I
A capire l'arte e la fortuna di Trilussa, a spiegare il posto che, per un largo cinquantennio, egli ottenne tenne e mantenne, non soltanto nella vita artistica, ma senz'altro nella vita italiana, prima e meglio d'ogni considerazione critica, credo giovi rifarsi a quello che di lui ricordano i biografi. Trilussa nacque alla poesia, dalla cronaca: non si dice, in alto senso, dall'occasione: proprio dalla cronaca cittadina degli spettacoli, dei teatri, dei caffè-concerti e delle altre novità o curiosità quotidiane, nei giornali o giornaletti romani di fine secolo, Il Rugantino, Il Don Chisciotte..., dove il ragazzo, uscito appena di scuola, prese a collaborare. A diciott'anni, il suo primo volumetto di versi romaneschi, Le Stelle de Roma, è in lode delle più belle ragazze dei rioni della città; e i suoi primi sonetti dialogati e giocosi (non ancora satirici) riflettono e commentano i baracconi, i circhi, i fenomeni delle piazze popolari.
È vero che tanti altri e diversissimi scrittori sempre nacquero e tuttora nascono dal giornale. E al tempo della gioventù di Trilussa questo era forse più vero che oggi. Quegli anni stessi, o press'a poco, nasceva nel giornale anche il romanziere D'Annunzio che nelle cronache della vita mondana, dei concerti, delle esposizioni, cercava i primi colori o i primi accordi di quello che poi sarebbe stato il grande quadro delle sue favole amatorie.
Ma subito diverso fu il caso di Trilussa: l'incontro con la pungente e cangiante attualità del giornale fu per lui un definitivo scoprirsi a se stesso: gli si rivelò in quel punto la vocazione di poeta "chansonnier" (l'occasione colta al balzo, il pronto avvertimento e commento al fatto del giorno), cui resterà a suo modo fedele tutta la vita.
Come anche ad altri "chansonniers" avvenne, Trilussa arricchì poi di varie corde la sua lira; divenne presto senza confronto il più inventivo e felice favolista del suo tempo; e oltre che satirico, fu poeta lirico e idillico in limpidi quadretti ed epigrammi. Tuttavia sempre con quella sortita e quello spirito: comunque egli poetasse, l'impressione di una poesia sbocciata e fiorita a quella finestra quella mattina, restò la più bella caratteristica sua. La sua stessa lingua, il suo molto discusso "romanesco" ubbidì a questa legge: si fece negli anni sempre più vicino alla lingua comune, soltanto perché così avveniva intanto intorno a lui. E l'origine "chansonnière" spiega anche come, per molti anni, Trilussa ebbe intorno a sé tutta la simpatia e la festosità dei folcloristi e degli aneddotisti, ma un certo riserbo e imbarazzo dei letterati di più stretta osservanza i quali, confessando di divertirsi molto, anzi di divertirsi "troppo" (Borgese), non sapevano però se Trilussa era da collocare tra i poeti d'arte che restano, o tra gli occasionali, gli improvvisatori, i popolari che passano; e spiega altrettanto bene la subito pronta, e mai smentita poi, rispondenza di Trilussa col grande pubblico dei lettori, non di Roma soltanto, ma di tutta l'Italia. Cosa del tutto eccezionale in un tempo che tra i poeti (anche i famosi poeti) e il pubblico, vide spesso nascere sospetti, dispetti e screzi: e talvolta improvvise e catastrofiche indifferenze.
Quando poi, nella piena maturità, Trilussa ebbe vinta tutta la sua partita, ed ebbe per sé, oltre il pubblico, anche i difficili e restii letterati (e ciò fu agli anni del primo fascismo, tra il '25 e il '30), si dette allora il bel caso che proprio un poeta dialettale e d'una sola città (che però era Roma), fu l'ultimo poeta di grande pubblico e di universale incontro in Italia.
II
Il primo e di gran lunga più popolare aspetto di Trilussa fu e certamente resterà quello di poeta favolista e satirico. E chi ora dà un'occhiata agli indici del volume (basta spesso il titolo a farci presente tutta la poesia, tanto questo poeta fu prontamente e a tutti mnemonico), e confronta le date, si accorge che la chiave di volta di tutto il Trilussa satirico fu la favola. Non soltanto per il definitivo prevalere di questo genere letterario (favole, fiabe, apologhi) su ogni altro nel complesso dell'opera sua, e neppure per il fatto che proprio nella favola Trilussa raggiunse tutta la sua eccellenza e trionfò. Ma perché fu la favola, l'invenzione geniale della favola, che dette a lui la prima consapevolezza di sé e della propria originalità; e soltanto allora Trilussa si staccò dalla poesia di genere (i molti e troppi e volgarucci sonetti, coi soliti tipi, macchiette, dialoghi ecc.) alla quale, come quasi tutti i dialettali, anche egli aveva pagato troppo largo tributo. Quando Trilussa si fu impossessato della favola, anche gli altri temi suoi che non erano favole se ne insaporirono: e quella che era stata poesia soltanto giocosa e burlesca, gli si fece più finemente umoristica o satirica. La favola fu una palestra che rinvigorì tutto il poeta.
Come quasi tutti i favolisti, anche Trilussa arrivò alla favola sugli esempi classici: l'immancabbile agnello: subito però capovolgendone o storcendone la morale, così da dare al lettore l'umoristica sorpresa di cosa vecchia e risaputa, improvvisamente contraddetta e fatta nuova. Mirando soprattutto a questo effetto, le prime favole sue furono pungenti quasi a ogni verso, estremamente asciutte, epigrammatiche. Renato Serra, il più fine letterato di allora, lo avvertì subito: «La favola di Trilussa è tutta nel gioco e nel moto: non c'è colore né corpo altro che basti a reggere i sali, come dicevano i vecchi, a lanciarli con l'elastica percossa che dà il tamburello alla palla».
