CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS














































III.
CIVILIA
Et si ceux qui vivent s'endorment,
Ceux qui sont morts s'éveilleront.
V. HUGO, Les Châtiments, I.
TRA DUE SECOLI

Scendi ne' limbi della storia, o secolo
nato ad incoronar Napoleone,
per morir tra le misere
nenie che ti cantò papa Leone.

Scendi ne' limbi della storia. Inutile
fu domandar giustizia e non vendetta.
Caldo il sangue dei martiri
ancor vapora ed il giudicio aspetta.

O morti combattendo, o dei patiboli
vittime sante, indarno il ver sapremo
e negli anni che vengono
tutto da capo cominciar dovremo?

Per le squallide vie l'urlo del popolo
dovremo forse udir come una volta
e nelle chiuse tenebre
suonar le trombe al fuoco ed a raccolta?

Ah no, non sia! Nasci più lieto, o secolo,
più libero, più buono e men rapace
per chi soffre e desidera
un po' più di giustizia e un po' di pace!

1897

Ecco, già l'anno muore
ignobile, triviale,
e, come il malfattore,
finisce in tribunale

lasciando al disonore
un ricordo immorale,
mezzo commendatore
e mezzo clericale.

==>SEGUE
II.
Son cinquant'anni ed il cannon tuonava
vomitando la morte;
il mite cuor di Pio così bussava,
Bologna, alle tue porte.

Son cinquant'anni ed or dormi secura,
nè pensi al tempo antico.
Non veglian più le scolte alle tue mura
e pur veglia il nemico,

e gran tempo non è – non l'hai veduto? –
che ti guardava in faccia,
ostentando, insolente e pettoruto,
lo scherno e la minaccia.

In quel giorno contò la numerosa
schiera de' suoi soldati
e pensò che c'è posto alla Certosa
per altri fucilati;

pensò che curve ancor sotto la piena
possanza del Maestro,
filan nell'ombra Marta e Maddalena
per torcerti un capestro;

pensò che a vendicar l'antico sfregio
gli basta alzar la mano,
ora che i figli tuoi vanno al collegio
del Padre Flamidiano.

E tu frattanto, leonessa ignava,
dormi nel pigro covo!
Son cinquant'anni che il cannon tuonava,
ma può tuonar di nuovo.

PACE!

Ardon le case. Le donne fuggono
nel buio, urlando. Piangono gli orfani
sui padri morti e calano
i corvi sui cadaveri.

Che importa? È l'Africa dove riboccano
troppe ricchezze per gente libera!
La nostra Europa è misera
e le catene costano.

Ardon le case. Di sangue corrono
le strade, cadono nel freddo asiatico
assassinati gli uomini
che difendon la patria...

Che importa? Brucino la Cina e l'Africa,
noi civilissimi, nelle accademie
gridiamo pace ai popoli
e i gesuiti godono!

IN MORTE DI MANLIO GARIBALDI

Chiusa la tomba, nel silenzio eterno
non dormiranno i morti e il giovinetto,
dall'amplesso paterno
riconfortato e stretto,

– Padre – susurrerà – padre, mi senti?
Io sono Manlio tuo, son la carezza
che degli anni cadenti
t'addolcì l'amarezza!

Ma non mi domandar, dell'infelice
terra che amammo, le sinistre sorti.
Oh, tre volte felice
chi riposa tra i morti!

Meglio narrarmi come un dì lanciavi
al fiero assalto le camicie rosse
e le terga incalzavi
delle schiere percosse.

Dimmi Calatafimi ed il ciglione
su cui la schiera degli eroi saliva,
ricordami Digione
e chi per lei moriva.
==>SEGUE

Ricorda tu quel che soffrir conviene
per mantener le libertà giurate
e strappar le catene
dalle braccia piagate...

Oh, meglio in questa tomba, o padre mio,
che vigile gendarme al Vaticano!
Meglio l'eterno oblìo
che lo sdegnarsi invano.

Meglio anzi tempo reclinar la testa
morta, della speranza in sulla soglia,
che goder nella festa
di chi la madre spoglia.

Oh, padre, non temer! Parlami. È sorda
questa plebe d'ingordi a' detti tuoi.
L'Italia non ricorda
nemmeno i morti suoi! –



PER UN'AMNISTIA

Trasibulo che vinse alzò la mano
sulle teste chinate
e la Paura inorridì, ma invano
quand'egli disse: andate!

Indi la libertà rese ad Atene
intera e non mendace,
le colpe cancellò, tolse le pene
e consacrò la pace.

Fu giustizia o clemenza? E pur fu spento
così l'odio il più vivo
e vera gloria fu l'esser contento
d'una fronda d'ulivo.
Voi che gridaste Italia e il piombo intanto
vi rompea la parola,
voi che ne confessaste il nome santo
col capestro alla gola,

smascheratela voi la svergognata
che adulterò col prete;
dite a questa carogna incoronata
che non la conoscete.

Altra è la sacra Italia, amor dei forti,
che un dì fu vostra cura.
Oh, destatela voi, poveri morti,
se i vivi hanno paura!

Fate che torni e nella destra rechi
una spada infocata
contro questi ladroni obliqui e biechi
che l'han vituperata.

Arda col foco suo fin che bisogna
questa stalla d'Augìa,
tagli col ferro la civil vergogna
e la giustizia sia!

II.
Il fico disse – Biondo al mar correva
il sacro Tebro, là dove al mio piede
Acca la lupa, ritrovar doveva
del regno d'Alba l'uno e l'altro erede.

Deh, la mia foglia come piacque ad Eva,
la breve foglia che il pudor le diede!
Deh, come bene ai rami miei pendeva
il traditor di Cristo e della fede!

Or se presso di me passa il fallito
o il reo che nell'altrui l'artiglio ficca,
decorato, superbo ed arricchito,

io, quasi donna che tentando ammicca,
protendo il ramo mio come un invito...
Passa il Commendator, ma non s'impicca. –
Nè alcun tendea la mano
a mendicar mercede,
nè per voler sovrano,
nè per clamor di popolo
mentiva il capitano alla sua fede,

chè il duce ed il soldato
chiudean ne' petti ardenti
il cor di Cincinnato
e ai solchi ritornavano
del plauso non cercato assai contenti.

Ed or che resta? O santo
sangue versato invano,
o fior d'Italia, pianto
un dì con tante lacrime,
or ti mette all'incanto il pubblicano!

O gloria unica al sole,
pura in tante vicende,
alla crescente prole
pura dovevi scendere
e ti compra chi vuole e ti rivende!

Tutto governa l'oro,
tutto è sottil garrito
di legulei nel foro
e de' comizi il traffico
frutta come tesoro al più scaltrito.

Il suo veleno occulto
ci mesce la menzogna
e gli ebrei, nel tumulto
dell'ira, si barattano
la calunnia, l'insulto e la vergogna.

Ahi, della prima schiera
non resta alcuno in vita?
Dunque laggiù a Caprera
col biondo Cristo italico
l'incolpevol bandiera è seppellita?

Ah no! Sacra coorte,
per l'ultima battaglia
ti risparmiò la morte:
inerme e pur terribile
di Roma su le porte ancor ti scaglia.
==>SEGUE
E il ciccaiol che vive razzolando
nel brago e nel fetore,
sente lo schifo e brontola sputando
«Passa un commendatore!»

