==>SEGUITO
Tutto è falsità e simulazione in questo terzo pianeta, anche le lagrime delle vedove, anche la mestizia di chi segue il feretro di un amico; bolgie dantesche i partiti politici donde l'uomo onesto è cacciato come un intruso; il decoro della vita serbato, no pe’ la morale: p'er codice penale; fra una donna e una tigre, più mite talora l'animo della tigre. Questa l'umanità quale il poeta la mostra. Le bestie vendicative possono essere soddisfatte. Trilussa le ha servite a dovere.» Cosa singolare: Ferdinando Martini che non esagerava mai, quel giorno del 1919, esagerò anche lui. Il pronto ricordo del lettore del resto lo corregge subito: ci fu mai nessuno che dalle favole di Trilussa uscisse turbato o d'umor nero?
Tra le due opposte opinioni, probabilmente la verità sta nel mezzo. Intanto, poiché le satire e le favole (e i poetici idilli che tra poco vedremo) nacquero dallo stesso uomo, volendone indicare la morale, sarà giusto fare la media. E allora si vede che, nei casi grossi (quando il male o la cattiveria vincono, e l'uomo fa più torto all'uomo), la satira di Trilussa ebbe il risentimento e il giudizio che doveva avere: «oggi che l'odio è quasi obbrigatorio - io nun odio nessuno!». Ma coi difetti o anche vizi al minuto, che sono quasi il condimento del vivere, e poiché tutti siam macchiati di una pece, Trilussa fu ricco di molto sorriso e sopportazione. E la moralità troppo pessimista, o troppo drastica, che resta in fondo a qualche favola; oppure, al contrario, il commento morale troppo corrivo che accompagna qualche satira (come poi il sentimento troppo facile o troppo cantato di qualche idillio), sono difetti da mettere nel conto del poeta "chansonnier". Al poeta "chansonnier", in certi casi, davanti al suo pubblico, anche un eccesso di evidenza, o una cadenza più facile, o una commozione più scoperta, giovano. Su alcune poesie di Trilussa (spesso le più celebri, raramente le più belle) batte infatti come una luce di ribalta. E quante volte, nelle tarde sere all'osteria, vecchio uomo di teatro ci sembrò lui tra gli amici a capotavola, con quella sua grande faccia inamovibile, gli occhi spesso un po' attoniti, ma così improvvisi invece e tondi i motti e le parole. Un antico burattinaio tanto sicuro e uguale a se stesso, che con la stessa bella familiarità, ti metteva in scena i re e gli animali della favola e gli uomini veri: aristocratici, borghesucci, popolino. E quella sua impassibile equidistanza, al centro di tutto il suo mondo, faceva il poeta e l'uomo Trilussa molto simpatico.
Quanto al compito precipuo suo nei cinquant’anni della vita italiana, che le toccarono, si direbbe che la satira di Trilussa ebbe soprattutto l'ufficio di ridurre, anzi di sistematicamente sgonfiare, prima le piccole o grandi esagerazioni, e poi i veri o finti fanatismi che si alternarono sulla scena. Trilussa fu un grande riduttore. E come ai satirici sempre avviene, i tempi più malaugurati furono quelli che gli offrirono di più e più lo aiutarono.
Console Giolitti e regnando la democrazia, sulla corte, il parlamento, i partiti, l'esercito, la diplomazia, i massoni, i preti, i commendatori, gli affaristi, i banchieri, i bancarottieri..., Trilussa disse via via tutto quello che un satirico allora poteva dire. A un certo punto si ebbe anzi l'impressione che Trilussa si ripetesse un po'. Senza dire che la democrazia, lasciandole tutte le porte aperte, alla fine stracca e infiacchisce la satira. Oppure l'invita al peggio: difficile e raro è far satira aristocratica in tempi democratici.
