento .della tristezza invincibile di chi sa di vivere senza utilita e senza scopo..78 Leopardi riesce a pensare che finche l.immaginazione e il sentimento sono vivi, nascono nel pensiero care illusioni che spingono alla vita, come nei popoli e negli uomini giovani. E quando c.e la forza di immaginare, di sentire o di amare, il male della scienza si puo signoreggiare ed egli puo scappare dal mondo intellettuale. E chiaro che per loro due rispettivamente la luna e il mare ricoprono un ruolo importante e li trovano il loro conforto per la mente triste. I due poeti fanno entrambi un viaggio mentale nel passato, si lasciano tutti e due portare in un altro mondo per cercare il .perche. della vita. Essi pensano che la vita terrena sia senza scopo, sia inutile e questo li fa sentire tristi. Per Graf questa tristezza e invincibile, non trova una soluzione per superarla. Ma, come accennato prima e chiaro nella poesia di Leopardi, egli si perde nel sentimento e nei suoi sogni: Anche se il poeta sa bene distinguere la fantasia dalla verita, in quel momento i sogni sembrano la verita ed egli vive dei momenti di felicita, pensando al passato. Il viaggio grafiano invece e una .simbolizzazione della morte, un.allegoria tragica della vita sospinta da una tenace e delusa speranza a schiantarsi contro il nulla finale..79 Questo l.abbiamo visto anche con l.uso del termine .naufragare nel mare. in Medusa e ne .L.Infinito.: mentre Leopardi gode il momento dei suoi pensieri infiniti che lo portano via, Graf conclude che la vita sulla terra e solo lo schantarsi contro il nulla. Non puo godere totalmente quel momento di ricordare momenti dal passato.
Se analizziamo la descrizione del mare .come abbiamo visto nel secondo capitolo- il mare di Graf non e un mare bellissimo, tranquillo e colorato. Esso viene sempre descritto in modo tragico e terribile; presenta sempre un viaggio pauroso e misterioso, che finisce con lo schiantarsi contro la morte. Dopo aver paragonato le differenze tra l.uso e la descrizione della luna di Leopardi (calma dolce e amorosa) e il mare di Graf (sinistro,oscuro e misterioso), potremmo dire con Anna Dolfi che il mare di Graf e .una luna sanguinolenta.80, invece della luna dolce di Leopardi.

Conclusione

In questa tesi ho provato a trovare una risposta alla domanda seguente:
Il ruolo del mare in Medusa di Graf ha la stessa funzione della luna ne I canti di Leopardi? Entrambi sono luoghi di conforto? Ci sono anche delle differenze tra i due poeti nel modo di esprimere questo concetto di conforto?
Per rispondere a questa domanda bisognava approfondire le differenze tra i due poeti, cresciuti in diverse fasi del periodo del Romanticismo in cui l.uomo riscopre quello che esiste fuori dalla capacita della gente: l.infinito. I filosofi hanno cercato di confrontarsi con quel fenomeno, sperando di trovare un significato alla realta. Come ho detto nell.introduzione e proprio di un romantico soffrire per l.esistenza umana vuota e senza senso e vedere la vita piena di infelicita e imperfezione, e per questi motivi andare a cercare altrove la propria felicita: nei sogni e ideali, nel passato e nella natura.
Il Romanticismo ha influenzato entrambi i poeti. Nel mondo stanno cercando la risposta alla questione: .qual e lo scopo della vita sulla terra?. Dal momento che nessuno e in grado di dar loro una risposta, vanno a cercarla altrove: come abbiamo visto Leopardi nella luna e Graf nel mare. Questi sono i loro topoi naturali, dai quali sperano di trovare una risposta. In realta questo e un viaggio mentale, che entrambi i poeti compiono. Visto che ne la luna ne il mare sono in grado di parlare con loro, il viaggio e un viaggio interiore: Graf e Leopardi ci riflettono e pensano in modo filosofico alla vita che vivono. Ma abbiamo anche visto che entrambi i poeti prendono gia un po.di distanza dal Romanticismo: cominciano a scollegare l.unita tra l.uomo e la natura. Non vedono piu la natura come un testimone per l.essere del poeta, ma una presenza indifferente. Graf e piu sperimentale di Leopardi. Leopardi osa distaccarsi un po. dal romanticismo, Graf prende elementi da altre correnti come il Simbolismo e La Scapigliatura.
Abbiamo visto nel primo capitolo che Leopardi e in grado di lasciar perdere i suoi pensieri razionali ed egli e in grado di vagheggiare le sue illusioni piacevoli, le segue e le ama ed e triste quando viene rigettato nella realta che distrugge i suoi sogni perche in lui predomina il sentimento. Condivide i suoi sogni con la sua amica luna, che ammira e ama con tutto il suo cuore, perche e la stessa luna con cui parlava anche quando era giovane; e stato l.astro che c.era gia nel passato con cui ha condiviso tutti i suoi segreti. Proprio questo sentirsi giovane e per Leopardi molto piacevole: il fatto che la luna riesce a portare i pensieri del poeta al passato, lo fa sognare di ritornare a quando era piu giovane, pieno di felicita e allegria. Si puo dire, come abbiamo visto, che la luna e un posto fuori dal mondo umano che e in grado di dare conforto a Leopardi e ai suoi lettori. Anche Graf ha la sua fonte d.ispirazione: il mare. Il riflesso nell'acqua del mare e riflesso dell'anima. Graf usa il mare per fare un tuffo nell.acqua infinita e fare un viaggio mentale, sperando di trovarci la verita della vita; riflettendosi nelle sue acque, pensando alla vita dell.uomo. Graf cerca di godere il momento di riflettere e tornare al passato, ma non ci riesce sempre; arriva sempre alla conclusione pessimista che la vita sulla terra e senza scopo ma e solamente un viaggio verso la morte.
Come abbiamo visto nel secondo capitolo, non si puo dire che il mare e come la luna di Leopardi. Nell.introduzione ho scritto che i poeti che sono nati dopo il disastro del Vesuvio nel 1826, non descrivono piu la natura come una fonte di bellezza ma questa diventa un tema lugubre e triste. Come ho descritto prima, entrambi i poeti mettono l.uomo opposto alla natura, ma Leopardi ci riesce ancora a valorizzare qualche elemento naturale. Pensiamo alla poesia .La Ginestra.(1836)81 nella quale dichiara che l.uomo e da sola; in generale non significa niente in paragone con la natura. Pero, in questa tristezza, Leopardi ci riesce a ammirare una pianta, la ginestra, che cresce sulla colle del Vesuvio: questa pianta riesce bene di mantenersi in vita. A parte questo, Graf aveva una grande affinita con gli scrittori del Decadentismo (come Baudelaire), i quali usavano un tono tetro. Come sappiamo dal capitolo 2, Graf si e fatto ispirare dal profondo pessimismo di Leopardi che appartiene al Romanticismo; egli canto gli aspetti piu tragici e angosciosi della vita con una predilezione per il tema del dolore desolato, della morte e della natura. Ma possiamo dire che Leopardi e proprio un pessimista, se conosciamo anche il modo di scrivere di Graf? E quali sono le differenze nel loro pessimismo? Dopo aver analizzato le loro poesie, direi che le poesie di Graf sembrano piu apocallitiche e cupe in confronto con il pessimismo di Leopardi: dato che per Leopardi esistono momenti di gioia, di felicita, di piacere quando si abbondona alle illusioni, ai sogni e vola nei pensieri al passato, il che gli da un forte sentimento di conforto. Abbiamo osservato che Graf descrive il suo mare come un posto orribile; e scuro, ci sono gli abissi, c.e sempre una tempesta. Quindi per Graf l.intelletto domina sui sentimenti, non e in grado di trascinarsi nei sogni o nella fantasia. Questa differenza viene anche rinforzata dal fatto che Graf e stato influenzato dal Simbolismo. Come ho detto prima, i simbolisti avevano l.idea fondamentale che sotto la realta si nasconde una realta piu profonda e misteriosa quindi nella poesia usano oggetti simbolici che hanno tutto un significato magico, le descrizioni dei paesaggi sono piu scure, vaghe e indefinite. E spesso la natura viene descritta come una natura .matrigna. Come simbolo, Graf compara la vita dell.uomo con un battello sul mare, che alla fine ha un solo scopo: incontrare la morte.
Si potrebbe concludere dunque che il ruolo dei diversi topoi e paragonabile, che l.uso dei topoi avviene sia in Graf che in Leopardi con lo scopo di cercare un rifugio, un luogo che li metta al riparo dai loro tormenti e nei quali possano partorire riflessioni, ma e chiaro che lo esprimono in modo diverso appartenendo a correnti diverse.
ARPA EOLIA