BOXERS

Scendono le feroci orde alle valli,
ai pingui campi nella pace assorti,
il sangue corre e di sognati falli
sugl'innocenti fan vendetta i forti.

Accorron degl'incendi ai lampi gialli
nuove stragi a recar nuove coorti
e sotto al piè de' barbari cavalli
crocchian le fracassate ossa dei morti.

Plaudite al vincitor che ben confida
delle battaglie nel possente Iddio
e lieto ascolta di chi muor le strida,

e udite. Al rosso ancor ferro natio
tergendo il sangue, alteramente grida –
«Guardami, Europa. Son civile anch'io!»


ANARCHICO

Lenta nei lunghi secoli
la dea Giustizia incede,
ma dove pone il piede
germoglia in pace il grano
e le messi maturano
pingui al lavoro umano.

Lente le idee si movono,
ma noi moviam con loro
compagni nel lavoro
e nell'amor fratelli.
Sono le idee che vincono
le idee, non i coltelli.

E ahimè. Tra i sogni torbidi
della pazzia tu vedi
l'odio soltanto e credi
tra il sangue esser più forte
se uccidi per uccidere
e scherzi con la morte!

Ah no, tu l'orde d'Attila
re dominar dovevi
se ai deboli volevi
col ferro impor la fede,
se il laccio del carnefice
strozza chi a te non crede!

Furtivo nelle tenebre
rechi la morte e il foco
e scavi a poco a poco
sotto il terren la mina,
che inghiottirà i cadaveri
nell'ampia sua rovina.

E che? Mostri di Ninive,
templi d'Assùr lucenti,
superbie di possenti,
torri adunate a stuolo,
chi vi ridusse in polvere,
chi vi spazzò dal suolo?

Non fu la rabbia o l'impeto
della vendetta bieca,
non fu la forza cieca
che vi schiantò dal fondo,
ma un solo raggio, un palpito.
d'amor che scosse il mondo!     ==>SEGUE


Lungi di qui la livida
ira ed i sogni orrendi!
Negli ipogei discendi
tra i mostri e le chimere.
Giustizia e non carnefici,
questo dobbiam volere!

RESURREXIT

Poichè le guardie han perso il sonno e il fiato
a vigilar la banca d'Isacchetto
ed il misero vuol dal fortunato
la giustizia, la pace, il pane e il letto,

povero vecchio Iddio, t'hanno chiamato
sotto l'arme di nuovo e t'hanno eletto
vice Mazzini a custodir lo Stato
e a far da barbacane al Gabinetto.

Vieni e se il guasto spirito moderno
ha il principato de' borghesi a noia
aiuta il Ministero dell'Interno,

riconduci a guardar la mangiatoia
i tuoi vecchi spaventi dell'Inferno,
il diavolo, i tuoi preti ed il tuo boia.

III NOVEMBRE

Ultimo fior dell'epopea romana,
nato di sacrificio e di virtù,
o fior di Villa Glori e di Mentana,
la tua radice non germoglia più.

Il vermiglio color di fiamma viva
parve pericoloso alla viltà;
troppo gagliardo il calice s'apriva
ai primi baci della libertà

e tosto i bocci sullo stel fiorente
la moderata forbice castrò,
poi l'italico bue stupidamente
la sacra terra che ti crebbe, arò.

Sotto il pungolo vil dell'interesse,
dei martiri tra l'ossa il solco aprì;
ma quando biondeggiò pingue la messe,
il pubblicano se ne impadronì.

==>SEGUE




Nuove vittime ancor di rei consigli
cadran sull'arse arene
e nuove madri cresceranno i figli
per ingrassar le iene!

Lascia, scarno villan, lascia il sudato
solco a te non diviso!
Tu non devi morir dove sei nato,
dove amor t'ha sorriso.

La gentil civiltà de' tuoi signori
ti spinge alla battaglia.
Va, povero villano, uccidi e muori.
Dopo, avrai la medaglia,

e mentre i legulei ti lauderanno
con sonanti parole,
oh, come l'ossa tue biancheggeranno
gloriosamente al sole!

Sulla sabbia deserta e funerale
rotoleranno al vento,
ma in qualche trivio della Capitale
sorgerà un monumento,

su cui tra i bronzi falsi e le sculture
dell'arte a buon mercato
sarà il tuo nome, o buon villan, se pure
non l'han dimenticato.

Piange intanto colei che la tua culla
vegliò amorosa e forte,
piange le tristi nozze una fanciulla,
le nozze con la morte,

ma il padre invece, al ciel rivolto il ciglio,
giunte le palme grame,
dice: – beato te, povero figlio,
che non avrai più fame! –!
II.
IN ANTICAMERA

Il moretto in livrea
che l'Eccellenze assedia
e si gloria e si bea
se un pranzo ci rimedia,

chiama una grande idea
questa brutta commedia
di Colonia Eritrea
che finisce in tragedia!

L'oblio dei deplorati
è giusto che si paghi
col sangue dei soldati,

e poi, laggiù, son vaghi
d'esser civilizzati
dal capitan Livraghi!

III.
ALPINI

Quando l'ora verrà, l'ora che deve
esser l'estrema che vedrete al mondo,
voi cercherete invan col moribondo
occhio l'alpe natìa, bianca di neve

e indarno de' ghiacciai la brezza lieve
ricercherete nell'ansar profondo...
Oh, quanto lungi al labbro sitibondo
saran le fonti ove il camoscio beve!

Ahimè, madri dolenti e fidanzate
dolenti, dite voi se questo è il santo,
il giocondo avvenir che sognavate?

Vanno all'inutil sacrificio e intanto
noi veneriam le vanità sfacciate
cui piacque il sangue loro e il vostro pianto!
IV.
ULTIME NOTIZIE

Le madri, nel tormento
crudel d'un dubbio arcano,
cercan con l'occhio intento
qualche speranza invano.

Non sale un noto accento
dall'aspettante piano,
non una vela al vento
sul freddo mar lontano!

Ed ecco, il messaggero
nunzio della fortuna
passa sul lor sentiero,

e a lui chiede ciascuna,
bianca d'angoscia, il vero:
«Che novità?» – «Nessuna!!»


V.
ALLE MADRI
Dedicato
ad Anna E....
Madri, lo ricordate il dì sereno
in cui d'amore il pegno
la prima volta nel fecondo seno
vi diè di vita un segno?

Con che orgoglio gentil del grembo incinto
allor vi compiaceste!
Come la culla col materno istinto
morbida gli faceste!

E poi che al suo vagir tacque il dolore
del fianco insanguinato,
con che speranze, o madri, e con che cuore
benediceste il nato

==>SEGUE
e nutrito di voi lo riscaldaste
stringendolo sul petto
e se morte il ghermìa, glielo strappaste
col prepotente affetto!

Lo cresceste così, bianco fanciullo,
sovra i fidi ginocchi,
vegliando il primo passo e il suo trastullo
con l'anima negli occhi,

e speraste veder l'ore supreme
in braccio a lui più liete...
Quanto amor, quanti baci e quanta speme,
o madri che piangete!

Ed ora? I vostri figli a mille a mille
cadder lungi da voi
perchè un ladro impazzito e un imbecille
si son creduti eroi.

E vi tentano ancor, gli scellerati,
con le astute parole,
ma i cadaveri nudi e mutilati
si putrefanno al sole,

ma già dai loro immondi antri, le iene
calando irsute e scarne,
leccano il sangue de le vostre vene,
straccian la vostra carne!

