CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS














































A

PIETRO SBOLENFI

LA FIGLIA

ARGIA

RICONOSCENTE

OFFRE

DEDICA

CONSACRA


Poichè il moro non risponde
Sta la bella in oppression;
Straccia via le chiome bionde
E si butta in ginocchion.

E poi fece tante cose,
Disse, pianse e supplicò...
Ma quel porco non rispose,
Stette zitto e la piantò!

SONETTO

CONTRO UN ANONIMO CHE CI FECE LA BURLA DEL TELEGRAMMA(4)

O scellerato che tirasti su
Quel genitor che il cielo a me largì,
Hai ben ragion che sei non si sa chi
E il telegramma senza il nome fu!

Empio, domanda pure a chi vuoi tu
Se son cose da far quelle che lì,
Che sta sicuro che se fosti qui
Staresti un pezzo di non farne più,

Che colla forza la maggior che ho
Ti vorrei scorticar da capo a piè
E con la pelle tua farmi un paltò!

Nessun ti salverebbe, a meno che
Fosti bello e robusto anzichenò
E promettesti di sposarmi me.
__________________

(4) L'ottimo Signor Pietro Sbolenfi si portava candidato alla Deputazione in tutti e tre i Collegi di Bologna. Il vero merito non è mai conosciuto e lo Sbolenfi rimase in terra. Un malvagio, rimasto avvolto nelle ombre del mistero, telegrafò allo sconfitto candidato che invece la sorte gli aveva sorriso. La famiglia quasi impazzì di gioia, il signor Pietro diede le dimissioni dal suo impiego di ff. di inserviente di III classe e si trovarono sul lastrico. Onta sul cranio indegno che pensò simile orrore!



SI DESCRIVE UN TEMPORALE

NEL DESERTO

Che veggo? Che miro? Rimbomba già il tuono!
Il tempo mi pare che faccia da buono!
Ahi, miser chi a casa scordato ha l'ombrel!
La grandine è grossa che pare una noce
E omai per vederci nel scuro feroce
Accender fa d'uopo frequenti candel.

Che veggo? Che miro? Un giovin garzone
Che solo soletto traversa il ciclone
E par che non curi dell'acqua il piombar!
Ah, certo tra i lampi lo guida l'amore!
Mel dice la speme che m'arde nel core!
Ah, certo quell'uomo mi viene a sposar!

Deh, frena il furore, fa un poco più adagio,
Che tu nol rovini, mio buon nubifragio!
Deh, fa che non giunga bagnato al mio sen!
Che veggo? Che miro? Ah, cruda mia stella!
M'illuse la speme, ho fatto padella!(5)
Egli era il Questore, non era il mio ben!!
__________________

(5) Prendere un granchio: Decapodus brachiurus Linn.
LA MIA GHIRLANDA POETICA(6)
Ad Enrico Zanettini
I
Questa è la mia ghirlanda! Il lauro eterno
Intrecciato co' fior, m'orna la fronte
E così salgo il dilettoso monte
Che il Nume de' poeti ha in suo governo.

Questa è la mia ghirlanda e state, o verno
O venti, o geli, non le arrecan onte.
La bagnò l'onda del Castalio fonte,
Col raggio la baciò l'astro superno.

Eccola: a voi, poeti, a voi la mostro
Olezzante di rose e di vïole,
Pura qual neve che sull'alpe fiocca.

Eccola dei color di croco e d'ostro,
Leggiadra come un fior che s'apre al sole:
Dio me l'ha data e guai chi la tocca!

II
Ma se tu, Zanettin, toccarla vuoi,
L'Argia t'adora e non se ne lamenta
E se magari ami fiutarla, il puoi,
Che tu ne sarai lieto ed io contenta.

Vieni Enrico ed ammira i color suoi:
Prendi e sciupala pur se ti talenta,
Poi che intatta la porgo agli occhi tuoi
E sguardo indagator non la sgomenta.

La conservai qual me la diede Iddio
Pura nella favella e nei pensieri,
Sogno dei vati e de' guerrier desio;

Ma poichè mi son legge i tuoi voleri,
Ad un solo tuo cenno, Enrico mio,.
Te la do tutta quanta e volentieri!
________________

(6) Enrico Zanettini domestico di S.E. Reverendissima Mons. Vescovo di Fano, respinse indignato l'effemeride dove scriveva la Poetessa, perché infetta di massime eterodosse. La signorina Argia gli pose affetto e gli inviò una corona di cardi con questi sonetti.
SI DUOLE DI ESSERE ABBANDONATA DALL'AMANTE

SONETTO SBOLENFIO

Già con versi diversi offersi a Tirsi
Un cor lieto d'offrirsi e gliel'apersi,
Ma i carmi tersi se n'andar dispersi
Ed io soffersi quel che non può dirsi.

Potè fuggirsi dunque e non sentirsi
Il crudo petto aprirsi al mio dolersi?
Potè amato sapersi e compiacersi
D'indispettirsi meco e di partirsi?

Tardi lo scorsi e tardi il piè ritorsi
Dai sentieri percorsi! Urge fermarsi
E rassegnarsi dei rimorsi ai morsi.

Quei dì son scorsi ed or che resta a farsi?
Il crin velarsi, il bruno intorno porsi,
E i discorsi trascorsi, ahimè, scordarsi!
RISURREZIONE(7)

Suonate campane la Pasqua giuliva,
Prendete o fanciulli in mano la piva,
Fedeli soldati sparate il cannon!
Risorto è il giornale che dianzi moria,
Risorto è Pierino, risorta l'Argia,
La vergin che disse la casta canzoni

Pudiche fanciulle, dal pianto cessate,
La danza del ventre pel gaudio danzate,
La vostra Sbolenfi tra i vivi e tuttor.
E, vergine sempre, ritorna fra voi
Tirando più forte d'un paio di buoi
Il carro funesto del proprio dolor.

Deh, come, o fanciulle, deh come piangeste
E tristi nel letto solingo diceste
"La nostra Sbolenfi perchè non è qui?"
Ma mentre la bella defunta pareva,
La morte che in pugno già stretta l'aveva,
Dischiuse le dita e quella fuggì.

Ed or che il mio canto più dolce rinacque,
All'opra interrotta che tanto vi piacque,
Pudiche fanciulle, tornate con me.
Destata dal sonno, col plettro rivengo,
Lo scuoto, lo stringo, nel pugno lo tengo
E voglio provarvi che morto non è.
______________________

(7) Rinasceva l'effemeride nella quale la Poetessa e Pietro, suo genitore, deponevano le loro secrezioni cerebellari.

Con una lima, frega e rifrega,
Potrei scappare non osservato ...
Ah, se potessi farmi una sega,
Sarei beato!...

O giornalisti, da sera a mane
Vi sia presente questo mio stato.
Un per finire fatto da cane
M'ha rovinato!




PIANTO DELLA CHIESA BOLOGNESE
SENZA PASTORE
Non relinquam vos orphanos;
veniam ad vos.
Jo. XIV, 18.
Sopra le piume vigilando sola,
Colei che già fu di Petronio e Zama
Leva le palme al ciel, languida e grama,
Poi che gaudio d'amor non la consola.

Lungo uno strazio è nella sua parola
Qual già nel pianto di Rachele in Rama,
E dal vedovo letto il Padre chiama
Perchè non scordi la fedel figliola.

E prega e mostra le gramaglie nere
In che da sì gran tempo il viso asconde,
E la nave di Dio senza nocchiere:

Ma il suo pianto non posa e n'ha ben d'onde
Poi che il barbaro Padre, alle preghiere
Con l'iniqua parola,(9) ahimè, risponde!
_________________

(9) L'iniqua parola è una interiezione dialettale bolognese che suona ingiurioso invito ad operazioni pneumatiche.
TEMPESTA IN MARE

Fra Bordighiera e Nizza,
Dove più azzurro è il mar,
Un giovin marinar
L'albero drizza.

Forte, gentile e bello
Vola sull'Ocean,
Col suo timone in man,
Come un uccello.

Nè morte nè ferita
Gli fa terror, perchè
Assicurato egli è
Sopra la vita;

Ma dalle parti basse
Di Greco e Maestral
Si leva un temporal
Di prima classe,

S'odon da lunge i tuoni
Si vede lampeggiar
E allora il marinar
Dice: "Coioni!(10)

Se dura niente niente
Tra poco si anderà
In pasto ai baccalà
Sicuramente.

Le braghe di fustagno
Umide sono già....
Cosa dirà mamà:
Se me le bagno?

In mar si sta benone,
Ma, se credete a me,
Si gode più al Caffè
Del Pavaglione,(11)

==>SEGUE
_____________________

(10) Interiezione marinaresca che denota sorpresa. (11) Condotto da Enrico Lamma in piazza Galvani a Bologna.

