Di scordar, di stordirmi. Ai tristi giorni
Unico officio, unico fin proposi
Il piacere. Migrai di gente in gente,
Profugo d’ogni terra, estrano a tutte.
I dì nei circhi consumai, le notti
Nei lupanari, m’imbestiai nei crassi
Convivii, m’imbragai nelle suburre,
Vissi nelle taverne e nelle reggie,
Sgavazzatore, amasio, cortigiano;
E scendendo ognor più, m’accomunai
Coi più reprobi e vili, e toccai tutti
Dell’abiettezza e della colpa i fondi;
Cùpido e sazio, ignavo e tracotante;
La vita in odio ed in orror la morte
Avendo; di pietà segno e di sprezzo
A me stesso. Così gli sciagurati
Anni lograi; così varcai le soglie
Della vecchiezza. In Selinunte un fiero
Male per poco non mi uccise. Giacqui
Lunghi dì, travagliato da focosa
Febbre, sovente delirando, e tutto
Nella torbida mente rivivendo
Il passato. E di novo la proterva,
Convulsa anima mia fu macerata
Di dolor, di rimorso e di vergogna.
Solo compagno da gran tempo m’era
Uno schiavo fenicio, uom di provata
Fede e nobili sensi. Ei m’assistette,
Incurante di sé, dedito solo,
Il dì, la notte, infaticabilmente,
A vigilarmi e porgermi sollievo.
E una notte, parendogli ch’io fossi
Presso a finir, con semplice eloquenza
E puro zelo m’instruì di Cristo
Redentore. Guarii. Ma dello stesso
Mal che da me contrasse, egli a sua volta
Infermò gravemente, e in pochi giorni
Venne a morte. «Sovvengati di Cristo
Redentore», fûr l’ultime parole
Ch’ei proferì. Più dalla mente al novo
Lume omai schiusa e dal risorto core
Non mi caddero: ed ecco in tuo cospetto
Mi vedi.
(Leva di nuovo gli occhi e vede che Arsenio ha il volto innondato di lacrime).
Oh, Padre!...
==>SEGUE