E il delitto cadrà nel grave oblio
in che omai tutto langue?
No, levatevi, voi, donne, perdio,
raccogliete quel sangue,

gettatelo ululanti e scapigliate
dei colpevoli in faccia;
quando il giorno verrà, non dubitate,
ne troverem la traccia;

e dite agli altri, o neghittosi, o incerti:
«Pietà di noi vi prenda:
» la nostra patria è qui, non nei deserti
» dell'Abissinia orrenda.
==>SEGUE
Olindo Guerrini - ADJECTA - parte III
Pagina a cura di Nino Fiorillo           == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
BRANI DI VITA

di Olindo Guerrini
__________________
Usciti in prima edizione nel 1908 sono un libro di ricordi, in cui vengono raccolte alcune pagine già apparse in Brandelli. E’ una mescolanza di episodi piccoli e grandi, narrati con arguzia e scioltezza,che ci offrono un’avvincente spaccato di vita romagnola dei primi anni del ‘900. Tra bravate da studenti, bevute in osteria, passeggiate in montagna e quadretti cittadini, troviamo osservazioni che – rilette alla luce dei giorni nostri – non ci sembrano molto lontane dalla nostra esperienza. Qua e là spunta qualche nota malinconica, sul tempo che passa e gli amici che non ci sono più. Ma la certezza di aver vissuta una buona vita senza nulla di cui pentirsi fa quasi sembrare amica anche la fine che s’avvicina.
“Ahimè, di troppe cose mi ricordo! Riveggo tutta la mia vita passata con le sue gioie e i suoi dolori. Passo la rassegna delle opere e dei pensieri colla tristezza di chi non rivedrà più mai il tempo e le persone che furono e, sola mia consolazione, è l'assenza di ogni rimorso.
Scruto questa nebbia che mi cinge e mi conforto che al di là non lasciai nessuna colpa e seguito tranquillo questa via che mi conduce lentamente alla fine.... Ed ecco, anche il libro è finito!”
Si sa: quando si è scritto qualche cosa adversus gentes, viene la voglia di stamparla. Ricopiai la mia sconciatura in magnifica calligrafia e la portai ad un giornale che si chiamava l'Amico del Popolo. Era un giornale repubblicano: lo dice il titolo preso al giornale di Marat. Scritto da brave persone, aveva però il difetto di quasi tutti i giornali repubblicani d’allora, quello di parlare sui trampoli come i proclami. Aveva degli articoli di fondo scapigliati, infocati e sbraculati, e se non si fosse saputo che gli scrittori erano brava gente incapace di torcere un capello a nessuno per cattiveria, si sarebbe potuto credere che l’ufficio dell'Amico del Popolo fosse una tana di cannibali infermi mezzo d’idrofobia e mezzo di delirium tremens. E il Governo (i Governi, come i mariti, non sanno mai le cose bene) credeva proprio che in quelle innocenti camere terrene della Seliciata di Strada Maggiore ci campasse una masnada di settembrizzatori assetati di sangue umano, perchè periodicamente faceva cercare o arrestare qualcuno dei collaboratori. Che tempi erano quelli, dopo Mentana! I repubblicani confessi erano sempre aspettati nelle carceri di S. Giovanni in Monte e, tenuti pericolosi, erano però le persone più sicure della città, poichè la sera andavano a casa scortati dalle guardie di sicurezza vestite da uomini. Ma lasciamo andare.
Piano piano, con un po’ di tremarella, mi diressi all’antro dell'Amico del Popolo. Entrato sotto al portone, vidi un uscio con un cartello dov’era scritto Direzione, e dietro l’uscio si sentiva un rumore di voci, un pandemonio che ricordava una scuola di ragazzi in ricreazione. Bussai, due o tre voci mi dissero avanti, spinsi l’uscio, ma non vidi nulla.
Non vidi nulla perchè dentro c’era un fumo tanto denso che si sarebbe tagliato col coltello. Dieci o dodici pipe mantenevano quel nebbione nell’antro. Si capiva che c’era molta gente e si sentiva una voce misteriosa uscir dalla nuvola come la voce di Dio sul Sinai in caligine nubis. Rimasi ritto presso l’uscio e sentii la voce declamare un articolo di fuoco e di fiamme. È passato tanto tempo che non lo ricordo più, ma c’entravano il sangue, le fogne, la spada di Damocle, il toro di Falaride, eppur si muove, la cuffia del silenzio, Dionigi il tiranno, Torquemada, Polignac, i fulmini e le saette. Io rimasi un poco sconcertato in principio, perchè non mi pareva che la voce dicesse sul serio: ma quando sentii uscir dalla nube alcune altre voci d’approvazione, la presi sul serio anch’io e, tirato fuori un sigaro, collaborai col mio fumo a quello della comunità.
Dopo un po’ di tempo finì la declamazione dell’articolo di fondo, finirono le approvazioni, e i personaggi uscirono ad uno ad turo, involti sempre nella fitta nebbia di tante pipe. Mi avvicinai ad un monumento nero che travedevo in fondo alla camera e che giudicai un tavolo. M’immaginavo che dietro ci fosse il direttore del giornale, un buon diavolo che andò a finire, credo, nelle ferrovie, e che in quei tempi scoccava acutissime quadrella alle borse dei conoscenti. Offersi l’articolo, lo misi sul monumento che il senso del tatto mi assicurò essere proprio un tavolo, e non ebbi altra risposta che una lunga serie di grugniti che non sapevo se approvativi o improbativi. Quando ebbi finito di parlare, non sentendo di là del monumento nessun segno di vita umana, tornai indietro, e trovata la porta a tentoni, uscii all’aria aperta. Oh, come respirai largamente! Era ancor freddo, ed il vapore del mio alito mi pareva il residuo del fumo aspirato nell’antro.
Per alcuni giorni lessi assiduamente l'Amico del Popolo sperando di vedermi stampato ed ogni giorno mi portava una disillusione di più. Finalmente l’articolo apparve in appendice!
Così stampato, mi faceva un altro effetto, mi pareva più bello, e l’avrò letto dieci o dodici volte di fila. Non descrivo l’emozione e i palpiti dello sciagurato che ha peccato la prima volta in tipografia. Ferdinando Martini ha descritto tutto con un verismo così preciso, che mi rimetto a lui.
Pareva anche a me che tutti in quel giorno dovessero guardarmi. Ero superbo come Nabucco e guardavo d’alto in basso l’intera umanità. Pero, passeggiando fuori di porta, in un vicolo dove bisogna camminare con precauzione, vidi l'Amico del Popolo stracciato a pezzi e steso a terra come vittima di una faticosa battaglia. Torsi il viso e le narici con dispetto, quasi fossi stato personalmente offeso. Ahimè! Da che altezza precipitai!...
Questa è la vera e precisa relazione del mio primo passo sulla via della pubblicità.
Compiangetemi.