E se a toccare il suolo
Arrivo col seder,
Piuttosto che il nocchier
Fo il ruscarolo".(12)

Ma per combinazione
Mentre dicea così,
Il tempo si schiarì
Là, in quel cantone.

Dell'onde il mal governo
In un balen cessò
E il temporale andò
Verso Paderno.(13)

L'iniqua alfin parola
Ode in un porto dir
E tira un gran sospir
Che lo consola.

Gli affari di famiglia
Scorda e l'orrendo mar
E corre a ritrovar
La Centomiglia;(14)

Ahi lasso! e i suoi quattrini
Li spende così mal
Che va nell'Ospedal
Da Gamberini.(15)

Vedi da ciò quant'erra
Il detto popolar
Che dice: "loda il mar,
Tienti alla terra".
_____________________

(12) Raccoglitore ambulante di detriti organici. Dial. bol. (13) Qui la geografia è bastonata. Paderno non è tra Bordighiera e Nizza, ma sui colli a sud di Bologna. (14) Etera peripatetica e scalcagnata che disonora i vicoli di Bologna. (15) Già Direttore della Clinica Dermosifilopatica all'Ospedale di S. Orsola.
A EDRA COPRODITE
PASTORE ARCADE

RISPOSTA

Saggio Pastor, poichè il tuo nome suona
Chiaro nelle città dotte e famose,
Dall'altezza ove stai mite perdona
Alle mie rime tristi e vergognose.

Ahi, la ghirlanda che il tuo cor mi dona
È purtroppo d'alloro e non di rose
E vorrei barattar questa corona
In carni meno crespe e più polpose!

Che m'importa il saper come maestra
L'arte di Saffo quando Amor mi sdegna
Scaricandomi addosso la balestra?

Vorrei mutar questa vitaccia indegna,
Vorrei sentir suonare un'altr'orchestra...
Un marito, per Dio(17), chi me lo insegna?

SI COMPIACE DELLE PROSSIME NOZZE(18)

SONETTO SBOLENFIO

Spero davvero che il mio fiero isterico
Male, che assale quale un fucil carico,
Cessi gli spessi accessi e il mio rammarico
Cada per strada e vada nel chimerico.

Bandito è il rito ed un vestito serico
Stato è tagliato, come o dato incarico;
Del normal verginal segnai mi scarico,
Che l'ara cara già prepara il chierico.

Sposo! ed oso un focoso panegirico
In onor di chi al cor l'amor teorico,
(Che splende e non accende) or rende empirico.

Chi è matto affatto, questo fatto storico
Può far burlar nel suo ghignar satirico,
Ma intanto io canto e accanto a LUI mi corico!
__________________
(17) Bacco. (18) Ahi, non fu vero!
SONETTO SBOLENFIO

Spero davvero che il mio fiero isterico
Male, che assale quale un fucil carico,
Cessi gli spessi accessi e il mio rammarico
Cada per strada e vada nel chimerico.

Bandito è il rito ed un vestito serico
Stato è tagliato, come o dato incarico;
Del normal verginal segnai mi scarico,
Che l'ara cara già prepara il chierico.

Sposo! ed oso un focoso panegirico
In onor di chi al cor l'amor teorico,
(Che splende e non accende) or rende empirico.

Chi è matto affatto, questo fatto storico
Può far burlar nel suo ghignar satirico,
Ma intanto io canto e accanto a LUI mi corico!

EGLOGA(19)

MELIBEO

Titiro, tu che d'un gran faggio all'ombra,
A gambe aperte, stravaccato(20) stai,
Mangiando allegramente una cucombra,(21)

Un canonico sembri e chi sa mai,
Chi potesse vederti le budelle,
Bollettario, anche te che sghissa(22) avrai!

Io stento invece e queste pecorelle
Sono ormai senza tetto e senza pane
E campan di polenta e di sardelle.

Hai forse avuto eredità lontane?
Hai rubato una pisside o un ciborio?
O ti fai mantener dalle sottane?
________________
(19) Per errore, la Poetessa credette che S.M. l'Imperatore di Germania venisse a chiedere al Sommo Pontefice il divorzio e sposar quindi lei.(20) Coricato. (21) Cocomero, anguria. Cucurbita citrullus Linn. (22) Appetito furibondo.
TITIRO

Amico Melibeo, questo è notorio
E lo san fino i sassi di Bologna,
Che tu sei sempre stato un tabalorio;(23)

Ma non sapevo, e il dico a mia vergogna
Perchè l'imparo adesso solamente,
Non sapevo che fossi una carogna.

Qual reo sospetto t'è venuto in mente,
Asino porco, sulla mia condotta?
Sono un pastore onesto ed innocente!

E se non fossi mio compatriotta
Ed anzi amico mio di Seminario,
Tu mi faresti venir su la fotta.

Basta; veggo però ch'è necessario
Dirti come domai l'iniqua rana,(24)
Essendo un fatto un po' straordinario.

Tu saprai che quest'altra settimana
Una dolce fanciulla, un puro fiore,
Che delle poetesse è la sovrana,

Magrolina se vuoi, ma un vero amore,
L'Argia Sbolenfi insomma, e ho detto tutto,
Sposa ... imagina chi? L'Imperatore!

La nuova si sapeva dappertutto,
Ma io la vidi sol nell'È Permesso,(25)
L'unico foglio serio e di costrutto.

Appena letto, allon! mi sono messo
Le braghe dalla festa e il gabbanino
E son corso da lei come un espresso;
==>SEGUE
_____________________

(23) Uomo di poco cervello. Captus mentis. (24) Non è la rana esculenta Linn. ma il sinonimo bolognese di miseria. Questo simbolico batracio ricorrerà sovente in queste carte. (25) L'effemeride in cui videro la luce molte di queste rime.
Ma siccome era chiusa in camerino
A far dei versi al suo futuro sposo,
Fui ricevuto dal signor Pierino(26)

Che largo, liberale e generoso,
Mi offerse cordialmente da sedere,
Ma il caffè no, perchè gli dà il nervoso.

"Ohi, chi vedo!"--"Tersuà"--"Bravo! ho piacere!
Cosa porti? L'agnello?"--"Nossignori" -
"Peccato, che t'avrei dato da bere!" -

Così ciarlando, ecco l'Argia vien fuori,
La qual, come saprai, ci diedi il latte,
(Ossia mia moglie) e latte dei migliori.

Era in disabigliè, con le ciabatte,
Una sottana bianca e un zuavino
Che ci arrivava appena alle culatte.

"Oh!"--lei dice--"Mo bravo Titirino!
Non sai chi sposo? Ah son tanto felice
Che a momenti mi viene uno smalvino!(27)

Fra pochi giorni sono Imperatrice!
Sei venuto a veder la tua sovrana?
Ti farò ricco, e sai chi te lo dice!

A tua moglie ci pago una collana,
E con l'acqua di felsina, all'armento
Fin da quest'oggi laverai la lana.

Farò indorar le vacche ed il giumento,
Ti selciarò la stalla di brillanti,
E l'aldamàra(28) tua sarà d'argento.

Or vanne Titirino e quei birbanti
Che tempo addietro mi credevan pazza,
Crepino d'accidente tutti quanti.
==>SEGUE
____________________

(26) L'onorando signor Pietro Sbolenfi, degno genitore dell'autrice, cui è dedicato il volume. (27) Che Dio ci liberi e scampi tutti! È un accidente. (28) Concimaia.

Olindo Guerrini - RIME DI ARGIA SBOLENFI - parte I
Pagina a cura di Nino Fiorillo           == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
RIME DI
ARGIA SBOLENFI
Prefazione