In vetta all’antico pino,
Che l’erma rupe incorona,
Un’arpa eolia risuona
Nel silenzio vespertino.

Risuona e canta. Le note
Limpide, blande, leggiere,
Pajon venire da sfere
Immensamente remote.

Il sol dilegua. Dal fondo
Della vallata, a ponente,
Sale un velario di lente
Nebbie nel ciel rubicondo.

E il dolce murmure arcano
Sembra, dal verde rialto,
Chiamar in alto, più in alto,
Sempre più in alto e lontano.

Oh, strazïante dolcezza
Di canto senza parole,
Nel dileguare del sole,
E dentro al cor che si spezza!



IL MIO ROMITAGGIO

Su questo monte selvaggio,
Vicino a questa sorgente,
Vorrei, da buon penitente,
Avere il mio romitaggio.

Oh, poca cosa! una coppia
Di camerette piccine,
Un uscio e due finestrine,
Sotto un tettuccio di stoppia.

Accanto, un po’ d’orticello,
Pien di legumi e di fiori,
Fiori di tutti i colori,
Con qualche verde arboscello.

Ancora, su un davanzale,
All’aria, al sole, un modesto
Vaso, o vogliam dire un testo,
Di maggiorana nostrale.

Ancora, in luogo di musa,
Un micio peso e poltrone,
Da carezzargli il groppone
E fargli fare le fusa.

E basta. Che c’è bisogno
D’altro? Io, quando mi vedo
In mezzo a troppo corredo,
Io, che ho da dir? mi vergogno.

Mi sembra d’essere allora,
Non il padrone, ma il servo,
E m’avvilisco e mi snervo
Dove più d’un si ristora.

Starei quassù tutto l’anno,
Come un asceta giocondo
Ch’abbia detto addio al mondo
E a quei che dentro vi stanno.

Come un Padre del Deserto,
Che appaia sereno in volto,
Dopo aver vissuto molto,
Dopo aver molto sofferto.

==>SEGUE

Questi uccelletti folletti
Mi sveglierebber col canto,
E io, da povero santo,
Benedirei gli uccelletti.

L’acqua berrei della fonte;
Piluccherei con piacere
Le bacche rosse, le nere,
E andrei a spasso pel monte.

Andrei moltissimo a spasso,
Lavorerei poco o nulla,
Essendoché dalla culla
Alla tomba è un breve passo.

E se un ricordo importuno
Mi succhiellasse il cervello,
Ne lo trarrei via bel bello,
Come si fa con un pruno.

E se un malvagio appetito
Venisse a pungermi in letto,
Lo schiaccerei con un dito,
Come si schiaccia un insetto.

Non aprirei mai un libro;
E metterei da una banda
Ogni pensiero e dimanda
Di troppo grosso calibro;

Sapendo il male che fece,
Ab antico, alle brigate
La troppa scïenza. Invece,
Starei le mezze giornate

Ad ascoltare il susurro
Del vecchio bosco, a guardare
L’erbe, i fiori, l’acque chiare,
Le nuvole, il cielo azzurro. —

Bipede di polpe e d’essa
(Assai più ossa che polpe),
Commisi anch’io le mie colpe,
E alcuna forse un po’ grossa.