Olindo Guerrini trascorse l'infanzia a Sant'Alberto di Ravenna, dove il padre gestiva la farmacia del paese, e, dopo aver appreso in casa "i primi rudimenti di grammatica e di geografia", fu ammesso al collegio municipale di Ravenna. All'indomani dell'unificazione, il padre lo volle affidare al collegio nazionale di Torino, dove frequentò i corsi ginnasiali. Nel 1865 si trasferì a Bologna e si iscrisse a quella Università, laureandosi in giurisprudenza, nonostante lo scarso interesse che nutriva per quel tipo di studi. Nel 1866 fu arruolato come sergente nella guardia nazionale, ma non si mosse dalla sua regione.
Dalle numerose pagine autobiografiche che rievocano questi anni risultano, da un lato, un'insofferenza nei confronti delle regole troppo rigide e delle costrizioni più soffocanti che determina in lui atteggiamenti di vita scapigliata; dall'altro, un senso costante dei legami familiari e del lavoro, che ne rappresenta l'aspetto per così dire borghese. L'oscillazione fra queste due componenti non dà luogo nel G. a drammatici conflitti o insanabili lacerazioni, ma, smussando ogni eccesso o punta estrema, si compenetra in una più tranquilla adesione ai piaceri e ai doveri della vita, anche quando sembri prevalere l'oltranza provocatoria o polemica. È la matrice di un umorismo solo in apparenza problematico, che piuttosto si stempera nella bonomia scherzosa e nel rovesciamento comico, riconducibili spesso a una dimensione più propriamente provinciale e cittadina.
Nel 1877 il G. pubblicò a Bologna un volume di versi intitolati Postuma, attribuendoli a un fantomatico cugino, Lorenzo Stecchetti, che sarebbe morto di tisi a trent'anni. Le ragioni di questo sdoppiamento sono forse da attribuire al carattere crudo e provocatorio dei componimenti, che bene potevano esprimere gli sdegni e il malessere di un giovane scettico e disincantato, prematuramente destinato alla morte.
La misura di questa esperienza, piuttosto circoscritta e limitata (ma il successo di pubblico fu enorme, facendo registrare ben 32 edizioni dell'opera vivente l'autore), resta quella di una polemica che si richiama, nella maniera più esplicita e spesso scontata, alle ragioni dell'ideologia di sinistra, democratica e socialisteggiante (e comunque non anarchica o rivoluzionaria).
Sul piano della poetica il G. rifiuta e combatte il cosiddetto idealismo, che discendeva dalla tradizione tardoromantica, ossia da quella che F. De Sanctis aveva definito la scuola cattolico-liberale. Ai sentimentalismi più o meno edulcorati e castigati il G. contrappone una visione materialistica della realtà, aperta ai piaceri dei sensi e refrattaria a ogni metafisica: di qui, anche, il serpeggiare di una vena erotica e anticlericale che determinò accese reazioni cui egli replicò pubblicando, nel 1878, altri due volumetti, Polemica e Nova polemica , i cui versi si collocano sul medesimo registro, oltranzista e provocatorio, della raccolta precedente, riproponendone i modi e le forme.
Nel frattempo il G. era venuto pubblicando, su varie riviste, prose critiche e autobiografiche, dove si registrano impressioni e ricordi, immagini di incontri e di esperienze vissute. Se non mancano i consueti spunti polemici di tipo politico e anticlericale (ad esempio la condanna delle superstizioni e della degenerazione del culto dei santi), prevalgono tuttavia i toni di un bozzettismo scorrevole e arioso, facilmente godibile nella scioltezza di rappresentazione delle cose viste.
A ulteriore smentita di ogni immagine intemperante, lo stesso G. ricordava di aver vissuto, dopo il matrimonio, nel 1874, con Maria Nigrisoli (dalla quale ebbe tre figli: Angiolina, morta a quattro anni; Guido, futuro medico e cattedratico; e Lina), una "vita studiosa tra la biblioteca e la casa, badando all'educazione dei figli" e distraendosi "con lunghe gite in bicicletta, lavoretti di fotografia e cure di una sua villa a Gaibola".
Pubblicando, nel 1879, l'ampia monografia La vita e le opere di Giulio Cesare Croce,per la prima volta il G. ricostruiva con ricchezza di documentazione la personalità umana e culturale del cantastorie bolognese, sottolineandone, da un lato, i rapporti con l'ambiente sociale, e distinguendo, dall'altro, un tipo di poesia popolare-cittadina che sta fra la letteratura colta e la tradizione orale, con particolare attenzione alla ricerca delle fonti e alla risonanza presso i destinatari.
Alla passione per la fotografia e per la bicicletta si era intanto venuto affiancando l'interesse per la cucina: dalla conferenza all'Esposizione di Torino del 1883, su La tavola e la cucina nei secoli XIV e XV, all'edizione del Frammento di un libro di cucina del secolo XIV . Sul finire della vita il G. lavorava a una raccolta di ricette sulla cucina povera, che uscì postuma con il titolo L'arte di utilizzare gli avanzi della mensa .
Del 1897 sono le Rime di Argia Sbolenfi, dal nome di un personaggio bolognese trasformato dal G. in una macchietta caricaturale. La sedicente figlia di costui appare come autrice di versi che solo in minima parte toccano motivi poetici tradizionali. Sono, per la maggior parte, componimenti satirico-burleschi, da cui emerge una forte componente misoginica, alla quale fa da controcanto un linguaggio non di rado scurrile, soprattutto là dove il doppio senso sottolinea le smanie e le frustrazioni sessuali della protagonista-poetessa. Insieme con le sgrammaticature (oltre a non essere attraente, Argia è anche ignorante, soprattutto all'inizio), non manca la ricerca di soluzioni sperimentali (da un componimento in spagnolo maccheronico a un tipo di sonetto, definito sbolenfio, che consiste soprattutto nell'impiego di parole e rime sdrucciole).
Con un nuovo pseudonimo il G. sottoscrisse l'ultimo lavoro cui pose mano, le Ciacole di Bepi, attribuite a Pio X e pubblicate sul Travaso delle idee di Roma dal 1905 fino alla morte del pontefice; scritte e versificate in dialetto veneto, abbandonano i toni del consueto anticlericalismo per insistere piuttosto sugli aspetti umani di una figura che s'immagina rimpianga la vita di un tempo, sentendosi quasi prigioniera del ruolo cui è costretta.
(Giuseppe Zaccaria)

Guerrini usò una miriade di pseudonimi e inventò molteplici maschere per firmare molte delle sue composizioni. Il più noto è senza dubbio Lorenzo Stecchetti, firmatario di Postuma, Polemica e Nova polemica oltre che delle Rime. Varie le interpretazioni di tale pseudonimo: «probabilmente lo sedusse la cruda straziante disarmonia di quelle sillabe; gli piacque di fare un dispetto agli scrittori di moda, per cui lunga e sudata fatica è trovarsi uno pseudonimo carino piccinino da gala che riempia la bocca di fragrante dolcezza come una caramella alla vaniglia»; «Stecchetti è un nome parlante, allude cioè alla scheletrica magrezza del giovane consunto da tisi»
Un altro eteronimo famoso è lo shakesperiano Mercutio, adottato per alcuni componimenti sparsi sul giornale Il Matto e apparso poi sul frontespizio di Postuma.
Con Marco Balossardi, invece, Guerrini firmò assieme a Corrado Ricci il poema satirico Giobbe, che derideva Mario Rapisardi. Il cognome Balossardi ha la stessa radice del milanese baloss che vuol dire birbante. Altra maschera famosa fu quella di Argia Sbolenfi, una zitella dai desideri erotici spiccati, con la quale compose numerose poesie poi confluite nelle Rime di Argia Sbolenfi.
Bepi, invece, rimanda al veneto Giuseppe Sarto, uscito dal conclave con il nome di papa Pio X: con tale maschera Guerrini fece esprimere in veneto il nuovo papa. Nelle sue intenzioni, «Bepi voleva essere non la caricatura, ma l'interpretazione psicologica di Giuseppe Sarto nella vita segreta di uomo»
Senza dubbio minori sono le maschere di Odino Linguerri, anagramma di Olindo Guerrini, che firmò alcune massime sull'almanacco della birra Dreher e Giovanni Dareni, nella realtà un inserviente zoppo alla Biblioteca Universitaria di Bologna, sotto il nome del quale girarono alcune rime riunite nell'opuscolo Orribile fatto successo presso la Chiesa di Monte Calderaro, distante sette miglia da Bologna.