Ma duce Mussolini, imperando il fascismo e la censura, la situazione si capovolse: quello fu un paradiso, anche se difficile e talvolta pericoloso paradiso (ma paradisi facili non si dànno), per un poeta satirico. Lasciando il peggio (che poi non appartiene alla satira...), tutti quegli uomini nuovi smaniosi di cose nuove, quasi insensibili al ridicolo, messi per una strada di gesti, grandezze e grandezzate sempre più grandi, offrivano tanto fianco alla satira, che ci fu un momento che in Italia satirici fummo tutti. Nel gran motteggiare d'allora, in quell'aria generale di intelligenza e di ammiccamento, l'obbligo di un poeta satirico era quello di riuscir lui il più inventivo, bravo e spiritoso di tutti; e si sa quant'è difficile avere più spirito di tout le monde. Trilussa ci riuscì. Presto diventò lui il centro di quel mondo, l'Omero di quei rapsodi: le sue favole che circolavano a memoria prima che scritte e in una settimana si risapevano in tutta Italia, facevano la sintesi, segnavano il punto. E come ai satirici molto spesso accade, anche l'odiata censura gli giovò. Costretto a destreggiarsi, a schermarsi, a infingersi, spesso a giocare sulla bivalenza della favola, Trilussa uscì arrotato e affilato dalla insolita disciplina. Da allora, tutta la satira sua, e non soltanto quella politica, si fece tanto
più finemente allusiva e scaltra. Il miglior Trilussa satirico, in tutte le sue direzioni, sarà sempre da scegliere lì.
Tanto diversi e quasi da opposti poli, tra il '30 e il '40 Benedetto Croce e Trilussa, tra tutti i nostri scrittori restarono le voci più libere. E se Trilussa per parlare dovette spesso far uso di astuzie e paraventi, qualche volta però parlò così tondo e tanto chiaro, da stupirne anche oggi. Nel libro Giove e le Bestie pubblicato nel '31, s'incontra questo Grillo zoppo.
Ormai me reggo su 'na cianca sola
— diceva un Grillo. — Quella che me manca
m'arimase attaccata a la cappiola.
Quanno m'accorsi d'èsse priggioniero
col laccio ar piede, in mano a un regazzino,
nun c'ebbi che un pensiero:
de rivolà in giardino.
Er dolore fu granne... Ma la stilla
de sangue che sortì da la ferita
brillò ner sole come una favilla.
E forse un giorno Iddio benedirà
ogni goccia de sangue ch'è servita
pe' scrive la parola Libbertà!
Può essere artisticamente una favola mediocre; e l'orecchio di Trilussa certamente l'avvertì. Tanto più merito, averla scritta e pubblicata allora.
III
Fra il Trilussa favolista e satirico che s'è visto, e quello lirico e idillico di cui diremo ora qualcosa, non ci fu veramente il taglio netto e il salto che le parole vorrebbero. Come il satirico, nel corso della satira, non rinunziava a essere anche un poetico e delicato pittore, così il lirico (aiutandolo in ciò lo stesso dialetto) trovò sempre risorse, estri e scorci nell'arguzia.
Comunque, allo spartiacque tra i due generi, ci metterei le Fiabe: quelle curiose Fiabe di Trilussa che somigliano molto alle sue favole animalesche ma dove ai parlanti animali si sono sostituiti più addobbati personaggi, Re Baiocco, Re Chiodo, Re Carlone, il Nano Orme, il Mago e la Strega, l'Orco innamorato. E aggregherei al gruppo anche le sestine della Porchetta bianca e della Verginella con la coda nera. Con personaggi che possono venirgli dalla tradizione popolare o dal Cunto de li Cunti, e le sestine questa volta insolitamente cadenzate al modo dei cantàri popolari (ma troppo maliziosi cantàri), qui vedi Trilussa che tenta un più disteso o più colorito narrare. L'impressione ultima è però che il poeta regga il disegno più largo con qualche fatica. E il meglio di quei poemetti resta negli arguti particolari. La poesia più sua resta altrove.