Quando poi Trilussa si fu fatta la mano (e fu lentamente e gradatamente, come vogliono succeder queste cose) si sganciò dalla favola classica e inventò le favole sue.
E da allora per tutta la vita non smise più: con una ricchezza, fertilità e varietà di invenzioni che lo mettono di gran lunga al di sopra d'ogni altro favolista nostro, d'ogni tempo. Questo merito e vantaggio di Trilussa su tutti, non è stato detto ancora abbastanza. Trilussa non ebbe soltanto una eccezionale facilità combinatoria sugli elementi tradizionali della favola: ma ne arricchì lui il repertorio straordinariamente, inventando di sana pianta, e di disegno tutto nuovo, centinaia e centinaia di originali favole e apologhi. Basta un'occhiata alla tavola degli animali parlanti (in fondo al libro), per scoprire, oltre le preferenze, qualcuna almeno delle novità di Trilussa. Sopra tutti gli animali sta il Gatto; Somari e Leoni quasi si pareggiano; ma insolitamente qui ha gran posto (ventisette comparse) il Porco. Poiché siamo a Roma, l'Aquila e la Lupa non mancano; ma, sempre essendo a Roma, quanti più animaletti piccolo-borghesi, Pulci, Pidocchi, Bacherozzi, Saltapicchi, Centogambe, Zanzare, Sarapiche, insoliti alle favole. Alcuni Grilli, Lucertole e Farfalle fanno intanto il collegamento tra la satira e l'idillio poetico di Trilussa.
Ma coi soliti o con gli insoliti animali, Trilussa disegnò e colori poi la favola in un modo tutto suo.
Certamente le favole di Trilussa non hanno il classico e allusivo sorriso ab aeterno che illumina le favole di La Fontaine. Ma i suoi animali non hanno neppure la sterilità zoologica arcadica e morale delle favole settecentesche, dove ogni animale porta il cartello di quel vizio o quella virtù, e fermo li. Trilussa ti combina ogni volta un raccontino, un quadretto o un epigramma, che vuol valere e vale anche pittoricamente e per sé; e dove gli stessi animali, appena possono, ci stanno con un punto di colore, un aggettivo, un segno o una smorfia che li individua. Come gli altri favolisti, anche Trilussa fa l'apologo, dunque insegna o suggerisce qualcosa: ma si sente che, prima di tutto, Trilussa vuole divertirsi lui per via, e che dopo il lettore si diverta. Non si contenta perciò della felice trovata finale: spesso ogni strofa, talvolta ogni verso ha la sua trovata. E dalla più rapida prontezza di tutto, senti che la favola di Trilussa non nasce mai da un generico impegno a moraleggiare. Come tutte le altre satire sue, anche le favole saltano fuori a commento della vita: spesso di un fatto appena allora accaduto e risaputo, di un personaggio del giorno. Intanto sul giornale di quella mattina, sono, come allora si diceva, favole trasparenti; più tardi, nel libro acquisteranno anch'esse quell'universalità, quell'aria di sempre che le favole devono avere. Serra avverti bene (e assai prima che Trilussa desse il meglio di sé) anche questo: «... la felicità arguta di quei bozzetti, una delle poche cose spiritose e piacenti che abbia la nostra letteratura...».
Diversa e controversa resta invece l'opinione sulla portata morale della favola, e in genere della satira, di Trilussa. È chiaro che nominare (fu anche fatto) Orazio, Giovenale e Persio, con tutta l'acqua che da allora passò sotto i ponti di Roma, può essere un simpatico campanilismo all'ombra del più gran campanile del mondo; ma è tempo perduto. E non regge nemmeno il ricordo, tanto più vicino, del Belli. La satira del Belli, impastata in quella sua umanissima misantropia, quel suo fenomenale alterco d'una sola voce con Papa Gregorio, che durò quanto la vita, fu l'ultimo duello d'una polemica secolare che proprio con lui finiva. E Trilussa satireggiò invece uomini e cose di una società che appena appena allora cominciava; al confronto, un mondo in fasce. Quanto era stato compatto, unitario, monumentale, pur nella imminente rovina, il bersaglio del Belli; altrettanto mobili, cangianti, volanti e più spesso di sola carta erano i bersagli di Trilussa. Ma sono poi questi gli inevitabili confronti che non dicono nulla. Al più, si potrebbe concludere che la provvida natura, a due tempi tanto diversi, seppe procurare due tanto diversi e adatti poeti.
Ma quale propriamente fu l'animo di Trilussa, la sua convinzione nell'esercizio della satira; Qui corsero due opinioni opposte.
Con riguardo soprattutto ai sonetti e ai bozzetti, fu detto che la satira di Trilussa avrebbe press'a poco i caratteri del mondo ch'essa rappresenta. Un mondo (si disse) fatto di donnette, piccole eccellenze, nobili spiantati, tenentini, impiegatucci, rigattieri, canzonettiste, indovine, cocotte, mezzane, servi, barbieri, portieri, cantastorie, vetturini... Piccola gente, piccolo mondo mediocre, impastato di mediocri vizi e mediocri virtù; dipinto sì molto al vivo, però commentato quasi mimeticamente, con un mediocre animo pari.
Con riguardo soprattutto alle favole, fu però detto, e fu Ferdinando Martini a dirlo, tutto l'opposto. «Tutta l'opera di lui si direbbe lo sfogo o forse il lamento di un pessimista. Le sue favole hanno l'acre sapore della satira; nelle quali l'arguzia quasi sempre felice non desta il sorriso senza velarlo di malinconia. Leggetele e ponderatele.
==> SEGUE