III.
DA CAPO
Consurgite et ascendamus in meridie.
JEREM. VI. 4.
Se nella mesta sera
cinto di luce strana,
lo scoglio di Caprera
all'occidente levasi
superbo sulla nera onda lontana,

il marinar che passa
sull'agile naviglio
tien la bandiera bassa
e tra le palme ruvide
il duro capo abbassa e china il ciglio.

Là, nella calma enorme
della morente luce,
sotto il granito informe,
presso le acacie memori
l'ultimo sonno dorme il nostro duce.

Dorme il Messia invocato
nel giorno del dolore,
dorme il gentil soldato
che amò come una vergine
e col suo s'è fermato il nostro core.

Quando il leon scoteva
l'ampia cesarie d'oro,
un popolo sorgeva
bello, gagliardo e giovane
che la pugna chiedeva e non l'alloro;

sorgean gli eroi sublimi
che il duce taciturno
primo davanti ai primi
guidava all'ardua carica
contro Calatafimi e sul Volturno;

poi, rotta nel cimento
la schiera e pur non doma,
cadea senza un lamento,
mal vendicata vittima
sul colle di Nomento in faccia a Roma.

==>SEGUE

» Pietà, chiediam pietà, madri dolenti,
» figlie, sorelle, spose;
» pietà, per gl'insepolti e pei morenti
» su l'ambe sanguinose!

» Non tolga vite ai campi, a le officine
» la conquista rapace:
» la nostra patria è qui. Datele alfine
» la giustizia e la pace!»

Dite così. Ma se domani ancora
tripudieranno i ladri
e moriranno gl'innocenti, allora,
o dolorose madri,

non porgete più latte al mite Abele,
che s'acconcia al destino,
ma raccogliete ne le poppe il fiele
per allevar Caino.

VI.
AGLI EROISSIMI

Giusti della fallita Apocalissi,
Marci Porci Catoni, in questo errai
che delle birberie forse ne scrissi,
ma non ne feci mai.

Oh se n'avessi fatte, e lo potevo,
di che frasche m'avreste incoronato!
Un'abiura e tra i grandi anch'io sedevo,
illustre deplorato!

Ma l'arte di lustrar le scarpe ai ladri
curvando il dorso, mi negò natura;
perciò gridate che incitai le madri
a strillar di paura.

Chi parla di viltà? Chi con gagliarde
frasi, dopo il caffè, facil tribuno,
povere donne, vi chiamò codarde
perchè vestite a bruno?
==>SEGUE
Chi, fumando in poltrona, empie i giornali
di vendette, di stragi e di rovine,
da la ciambella moderando l'ali
dell'aquile latine?

Chi dei debiti nuovi alla conquista
le apostrofi all'onor guida in falange
e soggioga lo Scioa dal liquorista,
insultando chi piange?

Ah, siete voi? Salute, o ben pensanti,
in cui l'onor s'imbotta e si travasa;
ma dite un po', perchè gridate «avanti!»
e poi restate a casa?

Perchè, lungi dai colpi e dai conflitti,
comodamente d'ingrassar soffrite,
baritonando ai poveri coscritti
«armiamoci e partite»?

Partite voi, se generoso il core
sotto al pingue torace il ciel vi diede.
O Baiardi, è laggiù dove si muore
che il coraggio si vede,

non qui, tra le balorde zitellone,
madri spartane di robuste prose,
che chieggon morti per compor corone
d'alloro, ahi, non di rose!

Ma no, non partirete! A questi tempi,
se dovesse mancar la «parte sana»,
chi resterebbe a predicar gli esempi
della virtù romana?

Chi resterebbe a consolar coi detti
le vedove beltà che il bruno adorna?
Chi li farebbe i brindisi ai banchetti
per chi parte o chi torna?

==>SEGUE
Ah, forti Aiaci della guerra a fondo,
ussari della morte, ah, non tentate
d'uscir di qui per conquistare il mondo,
perchè, se ve ne andate,

forse la vigna che godeste voi
fruttar potrebbe ad operai più scaltri...
no, restate, restate a far gli eroi
con la pelle degli altri!

VII.
AI REDUCI DALLO SCIOA

Quando spuntar vedrete a l'orizzonte
questo suol benedetto e sospirato
e la brezza natia su l'arsa fronte
il bacio vi darà del ben tornato;

quando in folla calar vedrete al lido
i cari vostri a salutar le prore,
e il dolce vento de la patria, il grido
vi porterà de l'aspettante amore;

quando nel cor di rimembranze pieno
l'impeto cesserà de la tempesta
e, consolati, sul materno seno
riposerete alfin la stanca testa;

se vi parrà d'udir fioco un lamento
che seco il pianto e la tristezza porti,
ascoltatelo pur senza sgomento;
quella è la voce dei compagni morti

che dice: – «A l'avvenir sorridevamo
» quando il destino ci portò con lui
» ed ecco che con voi non ritorniamo,
» noi mal sepolti ne la terra altrui.

» Ma, dite, la giustizia alzò il flagello
» su gli eroi da poltrona e i paladini?
» Chi come bestie ci cacciò al macello,
» il supplizio subì degli assassini? – »
==>SEGUE
4 OTTOBRE 1899 IN PALERMO

Che gli giovò l'oltracotante possa
del pugno audace e forte?
Guardatelo calar giù nella fossa
sacro alla mala morte,

guardatelo sparir, triste rovina
d'una bugiarda gloria,
censurato pigmeo che s'incammina
ai limbi della storia.

Ecco, la dura fronte ormai curvata,
lotta col sonno eterno,
e la canizie sua contaminata
trema sotto lo scherno.

E scherno ed ironia son le corone
e gl'inni de' seguaci,
cui la vergogna del passato impone
di rimaner mendaci.

Oh, se il morente all'opere nefande
più non volge i pensieri,
lasciatelo morir senza ghirlande
e senza vituperi.

Lasciate seppellir tranquillamente
il cencio imputridito,
e l'ala dell'oblio copra clemente
la tomba del fallito.

Fallito quando l'onor suo da prima
si scontò sul mercato,
e fallito all'orror d'Abba Carima
che non ha mai pagato!

Se vanno in pace il ladro e la bagascia
all'ultimo riposo,
lasciamolo morir come si lascia
morire il can rognoso.

Incoroni d'allòr l'oscena gogna
chi volontier si prostra,
e noi dimentichiam questa vergogna,
che fu vergogna nostra.
QUANDO SI DISSE
«NON SE NE PARLI PIÙ!»

