==>SEGUITO
Quel maestro di casa, quella donna velata, quella duchessa, potremmo averli incontrati nell'Incendiario. Ma questi echi non mutano poi il tono fondamentale del poeta: andate a rileggere quelle poesie per intero nel libro, e vedrete che il risultato è tutto e soltanto di Trilussa. Egli ebbe troppa nettezza di disegno, troppa precisione
d'immagine e rotondità di parola per rientrare comunque nella famiglia dei crepuscolari. Quegli echi possono se mai testimoniare che, in quel suo grande studio ottocentesco quasi fuor del mondo, e nel cerchio così finito e definito della sua poesia, Trilussa stava però in orecchi, più che non sembrasse.
Chi poi volesse antologizzare nell'opera sua per frammenti (usava tanto qualche anno fa), vedrebbe quanto questo poeta facile poteva essere segretamente squisito. Una mattina presto:
Doppo una notte movimentatella
ritorno a casa che s'è fatto giorno;
già s'apreno le chiese; l'aria odora
de matina abbonora e scampanella...
Notturno in un orto (quasi alla Burchiello):
Dodici Lucciolette erano scese
co' le lanterne accese
a illuminà li broccoli d'un orto...
Una moralità: come i rospi vedono il mondo:
Nojantri Rospi, senza annà lontano,
vedemo tutto er monno che se specchia
ner fango der pantano.
Dovessi poi dire io quali sono i suoi più belli e originali punti d'arrivo, li indicherei in certe poesie molto brevi che tengono insieme e della favola e della lirica; però senza alcun peso, essendosi favola e lirica prestate, l'una all'altra, soltanto l'arguzia e la leggerezza. La Colomba:
Incuriosita de sapè che c'era
una Colomba scesa in un pantano,
s'inzaccherò le penne e bonasera.
Un Rospo disse: — Commarella mia,
vedo che pure te caschi ner fango...
— Però nun ce rimango... —
rispose la Colomba. E volò via.
Un epigramma così trasparente, più soffiato che detto. Più giuoco, più scherzo c'è in Presunzione:
La luna piena che inargenta l'orto
è più granne der solito: direi
che quasi se la gode a rompe l'anima
a le cose più piccole de lei.
E la Lucciola, forse, nun ha torto
se chiede ar Grillo: — Che maniera è questa?
Un po' va be': però stanotte esaggera! —
E smorza el lume in segno de protesta.
Ambiguamente nuove, certe favolette di senso e di morale incerta, dove Trilussa sembra seguire il consiglio che Aurelio Bertola dette ai favolisti, di porre innanzi al lettore lo specchio, «ricoprendolo di un sottil velo e quasi ripiegandolo di traverso». La paura:
Un sorcio, trasportato in un deserto
drento ar bagajo d'una carovana,
a mezzanotte se n'usci a l'aperto;
ma un'ombra, che sbucava da una tana,
lo fece insospettì d'èsse scoperto.
— Chi va là? — chiese er Sorcio. Detto fatto
un ruggito rispose: — So' un Leone.
Che te spaventi a fa'? Diventi matto?
— Uh! — dice — scusa! È stata l'apprensione,
perché t'avevo preso per un gatto.
Che cosa vorrà poi dire? Proprio quest'incertezza fa la favola più arguta. Ecco invece soltanto un affilato epigramma: Fischi.
L'Imperatore disse ar Ciambellano:
— Quanno monto in berlina e vado a spasso
sento come un fischietto, piano piano,
che, m'accompagna sempre indove passo.
Io nun so s'è la rota o s'è un cristiano...
Ma in ogni modo daje un po' de grasso.
Autoritratto dell'autore come un momento davvero fu: col piglio ancora giovane, ma la grande vecchiezza trasparente.
La strada è lunga, ma er deppiù l'ho fatto:
so dov'arrivo e nun me pijo pena.
Ciò er core in pace e l'anima serena
der savio che s'ammaschera da matto.
Se me frulla un pensiero che me scoccia
me fermo a beve e chiedo aiuto ar vino:
poi me la canto e seguito er cammino
cór destino in saccoccia.
A resultati così rapidi e sicuri arrivò costantemente soltanto il Trilussa maturo. Perché non solo l'arte, ma anche l'ispirazione si conquista.
Ferma nel tempo restò invece la morale (o diciamo, il senso della vita, dell'umana sorte) in Trilussa. Poeta di poca dialettica, già in partenza egli portava con sé il suo punto d'arrivo. È del 1906, cioè tra le sue prime prove, Er Re e er Gobbo.
Un Re che commannava anticamente
chiese a un Gobbetto: — E tu che fai de bello?
— Che vôi che faccia? — je rispose quello.
— M'ingegno a da' li nummeri a la gente,
così je levo quarche sordarello,
sfrutto la gobba e campo allegramente.
T'ho copiato ner metodo, perché
me s'ho voluta combinà pur'io
una lista civile a modo mio
pe' vive a sbafo come vivi te:
io nacqui gobbo e tu sei nato Re...
Tiramo avanti e ringrazziamo Iddio.
La favola giovanile certamente non è perfetta (il Gobbetto parla troppo); ma negli ultimi due versi mi pare di sentire, nella voce e cadenza più sua, l'intima morale di Trilussa.
Nel corso del sermone, di proposito, e anche dove la tentazione c'era, mi sono astenuto dal citare il Trilussa più vistoso o famoso. Ma infine ho voluto offrire al presunto lettore meno pratico un piccolo campionario (quasi frecce indicative) di quello che fu il Trilussa più intimo e delicato poeta.
Ora, prima di chiudere, vorrei però mettere tutti i lettori in avviso. Trilussa è un poeta ingannatore. Ci furono, e ci sono, poeti che vi ingannano con l'apparente loro grande complessità, («se vôi l'ammirazione de l'amichi — nun faje capì mai quello che dichi»). Trilussa vi inganna invece con l'apparente estrema semplicità sua. Almeno in ciò, questo poeta somiglia un classico. (E penso che, bene scelto, Trilussa sarebbe piaciuto al Manzoni.) Ci fu in lui tanta e continua ricchezza di vena, di temi, di trovate, di rime; le poesie belle sue ebbero sempre in grado eminente quella spinta, quel movimento che significa vita; ma tutto questo era in lui così naturale che quasi non s'avvertiva. Ci sono nel mondo cose che, per essere naturalmente belle, oppure per essere riuscite benissimo, finché durano, ne godete quasi senza accorgervene. Ve ne accorgete però dopo, vi fanno vuoto quando fiancano.
E così è della poesia di Trilussa. Chi per tanti anni lo seguì e lo sentì poetare gli estri suoi e le sue fantasie, e commentare con quella sua inconfondibile voce e quell'umore i tipi e le cose della vita italiana, oggi, nel suo silenzio, avverte che Trilussa è veramente un'assenza. Trilussa ci manca.
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