Ma non perciò mi sgomento;
A tutto ci si rimedia;
E se un rimorso t’assedia,
Basta tu dica: Mi pento!

==>SEGUE

Eh sì, mi pento e prometto
Di non cascarci mai più,
E d’esser anzi perfetto
(O quasi) in ogni virtù.

Ogni mia mala azïone
Confesserei a me stesso;
Poi, col mio bravo permesso,
Mi darei l’assoluzione.

Ché uomo ben confessato,
E debitamente assolto,
Gli è come, per non dir molto,
Se non avesse peccato.

Sarebbe la mia preghiera,
Non latina, ma toscana,
Senz’arzigogoli, piana,
E soprattutto sincera.

Uscendo da un core sazio,
Non chiederebbe nïente;
Assai direbbe umilmente:
Signore Iddio, vi ringrazio.

Sì, vi ringrazio, e vi prego
D’usarmi un po’ d’indulgenza,
Quando alla vostra presenza
Verrò, finito l’impiego.

L’impiego (povere spalle!
Con quel peso andare attorno!)
L’impiego di perdigiorno
In hac lacrimarum valle. —

Verrebbe al mio uscio un cane,
Oppure il buon poverello,
E io gli direi: Fratello,
Eccoti un pezzo di pane.

Verrebbe un corvo alla mia
Finestrina, avido e torvo;
E io gli direi: Tu, corvo,
Sei nero e brutto: va via!

Capiterebbe il demonio
In forma di bella donna,
Con rialzata la gonna,
A offrirmisi in matrimonio.

==>SEGUE

E io gli direi: Mio caro,
Trova chi n’abbia ancor voglia;
Io... ho mangiato la foglia: —
E sai che il tempo è denaro.
















CONSIGLIO

Della fortuna più trista,
Come di quella più lieta,
Bisogna usar da poeta,
Approfittare da artista.

Volgere in proprio vantaggio,
E trasformare in bellezza,
Il male che ti scavezza,
L’errore, il danno, l’oltraggio.

Se ti parrà d’aver perso
Troppo mal la tua giornata,
Tu non segnarne la data,
Ma chiudila con un verso.

Se alcuno ti fa un dispetto,
Se qualcun altro t’inganna,
Se un terzo ti ruba: osanna!
Convertili in un sonetto.

Se qualche sciagura estrema
T’incoglie, ovver ti minaccia,
Tu bravamente procaccia
Di ricavarne un poema.





LO SPETTACOLO PIÙ TRISTO

Diceva un povero cristo,
Scampato dal serra serra:
Sai tu qual sia sulla terra
Lo spettacolo più tristo?

Lo spettacolo che ingombra
Più l’anima d’amarezza,
E fa che l’uomo s’avvezza
A prediligere l’ombra?

Quello d’un’anima umana
Che nella mota s’accascia,
O che si sgretola e sfascia
Come una vecchia tartana.

Quello d’un’anima in cui
Anneghi in putride gore
Ogni intelletto d’amore
Ed ogni luce s’abbui.

D’un’anima neghittosa,
Isterilita, restia,
La qual più altro non sia
Che tra le cose una cosa.

D’un’anima sorda e muta
Che gravemente ripiomba
Nel carcere, nella tomba
Della materia più bruta.

Ovvero, che schiatti, dopo
D’essere stata più gonfia,
Insazïabile e tronfia
Della ranocchia d’Esopo.

O sia come il razzo spento
Che casca, disfatto in nere
Briciole, dopo d’avere
Brillato in aria un momento.

Diceva un povero cristo,
Che spesso nella foresta,
China sul petto la testa,
Girandolava non visto.


EX VOTO

Questo mio core omai vuoto.
Nonché d’amore, d’orgoglio,
Questo mio core lo voglio
Appendere come un ex voto.

Appendere a un vecchio fusto,
Così che serva d’esempio
A maschi e femine; all’empio,
E (se mai càpiti) al giusto.

No, non è un core d’argento;
Ma questo che cosa importa?
Cori ve n’ha di più sorta,
E il nostro è un core contento.

Un core schietto, non doppio
A guisa delle cipolle;
Sebbene un po’ matto e molle,
Come chi fumi dell’oppio.

Un bravo cor che ha finito
Di sempre battere a ufo;
Un core tenero e stufo,
Ch’essendo morto, è guarito.


IL GIORNALE

Anche quassù, così lungi
Dall’urbe che mi coarta,
Provvido foglio di carta,
Anche quassù mi raggiungi?

Le care nuove del mondo,
Qua, fuor del mondo, mi rechi,
E il puro anelito e gli echi
Del suo tumulto giocondo?

La selva mormora al vento:
Sognando, un uom si riposa;
O esempio di bella prosa,
Tu giungi in un buon momento.

==>SEGUE
Vediamo. Due fogli sani;
Tre pagine in corpo sette;
Certe che pajon vignette
E la data di domani.

Ih, quanta roba! un emporio
Di ben vagliate notizie,
Di stuzzicanti primizie...
Roma, più Montecitorio;

Parigi, Londra, Berlino...
Il mondo vecchio ed il nuovo
Che si son dati ritrovo...
Il tutto per un soldino.

Un soldo, signori, un soldo;
E c’è persino la vera
Imagine, l’ottima cera
Del bravo re Leopoldo;

E quella della vezzosa
Attrice d’inclita fama,
Che insegna alla nobil dama
Un’acqua miracolosa.

Vediamo. Governo ladro...
I furti nei Ministeri,...
Fuga di quattro banchieri...
Un municipio a soqquadro...

Sciopero in un ospedale...
Sciopero dei vetturini...
Sciopero degli spazzini...
E sciopero generale...

Lo czar di cattivo umore...
Il re di Grecia infreddato...
L’imperatore è arrivato...
Riparte l’imperatore...

Una real principessa
Che scappa con un pagliaccio...
Un prete che tende il laccio
Alle donne che confessa...

==>SEGUE


La peste in India... Assassinio
D’una mondana a Parigi...
Prezzo di certi servigi...
Gli esteti del lenocinio...