Ieri, e fu tardi, si turò la fogna
d'onde il lezzo ci venne e la sciagura;
oggi si copre la comun vergogna
come fa il gatto con la sua lordura.

E sia! Si taccia; ma però bisogna
che rimanga un ricordo a far paura
e che del lungo error la rea carogna
più non risorga dalla sepoltura.

E se udrete talor chi quel passato
difenda a viso aperto in suo linguaggio
e si vanti costante ed immutato,

quel che vi sembra fedeltà, coraggio,
generoso sentir, petto indomato,
non son che i fondi del malandrinaggio

.QUANDO L'AMICO MIO
FELICE CAVALLOTTI
FU SCANNATO
Causa mali tanti....
VIRG. Aen. XI, 480.
Ed or che in bocca la civil rampogna
il ferro ti recide,
Verre, beato nella sua vergogna,
Verre, il ribaldo, ride

e tripudia dicendo: – «In tuo malanno,
» lingua troppo sincera,
» ora i complici miei m'assolveranno
» e non andrò in galera;

anzi, grazie all'eroe che t'ha mandato
» finalmente all'inferno,
» la bigamìa, le corna e il peculato
» torneranno al governo!»

Verre, t'inganni! Nel mortal duello
non fu tua la vittoria.
Con un colpo di spada o di coltello
non si uccide la Storia.

Doma dallo scudiscio e dallo sprone
l'Italia è cieca e sorda,
ma il sangue che grondò per tua cagione
la Storia lo ricorda
==>SEGUE
ed ella sa che il labbro tuo sorrise
gustando la vendetta,
ella sa che la rea punta che uccise
sei tu che l'hai diretta.

Fuma di sangue la Sicilia, prima
sempre alla gloria e al lutto,
il sangue giovenil d'Abba Carima
non è per anche asciutto

ed ecco sangue ancora è scaturito
dall'opre tue furtive;
ma la Storia in quel sangue intinge il dito,
apre il suo libro e scrive.

Scrive – «L'uno a virtù volse l'intento,
» l'altro fu disonesto» –
Scrive – «Quegli lottò fin che fu spento
» e chi l'uccise è questo!»

Or va! – Superbo, com'è tuo costume,
Verre, sorriderai,
ma la scritta di sangue in quel volume
non si cancella mai!


PRIMO ANNIVERSARIO
DELLA MORTE DI FELICE CAVALLOTTI

Pare un sogno bugiardo e compie l'anno,
l'anno dai giorni mesti,
che per l'altrui fortuna e il nostro danno
nel sangue tuo cadesti.

Specchio de' forti e fior de' generosi,
anima fiera e buona,
mal nella fredda eternità riposi
or che la tromba suona;

l'itessa tromba che a pugnar traeva
i battaglion vermigli,
quando l'oppressa libertà chiedeva
il soccorso dei figli!

Ed ecco il dì della battaglia venne
quando non sei con noi.
Chi al tuo detto tremò, chiese ed ottenne
e tu parlar non puoi.

==>SEGUE
Al tuo seggio deserto indarno gli occhi
abbiam sperando alzato...
Ahimè, la libertà strozzan gli sciocchi,
ora che t'han scannato!


SECONDO ANNIVERSARIO
DELLA MORTE DI FELICE CAVALLOTTI

Folla briaca e stolta
che t'allegri al clamor del baccanale,
turba d'ignavi, ascolta
che triste voce dalle tombe sale

e dice: – Ahi, d'altre grida
sonavano le vie quando vivemmo!
Sotto ben altra guida
ben altre feste celebrar sapemmo!

Soffrir ci parve poco
quando l'amor d'Italia in cor ci nacque;
sfidammo il ferro e il foco
e per la libertà morir ci piacque.

Reciso fior che langue,
il furor ci mietè delle tempeste,
ma voi, del nostro sangue,
voi, della libertà che ne faceste?

O patria sventurata,
tu non sei dunque più che un nome vieto?
O libertà giurata,
ti si può confiscar con un decreto?

Dunque in faccia vi suona
del prete vincitor beffardo il canto
e Roma vinta intuona
le cupe salmodie dell'Anno Santo?

Dunque l'onta e la fame
son guadagno de' ladri alle masnade
e come fango infame
tutto la maffia e la camorra invade? –

Ah, la tua tomba cheta
che una spada t'aprì, lascia per noi;
canta, civil poeta,
di Leonida l'inno e degli eroi!

==>SEGUE
Alla pazzia feroce
scaglia le strofe tue come rampogna;
la generosa voce
alza in faccia agli eroi della vergogna.

Vieni, poeta, e canta
la strofa di Tirteo viva e sonora...
Chi sa? Forse la santa
fiamma in Italia non è spenta ancora!

ANCORA?
There's blood upon thy face!
SHAKESP. Mach. III. 4.
Lady Macbeth fiutava
l'odor del sangue caldo in ogni cosa
e nella notte folta e paurosa
come uno spettro errava.

Ah, sciagura, sciagura!
Ecco, un segno vermiglio ha sulla mano,
un segno accusator, lavato invano
con ostinata cura

e quel segno non langue
per volontà che duri a cancellarlo,
tutta l'acqua del mar non può lavarlo...
E chi lo lava il sangue?

E pur chiese costui
ai figli il sangue ed alle madri il pianto
e, fatta d'ogni casa un camposanto,
volle la roba altrui;

ed or, lo sciagurato
che nel fango giacea, si leva in piede,
osa parlarci, vuol lavarsi e chiede
il catino a Pilato!

No! Se il ricordo langue
per audacia, per forza o per fortuna,
c'è chi conta le macchie ad una ad una...
E chi lo lava il sangue?

Basti all'ugne rapaci
il relitto dei ladri e della fogna.
Abbi prudenza se non hai vergogna,
china la testa e taci!
Di questa Europa vil chi più si cura,
che sui deboli scende ad infierir?
Lasciatela affogar nella paura,
la sozza vecchia che non sa morir.

Che se cercasse alcun questa favilla
spegner, che tanta fiamma accender può,
forte città dove nascea Balilla,
lèvati tutta per risponder – no! –

Genova 1897.

DUE OMBRE
L'infamia di Creti...
DANTE. Inf. XII, 12.
Non puoi dunque dormir, Re Ferdinando,
tra i putridi antenati
chè, il sozzo lembo del sudario alzando,
levi la testa e guati?

E dici – «Ah, se il Signor non mi prendeva,
sarei pur degno anch'io
di questa civiltà che mi diceva
la negazion di Dio!

Sovra i sudditi miei fatti ribelli
piover le bombe io feci,
ma l'Europa civil manda i vascelli
al massacro dei Greci.

Nel sepolcro che fai che non ti levi,
general Filangieri?
Vieni a veder come i tuoi degni allievi
ammazzan volentieri;

vieni a palpar, come a Messina, i buchi
fumanti del bersaglio;
vieni a veder quanti fedeli eunuchi
fan la guardia al Serraglio;

come sanno schiantar da la trincea
la croce insanguinata,
come ingrassano i corvi a la Canea
di carne battezzata!

Domani impiccheranno. Intanto i morti
marciscon senza tomba...
Eppure io non negavo il beccamorti
e mi chiamavan Bomba!»

==>SEGUE
PRIMO MAGGIO
... proximis idibus senties.
CIC. Catil. I.
Passano lenti. Un lampeggiar febbrile
arde a ciascuno il ciglio.
Passan solenni e da le dense file
non si leva un bisbiglio.

