Usciti in prima edizione nel 1908 sono un libro di ricordi, in cui vengono raccolte alcune pagine già apparse in Brandelli. E’ una mescolanza di episodi piccoli e grandi, narrati con arguzia e scioltezza,che ci offrono un’avvincente spaccato di vita romagnola dei primi anni del ‘900. Tra bravate da studenti, bevute in osteria, passeggiate in montagna e quadretti cittadini, troviamo osservazioni che – rilette alla luce dei giorni nostri – non ci sembrano molto lontane dalla nostra esperienza. Qua e là spunta qualche nota malinconica, sul tempo che passa e gli amici che non ci sono più. Ma la certezza di aver vissuta una buona vita senza nulla di cui pentirsi fa quasi sembrare amica anche la fine che s’avvicina.
“Ahimè, di troppe cose mi ricordo! Riveggo tutta la mia vita passata con le sue gioie e i suoi dolori. Passo la rassegna delle opere e dei pensieri colla tristezza di chi non rivedrà più mai il tempo e le persone che furono e, sola mia consolazione, è l'assenza di ogni rimorso.
Scruto questa nebbia che mi cinge e mi conforto che al di là non lasciai nessuna colpa e seguito tranquillo questa via che mi conduce lentamente alla fine.... Ed ecco, anche il libro è finito!”
Si sa: quando si è scritto qualche cosa adversus gentes, viene la voglia di stamparla. Ricopiai la mia sconciatura in magnifica calligrafia e la portai ad un giornale che si chiamava l'Amico del Popolo. Era un giornale repubblicano: lo dice il titolo preso al giornale di Marat. Scritto da brave persone, aveva però il difetto di quasi tutti i giornali repubblicani d’allora, quello di parlare sui trampoli come i proclami. Aveva degli articoli di fondo scapigliati, infocati e sbraculati, e se non si fosse saputo che gli scrittori erano brava gente incapace di torcere un capello a nessuno per cattiveria, si sarebbe potuto credere che l’ufficio dell'Amico del Popolo fosse una tana di cannibali infermi mezzo d’idrofobia e mezzo di delirium tremens. E il Governo (i Governi, come i mariti, non sanno mai le cose bene) credeva proprio che in quelle innocenti camere terrene della Seliciata di Strada Maggiore ci campasse una masnada di settembrizzatori assetati di sangue umano, perchè periodicamente faceva cercare o arrestare qualcuno dei collaboratori. Che tempi erano quelli, dopo Mentana! I repubblicani confessi erano sempre aspettati nelle carceri di S. Giovanni in Monte e, tenuti pericolosi, erano però le persone più sicure della città, poichè la sera andavano a casa scortati dalle guardie di sicurezza vestite da uomini. Ma lasciamo andare.
Piano piano, con un po’ di tremarella, mi diressi all’antro dell'Amico del Popolo. Entrato sotto al portone, vidi un uscio con un cartello dov’era scritto Direzione, e dietro l’uscio si sentiva un rumore di voci, un pandemonio che ricordava una scuola di ragazzi in ricreazione. Bussai, due o tre voci mi dissero avanti, spinsi l’uscio, ma non vidi nulla.
Non vidi nulla perchè dentro c’era un fumo tanto denso che si sarebbe tagliato col coltello. Dieci o dodici pipe mantenevano quel nebbione nell’antro. Si capiva che c’era molta gente e si sentiva una voce misteriosa uscir dalla nuvola come la voce di Dio sul Sinai in caligine nubis. Rimasi ritto presso l’uscio e sentii la voce declamare un articolo di fuoco e di fiamme. È passato tanto tempo che non lo ricordo più, ma c’entravano il sangue, le fogne, la spada di Damocle, il toro di Falaride, eppur si muove, la cuffia del silenzio, Dionigi il tiranno, Torquemada, Polignac, i fulmini e le saette. Io rimasi un poco sconcertato in principio, perchè non mi pareva che la voce dicesse sul serio: ma quando sentii uscir dalla nube alcune altre voci d’approvazione, la presi sul serio anch’io e, tirato fuori un sigaro, collaborai col mio fumo a quello della comunità.
Dopo un po’ di tempo finì la declamazione dell’articolo di fondo, finirono le approvazioni, e i personaggi uscirono ad uno ad turo, involti sempre nella fitta nebbia di tante pipe. Mi avvicinai ad un monumento nero che travedevo in fondo alla camera e che giudicai un tavolo. M’immaginavo che dietro ci fosse il direttore del giornale, un buon diavolo che andò a finire, credo, nelle ferrovie, e che in quei tempi scoccava acutissime quadrella alle borse dei conoscenti. Offersi l’articolo, lo misi sul monumento che il senso del tatto mi assicurò essere proprio un tavolo, e non ebbi altra risposta che una lunga serie di grugniti che non sapevo se approvativi o improbativi. Quando ebbi finito di parlare, non sentendo di là del monumento nessun segno di vita umana, tornai indietro, e trovata la porta a tentoni, uscii all’aria aperta. Oh, come respirai largamente! Era ancor freddo, ed il vapore del mio alito mi pareva il residuo del fumo aspirato nell’antro.