In tutti i libri di Trilussa, ma specie negli ultimi, incontri quadretti, idilli, teneri epigrammi, ricordi, che, a ripensarli insieme, formano un piccolo intimo canzoniere. E strano è che il canzoniere intimo di questo poeta, che in tanta parte dell'opera sua. sta così attaccato al vero e spesso al crudo vero, sia campato quasi tutto nel desiderio o nella nostalgia, e canti di preferenza amori e affetti non goduti o troppo presto perduti; e vi abbia tanta parte il sogno.
A che famiglia di poeti appartenne questo Trilussa?
Dietro il Trilussa giocoso o satirico ci fu chi, oltre i soliti dialettali d'obbligo, avvertì il ricordo o un'aria a volte del Giusti (nelle due direzioni, La chiocciola e L'amor pacifico), e io ci aggiungerei il Pananti delle sestine (Il Poeta di Teatro). Del Trilussa lirico, Pietro Paolo Trompeo, che ha scritto fini pagine sull'argomento, ha giustamente detto che «i suoi primi modelli devono essere stati i poeti della generazione intermedia tra Carducci e D'Annunzio; il sentimentale Stecchetti e il Panzacchi delle romanze per musica». Silvio d'Amico e altri dissero altrettanto bene, e senza perciò contraddire Trompeo, che Trilussa può anche essere considerato un crepuscolare avanti lettera. Avanti o dopo la lettera, non lo so, (è incredibile quanto sia difficile stabilire le precedenze tra poeti contemporanei); ma è certo che in qualche interno di Trilussa risenti cadenze di Gozzano. E talvolta quasi parodisticamente, o in ischerzo:
Un tanfo de rinchiuso e de vecchiume,
robba ammucchiata che nessuno addopra,
stracci, cartacce, libbri sottosopra,
un antenato, un lavativo, un lume...
De tant'in tanto nonna, impensierita,
va su in soffitta e passa la rivista
de li ricordimpicci de la vita,
prima che un nipotino futurista
facci piazza pulita...
Dove gli ultimi versi, rompendo il ritmo, anzi scherzandolo, vogliono liberarsi da quella prima suggestione.
E in certi più incantati cortili e giardini suoi vedi affacciarsi Palazzeschi:
Er cortiletto chiuso
nun serve a nessun uso.
Dar giorno che li frati de la Morte
se presero er convento, hanno murato
le finestre e le porte;
e er cortile rimase abbandonato.
Se c'entra un gatto, ammalappena è entrato
se guarda intorno e subbito risorte.
Tra er muschio verde e er vellutello giallo
ancora s'intravede una Fontana
piena d'acqua piovana
che nun se move mai: pare un cristallo...
E Palazzeschi si risente anche in certi dialoghi. Così in questo dialogo sognato (uno dei tanti sogni di Trilussa)
Da un anno, ogni notte, m'insogno e me pare
d'annà in un castello
che guarda sur mare; nun sogno che quello.
……………………..
Er mastro de casa, ch'è un vecchio mezzano,
m'insegna una porta, me bacia la mano
eppoi sottovoce me dice: — È arrivata
la donna velata...
— Ma quale? — je chiedo — la palida, forse,
che stava a le corse?
o quela biondina coll'abbito giallo
ch'ho vista in un ballo?
È comodo e bello
d'avecce un castello
nascosto ner sonno,
chè armeno, la notte, ce faccio l'amore
co' tante signore
ch'er giorno nun vonno.
— Der resto lei stessa,
signora duchessa,
co' tutta la posa
superba e scontrosa,
m'accorgo che in sogno me tratta un po' mejo
de quanno sto svejo.
Nun solo me guarda, ma spesso me dice:
— So' propio contenta! So' propio felice!
— Davero? — je chiedo. — Ma allora perché
nun resti co' me? —
==> SEGUE