Bisca... Falsi monetarii...
Stupro... Rapina... Ricatto...
Un matto... Un secondo matto.
Un terzo... Suicidii varii...

Un neonato in un cesso...
Un’avventura in un chiasso...
Processo... Scandalo... Scasso...
Sbornia... Processo... Processo...

Romanzi esotici, due:
L’uno dell’altro più ghiotto;
Memorie d’un galeotto;
Gomorra, ovvero la lue;

Tradotti dall’islandese
E dal cosacco, da uno
Che non dev’esser digiuno
Di qualche po’ di francese.

ANNUNZII. Uomini e cose.
Un solo terno per oggi;
Matrimonii; impieghi; alloggi;
Corrispondenze amorose.

Un elisir per chi ha sete;
Mobili a nolo; pastrani
Impermeabili; cani;
Stracci; malattie segrete.

Maestra d’arpa e di cetera;
Fotografie; signorina
Di bella presenza; tina
Usata, eccetera eccetera.

La selva mormora al vento:
L’uom che sognava per ozio
Pensa con raccoglimento
Che la stampa è un sacerdozio.
PICCOLA TOMBA

Ho poco fa riveduta
Quella sua piccola tomba,
Là, dove cinta di muta
Selva la rupe strapiomba.

Oh, così piccola come
Potrebbe averla un fanciullo!
La croce che guarda il nome,
La croce sembra un trastullo.

E il nome si legge appena
Sul grigio e ruvido sasso,
Che fra gli sterpi e la rena
Non è più lungo d’un passo.

Strapiomba l’alto dirupo,
A cui le nebbie fan velo:
Di sotto vaneggia il cupo;
Di sopra s’innarca il cielo.

Uomo di rado a quell’erma
Balza per l’orrido sale;
Di rado uccel vi si ferma,
Che stette a lungo sull’ale.

Ma i fior selvaggi che tanto
Ella da viva ebbe cari,
Le son cresciuti daccanto,
Vestiti di color chiari.

All’anima solitaria
Abbellan l’umile stanza,
E versan per lei nell’aria
La desolata fragranza.
NOTTE NEL BOSCO

Sogni leggieri, fedeli,
Cingete ancor la mia fronte:
Vigila il bosco sul monte;
Splende la luna ne’ cieli.

Splende la luna: i suoi raggi
Filtrano, lucidi, bianchi,
Tra i rami, striscian sui fianchi
De’ neri tronchi selvaggi;

E d’abbagliato chiarore
Empion gli sfondi lontani:
Stupore di mondi arcani
E d’incantate dimore,

Ove si velan di lento
E molle azzurro le selci.
E pajon l’umide felci
Tanti arboscelli d’argento!

Chiusa nell’ombra, una vena,
Che tra gli scheggi s’imbroglia,
Sommessamente gorgoglia
Una sottil cantilena;

E par che a faggi ed abeti
Antiche favole narri,
E adescamenti bizzarri
D’elfi e di silfi inquïeti.

Che son laggiù quei lucori
Così velati e sfumati?
Sono i miei dolci peccati?
Sono i miei teneri amori?

E quella macchia sì scura,
Dove più nulla si vede,
È la delusa mia fede?
È la mia mala ventura?

Un subitano sospiro
Passa con lena affannosa:
Dietro la vetta scabrosa
Piega la luna il suo giro.

Come in un sogno l’incerto
Lume dilegua, s’è spento:
L’anima errante del vento
Geme pel bosco deserto.
AD ANACREONTE

INTERLUDIO PSEUDOCLASSICO

O vecchio Anacreonte,
Che di fiori novelli
T’inghirlandi la fronte
E i canuti capelli;

E all’uno e all’altro iddio,
Dell’amore e del vino,
Chiedi in grazia l’oblio
Dell’umano destino;

Tu che in leggiere e molli
Strofe cantando ridi,
E ai vati rompicolli
Abbandoni gli Atridi,

E di Lajo la prole,
E le sanguigne scene,
Dove, imprecando al Sole,
Urlan le Furie oscene;

Tu m’insegna, cosperso
Di doppia ebrezza il viso,
Non l’arte del tuo verso,
Ma l’arte del tuo riso.

A COMARE MARTA

Tre cose aborro, comare:
Le chiacchiere inconcludenti,
L’adoperar troppo i denti,
E la musica volgare.

Perciò men vado. Lasciate
Spettegolare a distesa,
E merendare a ripresa,
Quest’oche addomesticate.

Lasciate la brava orchestra
Sgozzar le tenere note,
E flosce, lacere, vote,
Buttarle a sinistra e a destra.

Io me ne vado nel bosco
A ripararmi dal sole,
E a barattar due parole
Con gli alberi che conosco.

Con gli alberi e, se bisogna,
Coi tronchi morti, coi sassi:
Non fanno, ohibò, tanti chiassi,
E mai non dicon menzogna.

Molt’altre cose detesto,
Cara comare. Stamani
Tre ve n’ho dette. Domani
Vi dirò forse anche il resto.

IL CORE MI DISSE

Il core mi disse: Hai torto!
Perché volere a ogni patto
Che lo sperar sia da matto
E che il tuo core sia morto?

Sono malato? son vecchio?
Forse; ma morto non sono.
Il core ha questo di buono,
Che a sé egli solo è specchio.
IL BICCHIERE

O cara ostessa del Merlo,
Levate via quel bicchiere:
No, non ho voglia di bere,
E mi dà noja a vederlo.

A me che fa che sia nuovo
E risciacquato di fresco?
Mettetelo a un altro desco,
Perché io non mi commuovo.

Se adesso è nuovo e forbito
E lustra come uno specchio,
Tra un mese o due sarà vecchio...
E, allora, sarà pulito?

Volete che ve la dica?
Ho, per cacciare i pensieri,
Bevuto in troppi bicchieri,
Ed è una grande fatica.

E sempre, ostessa mia cara,
Ho poi trovato nel fondo,
Sotto il licore giocondo,
La feccia greve ed amara.