di Lorenzo Stecchetti
__________________
Ecco un libro sbagliato.
E poichè una cortese ma assidua insistenza durata oramai tre anni, riuscì pure a levarmi di sotto questa prefazione che non scrissi volontieri, così, per patto espresso, mi serbai il diritto di dire l'animo mio tutto intero e lo dico.
* * *
Ai lettori (se il libro ne avrà, che non li merita) riuscirà difficile capire come diavolo possa esser nata una insanità simile a questa; ed ecco, per quel ch'io so, come avvenne.
Vegetava in Bologna, e può darsi che vi agonizzi ancora, un foglietto di carta stampata
venduto una volta la settimana ai cittadini che non sanno come sciupare il tempo. S'intitolava "È permesso?..." e non poteva uscire dalla breve cerchia delle mura poichè mordeva solo gli uomini che dentro alle mura hanno fama, uffici o difetti. Perciò era scritto o in dialetto o in italiano così fitto d'idiotismi da parere un peggiorativo del dialetto. Lo dirigeva un certo Cesare Dallanoce, al cui cognome botanico s'era appiccata l'aggiunta di Moscata; giovane nottambulo, di qualche spirito, con un fisico di cercopiteco peggiorato, sotto al quale stavano mescolati l'odio e la bontà in un connubio stravagante. Anzi l'odio era uno e le bontà parecchie; e segno dell'odio cieco, furibondo, indomabile era il Presidente di questa Deputazione Provinciale che non gli aveva mai fatto niente; anzi non gli badava nemmeno. Ma il Moscata era fatto cosi e se la sua bestia nera avesse fatto più miracoli che non S. Antonio di Padova, gli avrebbe tolti i meriti ad uno ad uno, mordendolo e lacerandolo tutti i sabati nel suo foglio di carta. Tolto questo brutto difetto, che doveva esser vizio di natura incurabile, era buon diavolo e tutti gli volevano bene. Prestava volentieri sè stesso e il giornale per opere di beneficenza, non diceva troppo male del prossimo suo, insomma era simpatico a molti ed odiato da nessuno. Aveva avuto la fortuna, fin da principio, di contare tra i collaboratori "El sgner Pirein" il signor Pierino, il cui nome ed il cui tipo non saranno dimenticati così presto dai bolognesi. Antonio Fiacchi, bravo e buon giovane di brillante ingegno, aveva trovato questo esilarantissimo tipo del vecchio petroniano col cappello bianco a cilindro l'estate, il tabarrino a pipistrello l'inverno e le scarpe di panno tutta l'annata; il vecchietto brontolone, credenzone, ricordatore inesausto dei tempi passati, detrattore dei presenti, ma in fondo ingenuo sino alla balordaggine. In un altro di questi giornaletti municipali aveva fatto le prime armi, in un dialetto italianizzato che accresceva comicità al contenuto di certe lettere che non possono ricordarsi tuttora senza ridere. Il tipo aveva fatto fortuna ed era quasi assunto alla dignità di maschera cittadina come il dottor Balanzone; cosicchè in certe feste carnovalesche, in un villaggio di legno e di cartone che serviva da fiera, il signor Pierino fu fatto sindaco e sciorinò proclami ed allocuzioni da non dire. Ma il Fiacchi fu chiamato a Roma e il signor Pierino tacque.
Il Moscata che aveva buon fiuto, lo cercò pel suo giornaletto, ma il Fiacchi rispondeva a buona ragione che, fuori dell'ambiente bolognese, si sentiva disorientato e che temeva di non far nulla di buono. Moscata insistè e si venne a questo che il signor Pierino Sbolenfi avrebbe scritto come corrispondente dalla capitale; e così fu. Allora il bel tipo ideato dal Fiacchi rivisse in una serie di lettere datate "dalle rive del Colosseo" che fecero la fortuna del giornale. L'egregio signor Sbolenfi aveva ingrandito l'allegro campo dell'arte sua ed oltre alle amene confidenze delle sue tribolazioni famigliari, ci dava le impressioni romane ricamate sulla tela delle proprie avventure. E lo vedemmo uscire di non so qual Ministero, autocandidato al tempo delle elezioni Giolitti, perdere l'impiego e cercarne un altro per perderlo di nuovo. Lo vedemmo custode dei tempietti municipali sacri alla Dea Cloacina abbandonarsi a meste riflessioni sulle miserie umane ed a giudizi comparativi argutissimi sul
giornalismo contemporaneo in relazione ai riti celebrati nel suo tempietto. Ma poichè le autorità municipali nel tempo del colèra avevano segretamente ordinato a lui ed ai colleghi una sorveglianza intima sulla condotta dei cittadini ed egli aveva propalato la cosa nel giornale, eccolo di nuovo senza impiego ed in cerca di un altro. Insomma tutto un romanzo comico, pieno di trovate felici, di festività arguta e qualche volta di velata melanconia. E il signor Pietro Sbolenfi aveva per moglie la signora Lucrezia e per figlia la signorina Argia, attrici principali nella stravagante commedia della sua vita. La grafomania è contagiosa e la signorina Argia cominciò a mandare al giornale le sue epistole lamentevoli e pretenziose. Si voleva, a quel che pare, crear un altro tipo; quello della ragazza che ebbe una mediocre istruzione e che, inacetita dal celibato, chiama il pubblico a testimonio delle sue isteriche sofferenze, Il tipo non era così allegro come l'altro; di più non era nuovo e le manifestazioni dell'isterismo essendo spesso erotiche, c'era pericolo di cadere in una triviale pornografia. E la signorina ci cadde malamente, lunga e distesa. È ben vero, lo ripeto, che il tipo non si poteva intendere senza l'erotismo; ma c'è modo e modo. È ben vero che i lettori di un giornale quasi in dialetto non avrebbero inteso bene una Nuova Eloisa e che per ottenere l'effetto occorreva sal grosso di cucina, non aromi delicati; ma resta tuttavia che nulla giustifica il turpiloquio mal velato sotto gli equivoci grossolani, la scatologia suina che non si vergogna della sua loia. Ci fu chi torse il naso, ma purtroppo,il pubblico in generale applaudì! Così l'Argia si mise in piazza, prima, come ho detto, con certe lettere ridicolose che rifacevano l'ortografia e lo stile paterno, poi a poco a poco, con certe poesie non meno ridicole di cui son saggio le prime di questo sbagliato volume. Unico merito, se pure è tale, è un progressivo levarsi e correggersi, come di chi, avvistosi dell'errore, cerca di spacciarsi dal brago. Ma ciò non scusa in modo alcuno la bassezza e la sudiceria sciocca degli esordi.
A questo modo la poetessa (come si battezzava da sè modestamente) seguitò a metter fuori le sue fagiolate e il male non sarebbe poi stato grande se non si fosse pensato a raccoglierle in volume. Ah, veramente il bisogno di una sporcizia di più, a questi, bei lumi di luna, non era sentito! A me pareva impossibile che si potesse giungere a questo; tanto che, pregato anni sono, di fare la prefazione alla raccolta, dissi di sì, nella certezza che non se ne sarebbe fatto nulla. I versi erano ancora pochi e pensavo che fino ad un volume la poetessa non ci sarebbe arrivata; ed ahimè, ci arrivò! Ora innamorata dell'Imperatore di Germania che credeva venuto a Roma per sposar lei, ora intabaccata di un canonicaccio di manica larga, degno Vescovo di Seboim, la pettegola figliò tanti versi da mettermi al punto di mantenere la promessa. Non è a dire quante scappatoie cercai per esimermene, come volli dissuadere, come temporeggiai! Ma non ci fu verso. La parola era data e, per quanta ripugnanza ci avessi, dovetti mantenerla. Solo mi riserbai di dire schiettamente quel che ne penso, non perchè il disapprovare possa valermi di scusa, ma perchè lo sfogarsi dopo tutto è un sollievo.
Se frugo nei più intimi ripostigli della mia coscienza, non ci trovo nulla che mi chiami all'onore degli altari. In quel quarto d'ora di notorietà cui, come tanti altri, soggiacqui, non fui precisamente lodato come continuatore delle virtù di S. Luigi Gonzaga o come emulo di Giuseppe servo di Putifar. Tempi, ahimè, troppo lontani e che volentieri rivivrei; parole e versi che, potendo, ridirei senza rimorso e senza rossore; ma tempi, ahimè, troppo lontani! Dico questo, non per balorda libidine di parlare de' fatti miei, ma perchè si creda che, disapprovando senza restrizioni queste scelleraggini, scrivo per convinzione e non per affettazione. Allora ed oggi mi persuadeva e mi persuade la teoria della immacolatezza dell'arte, purchè sia arte e sia bella. Venere Anadiomene e Cristo Crocifisso sono rappresentati ignudi tutti e due e nessuno dei due nella rappresentazione artistica è immorale. Onorato di Balzac, che non è poi il primo capitato, nell'Avant--propos de la Comédie Humaine, diceva--"Le reproche d'immoralité qui n'a jamais failli à l'écrivain courageux, est d'ailleurs le dernier qui reste à faire quand on n'a plus rien a dire a un poète. Si vous étes vrai dans vos peintures, si à force de travaux diurnes et nocturnes vous parvenez à écrire la langue la plus difficile du monde, on vous jette alors le mot immoral à la face"--Solo il brutto è immorale.
È perciò che questa studiata ricerca del brutto, del triviale, dell'imbecille, mi irrita. Questa non è più arte, è laidezza, è turpiloquio spregievole; ed ho appunto voluto ricordare il quarto d'ora di notorietà che ebbi in passato perchè si vegga che la disapprovazione non viene da bigotta ipocrisia, ma da convinzione salda intorno alla ragion d'essere dell'arte. E che cosa ha da fare l'arte con queste cretinerie pediculose che s'intitolano romanze, favolette etc.? Anzi è bestemmia solo il ricordare il nome santo dell'arte a questo proposito e il criterio non corrotto del pubblico italiano condannerà senza dubbio e senz'appello queste stolte sconcezze all'obbrobrio ed all'oblio che meritano. Mi duole di dover parlare così acerbamente, ma era, lo sento, mio stretto dovere. Più avanti la poetessa (chiamiamola così, poichè lo vuole) lascia lo sterquilinio in che si compiaceva e si innalza, per quanto glielo permettono le deboli penne, ad una forma un po' più elevata. C'è per esempio un "Inno a Venere" che, se nel concetto è della più abietta pornografia, nella esecuzione si può dire più conforme ai canoni della lirica; ed io, appunto per quel che ho detto di sopra, non lo disapprovo affatto. Qui si potrà parlare d'arte, ma nella prima parte del volumetto, no, mai. Tutt'al più ci potremmo rifugiare nella caricatura, nella rimeria giocosa, negli scherzi più o meno piacevoli, ma il giudizio, anche il più indulgente, sarà sempre di riprovazione. La stupidità può muoverci alla compassione, ma l'affettazione, la caricatura della stupidità, specie se oscena, potrà muoverci al riso per un momento, ma non mai all'applauso sincero. Nè vale sfoderare illustri esempi. Ma chi oserebbe parlare del Berni, del Burchiello od anche dei poeti maccheronici o fidenziani a questo proposito? Certo, in quei capitoli e in quei sonetti c'è il doppio senso, l'allusione mal velata, la forma volutamente pedestre: ma il punto di partenza è proprio diametralmente opposto a quello da cui parte la nostra poetessa. Il Folengo, per esempio, par che voglia rifare (almeno nella Zanitonella), il contadino che si sforza di parlare come il cittadino, l'idiota che si sforza di parlar colto. Qui invece è la persona colta che si sforza di parere abietta. Là c'è uno che vuoi uscire, come il Vallera della Nencia, dal dialetto e dalla rusticità e cerca il comico nel tentativo di elevarsi alla dignità dell'arte; qui, al contrario, abbiamo la ricerca del comico intervertita, la rappresentazione di una persona colta che, per far ridere, si abbassa e si infanga in tutti i letamai che trova per via. Là c'è una caricatura del tentativo di salire, qui del discendere. Là c'è il pagliaccio che esce dal circo e s'ingegna di far intendere che, uomo anch'egli, soffre ed ama; qui abbiamo invece la persona per bene (almeno lo spero!) che s'incanaglia e si fa pagliaccio per far ridere colle smorfie e le contorsioni del viso infarinato. È perciò che male si potrebbero addurre gli esempi come scusa, perchè gli esempi non calzano.