Toccandosi le mani ognun di loro
cerca il vicin chi sia.
Se i calli suoi non vi segnò il lavoro,
quella è una man di spia.

Sotto l'aspra fatica e il reo destino
molti già son caduti,
molti il carcer ne tiene od il confino,
e pur sono cresciuti.

Striscia il gran serpe de la folla oscura
de i ricchi su le porte.
Dentro, ne lo stupor de la paura,
si ragiona di morte.

Intanto il passo de la muta schiera
allontanar si sente
e nel silenzio de la fosca sera
spegnersi lentamente.

Ecco allora Epulon, vinto il terrore,
socchiude l'uscio e guata
e dice: «lode a Cristo ed al Questore,
anche questa è passata!»
***
È passata, ma invan te ne compiaci
ne l'allegre parole,
son gli antichi rancor troppo tenaci
per tramontar col sole.

Nel ferreo pugno non hai più la plebe
che serva un dì schernivi:
germina l'odio da le pingui glebe
che mieti e non coltivi.

Ne le officine fumiganti e nere
contro te si cospira:
sotto la casa tua, ne le miniere,
pronta a lo scoppio è l'ira

e mal ti gioverà crescer guardiani
a le porte sbarrate;
l'armi, custodi del tuo aver, domani
da chi saran portate?        ==>SEGUE


Chi ti difenderà domani, quando
le turbe mal nutrite
assedieranno le tue case, urlando
«è il primo maggio: aprite»?

Oh, ben gli sguardi noi tendiam levati
a l'avvenir fecondo
e tu chini la fronte! I tuoi peccati
hanno stancato il mondo.

SCIOPERO IN RISAIA

Sull'argine fangoso e desolato,
sotto il ciel che s'oscura,
come ingiunto gli fu veglia il soldato
e guarda la pianura.

Non un canto lontan, non un susurro
dai muti casolari;
non un allegro fil di fumo azzurro
s'alza dai focolari.

Sol di bimbi affamati un gemer lento
sembra morir lontano....
La fame, la miseria e lo spavento
pesan sul triste piano!

Pensa il soldato: – «Ahimè, lacrime umane,
» noi vi freniam con l'armi!
» Oggi, se a casa mia non c'è più pane
» ci saranno i gendarmi!»
QVANDO
IL PREFETTO DEL RE
E IL SINDACO DEL COMVNE
RENDEVANO OMAGGIO
A SVA EMINENZA REVERENDISSIMA
DOMENICO SVAMPA
PRETE CARDINALE DEL TITOLO DI SANT'ONOFRIO
ED ARCIVESCOVO DI BOLOGNA
QVESTO CARME BENE AVGVRANTE
FV DEDICATO

Signor, poi che ti sta supplice ai piedi
questa Felsina tua che un dì sdegnosa
bacio di prete sofferir non volle,
costei che, infranto il trono in cui tu siedi,
cercando libertà tinse gioiosa
del suo sangue miglior l'itale zolle,
absolvi or la pentita e le concedi
l'amplesso del perdono
dimenticando dell'error l'audacia.
Sii generoso e buono
con chi come a Signor, la man ti bacia,
e poi che piango ravveduto anch'io,
misericorde ascolta il canto mio.

Un tempo, e ben lo sai, morta di fame,
schiava del tuo stranier temprò la plebe
ceppi a sè stessa su la propria incude:
pe' sacerdoti tuoi le turbe grame
reser feconde le sudate glebe
e sul solco natìo caddero ignude
ai campi della Chiesa util letame;
ma un Dio consolatore
da' sacri templi a lor dicea: «Soffrite,
turbe nate al dolore
e che felici nel dolor morite,
poi che v'aspetta in ciel di Dio il sorriso
e sol de' tribolati è il paradiso».

Dolci tempi, o Signor, ma triste il giorno
in cui la libertà disse il suo nome
la prima volta nella rea Parigi,
poi che le turbe allor volsero intorno
torbido l'occhio e scossero le some
brandendo l'armi ad operar prodigi
di che all'anime pie duro è il ritorno.

==>SEGUE
Germogli del mal seme
crebbe il tristo terren le idee novelle!
Compresso indarno, freme
tra i nuovi ceppi il popolo ribelle
e poi che in cor gli agonizzò la fede
non più la libertà, ma il pan ci chiede.

E grida: «Senza gioia e senza luce,
martiri del lavoro e degli stenti
moriamo e il pane ancor ci si rifiuta.
Aprimmo il solco e non per noi produce,
altri ha le lane e noi guardiam gli armenti,
altri ha la messe e noi l'abbiam mietuta.
Nuovo un tiranno i servi suoi riduce
a maledir la vita
e, come bruti a litigar le ghiande,
ci calca inferocita
la gente nuova che facemmo grande,
ma lieto il dì della riscossa arriva:
corriamo all'armi e la giustizia viva!»

Deh! soccorri, o Signor! Più non ci giova
rinnovar le catene ed i tormenti
o sfrenar birri alle cercate stragi.
Troncata l'idra i capi suoi rinnova
e i pubblicani ed i giudei dolenti
tremano su gli scrigni e nei palagi
dove il tripudio del goder si prova.
La turba macilente
accorre e di morir non ha paura
poi che, soffrendo, sente
che a lei la vita e non la morte è dura...
Deh, Signor, ci soccorri e se al desio
mancan le Guardie, ci difenda Iddio!

E se il tuo Dio ci costa, a noi che importa
quando i ribelli al timor suo riduce
e delle turbe ci ridà il governo;
quando agli eletti suoi l'ausilio porta,
quando tra i volghi creduli conduce
l'util minaccia ed il terror d'inferno
ed ha il demonio pauroso a scorta?
Ben venga Iddio se reca
fede agli umili, securtà ai possenti,
l'obbedienza cieca,
il catechismo, i preti, i sacramenti,
de' frati tuoi la sacrosanta loia,
il Sant'Ufficio, la mordacchia e il boia.

==>SEGUE



Ben vedi che timor, non cortesia,
i magistrati nostri a' piè ti caccia
inginocchiati a far debita ammenda.
Ieri nemici, ognun di lor fuggìa
fino il pretesto di guardarti in faccia,
ma la tema del poi gli animi emenda
ed eccoli a gridar Gesù e Maria.
Reca dunque, o Levita,
benedetti dal ciel giorni soavi
alla città pentita,
al Senator che te ne dà le chiavi;
stringi la briglia nella man paterna
e questo popol tuo reggi e governa.

Canzon, vanne alla sede
del Pastor cui fu pòrto
omaggio di paura e non di fede.
Egli è saggio ed accorto
e se ben tu lo guardi
gli leggerai sul viso: «È troppo tardi!»

PER UN GIORNALE
CHE S'INTITOLAVA
DA
TITO LIVIO CIANCHETTINI
MATTOIDE PERIPATETICO
MORTO MISERO
E LIBERO

I.
Vecchio, lacero, scalzo e rassegnato
all'ingiurie del vento e della piova,
dell'umana follìa misera prova,
l'antico tribolar t'ha consumato.

Nella nebbia dei sogni hai brancolato
come fa l'ebbro, che il cammin non trova,
inseguendo un'idea malcerta e nuova
tortura e strazio al tuo pensier malato.