ENTUSIASMO MELANCONICO

Vaghe parvenze, leggieri
Sogni d’un tempo lontano;
Avventurosi pensieri,
Nodriti in silenzio, invano;

O trasmigrati dal mondo,
O sprofondati nel Lete,
Dal muto di là, dal fondo
Dei chiusi regni, accorrete.

Accorrete a me d’intorno
Con lieve fremito d’ale:
Già manca stremato il giorno;
Già l’ombra fumida sale.

==>SEGUE


Date a colui che a dormire
L’ultimo sonno s’appresta,
Nel dì che sta per finire,
Oh, date un’ultima festa.

Spargete quest’aer grigio,
Empiete l’anima mia,
Di vostro molle prestigio,
Di vostra dolce follia.

Fiamme di rossi tramonti,
Chiarori d’albe tranquille,
Snebbiate ascosi orizzonti
Alle mie stanche pupille.

Musiche antiche, frementi
Tra dense arbori, a specchio
Di chiare acque dormenti,
Sonate all’avido orecchio.

Tenere, sante parole,
Che mi parlaste d’amore,
Versate un raggio di sole
In quest’inverno del core.

Ridiserratevi o cieli,
O ben guardati riposi,
Delle memorie fedeli,
Dei sogni miracolosi.
LA NUVOLA

Nella luce remota
Che abbarbaglia il ponente,
Una nuvola nuota
E cala lentamente.

La luce è rubiconda,
La nuvola è cinerea:
La prospettiva aerea
Come una scena sfonda.

E la nuvola pare
Una nave perduta
Sulla distesa muta
D’un infinito mare:

Una gran nave antica
Che verso ignote rive,
Dove chi muor rivive,
Drizzi il corso a fatica.

Vedo la curva prora,
Vedo le spante vele,
E l’ancora fedele,
Che aspetta il giorno e l’ora.

Oh, tacito vïaggio,
Molle vïaggio in seno
Al placido sereno,
Dietro il fuggente raggio!

Nave che all’aure lievi
Spandi un vessillo bianco,
Al tuo bordo lo stanco
Spirito mio ricevi.
VOCE DEL PASSATO

Ahimè! la voce che viene
Dal sospiroso passato
È dolce come un rimato
Canto di vaghe sirene,

Che pei deserti del mare
Corra a dilungo, ove l’onde
Sulle voragini fonde
Rotan più torbide e amare.

Ma, come il tenero canto
Delle sirene bramose,
Che tramano in molli chiose
Un invincibile incanto,

La blanda voce stupita
Che vien dal passato vano,
Attira a sé di lontano,
Seduce fuor della vita.

SONNO INTERROTTO

Mi desto!... Perché? Dormivo
Così pacificamente,
Senza pensare a nïente,
Senza saper d’esser vivo!

Tutte sommerse nel nulla
E stemperate le forme,
Dormivo, come si dorme
Quando s’è ancor nella culla.

O cara luna che vesti
Del tuo candore le cose,
O amore d’anime ascose,
Luna, sei tu che mi desti?

Perché nella buja stanza
Versi il tuo pallido lume,
Pallido come il barlume
D’un’antica rimembranza?
==>SEGUE





Perché mi togli, importuna,
Al Sonno liberatore,
Al Sonno che ammazza l’Ore
E disarma la Fortuna?

L’Ore! famelici mostri,
Che non dan pace né tregua!
La Fortuna, alla cui stregua
E forza che ogni uomo giostri!

Perché con blanda carezza
Vieni a cercare il mio volto?
Dalle carezze s’è molto
L’anima mia disavvezza.

Segui tuo lento vïaggio,
O luna. Il tempo è passato
Che, vigile innamorato,
Io vagheggiavo il tuo raggio.

Il tempo è molto lontano,
E omai c’è di mezzo il mare,
Che al lume tuo m’eran care
Le notti vegliate invano.

L’USIGNUOLO

Nel bosco, ov’è più folto,
Seggo smarrito e solo,
E gorgheggiare ascolto
Fra i rami un usignuolo. —

Oh, come tutte omai
Le vili cose e vane,
Che delirando amai
Mi pajono lontane! —

Non alito fugace
Vola tra pianta e pianta
Lo scuro bosco tace
E l’usignuolo canta.

Canta sì dolcemente,
Ch’ogni ricordo infesto,
Ogni pensier molesto,
Mi fugge dalla mente.

Canta con tanto ardore
E tanto rapimento,
Che liquefar mi sento
Per tenerezza il core.

Torno all’età mia verde,
Torno a’ miei dolci sogni:
Il dì rinasce ed ogni
Tetro vapor disperde.

Vedo una dolce riva,
Vedo vallette ascose,
E fonti d’acqua viva,
E rose, rose, rose...

Ma un vento diaccio e fosco
Turba la cara pace:
Rabbrividisce il bosco
E l’usignuolo tace.



==>SEGUE
ANELITO

Un ciel di cenere. Piove.
La terra è tutta un pantano.
Vorrei fuggire lontano,
Sempre più lontano: — dove?

Ah, questa smania di fuga
Che a quando a quando m’assale,
E il pensier micidïale
Che dentro il core mi fruga!

Fuggire verso le plaghe
Eternamente remote,
Là dove l’isole ignote
Fioriscon lucide e vaghe

Sull’immutabile specchio
Del mare immenso, del mare
Cui tolse invano a solcare
La prua d’Ulisse già vecchio.

Cercar le terre del sogno
Onde siam vedovi ed orbi,
Le terre inospiti ai morbi
E all’esecrato, bisogno.

I regni del puro Amore
E della Pace serena,
E del Silenzio che frena
La danza lieve dell’Ore.

Scoprir dei numi defunti
Le impenetrabili stanze.
Dove le antiche speranze
Dormon sui giorni consunti.

Fuggir sull’ali del vento,
Fuggir con l’ultima luce,
Fuggire da questa truce
Oscurità di spavento.