Per alcuni giorni lessi assiduamente l'Amico del Popolo sperando di vedermi stampato ed ogni giorno mi portava una disillusione di più. Finalmente l’articolo apparve in appendice!
Così stampato, mi faceva un altro effetto, mi pareva più bello, e l’avrò letto dieci o dodici volte di fila. Non descrivo l’emozione e i palpiti dello sciagurato che ha peccato la prima volta in tipografia. Ferdinando Martini ha descritto tutto con un verismo così preciso, che mi rimetto a lui.
Pareva anche a me che tutti in quel giorno dovessero guardarmi. Ero superbo come Nabucco e guardavo d’alto in basso l’intera umanità. Pero, passeggiando fuori di porta, in un vicolo dove bisogna camminare con precauzione, vidi l'Amico del Popolo stracciato a pezzi e steso a terra come vittima di una faticosa battaglia. Torsi il viso e le narici con dispetto, quasi fossi stato personalmente offeso. Ahimè! Da che altezza precipitai!...
Questa è la vera e precisa relazione del mio primo passo sulla via della pubblicità.
Compiangetemi.
Olindo Guerrini trascorse l'infanzia a Sant'Alberto di Ravenna, dove il padre gestiva la farmacia del paese, e, dopo aver appreso in casa "i primi rudimenti di grammatica e di geografia", fu ammesso al collegio municipale di Ravenna. All'indomani dell'unificazione, il padre lo volle affidare al collegio nazionale di Torino, dove frequentò i corsi ginnasiali. Nel 1865 si trasferì a Bologna e si iscrisse a quella Università, laureandosi in giurisprudenza, nonostante lo scarso interesse che nutriva per quel tipo di studi. Nel 1866 fu arruolato come sergente nella guardia nazionale, ma non si mosse dalla sua regione.
Dalle numerose pagine autobiografiche che rievocano questi anni risultano, da un lato, un'insofferenza nei confronti delle regole troppo rigide e delle costrizioni più soffocanti che determina in lui atteggiamenti di vita scapigliata; dall'altro, un senso costante dei legami familiari e del lavoro, che ne rappresenta l'aspetto per così dire borghese. L'oscillazione fra queste due componenti non dà luogo nel G. a drammatici conflitti o insanabili lacerazioni, ma, smussando ogni eccesso o punta estrema, si compenetra in una più tranquilla adesione ai piaceri e ai doveri della vita, anche quando sembri prevalere l'oltranza provocatoria o polemica. È la matrice di un umorismo solo in apparenza problematico, che piuttosto si stempera nella bonomia scherzosa e nel rovesciamento comico, riconducibili spesso a una dimensione più propriamente provinciale e cittadina.
Nel 1877 il G. pubblicò a Bologna un volume di versi intitolati Postuma, attribuendoli a un fantomatico cugino, Lorenzo Stecchetti, che sarebbe morto di tisi a trent'anni. Le ragioni di questo sdoppiamento sono forse da attribuire al carattere crudo e provocatorio dei componimenti, che bene potevano esprimere gli sdegni e il malessere di un giovane scettico e disincantato, prematuramente destinato alla morte.
La misura di questa esperienza, piuttosto circoscritta e limitata (ma il successo di pubblico fu enorme, facendo registrare ben 32 edizioni dell'opera vivente l'autore), resta quella di una polemica che si richiama, nella maniera più esplicita e spesso scontata, alle ragioni dell'ideologia di sinistra, democratica e socialisteggiante (e comunque non anarchica o rivoluzionaria).
Sul piano della poetica il G. rifiuta e combatte il cosiddetto idealismo, che discendeva dalla tradizione tardoromantica, ossia da quella che F. De Sanctis aveva definito la scuola cattolico-liberale. Ai sentimentalismi più o meno edulcorati e castigati il G. contrappone una visione materialistica della realtà, aperta ai piaceri dei sensi e refrattaria a ogni metafisica: di qui, anche, il serpeggiare di una vena erotica e anticlericale che determinò accese reazioni cui egli replicò pubblicando, nel 1878, altri due volumetti, Polemica e Nova polemica , i cui versi si collocano sul medesimo registro, oltranzista e provocatorio, della raccolta precedente, riproponendone i modi e le forme.
Nel frattempo il G. era venuto pubblicando, su varie riviste, prose critiche e autobiografiche, dove si registrano impressioni e ricordi, immagini di incontri e di esperienze vissute. Se non mancano i consueti spunti polemici di tipo politico e anticlericale (ad esempio la condanna delle superstizioni e della degenerazione del culto dei santi), prevalgono tuttavia i toni di un bozzettismo scorrevole e arioso, facilmente godibile nella scioltezza di rappresentazione delle cose viste.
