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E dalla più rapida prontezza di tutto, senti che la favola di Trilussa non nasce mai da un generico impegno a moraleggiare. Come tutte le altre satire sue, anche le favole saltano fuori a commento della vita: spesso di un fatto appena allora accaduto e risaputo, di un personaggio del giorno. Intanto sul giornale di quella mattina, sono, come allora si diceva, favole trasparenti; più tardi, nel libro acquisteranno anch'esse quell'universalità, quell'aria di sempre che le favole devono avere. Serra avverti bene (e assai prima che Trilussa desse il meglio di sé) anche questo: «... la felicità arguta di quei bozzetti, una delle poche cose spiritose e piacenti che abbia la nostra letteratura...».
Diversa e controversa resta invece l'opinione sulla portata morale della favola, e in genere della satira, di Trilussa. È chiaro che nominare (fu anche fatto) Orazio, Giovenale e Persio, con tutta l'acqua che da allora passò sotto i ponti di Roma, può essere un simpatico campanilismo all'ombra del più gran campanile del mondo; ma è tempo perduto. E non regge nemmeno il ricordo, tanto più vicino, del Belli. La satira del Belli, impastata in quella sua umanissima misantropia, quel suo fenomenale alterco d'una sola voce con Papa Gregorio, che durò quanto la vita, fu l'ultimo duello d'una polemica secolare che proprio con lui finiva. E Trilussa satireggiò invece uomini e cose di una società che appena appena allora cominciava; al confronto, un mondo in fasce. Quanto era stato compatto, unitario, monumentale, pur nella imminente rovina, il bersaglio del Belli; altrettanto mobili, cangianti, volanti e più spesso di sola carta erano i bersagli di Trilussa. Ma sono poi questi gli inevitabili confronti che non dicono nulla. Al più, si potrebbe concludere che la provvida natura, a due tempi tanto diversi, seppe procurare due tanto diversi e adatti poeti.
Ma quale propriamente fu l'animo di Trilussa, la sua convinzione nell'esercizio della satira; Qui corsero due opinioni opposte.
Con riguardo soprattutto ai sonetti e ai bozzetti, fu detto che la satira di Trilussa avrebbe press'a poco i caratteri del mondo ch'essa rappresenta. Un mondo (si disse) fatto di donnette, piccole eccellenze, nobili spiantati, tenentini, impiegatucci, rigattieri, canzonettiste, indovine, cocotte, mezzane, servi, barbieri, portieri, cantastorie, vetturini... Piccola gente, piccolo mondo mediocre, impastato di mediocri vizi e mediocri virtù; dipinto sì molto al vivo, però commentato quasi mimeticamente, con un mediocre animo pari.
Con riguardo soprattutto alle favole, fu però detto, e fu Ferdinando Martini a dirlo, tutto l'opposto. «Tutta l'opera di lui si direbbe lo sfogo o forse il lamento di un pessimista. Le sue favole hanno l'acre sapore della satira; nelle quali l'arguzia quasi sempre felice non desta il sorriso senza velarlo di malinconia. Leggetele e ponderatele.
Tutto è falsità e simulazione in questo terzo pianeta, anche le lagrime delle vedove, anche la mestizia di chi segue il feretro di un amico; bolgie dantesche i partiti politici donde l'uomo onesto è cacciato come un intruso; il decoro della vita serbato, no pe’ la morale: p'er codice penale; fra una donna e una tigre, più mite talora l'animo della tigre. Questa l'umanità quale il poeta la mostra. Le bestie vendicative possono essere soddisfatte. Trilussa le ha servite a dovere.» Cosa singolare: Ferdinando Martini che non esagerava mai, quel giorno del 1919, esagerò anche lui. Il pronto ricordo del lettore del resto lo corregge subito: ci fu mai nessuno che dalle favole di Trilussa uscisse turbato o d'umor nero?