Nel sacro asil della Morte
Raccorre il volo errabondo,
E all’ignominia del mondo
Serrare in faccia le porte.
SUL LIMITARE

La via finisce. Son giunto
Al tacito limitare.
Il giorno è quasi consunto,
La luce sta per mancare.

È dunque il giorno sì breve?
Sì fuggitiva la luce? —
Sogno dell’aria, una lieve
Nube nell’alto si sdruce.

Son giunto. A quale destino?
Per quali obliqui sentieri?
Quando mi posi in cammino?
Stasera? stamane? ieri?

La soglia squallida è sgombra,
È spalancata la porta;
Di là s’agglomera l’ombra,
L’ombra ov’ogni luce è morta.

Mi volgo indietro e sogguardo
Laggiù lontano, là in fondo;
Che cosa è mai quel beffardo
Fantasma di nebbia? il mondo?

È quello il mondo? Sciagura!
Chi dentro vi si travaglia,
Chi l’ama, chi n’ha paura
Non può saper quel ch’ei vaglia.

Vano fantasma di nebbia,
Che per parer qualche cosa,
S’agghinda e s’orpella e strebbia
Come una druda fecciosa.

Vissi. Già vissi? Che feci?
M’illusi, soffersi, amai. —
Quante ne amai? una o dieci?
Che feci? Forse sognai.

Forse sognai. Poco lieto
In ogni modo fu il sogno;
Torbido, greve, inquïeto
Alquanto più del bisogno.

==>SEGUE

Ora quel sogno dilegua;
Ma poi, se un altro sen forma?
Degg’io sognar senza tregua,
Comunque vigili o dorma?

O limitar, dammi accesso;
O porta, dammi ricetto;
Vi contemplai molto spesso
Con gli occhi dell’intelletto.

Imperscrutabile, immota,
Di là s’agglomera l’ombra;
Ma non qualcosa vi ruota?
Ma non qualcosa ne sgombra?

Come ogni lusinga è lunge!
Come ogni sofisma è muto!
Solo un rancore mi punge;
Vorrei non esser vissuto.

Nell’anima sitibonda
Solo un desio s’infutura;
Veder che cosa nasconda
L’ombra taciturna e scura.
ADDIO!

No, non mi lagno, non piango:
Addio, feccioso pianeta:
La miserabil mia creta
Può ritornar al tuo fango.

Io me ne vado. Le spine
Valgon le rose... Che giova
Ricominciare la prova?
Io me ne vado alla fine.

Dove? Lo ignoro. Lo spazio
È, per ventura, infinito,
Ed offrirà bene un sito
A chi della terra è sazio.

Addio, rifiuto dei cieli;
Addio, lezzosa cloaca,
Dove osannando si sbraca
La turba dei tuoi fedeli.

Più non m’avrai. Già m’avesti,
Non dico molto, ma troppo!
Ora da te mi disgroppo,
Prima che il giorno si desti.

Rimanti co’ tuoi cinedi,
Con le tue poche bagasce,
E i tuoi bertoni, onde nasce
Eterna schiatta d’eredi.

Con gli arruffoni sinistri,
Coi bottegai mariuoli,
Coi bari e coi borsajuoli
Di cui si fanno ministri.

Rimanti con gl’istrïoni,
Rimanti con gl’impostori,
Che ottengon tutti gli onori
Da un popolo di castroni.

Rimanti col falso vero
De’ tuoi maestri galanti,
De’ tuoi dottori ignoranti,
Che mostran bianco per nero.

==>SEGUE
Rimanti co’ delicati
Tuoi superuomini esteti:
Rimanti co’ tuoi poeti
Imbellettati, leccati;

Coi tuoi poeti modello,
Che stillano dal concime
Saporitissime rime
E stan di casa al bordello.

Rimanti col libro d’oro
De’ tuoi gran re piccolini,
Che si proclaman divini,
E s’incoronan d’alloro,

In premio delle battaglie
Che non han viste né vinte,
Ma che i pittori han dipinte
Per abbellir le muraglie.

Rimanti, putrida zolla,
Con le tue maschere sciocche,
Le tue grandezze pitocche,
La tua viltà che raspolla.

Rimanti col tuo malanno
E con la mala ventura,
Fondaco d’ogni sozzura,
Tetra fucina d’inganno.

Rimanti con l’ira imbelle
E con le antiche menzogne.
Cui sarian poche le fogne
Di cento Rome novelle.

Ecco, un incognito mare
Mi si distenebra a fronte;
Sullo snebbiato orizzonte
L’alba comincia a spuntare.

Io me ne vado. L’intrico
Che già mi tenne si snoda.
Addio, pestifera proda!
Ti fuggo e ti maledico.

EPPURE – NO!

Eppure — No! Vecchia patria
Del povero vecchio Adamo,
Del bramino, dello sciatria,
E ancor del paria, io t’amo.

Ingiusto è l’odio. Che giova
Ch’io mi divincoli e sciacqui?
Dalla contesa tua ghiova;
Dopo infiniti io pur nacqui.

Dalla tua polvere intrisa
Men di sudor che di sangue,
Dove la vita recisa
Sempre ripullula e langue,

Dopo infiniti consorti
Che fecer breve dimora,
E da gran tempo son morti
Com’io sarò tra brev’ora.

Patria mia maledetta,
Dove il mal seme d’Adamo
Fa contro sé la vendetta
Inconsumabile, io t’amo.

T’amo per l’azzurro blando
Che rasserena i tuoi cieli,
E per la nube che errando
Vi scioglie i candidi veli.

Per le dïafane aurore,
Per i focosi tramonti,
Che abbagliano di stupore
Gli sconfinati orizzonti.

Per le stellate tue notti,
Per la tua pallida luna,
Riscintillante sui fiotti
Degli oceàni in fortuna.

T’amo per l’ombra e pel verde
Sacro delle tue foreste,
Dove il mio core rinverde,
Di cittadin fatto agreste.

==>SEGUE
E t’amo per ogni cima,
Che fuor della nebbia greve,
Nell’aurea luce sublima
La castità della neve.