A ulteriore smentita di ogni immagine intemperante, lo stesso G. ricordava di aver vissuto, dopo il matrimonio, nel 1874, con Maria Nigrisoli (dalla quale ebbe tre figli: Angiolina, morta a quattro anni; Guido, futuro medico e cattedratico; e Lina), una "vita studiosa tra la biblioteca e la casa, badando all'educazione dei figli" e distraendosi "con lunghe gite in bicicletta, lavoretti di fotografia e cure di una sua villa a Gaibola".
Pubblicando, nel 1879, l'ampia monografia La vita e le opere di Giulio Cesare Croce,per la prima volta il G. ricostruiva con ricchezza di documentazione la personalità umana e culturale del cantastorie bolognese, sottolineandone, da un lato, i rapporti con l'ambiente sociale, e distinguendo, dall'altro, un tipo di poesia popolare-cittadina che sta fra la letteratura colta e la tradizione orale, con particolare attenzione alla ricerca delle fonti e alla risonanza presso i destinatari.
Alla passione per la fotografia e per la bicicletta si era intanto venuto affiancando l'interesse per la cucina: dalla conferenza all'Esposizione di Torino del 1883, su La tavola e la cucina nei secoli XIV e XV, all'edizione del Frammento di un libro di cucina del secolo XIV . Sul finire della vita il G. lavorava a una raccolta di ricette sulla cucina povera, che uscì postuma con il titolo L'arte di utilizzare gli avanzi della mensa .
Del 1897 sono le Rime di Argia Sbolenfi, dal nome di un personaggio bolognese trasformato dal G. in una macchietta caricaturale. La sedicente figlia di costui appare come autrice di versi che solo in minima parte toccano motivi poetici tradizionali. Sono, per la maggior parte, componimenti satirico-burleschi, da cui emerge una forte componente misoginica, alla quale fa da controcanto un linguaggio non di rado scurrile, soprattutto là dove il doppio senso sottolinea le smanie e le frustrazioni sessuali della protagonista-poetessa. Insieme con le sgrammaticature (oltre a non essere attraente, Argia è anche ignorante, soprattutto all'inizio), non manca la ricerca di soluzioni sperimentali (da un componimento in spagnolo maccheronico a un tipo di sonetto, definito sbolenfio, che consiste soprattutto nell'impiego di parole e rime sdrucciole).
Con un nuovo pseudonimo il G. sottoscrisse l'ultimo lavoro cui pose mano, le Ciacole di Bepi, attribuite a Pio X e pubblicate sul Travaso delle idee di Roma dal 1905 fino alla morte del pontefice; scritte e versificate in dialetto veneto, abbandonano i toni del consueto anticlericalismo per insistere piuttosto sugli aspetti umani di una figura che s'immagina rimpianga la vita di un tempo, sentendosi quasi prigioniera del ruolo cui è costretta.
(Giuseppe Zaccaria)
Guerrini usò una miriade di pseudonimi e inventò molteplici maschere per firmare molte delle sue composizioni. Il più noto è senza dubbio Lorenzo Stecchetti, firmatario di Postuma, Polemica e Nova polemica oltre che delle Rime. Varie le interpretazioni di tale pseudonimo: «probabilmente lo sedusse la cruda straziante disarmonia di quelle sillabe; gli piacque di fare un dispetto agli scrittori di moda, per cui lunga e sudata fatica è trovarsi uno pseudonimo carino piccinino da gala che riempia la bocca di fragrante dolcezza come una caramella alla vaniglia»; «Stecchetti è un nome parlante, allude cioè alla scheletrica magrezza del giovane consunto da tisi»
Un altro eteronimo famoso è lo shakesperiano Mercutio, adottato per alcuni componimenti sparsi sul giornale Il Matto e apparso poi sul frontespizio di Postuma.
Con Marco Balossardi, invece, Guerrini firmò assieme a Corrado Ricci il poema satirico Giobbe, che derideva Mario Rapisardi. Il cognome Balossardi ha la stessa radice del milanese baloss che vuol dire birbante. Altra maschera famosa fu quella di Argia Sbolenfi, una zitella dai desideri erotici spiccati, con la quale compose numerose poesie poi confluite nelle Rime di Argia Sbolenfi.
Bepi, invece, rimanda al veneto Giuseppe Sarto, uscito dal conclave con il nome di papa Pio X: con tale maschera Guerrini fece esprimere in veneto il nuovo papa. Nelle sue intenzioni, «Bepi voleva essere non la caricatura, ma l'interpretazione psicologica di Giuseppe Sarto nella vita segreta di uomo»
Senza dubbio minori sono le maschere di Odino Linguerri, anagramma di Olindo Guerrini, che firmò alcune massime sull'almanacco della birra Dreher e Giovanni Dareni, nella realtà un inserviente zoppo alla Biblioteca Universitaria di Bologna, sotto il nome del quale girarono alcune rime riunite nell'opuscolo Orribile fatto successo presso la Chiesa di Monte Calderaro, distante sette miglia da Bologna.