Si può essere di manica larga, vantarsi spregiudicati e sorrider di tutto; ma in fondo al cuore resta pur sempre qualche cosa che si rivolta al puzzo ed alla lordura. La ripugnanza pel laido è istintiva e si vede mal volentieri un'artista, o una che si crede tale, far getto così sconciamente della propria dignità. Avete visto in qualche "caffè concerto" di ultima classe certe matrone appassite e verniciate cantar colle gambe e gesticolare colle natiche? Ne inorridite ancora? Ebbene, questa della signorina Sbolenfi è letteratura da "caffè concerto."!
Dunque, riprovazione piena, intera ed assoluta.
* * *
Ed ora che ho detto per lungo e per largo il parer mio, bisognerà pur cercare in questo scellerato libercolo, non dirò qualche cosa degna di lode, che non ce n'è, ma un pretesto per invocare le circostanze attenuanti. Una prefazione che fosse una stroncatura da capo a fondo
sarebbe una mostruosità. Proviamoci. Si potrebbe dire intanto che l'autrice ha fatto bene ordinando queste cose sue in modo che crescano sempre di serietà (!) e di correzione. Parte dalla insanità cercando di salire alla lirica e in questo successivo progresso è il filo che lega il volume. Bisogna ricordare che si tratta di una pettegola semi letterata che va raffinandosi a poco a poco. Questo almeno pare che sia il concetto generale e, anche nei volumi di liriche, credo lodevole un legame che costringa le parti diverse. Sia un mazzo di fiori, sia un fascio di stecchi, un vincolo ci deve essere, se no, invece di un mazzo o di un fascio, avremo un mucchio incoerente di spazzatura. M'è sempre piaciuto, anche nelle raccolte di versi, un romanzo che spieghi tutto. Il Canzoniere del Petrarca (se non è peccato mortale ricordarlo qui ed a questo proposito) non è egli dunque un romanzo d'amore? Un concetto unico circola per le diverse parti, come il sangue nelle membra e vivifica l'opera nella mente del lettore. Un libro deve essere un organismo. Ed anche non è da passare senza almeno un segno di benevolo consentimento sul tentativo di poesia patriottica ed un po' socialista, che fa capolino in fondo al volumetto. In questi nostri bellissimi tempi pareva che il patriottismo consistesse tutto nel prendere la roba altrui. Di qui i disastri eritrei, di qui l'epizoozia dei commendatori, la quistione morale e i sospetti, confortati da troppe probabilità, sulla corruttela, la venalità, la disonestà insomma, di chi doveva esser esempio del contrario. Sottrarre gli accusati all'istruttoria ed ai giudici costò poco ad una maggioranza metà di amici, metà di complici, ma è facile capire come questi segni di decadenza morale fossero dolorosamente sentiti da tutti coloro pei quali il patriottismo non fu mai una chiave falsa per aprire gli scrigni pubblici o privati. "Avete fatta l'Italia per mangiarvela" dissero i clericali, così pronti a profittare delle calamità del loro paese; egli Italiani, scettici per istinto, rilessero dubitando le pagine della storia loro e sentirono rimpicciolire in se stessi le sante idee di patria, di indipendenza e di libertà. Quanto male abbiano fatto alla coscienza italica gli ultimi scandali, lo dirà purtroppo l'avvenire: per ora intanto la patria non è più di moda. Di moda invece vuoi diventare il clericalismo. Chi guadagnò diventa conservatore e conservatori si dicono e sono tutti gli arrivati. Se, per fortuna delle idee liberali, la cocciutaggine della decrepitezza non mantenesse così ampia la fossa che separa l'Italia dal papato, tutti questi conservatori d'oggi sarebbero papalini domani. Già le classi abbienti fan l'occhio di triglia alla teocrazia, si offrono e si danno. Poichè la fiducia nella protezione della Benemerita Arma è scemata e i timori per la sicurezza della proprietà sono cresciuti, gli abbienti pensano che la paura dell'inferno può essere utile ed efficace. Di qui un ritorno interessato alla religione e l'adorazione nuova di un Dio personale, terribile e punitore. Non è la fede che fa queste miracolose conversioni, ma il basso, il laido interesse. Se costoro pensassero di trovare altrove una buona tutela dei beni o delle cariche, con la stessa facilità sarebbero domani protestanti, ebrei e magari repubblicani. Per conservare una buona rendita si può portare anche il berretto rosso.
E così si veggono a poco a poco scomparire i partiti intermedii nella gran massa dei cittadini. Si riveggono soltanto in Parlamento, poichè per giungere su quegli scanni, è necessario l'ibridismo. Il deputato deve essere come il pipistrello che si diceva topo od uccello secondo il bisogno; deve essere possibile sempre ed atto per indecisione di lineamenti a qualunque trasformazione. Ma il paese non è così e va scindendosi in due grandi partiti; il clericale e il socialista. E sono le due uniche schiere dove ci sia ancora vitalità, abnegazione, e passione di proselitismo. Tutto il resto è morto od è moribondo. Guardatevi intorno e dite se questa non è la verità. Così a poco a poco ciascuno entra in una di queste due parti, secondo le convinzioni o gli interessi. Gli odiatori del nuovo, i timorosi dell'avvenire, tornano penitenti a Canossa; gli altri che hanno ancor fede nel progresso dell'umanità, nella perfettibilità dell'assetto sociale, fanno un passo innanzi e, socialoidi oggi, saranno socialisti domani. E dell'esser andata piuttosto con chi va avanti che con chi retrocede, volevo tener buon conto all'autrice di queste rime; di quelle, dico, che chiudono il volume. Tuttavia, siccome questo sarebbe un giudizio di opinione e non di letteratura, me ne astengo. Ma ho voluto dir tutto questo anche per notare un altro difetto del libro; quello cioè di esser formato, nella sua parte men pessima, di rime di occasione, le quali, come è naturale, colla occasione, sfioriscono. Molti fatti e molte allusioni domani non saranno più ricordati; alcuni anzi, anche oggi, sono quasi fuori della nostra memoria. È perciò che questo libercolo, secondo me, è nato morto, e gli sta bene! Già era meglio che non nascesse.
Ma quel che sopratutto mi piace nella poetessa, (come si chiama lei) è l'aver sdegnato i novissimi deliri simbolisti e decadenti, nei quali pure poteva cascare, tratta com'era dalla smania della stravaganza. Di questo, senza restrizione alcuna, la lodo. Oh, i preraffaelisti! Chi ci libererà finalmente da questi nuovi monaci in veste di artisti, che per libidine di novità, per ricerca di posa, retrocedono sino alle puerilità del Beato Angelico, nell'odio affettato ed ipocrita della vita vera e della forma plastica? Perchè, lettori, chinatevi pure, raccogliete i torsoli di cavolo, magari le pietre e scagliatemi tutto sulla testa, ma lasciatemi dire quel che sento: il Beato Angelico non lo posso soffrire. Ah, come sono antipatiche quelle sue Madonne magre allampanate, con gli occhi inebetiti e le carni verdoline; e quegli angeli col parucchino biondo bene arricciato, la trombettina alla bocca e il tutto su fondo d'oro! Bella roba, per Dio, impiastrava questo frataccio, in pieno Rinascimento! Anche un passo indietro e tornava ai bizantini, vivente Donatello! Se c'è qualche cosa da ammirare in lui, sono i suoi ammiratori. Ed ora, a sentire questi nuovi missionari dell'arte ideale, bisognerebbe ritornare forse più indietro. La carne è impura per loro come per gli asceti della Tebaide, e dipingono certe figure anemiche, sofferenti per stento di pubertà malaticcie, che fanno venir sulle labbra il motto imperativo stampato su tutti i muri Bevete il Ferro-china Bisleri! Bevetelo e lasciate in pace queste figurine di uomini senza polpe e di donnine che vedon bianco. Non ci sono solo angoli al mondo; ci sono anche le curve. È certo che lo studio e la riproduzione del mondo esterno come è, costano più fatica che non l'operare secondo una formola od una maniera. Non è così difficile il buttar giù una di queste faccine insipide e di madreperla, come il mettere il sangue e la vita in un viso di carne sana come fecero il Correggio e il Tiziano; e sia. Ma perchè mascherare l'impotenza colle teorie e tornare indietro e non confessare piuttosto che manca la forza per andare avanti? Ah no, mangiate carne o ricorrete magari a tutti i ricostituenti, a tutti gli intrugli farmaceutici più corroborativi, ma non
dipingete più fantasime e burattini! E come sono noiose le sciarade del simbolismo! Pensare che ci sono dei superuomini che invidiano gli allori di Oscar Wilde; pensare che tutto questo è un regresso, un ritorno al Medio Evo, proprio quando sta per cominciare il secolo ventesimo! Ma dunque sarà proprio vero che l'intero genere umano sia malato di nervi, poichè in tutti questi libri non si trovano che squilibrati e mattoidi? Non ci sono più donne sane in terra che da ogni pagina vaporano le aure dell'isterismo? È possibile che non si trovi più un cuore buono, un cervello equilibrato, un utero normale? L'epilessia e l'allucinazione sono dunque la regola e la sanità l'eccezione? Se i disturbi dell'innervazione sono così generali, come sembra a questa letteratura psicopatica, non sarebbe egli più utile raccomandare ai sofferenti, non la morfina, ma le docciature e la bicicletta? Se l'esaurimento nervoso è il male che affligge la presenti generazioni, non sarebbe meglio leggere l'Ariosto all'aria aperta, piuttosto che inghiottire l'Ibsen nell'afa del teatro? Ma no; l'Ariosto non è più di moda e l'aria aperta sciupa il candore della pelle clorotica; e così sia! Anche la signorina Sbolenfi è isterica, e come! Ma essa sorride della propria imperfezione e la mette in caricatura, per finire il volume, se non perfettamente risanata, almeno convalescente. E di questo ritorno a lodarla, perchè è troppo facile, in tempi di contagio, ammalare come il prossimo.
* * *
Ed ora che ho detto il bene e il male, depongo volentieri, anzi con giòia, la penna che non avrei preso in mano se una promessa non mi ci avesse costretto. Abbandono il libro al disprezzo dei virtuosi ed alle risate di quegli altri, lieto, in quanto a me, di aver imparato questo; che non bisogna prometter mai prefazioni e tanto meno farne.