T’amo per i tuoi deserti,
Se pia la Fata Morgana
Lusinga i passi malcerti
Della lenta carovana.

E t’amo per i tuoi mari,
Immensità fremebonde,
Che di rigurgiti amari
Sempre affatican le sponde.

T’amo per le tue memorie,
T’amo per le tue rovine,
E per le povere glorie
Che così presto hanno fine.

Per i tuoi pochi piaceri,
Per i tuoi molti dolori,
Per gli umili cimiteri
Ove si dorme tra i fiori.

E t’amo per il destino
Di qualche cor generoso,
Che sogna un sogno divino
E mai non trova riposo.



SOLO

Solo!... Sdegnoso mio core,
Perché sì chiuso nel duolo?
Di questo mal non si muore:
Io dacché nacqui fui solo.

Soletto i vincoli infransi
All’agognante pensiero;
Scrutai soletto il mistero,
E in solitudine piansi.

Sempre m’incusse sgomento
La compagnia dello stuolo...
Fui solo all’opra, al cimento, —
E nell’amore fui solo.



LA VOCE

Dov’è più fitta la trama
Di questa selva remota,
Da lunge, a lungo, un’ignota
Voce mi chiama, mi chiama.

La voce è tenera e trista,
La voce è chiara e profonda,
Come una voce dell’onda
A un grido umano commista.

Io che a fatica trascino
L’anima stanca ed inferma,
Vengo! rispondo, e per l’erma
Selva cammino, cammino.

Cammino tra scure piante,
Per balzi e ripe, salendo:
Il luogo muto ed orrendo
Pare la selva di Dante.

Crescono l’ombre, e l’arcana
Voce ch’io seguo ed ascolto,
S’affievolisce e nel folto,
Innanzi a me, s’allontana.

==>SEGUE
E alfine tace. Smarrito,
Seggo sul duro terreno;
Il cor mi palpita in seno
Come un uccello ferito.

Ombra, silenzio! A ponente,
Fra i tronchi immobili, dramma
Cupo di sangue e di fiamma,
Traspare il giorno morente.

L’ORGANO

In fondo alla chiesa nera
Sacra allo Spirito Santo,
L’organo — un’ora intera —
Mi fulminò col suo canto.

Col tuono e con la saetta
Delle iraconde sue voci,
Che fanno tremare in vetta
All’alte guglie le croci.

Sola una fiammola flava,
A cui mancava la lena,
S’affilava e palpitava,
Simile a un’anima in pena,

Davanti a un gotico altare,
Ove la pompa degli ori
Avea gli smorti fulgori
D’un giorno presso a mancare.

Nimbo di turchino cupo,
Trasparia da un finestrone,
Di là da un aspro dirupo,
Il ciel del settentrïone;

Un ciel recondito e voto,
Un ciel dïafano e tetro,
Ove un abete remoto
Parea dipinto sul vetro.

L’organo sotto l’acuta
Volta ruggiva: Che hai fatto
Del pegno del tuo riscatto,
Della tua vita perduta?

==>SEGUE

Che hai fatto de’ tuoi pensieri
Che per gli spazii immortali
Dovevan essere strali
Da penetrar tutti i veri?

Che hai fatto di quell’amore
(Anche il ricordo n’hai spento?)
Che già t’aveva redento
Dalla colpa e dall’errore? —

Un’ombra viscida, e ghiaccia
Sembrava uscir d’un avello
E mi sfiorava la faccia
Con ali di vipistrello.

L’organo sotto la volta
Scura tonava: ove sono
L’opre che ottengon perdono
Anche alla vita più stolta?

Dov’eri, mentre la fame,
La pestilenza, la guerra,
Mieteano di terra in terra
Le vite povere e grame?

E che facevi allorquando
L’urlo del dolore umano
Più si spandeva lontano,
Imprecando, supplicando? —

La fiamma innanzi l’altare,
Avvolta d’ombre più dense,
Cessando di palpitare,
All’improvviso si spense.

E l’organo, con l’assalto
E il clangor di mille tube
Scroscianti sotto la nube,
Infurïava dall’alto:

Invan s’adopra, insensato,
L’anima tua dolorante
A ricomporre le infrante
Menzogne del suo passato.


==>SEGUE
Invano spera, asservita
Al sogno che non la sbrama,
Di risarcire la trama
Della sua logora vita.

L’ore ingannevoli e corte
Più non faranno ritorno;
Declina il breve tuo giorno,
E già t’accenna la morte. —

Come un rigurgito d’acque,
S’ira di venti le preme,
Tumultuaron l’estreme
Note, poi l’organo tacque.

Nessuna voce del mondo
Giungeva nell’ora incerta,
E nella chiesa deserta
Regnò silenzio profondo.

PREDICA IN DUE PARTI

I.
Hai tu commesso una colpa?
Ebbene, più mai, più mai
Non te ne libererai,
S’anco la morte ti spolpa.

Non giova che te ne incresca;
Non serve che te ne penta:
Se vecchio l’uomo diventa,
La sua colpa è sempre fresca.

Tu vivi e peni. Talvolta,
Come una cosa passata,
Credi d’averla scordata,
Credi d’averla sepolta;

Ma no, ma no! d’improvviso
(Chi ti può dir come accada?)
All’angolo d’una strada
Essa ti corre sul viso,

Essa all’orecchio ti grida
Un nome, un giorno lontano,
E tu ricalcitri invano
All’Erinni che ti sfida.     ==>SEGUE

Oppure, allor che tu siedi
Inutile pellegrino,
Rotto dal lungo cammino
Che insanguinava i tuoi piedi;

Siedi in recondite gole
Di monti, o in prode vacanti,
Essa ti sorge davanti,
Muta, rubandoti il sole. —

Se ancor non sazio di tutto,
Chiedesti un frutto alle cose,
Non essa, di’, s’interpose
Fra la tua mano ed il frutto?

E se piegasti la fronte
A invito d’acque profuse,
Or di’, non essa s’intruse
Fra le tue labbra e la fonte?