Tra le due opposte opinioni, probabilmente la verità sta nel mezzo. Intanto, poiché le satire e le favole (e i poetici idilli che tra poco vedremo) nacquero dallo stesso uomo, volendone indicare la morale, sarà giusto fare la media. E allora si vede che, nei casi grossi (quando il male o la cattiveria vincono, e l'uomo fa più torto all'uomo), la satira di Trilussa ebbe il risentimento e il giudizio che doveva avere: «oggi che l'odio è quasi obbrigatorio - io nun odio nessuno!». Ma coi difetti o anche vizi al minuto, che sono quasi il condimento del vivere, e poiché tutti siam macchiati di una pece, Trilussa fu ricco di molto sorriso e sopportazione. E la moralità troppo pessimista, o troppo drastica, che resta in fondo a qualche favola; oppure, al contrario, il commento morale troppo corrivo che accompagna qualche satira (come poi il sentimento troppo facile o troppo cantato di qualche idillio), sono difetti da mettere nel conto del poeta "chansonnier". Al poeta "chansonnier", in certi casi, davanti al suo pubblico, anche un eccesso di evidenza, o una cadenza più facile, o una commozione più scoperta, giovano. Su alcune poesie di Trilussa (spesso le più celebri, raramente le più belle) batte infatti come una luce di ribalta. E quante volte, nelle tarde sere all'osteria, vecchio uomo di teatro ci sembrò lui tra gli amici a capotavola, con quella sua grande faccia inamovibile, gli occhi spesso un po' attoniti, ma così improvvisi invece e tondi i motti e le parole. Un antico burattinaio tanto sicuro e uguale a se stesso, che con la stessa bella familiarità, ti metteva in scena i re e gli animali della favola e gli uomini veri: aristocratici, borghesucci, popolino. E quella sua impassibile equidistanza, al centro di tutto il suo mondo, faceva il poeta e l'uomo Trilussa molto simpatico.
Quanto al compito precipuo suo nei cinquant’anni della vita italiana, che le toccarono, si direbbe che la satira di Trilussa ebbe soprattutto l'ufficio di ridurre, anzi di sistematicamente sgonfiare, prima le piccole o grandi esagerazioni, e poi i veri o finti fanatismi che si alternarono sulla scena. Trilussa fu un grande riduttore. E come ai satirici sempre avviene, i tempi più malaugurati furono quelli che gli offrirono di più e più lo aiutarono.
Console Giolitti e regnando la democrazia, sulla corte, il parlamento, i partiti, l'esercito, la diplomazia, i massoni, i preti, i commendatori, gli affaristi, i banchieri, i bancarottieri..., Trilussa disse via via tutto quello che un satirico allora poteva dire. A un certo punto si ebbe anzi l'impressione che Trilussa si ripetesse un po'. Senza dire che la democrazia, lasciandole tutte le porte aperte, alla fine stracca e infiacchisce la satira. Oppure l'invita al peggio: difficile e raro è far satira aristocratica in tempi democratici.
Ma duce Mussolini, imperando il fascismo e la censura, la situazione si capovolse: quello fu un paradiso, anche se difficile e talvolta pericoloso paradiso (ma paradisi facili non si dànno), per un poeta satirico. Lasciando il peggio (che poi non appartiene alla satira...), tutti quegli uomini nuovi smaniosi di cose nuove, quasi insensibili al ridicolo, messi per una strada di gesti, grandezze e grandezzate sempre più grandi, offrivano tanto fianco alla satira, che ci fu un momento che in Italia satirici fummo tutti. Nel gran motteggiare d'allora, in quell'aria generale di intelligenza e di ammiccamento, l'obbligo di un poeta satirico era quello di riuscir lui il più inventivo, bravo e spiritoso di tutti; e si sa quant'è difficile avere più spirito di tout le monde. Trilussa ci riuscì. Presto diventò lui il centro di quel mondo, l'Omero di quei rapsodi: le sue favole che circolavano a memoria prima che scritte e in una settimana si risapevano in tutta Italia, facevano la sintesi, segnavano il punto. E come ai satirici molto spesso accade, anche l'odiata censura gli giovò. Costretto a destreggiarsi, a schermarsi, a infingersi, spesso a giocare sulla bivalenza della favola, Trilussa uscì arrotato e affilato dalla insolita disciplina. Da allora, tutta la satira sua, e non soltanto quella politica, si fece tanto
più finemente allusiva e scaltra. Il miglior Trilussa satirico, in tutte le sue direzioni, sarà sempre da scegliere lì.
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