L. STECCHETTI

LA ROMANZA DEL PAGGIO

Son circa tre anni, tre mesi e tre giorni
Che il paggio Fernando montava a caval
E adesso galoppa per questi contorni
Saltando gli abissi, le piante e il canal.

Per cosa galoppa? Un turco infernale
Al povero paggio l'amante rubò
Ed ora egli cerca quel porco maiale,
Perchè di sbranarlo Fernando giurò.

Ma il turco, ben visto dal proprio Sovrano,
Fu giusto per Pasqua promosso Pascià;
Pascià da tre code, che dopo il Sultano
È l'uom più codardo di quella città.

Fernando che il seppe, fu svelto e ci andiede
E incognito al turco si fe' presentar.
Un monte di ciarle d'intender ci diede,
Di modo che a pranzo si fece invitar.
*
Mangiato l'allesso, mangiato l'arrosto,
Il turco si fece portare i marron,
Sui quali Fernando buttò di nascosto
Dei torcibudella che avea nei calzon.

- "O Dio, che dolori! Chiudete la porta ...
Chiamatemi il prete... più regger non so ...
Io muoio!..." Ed insomma, per farvela corta?
Fu tanta la sciolta che il turco crepò.

Allora Fernando andò sull'altana,
Chiamò la sua bella, la fece scappar,
Ci diede i quattrini la Banca Romana
E a casa col treno potetter tornar.

Garzoni e donzelle che attenti ascoltate
La lieta canzone che pianger vi fa,
L'amore del prode Fernando imitate,
Però col permesso del vostro papà.


Vanne a Bologna, sta contento e sguazza,
Che in compenso del latte che m'hai dato,
Io ti farò più ricco di Cavazza!(29)" -

Io dico grazia! vado, e sul mercato
Da un buon amico mio, sessanta lire
Al sessanta per cento, ho ritrovato;

Ma il primo vaglia che mi fa venire
L'Imperatrice Argia, pago ogni cosa,
Faccio il porco e mi voglio divertire.

Ecco spiegata la ragione ascosa
Di tutta quanta l'allegrezza mia,
Viva il signor Pierin! Viva la sposa!

MELIBEO
Viva l'Imperator! Viva l'Argia!!!

SI SCUSA PER AVERGLI MOSTRATO POCO RISPETTO(30)

Mio diletto Signor, poichè vedesti
Senz'alcun velo il negro mio misfatto,
Signor, perdona e fa che in te non desti
Scandalosi pensier l'orribil fatto.

Nel momento fatal forse dicesti:
"Cos'è quello, per zio?! Divento matto?
È questo l'occhio dell'Argia? Son questi
L'aspetto e i vezzi suoi? Mo niente affatto!"

E ben dicesti! Anch'io quanto mi posi
Viceversa così, pensai lo stesso
E tu lo sai che non te lo nascosi;

Ma, deh, quell'affaraccio dell'ingresso
E il panorama che alla folla esposi,
Scordali, Cocco, e sposami lo stesso!
__________________________________
(29) Il Conte Felice Gavazza, banchiere, riputato per uno dei più ricchi bolognesi. (30) Recatasi incontro a S.M. l'Imperatore, salì sopra un palo e, urtata dalla folla, cadde a capofitto, mostrando al suo sperato amante, com'ella dice, poco rispetto.
SFOGO CONTRO COLUI(31)

C'era una volta in Roma una ragazza
Il cui nome gentil non vi dirò,
Che per l'Imperator divenne pazza
E di dargli la man si lusingò.

Ei venne a Roma e per la gioia grande
Ella dinanzi a lui cadde boccon
E gli mostrò che non avea mutande
In omaggio all'igiene e alla stagion.

Bismarck, quando lo seppe, andò in furore,
Afferrò penna, carta e calamar
E poi telegrafò all'Imperatore
Che per l'amor di Dio non stesse far,

E quella donna ci si mise dietro
Seguitandolo sempre per città,
Dal re, dal papa, in piazza ed in San Pietro,
Raccontandogli mille infamità.

E lui sentendo questa sinfonia,
Da prima cominciò a tintinagar,(32)
Poi nel più bello piantò lì l'Argia
E coi Sovrani s'imbarcò per mar.

L'empio! Intanto la povera tradita
Nei Cappuccini andò per la passion;
Mutò speranze, desideri e vita,
Ed, ancella di Dio, prese il cordon.

Caste donzelle, deh, accogliete in seno
Questo consiglio che mi vien dal cor.
Portate sempre le mutande, o almeno
Copritevi se vien l'Imperator!
_________________________

(31) Colui, ahimè, è l'alto personaggio di cui alle rime precedenti, e quella donna la sua legittima e graziosa consorte. (32) Tentennare. Dial. bol.
AVE CRUX!(33)

All'illustre e Venerato prosatore
e suo diletto genitore
questo segno d'onore
pegno d'amore
col cuore
Argia

Padre diletto,
Sbolenfi Pietro,
Al tuo cospetto
Vinta m'arretro,
Perchè sei degno
D'aver un regno.
Ma poichè il regno ti negò la sorte
E giaci oppresso dall'immonda rana,
Col tuo bel libro sfiderai la morte,
Il bel libro cui feci io da mammana,
Il bel libro che può dirsi un portento,
Da cui speriamo alfine il nutrimento.
E poichè il mondo,
Non ti fa onore
Vieni, giocondo
Mio genitore,
Che ad alta voce
Ti dò la croce!