Ripara nel queto albergo,
Nell’erma valle, tra ’l verde:
Essa la traccia non perde,
Essa ti segue da tergo;

Entra con te nella stanza
Dove speravi ricetto,
Con te si sdraja nel letto,
Oscena e ironica amanza.

Sotterra, pallido e stanco,
In una fossa ripara:
Nella medesima bara,
L’avrai compagna al tuo fianco.

II.
Hai tu commesso una colpa?
Ebbene, vivi. La vita,
La turpitudine avita,
Che ti macchiò, ti discolpa.

Vivi. La vita, che senza
Il suo contrario non dura,
La vita, di sua natura,
È peccato e penitenza.


==>SEGUE
Son tutto solo in fondo
Alla boscaglia scura...
Nel petto fremebondo
Il cor mi si spaura.

LA CROCE NEL TRONCO

Tu, che scolpisti nel core
Di questo lugubre legno
Il formidabile segno
Dell’immortale dolore;

O vïator sconosciuto,
O sognator vagabondo,
O nauseato del mondo,
Le tue vestigia saluto!

Ancora vivi? Gli ascosi
Greppi e le selve erri ancora?
O nell’oscura dimora,
Placato alfine, riposi?

In grembo alla madre antica,
Sotto le morbide zolle,
Ove si cheta la folle
Smania e la vana fatica?

E se ancor vivi, rammenti
L’ora del tuo passaggio
Per questo bosco selvaggio,
Ignoto quasi ai viventi?

E ti sovviene il pensiero,
Che in te qui fisse l’artiglio,
Qui, dove manca sul ciglio
Dell’erma balza il sentiero?

Ah, se ancor vivi, di certo
Ricordi il tutto: l’accesa
Fede, l’inganno, l’offesa...
Questo silenzio deserto.

E se non vivi... La scura
Tua piaga vive nel segno;
Che lacera questo legno,
E incancellabile dura.
È, con alterna vicenda,
Gioja e dolore; dolore
Che nasce di gioja; errore
Che da sé stesso s’emenda.

Perché nel fosco passato
Figgi l’illuso pensiero?
Più in alto, più in alto è il vero,
E quello ch’è stato è stato.

Sì bene: pentirsi giova
All’anima addolorata;
Ma giova più con rinata
Anima far vita nova.

Non ritornar su’ tuoi passi;
Non ti rivolgere indietro:
Se a quel tuo carcere tetro
Declini gli occhi, t’abbassi.

Togliti al pigro mïasma
Che ti corruppe; discaccia
Da te la pallida faccia
Dell’importuno fantasma.

A cor ti stia soprattutto
Di non tradire te stesso:
Ancor t’è un frutto promesso,
Se tu vuoi cogliere il frutto.

In alto, in alto! nel vivo
Aere che purga e ristora;
Là, dove splende l’aurora
Di novo giorno festivo.

Bevi, salendo, alle fonti
Cui non fallisce la vena;
Mira dall’alto la scena
Degli allargati orizzonti.

Chiedi al silenzio divino
Chiedi all’oracolo ignoto
La voce di quel remoto
Che pur n’è tanto vicino.



==>SEGUE
Chiedi alla luce del sole
La verità, nuda e pura,
Cui non offusca o snatura
Nebbia d’umane parole.

Sappi che nulla si nega
A un desiderio immortale;
Che la tua anima ha l’ale,
E che nessuno la lega.

Sorgon nei cieli dagl’imi
Campi le vette lustrali:
Che stai? se impavido sali
Ancor, da te, ti redimi:

In alto, in alto! nel vivo
Aere che purga e ristora;
Là, dove splende l’aurora
Di novo giorno festivo.

Bevi, salendo, alle fonti
Cui non fallisce la vena;
Mira dall’alto la scena
Degli allargati orizzonti.

Chiedi alla luce del sole
La verità, nuda e pura,
Cui non offusca o snatura
Nebbia d'umane parole.

Sappi che nulla si nega
A un desiderio immortale;
Che la tua anima ha l’ale,
E che nessuno la lega.
NELL’OMBRA

Qui, qui, nel grembo, nel core
Della solinga foresta,
Dove il mio cor si ridesta
Al sogno che mai non muore;

Qui, sotto il ciel che s’ingombra
Del vivo intreccio de’ rami:
(Che più volete ch’io brami?)
Qui mi lasciate nell’ombra.

Nell’ombra infusa d’arcano,
Di blandi aneliti piena;
Nell’ombra chiara e serena
E nel silenzio sovrano.

Lasciatemi respirare
I lenti effluvii, le forze
Ch’esalano dalle scorze
Stillanti, dall’erbe amare.

Lasciatemi bever l’onda
Che scaturisce ne’ greppi,
Che lambe i ruvidi ceppi,
Che sotto i muschi s’affonda.

Lasciate che abbracci i fusti
De’ vecchi abeti nel folto,
Che tuffi nell’erba il volto,
Che acerbe coccole gusti.

Lasciate l’anima mia
Tutta passar nelle cose,
E cercar l’anime ascese,
Mute in lor dolce malìa.

LA FENICE

Signori miei, la Fenice
È tra gli uccelli un uccello
Molto drammatico e bello,
Strano, infelice, felice.

E primamente ella è sola
Della sua specie nel mondo,
In questo amabile tondo,
Ove chi c’è si consola.

Poscia, morendo ogni tanto,
Come si legge in istampa,
Eternamente ella campa,
Diviso coi numi il vanto.

Aggiungasi che ha le penne
Tinte di porpora e d’oro,
Un canto molto sonoro,
Un volo molto solenne.

Prima che il tempo la sdrucia,
Si forma un rogo d’aromi,
E tra gl’incensi e gli amomi,
Da sé, cantando, s’abbrucia.

Poi (oh, delizie ed ambasce
D’inauditissima venere!)
Poi, dalla propria sua cenere,
A nuova vita rinasce.






               ALL’OMBRE

               AI SILENZI

               ALL’ANIMA OCCULTA

               DELLA SELVA NERA.