__________________

(33) L'ottimo ed erudito Signor Pietro Sbolenfi, genitore della poetessa, aveva stampato un applaudito volume di ricordi bolognesi. La poetessa lo rimeritò della dedica fattale con questo segno d'onore.
E l'ombra disse: "Non hai vergogna
Di quel che hai fatto, brutta carogna?
Libera il figlio; dà mente a me!"
Al padre infame, pel terror grande,
Cambiar colore fin le mutande,
Tal che ammorbava da capo a piè.

Indi, recatosi alla prigione,
Con mano tremula aprì il portone
E disse: "Vattene dai piedi fuor!"
Augusto, libero, ratto andò via,
Indi, impiegatosi, sposò l'Argia(36)
E lunghi vissero giorni d'amor.



IN DISPREZZO DI UNO SPASIMANTE VECCHIO E STORTO

SONETTO SBOLENFIO

Ridicolo che il vicolo girandoli,
Sciupi i sassi coi passi e indarno ciondoli.
Ti parlo schietto, io non ammetto scandoli,
Ne sopporto uno storto che mi sdondoli.

Gli affetti celo e in denso velo ascondoli
Ai vegliardi testardi; indi burlandoli,
Li mando in bando quando, innamorandoli,
Strazio i lor cor e nel dolor sprofondoli.

Se i maschi adoro, pur tra loro io scindoli
In vecchi molli c'hanno i colli pendoli
E in giovinetti eretti e di buone indoli;

Ma i somari tuoi pari io vilipendoli
E far puoi quel che vuoi, tu non m'abbindoli,
Vecchio brutto, distrutto e tutto a sbrendoli!
____________________

(36) Ahi, non fu vero!
CONFIDA LE SUE PENE ALLA BEATA VERGINE

SONETTO SBOLENFIO

O pia Maria, ve' della mia terribile
Pena terrena la catena ignobile!
Vien manco il fianco stanco ed è impossibile
Ch'io resti a questi mal molesti immobile!

Dura sciagura, arsura inestinguibile,
Ricetto eletto han nel mio petto e, mobile
La mente, sente un serpente invisibile
Che ha vinto, estinto, in lei l'istinto nobile!

O Bella Stella, o Verginella amabile,
Ascolta, volta a me stolta e volubile,
La preghiera sincera e vera e stabile.

Odo che un nodo sodo e indissolubile
Fa fiorita ogni vita attrita e labile....
Mia pia Maria, fa ch'io non sia più nubile!!

IN DISPREGIO DELLA IMMONDA RANA(37)

SONETTO SBOLENFIO

Rana, sovrana dell'umana e ignobile
Razza, che pazza sguazza in brago orribile,
Sdegno il tuo regno indegno e sfido immobile
Mira! l'ira tua dira e inestinguibile!

Tardi e codardi dardi avventi al nobile
Mio petto, schietto, eletto e irremovibile.
Sprezzo il tuo lezzo e in mezzo al volgo mobile,
Vera guerriera e fiera, io sto invincibile.

Il mondo in fondo è tondo ed è volubile,
Come una luna la fortuna è instabile,
E, onesta o lesta, niuna resta nubile;

Sol io, mio Dio, col mio desio ineffabile,
Giaccio, e non straccio il tuo laccio insolubile,
Rana ircana, malsana e miserabile!!
__________________

(37) Batracio simbolico di cui vedi indietro.
TAVOLETTE MORALI

I
Il coccodrillo
Chiese al mandrillo:
"Perchè sei qui?"
Disse il mandrillo
Al coccodrillo:
"Perchè di si!"

       Morale

Opra tranquillo
Come il mandrillo
La notte e il dì.

II
Un pollaio, di gennaio,
Nel solaio d'un notaio
Un porcaio diventò;
Ed un pollo non satollo,
Il suo collo mezzo frollo
Col midollo si mangiò!

       Morale

Imparate, disgraziate
Non pigliate cantonate
Se bramate dei cocó!

III
La cicala avea cantato
Tutto luglio a perdifiato.
Quando il caldo fu sparito,
Si sentì molto appetito
Ed andò dalla formica
Domandandole una spica.
La formica le richiese:
"Che facesti l'altro mese?"
La cicala allor riprese:
"Ho cantato, o dolce amica!"
"Brava!"--disse la formica -
Tu facesti arci benone
Ed invece d'una spica,
Prendi, cara, ecco un zampone!"

       Morale

Imitate in ogni cosa
La formica generosa.

IV
Una sciabola un po'sciocca
Col revolver litigò
E finì col dirgli: "tocca
Questa lama e tacerò!"
A costei che lo contrasta
Con sì stolta vanità,
Il revolver disse: "tasta
Queste palle, e zitto là!"

       Morale

Ragazze, non scherzate
Con l'armi caricate!

V
La pulce milanese
Che vive di stracchino,
Fuori del suo paese
La credono un pulcino.

       Morale

Un uomo d'esperienza
Si fida all'apparenza.

VI
La farfalletta
Sopra la vetta
D'una polpetta
Si riposò.
Ma una civetta
Accorse in fretta
E, poveretta!
Se la mangiò.

       Morale

Lettor, sta attento e vedi
Dove tu metti i piedi.

VII
La pispola diceva al pispolino:
"Bada di non sporcarti il gabannino!
Ma il pispolin la madre non paventa
E in umido finì con la polenta.

       Morale

Ubbidisci alla madre ed al fratello,
O nell'umido andrai come l'uccello.


VIII
Un tonno innamorato
Lesse i Promessi Sposi
E tutto riscaldato
Da sensi religiosi,
Andò pianin pianino
A farsi cappuccino.

       Morale

Fai bene se t'astieni
Dal legger libri osceni.

IX
Una foca in vaporino
Volle andar sino a Bazzano,
Ma le cadde il taccuino
Dalla tasca del gabbano
E se volle andarci mai
Dovè prendere il tramvai.

       Morale

Toccherà sempre così
A chi viaggia in venerdì.

X
Un delfino al mare in ripa
Che fumava nella pipa,
Prese fuoco e si scottò;
Ma uno struzzo di passaggio
Lo guarì con del formaggio
Che sul buco ci applicò.

       Morale

Questa favola mi pare
Che v'insegni a non fumare.

XI
Fece l'ovo un giovin gallo
Fuor del nido e lo covò,
Ma uno svizzero a cavallo
Non volendo lo schiacciò.

       Morale

Di qui apprendi, o giovinetto,
A far l'ovo nel tuo letto.


XVI
La pecora inferma
Tirando di scherma
In breve guarì.
Ma perse il tabarro
E prese un catarro
Del quale morì.

       Morale

Questa piccola novella
Vi consiglia la flanella.

XVII
L'ippopotamo droghiere
E il merluzzo salumiere
Ragionavan con piacere
Ciaschedun del suo mestiere.
Ma un astuto alligatore,
Anche lui commendatore,
Disse: "Ah stupidi! il migliore
È il mestiere del signore."

       Morale

Se le bestie parlan bene,
Frequentarle si conviene.

XVIII
Il re Tappella
Facea la guerra,
Ma dalla sella
Cascò per terra
E nel tracollo
Si ruppe il collo.

       Morale

Per detto generale
Chi casca si fa male.


XXII
La sega ed il ditale
Sposi a dieci anni soli
Dal nodo coniugale
Non ebbero figliuoli,
Perciò, con atto egregio,
Fondarono un collegio.

       Morale

Son sterili soventi
Le nozze tra parenti.

XXIII
Il bue disse alla vacca:
"Vuoi tonno o vuoi salacca?"
La vacca disse al bue:
"Dammeli tutti e due!"

       Morale

Nelle giornate magre di quaresima
Son simile alla vacca anch'io medesima.

XXIV
Un somaro in Egitto per scommessa
Sposò una poetessa
E in barca la condusse al Cairo e a Menfi...

       Morale

Sposate ARGIA SBOLENFI!!!!
IL GENTIL CAVALIERO

Va per la selva nera
Solingo un cavalier
Ornato d'un cimier
Colla criniera..

Dai piedi fino al mento
Coperto è di metal;
Galoppa il suo caval
Che pare il vento.

Quand'ecco che un romito
Innanzi gli si fa
E dice: "vieni quà,
Guerriero ardito!

C'è una fanciulla pia,
Leggiadra anzichenò,
E il padre la chiamò
Sbolenfi Argia.

Ti sta nel suo palazzo
Fremente ad aspettar
E tu l'hai da sposar
Bravo ragazzo!

Faresti un buon affare
E non puoi dir di no.
Io vi mariterò;
Valla a pigliare!..."

A questa esortazione
Commosso il cavalier,
Nel ventre del destrier
Piantò lo sprone,

E si partì al galoppo
Bramoso di venir,
Veloce come al tir
Palla di schioppo...

Scorsero gli anni e i mesi,
I giorni e le stagion,
Ed io sul mio balcon
Sempre l'attesi!

Ma invan lo sguardo esplora
Le strade ed i sentier;
Il prode cavalier
Galoppa ancora!!
¡POBRE CARLOS!(38)

¿Habla: se puede ser mas desdichada?
Quiereba Carlos el toreadores,
Ma un toro viense in la plaza mayores
Y per matarlos el sfrodò la espada

El toro escapò vias por la contrada
¡Mo Carlos, dietros. fagando romores!
Cuando el toro ¡ahi de mi, caros senores!
Per de dietros ce apogia una cornada.

Carlos cascò cridando¡ ahi, porco mundo!
Viense el medico y hablò: ¡mo bozaradas,
El corno ha penetrado ensino al fundo!

¡Parece un nido carico de vrespas;
Las pobras chiapas miranse sfondadas,
Todo està roto y buena noche crespas!

LA RISPOSTA DELLA FIGLIA MALEDETTA

Padre, nei giorni, ahimè! vissuti insieme,
Nei tristi giorni in cui, non pur degli agi,
Ma fin del pane ci fallìa la speme,

Quando furtivi, squallidi e randagi
Le poma guaste cercavamo e l'ossa
A piè de' monasteri e dei palagi,

Quando il verno crudel con la sua possa
Sotto il breve lenzuol ci costringeva
Come morti a gelar dentro la fossa,

Padre, la figlia tua non si doleva
Sotto il duro flagel della fortuna.
Io mi sentiva forte e non piangeva,

Ma poi chè, fior di gioventù, la bruna
Mia pubertà sbocciando, amor m'apprese,
Obliai le miserie ad una ad una.

Il gaudio della vita in cor mi scese
E nuovo e forte palpitò il desio
Nel petto ansante e nelle vene accese.

Ma tu, sorpreso del delirio mio,
Mi chiedevi talor--figlia, che hai?
Aprimi il core: il padre tuo son io! -
==>SEGUE
_______________________

(38) Lo Spagnuolo non beve ... certo l'onda del Mançanares!


T'amo, Pietro Sbolenfi, e ben lo sai,
Tanto, che al dolce suon dei detti onesti
Non te lo apersi, ma lo spalancai.

- Mo, tananòn Mingheina!--allor dicesti -
Costei già sogna il matrimonio e i figli!
È tempo di vegliarla e di star desti! -

Mi sciorinasti allor cento consigli
Di virtù, di morale e di prudenza
Per agguerrirmi il cor contro ai perigli.

- Cara figlia--dicevi--abbi pazienza,
Sceglilo ricco e sceglilo maturo,
Che pigliarlo in bolletta è un'imprudenza.

Cerca, se puoi, di metterti al sicuro!
Guarda tuo padre e resta persuasa
Come il campar senza quattrini è duro.

Guarda invece il canonico di casa!
Quanti fogli da cento ha nel borsello
E che salute nella faccia rasa!

Prendi, mia cara, un uomo come quello.
Fattene la signora e la padrona
Ed anche il Re si caverà il cappello! -

Per ciò, figlia esemplar, docile e buona,
Eseguendo alla lettera i tuoi detti,
Me ne andai col canonico in persona!

Ed or perché ti duoli e perché getti,
Quasi porco ferito, alti clamori?
Perché, dimmi, perché ci hai maledetti?

Perché vieni a cianciar de' tuoi dolori,
Mentre tu ci portavi il candeliere
E fosti Galeotto ai nostri amori?

Io lo dirò il perché! Sperasti avere
Dal genero sognato agi e monete
Per menar le ganascie a tuo piacere,

Ed or che sei rimasto con la sete
Fai lo scontento e lo scandalizzato
Perché tua figlia dorme con un prete!

Ma padre mio, ti sei dimenticato
Tutto ad un tratto la parola detta
Ed il consiglio che m'avevi dato?

==>SEGUE



Tu mi dicevi di tenermi stretta
E ferma del canonico al mantegno....
Io mi ci tengo e tu m'hai maledetta!

Andiamo, smetti questo finto sdegno!
Ribenedici la diletta figlia
Or che porta d'amor nel seno un pegno!

Presto nonno sarai! Spiana le ciglia
Che un bugiardo furor move ed infiamma.
Sta quieto per ragioni di famiglia

Ricevi un bacio e tante cose a mamma.

SI DESCRIVE UNA RUSTICA CAPPELLA

Ben sovente
T'ho presente
Nella mente,
Vezzosissima cappella,
E il tuo aspetto
Nel mio petto
Fa l'effetto
Della cosa la più bella.

Parlo a stento
Dal contento,
Anzi sento
Che mi manca la favella,
E deliro
Quando in giro
Io ti miro
Rosseggiar superba e snella!

Quasi nera
T'alzi altera
Nella sera
Che il candor degli astri abbella;
T'alzi ed io
Nel cor mio
Ti desio
Vezzosissima cappella!



LAMENTO(39)

Piangete al gran galoppo,
Dolcissimi lettor!
Il nostro Direttor,
Moscata, è zoppo!

Che se a qualcuno importa
Saperne la cagion,
Sappiate che al Veglion
Prese una storta.

La storta che ha pigliata
Passava pel caffè
Vestita da bebé
Molto scollata.

Ed ei che aveva piena
La tasca di quattrin
Ai Quattro Pellegrin
Le diè una cena.

Costei che aveva i denti
Aguzzi anzichenò,
Gli bevve e gli mangiò
Tre abbonamenti.

Indi, per sua sventura,
Si volle sdebitar,
Ma non pagò in denar,
Pagò in natura.

E il nostro Principale
Dopo due giorni o tre,
Cos'è, cosa non è,
Si sentì male.

Basta, per farla corta,
Il nostro Direttor
Ricorse al suo dottor
Per questa storta,

Che stette un pò dubbioso
Indi gli suggerì
Santalo del Midi,
Malva e riposo.

Piangete al gran galoppo,
Dolcissimi lettor,
Il nostro Direttor,
Moscata, è zoppo!

(39) Cesare Dalla Noce detto Moscata dirigeva l'effemeride in cui la Poetessa faceva le sue armi.
LIBRO PRIMO

LE CRETINE

SI DESCRIVE UN VAGO DESIO!(1)

Condannata da l'empio destino
a l'iniquo mestier della cuoca,
io compongo vicino alla fuoca(2)
i miei deboli versi d'amor,
e l'imago d'un giovin divino
m'apparisce a gli sguardi incantati;
sento l'orma de i passi adorati
echeggiarmi ne l'vergine cor!

Quant'è bello il diletto garzone
cui le grazie fan lungo corteo!
Rassomiglia a Giulietta e Romeo
che la penna de l' Tasso cantò!
È robusto sì come Sansone,
è più forte di Tirsi e d'Orlando,
e se snuda il durissimo brando
qual mal donna resister ci può?

Vieni meco, mio energico amico,
ch'io ti stringa in un morbido amplesso!
Tu sei bello, sei forte, sei desso,
il marito che innanzi mi sta!
Ma chi rompe l'imene pudico,
ma chi turba il mio sogno fremente?
È mio padre che grida furente:
"La brasàdla la pòzza e d' strinà!"(3)


(Pensata nella domestica cucina
e scritta ivi il giorno dopo)
_____________

(1) Questo fa il primo parto della nostra Poetessa e le mende storiche e mitologiche ne accusano l'inesperienza. (2) Focolare, Dialetto bolognese. (3) "La costoletta puzza di bruciato", Dial. bol.

LA BALLATA DEL RE MORO

Tra le palme del deserto
C'è un magnifico castel,
Ch'è impossibile di certo
Di trovarne uno più bel.

Ivi tien la sua dimora
Di quei popoli il signor.
Egli è bello e giovin, fuora
Che ha il difetto d'esser mor.

Stando assente dal paese
D'una vergin s'invaghì.
Era bella e bolognese,
E difatti la rapì.

Ma suo padre, ahi sorte dura!
Che mandarla giù non può,
Si rivolse alla Questura
Che due guardie ci mandò;

E alla patria abbandonata
La volevan trascinar,
Ma la bella innamorata
Non voleva ritornar,

E rivolta al suo diletto
Ci diceva: "o bel re mor,
Fa il piacere, tienmi stretto,
Non lasciarmi con costor!

Deh, non fia che il fato amaro
M'allontani dal tuo sen!
Ah, difendimi, mio caro,
Che ti voglio tanto ben!"

Ma il re moro pensieroso
Resta muto sul sofà
E un pensiero mostruoso
Nello sguardo e in cor gli sta!

==>SEGUE
LA BATTAGLIA DI SADOVA

S'ode a destra tirar per la valle,
A sinistra si tira lo stesso;
D'ambo i lati si vedon le palle
Da pistole montate scoppiar.
Lunghi e grossi ch'è un gusto guardarli
Sono i pezzi che scarican spesso,
E se alcuno provasse a tastarli
Sentirebbe la mano a scottar.

Colle gambe per aria da un lato,
Colle gambe per aria dall'altro,
Cade a terra il meschino soldato
Che l'amante al paese lasciò.
Fieramente si drizza l'ardito,
Cautamente si china lo scaltro,
E ciascun ha un enorme prurito
Di pigliar meno botte che può.
*
Da una parte si sente un comando,
Una bomba dall'altro si sente;
Gli ufficiali che impugnano il brando
In un lampo si vedon venir.
C'è chi un membro sul campo ha perduto
E rimane per sempre impotente:
C'è chi morto in un fosso è caduto,
Nè più mai gli fia dato d'uscir.

Finalmente Bismarck grida in fretta:
"Abbiam vinto!"--ed un'eco risponde!
Va pur là, Cancelliere polpetta,
Anche questa la devi pagar!
Assassini! Ed intanto arrabbiate
Ardon mille ragazze infeconde!
Assassini! Se i maschi ammazzate,
Noi dovremo i somari sposar!

IL LAMENTO DEL PRIGIONIERO(8)

Cadea la notte. Già il cancelliere
Avea degli atti chiuso il volume
E il Presidente disse all'usciere:
"Portate il lume!"

Non un sussurro s'udia nel Foro,
Nemmeno un lieve ronzar d'insetto,
Quando, calzati gli occhiali d'oro,
Lesse il verdetto,

E disse: "Vista la legge, udita
La parte avversa, pesati i danni,
La pena è questa:--Galera in vita
Per quarant'anni".

Briscola! Quando mi sentii preso
Così da questa sentenza infame,
Cascai per terra lungo e disteso
Come un salame,

E il giorno dopo due immense palle
Recar dovetti per ogni dove,
E mi fu scritto dietro le spalle
"69"

Quante ferriate nella finestra!
Quanti bigatti nel mio pan nero!
Quanti fagioli nella minestra
Del prigioniero!

Ed il mobilio? Ecco un saccone
Dove gl'insetti tengon cappella
E per ... (s'intende) là in quel cantone
C'è la mastella.

Sono vestito di panno grosso
Con un stifelius tagliato male,
E la catena che porto addosso
Pesa un quintale.

==>SEGUE
________________

(8) Parla il Direttore della effemeride citata, il quale era accusato di aver commesso un per finire diffamatorio, mentre non era che cretino. Il processo andò a monte.



PER LA CADUTA DI PALAMIDONE

SONETTO SBOLENFIO DI PRIMA CLASSE

I
Il Ministero e zero invero contano
Spesso lo stesso e solo un sesso vantano.
A un'unità di qua o di là si montano,
Di un voto ignoto al moto indi si spiantano.

Sorretti e accetti i Gabinetti affrontano
Ritti i conflitti ed i sconfitti schiantano;
Poi, grati ai Fati se i soldati ammontano
A tanti quanti son bastanti, cantano.

Ma se i fiacchi o i vigliacchi i tacchi puntano,
O se un minuto il muto aiuto allentano,
Liti e garriti tra i partiti spuntano.

Desti gli onesti e questi si addormentano;
Rimovi i chiovi e i novi più si appuntano;
E tasse e sopratasse a masse aumentano!

ALLA POETESSA
ARGIA SBOLENFI

SONETTO(16)

Gentil Donzella cui Ciprigna dona
Lieto il color delle Acidalie rose,
Cui di lauri raccolti in Elicona
Di Cirra il Nume una ghirlanda impose,

Ben fosti cara al nato di Latona
Se del Parnaso in sulla via ti pose
E del sacro Permesso a te sprigiona
Dolci di mele Ibleo l'onde famose!

Ma se fia che tra breve alla palestra
Rieda, di nuovi onor carica e pregna,
Non dilettarci sol, ma ci ammaestra;

E di Quirino alle nepoti insegna
L'arte soave in che tu sei maestra,
O della Lesbia Saffo emula degna!
Di EDRA COPRODITE
Pastore Arcade
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(16) Umile parto dell'umilissimo chiosatore.

L'APPARIZIONE

ROMANZA

Crudo ed avaro, nel suo castello
Viveva il Conte del Meloncello,(34)
Quindi nessuno ci volea ben.
Trattava i figli come serpenti,
E, dice un libro, che ai suoi serventi
Il pane e l'acqua ci dava appen.

Il primogenito di nome Augusto
Era un bel giovine, svelto e robusto,
Che l'ammiravano per la città.
Membro dei Reduci dalle Crociate,
Molte godevasi maccaronate
Coi Soci, e andavano di qua e di là.

Lo seppe il padre che, all'olmo andato,(35)
A sè un sicario tosto chiamato,
Mettere il figlio fece in prigion.
Cavar gli fece l'elmo e lo scudo
E in una torre lo mise nudo
Ed era, ahi vista! senza i calzon!

Ma il padre barbaro che una mattina
Privo di lampada stava in cantina
E, come al solito, tirava il vin,
(Ah, proteggeteci Angeli e Santi!)
Fetente e squallida si vide avanti
L'ombra terribile d'un cappuccin.

==>SEGUE
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(34) Arco a due chilometri da Bologna. Il castello non esiste più, ma invece vi si trovano, una stazione di Guardie di P.S. e un'osteria.
(35) Andato in furia.
XII
Il soldo ed il baiocco
Trovandosi in questione,
Portavano lo stocco
Nascosto nel bastone;
Ma tosto i deputati
Votarono un'inchiesta
E furon condannati
Al taglio della testa.

       Morale

Chi tradisce l'amicizia
Cade in man della giustizia.

XIII
Il leon per fare il bagno
Punto fu dal pesce ragno,
Ma un dentista forestiere
Lo guarì con un clistere.

       Morale

Chi vuol far l'altrui mestiere
Molte volte fa piacere.

XIV
Lo storione--in un cantone
Profittò dell'occasione,
Ma il leone--cappellone
Gl'intimò contravvenzione.

       Morale

Son molti i guai--che ti risparmierai
Se a ritirarti a tempo imparerai.

XV
Tra la provvida formica
E il catarro di vescica
Fu contratta società.
Ma si sciolsero ben tosto,
Perchè ognuno ad ogni costo
Pretendeva la metà.

       Morale

Non c'è gusto in un bel gioco
Quando dura troppo poco.


XIX
La lima ed il limone
Per causa dei giornali
Ebbero una questione
Davanti ai tribunali,
Ma proprio nel momento
Di farsi onor coll'arte,
Tirò sì forte il vento
Che portò via le carte.

       Morale

Oh che gioia, oh che contento
Se tirasse solo il vento!

XX
Stava il corvo alla finestra
Aspettando la mammana
E teneva nella destra
Una forma parmigiana.
Una volpe ivi passò
Ed a lui così parlò:
"Deh, chi mai vide un uccello
Più piacevole e più bello?
Se il tuo canto è come il viso,
Sei l'uccel del Paradiso!..."
Ascoltando queste cose,
Tosto il corvo le rispose:
"Cara volpe, a chi mi loda
Dico: baciami la coda!"

       Morale

Se qualcun vi loda spesso,
Rispondetegli lo stesso.

XXI
La tinca in una cassa
Piena di formentone
Si fece tanto grassa
Che diventò un tincone.

       Morale

A molti il vizio
Fa quel servizio.


INNO AL SALAME

O progenie divina,
o d'ogni ben cagione,
figlio di Salamina
e de'l Re Salomone;
o de la fame infame
trionfator, Salame,
balzi or l'agile strofa innanzi a te;

a te, forte e gentile
onor de 'l genio umano
e de 'l mondo civile
consolator sovrano,
ne le cui forme dorme
una possanza enorme
che squarcia i monti e sfonda il trono a i Re.

Fatto con diligenza,
o montanaro, o fino,
con l'ova sode o senza,
sempre tu sei divino
e t'amo e ognor ti bramo
e Nume mio ti chiamo
e tua mi giuro e ti consacro il cor.

Oh quante volte, oh quante,
ne' sogni miei ti vedo
e vinta e palpitante
stringerti a 'l cor mi credo
e desta, la mia mesta
sorte m'appar funesta,
poiché tu manchi a 'l mio focoso amor.

E pur la rabbia ostile
disonorarti brama
e de 'l onagro vile,
vile figliuol ti chiama;
ma tu sorridi e gridi
- tornate a i vostri lidi
e cessate d'infrangermi i calzon! -

Deh, se ne i dì sereni
io mi sperai tua sposa,
tra le mie braccia vieni,
sovra il mio sen riposa.
Orgoglio mio, ti voglio
far co' miei baci il soglio,
lo scettro, la corona e il padiglion!

RIME
DI
ARGIA SBOLENFI

OLINDO GUERRINI