Ludibrio de' pasciuti, ogni amarezza
soffristi lungo la dolente via,
senza un'ora di pace o di dolcezza.

Lieve la poca terra ora ti sia
dove riposi!... Dell'altrui saggezza
era forse miglior la tua pazzia.



A GIUSEPPE MAZZINI
NELL'ANNIVERSARIO DELLA SUA MORTE

Quando venivi, Apostolo sereno,
a predicar la libertà nel mondo,
pochi, alla Fede che ti ardeva in seno,
aprivan docilmente il cor profondo.

Fuggiva il ricco e, di paura pieno,
s'ascondeva smarrito e tremebondo,
mentre i re col capestro e col veleno
t'inseguivan proscritto e vagabondo.

Ora tu dormi e schizzan dal covaccio
i conigli, giurando in sacramento
d'averti dato, con la mente, il braccio;

e poichè i morti non fan più spavento,
la stessa man che t'apprestava il laccio
porrà la prima pietra al monumento.. –




PROCESSO CELEBRE

Nel tanfo denso della sala e nella
puzza che il caldo fuor dai corpi caccia,
un branco d'avvocati alza le braccia
e rece a gara la plebea favella.

«Asino, camorrista, pulcinella,»
urlano e sputa l'uno all'altro in faccia,
mentre serpeggia intorno la minaccia
della mafia che insidia ed accoltella.

O Giustizia, sei qui? Lordi tu il piede
calcando questo fango avvelenato
che di menzogna vaporar si vede?

O Giustizia, sei qui? Tace il Giurato,
ma nel secreto suo pensier si chiede
se ti ricordi più dell'ammazzato!
NATALE AL TRANSVAAL
MCMI

Un clamor d'ululati e di lamenti
lungo nell'ombra sale
e quel clamor per te – Britannia senti? –
è il canto di Natale.

Il canto dice: «Il sol mai non tramonta
sul tuo impero, Inghilterra,
e l'ugna tua crudel lasciò l'impronta
sovra tutta la terra.

Seminasti l'inganno e la discordia
dove regnar volevi,
nè conoscesti mai misericordia
se guadagnar potevi.

Ora l'Africa strazi e i scellerati
campi di morte inventi
dove le madri martirizzi e i nati
uccidi cogli stenti.

Su chi difende la sua terra invochi
dal ciel rovina e morte
e sterminando i deboli ed i pochi
ti vanti d'esser forte!

No, la forza non hai di che ti vanti;
non hai che la moneta
e il colosso sì caro ai tuoi mercanti
ha i piè di fragil creta.

Roma regnò così. Spiegò l'artiglio
al par del tuo possente,
ma dalla terra al ciel fumò vermiglio
troppo sangue innocente,

e vinta ed arsa, delle colpe orrende
pagò nel sangue il fio.
Piomba sovra colui che men l'attende
la collera di Dio!

Sia maledetto chi per primo ha tolto
fuor dalla terra l'oro
e chi primo la decima ha raccolto
sopra l'altrui lavoro.

Maledetto chi opprime e chi tormenta
le creature umane
e schernisce il meschin che si lamenta
e gli rifiuta il pane.
==>SEGUE
E pur non son corrotte
tutte le menti ancora
dalle iraconde lotte;

e pur, dopo la mora
della dolente notte,
risorgerà l'aurora!

ALLA BANDIERA
I.
Bandiera, nostra forza e nostro orgoglio,
che ci guidasti per la sacra via
e da Castelfidardo a Porta Pia
trionfante salisti al Campidoglio;

bandiera tricolor, che sullo scoglio
di Quarto fosti fiamma e poesia,
non abbassata mai per codardia,
non abbrunata mai che per cordoglio;

bandiera santa, i lembi tuoi ripiega
ormai sull'asta, contrattata e resa
come cencio impegnato alla bottega,

poichè sul capo al traditor non pesa
nemmen più la vergogna e ti rinnega
pel bianco e giallo della Santa Chiesa!
II.
Non da tutti però dimenticata,
nè tradita sarai, vecchia bandiera,
che salisti a Mentana insanguinata
quando speranza d'acquistar non c'era.

Pochi vivono ancor che incatenata
ebber per te la mano alla galera;
troppi son morti, ma dai morti è nata
nuova una gioventù che attende e spera.

E questa gioventù, sovra la traccia
che il tuo cammin segnò, fedele avrai
nella mente, nel core e nelle braccia.

O sacro tricolor, levati ormai,
libero segno, al Vaticano in faccia!
Non mentirono tutti e lo vedrai.



MEMENTO!
ANNIVERSARIO
DELL'VIII AGOSTO 1848
IN BOLOGNA

I
Quando al cielo il clamor della battaglia
col denso fumo andava
ed il cannon ruggiva e la mitraglia
per le vie grandinava,

molti, volgendo ancor nella memoria
il recente passato,
supplicavano Iddio per la vittoria
dell'invasor croato

e nel segreto della chiusa stanza
pregavano: – «Signore,
» doma i ribelli nostri e la baldanza
» che diventa valore.

» Guida tu stesso il piombo e fa che infranga
» il petto dei ribelli.
» Se qualche madre ci sarà che pianga,
» farà gli occhi più belli,

» ma dacci ancora un popolo di schiavi
» e lo scudiscio in mano;
» rendi al vessillo delle sante chiavi
» il suo poter sovrano!...».

Passò vinto il nemico oltre i confini,
la lunga ira è sepolta,
ma molti – ah, nol scordate, o cittadini! –
pregan come una volta!
BANCA ROMANA

I.
Meglio, Trento, per te se dalle mura
sante aspettasti invano
il vessillo che i patti e la paura
respinsero lontano.

Meglio, Trieste, indarno a queste sponde
tener l'anima fissa;
meglio indarno aspettar che lavin l'onde
la vergogna di Lissa.

Deh, non cercate della madre il petto,
figlie aspettanti ancora,
poichè il fracido cancro ond'egli è infetto
o uccide o disonora.

La madre, del vessillo a tre colori
s'è fatta un origliere
per fornicar co' suoi commendatori
scappati alle galere.

Vende l'onore de' suoi figli morti,
gioca le glorie avite
e fa copia di sè negli angiporti
delle banche fallite.

Questa, questa è colei per cui sperate
cessar le vostre pene
ed essa per paura ha patteggiate
fin le vostre catene;

ed essa; in Roma, penitente adora
la fraude vaticana
baciando la rea man che gronda ancora
del sangue di Mentana...

Ah no, questo di vizi ampio carcame
che al bacio vil si prostra,
ah no, per Dio, questa bagascia infame
non è la madre nostra.

Mentì chi 'l disse! O voi, dai fortunati
sepolcri ove dormite,
martiri nostri ormai dimenticati,
levatevi e venite!

==>SEGUE
Non sangue essa ti chiede,
ma invoca i difensori.
Schieratevi al suo piede,
voi forti, e proteggetela
con l'incorrotta fede e gli alti cuori.

Trombe dal sonno scosse,
sonate alla raccolta!
Correte alle riscosse,
salvate voi la patria,
vecchie camicie rosse, un'altra volta!

Alto il vessillo alzate
de' traditori a fronte...
Ma voi, deh, riposate
nelle giberne lacere
cartucce non sparate all'Aspromonte!

IV.
NOTTE D'AUTUNNO

Infuria il vento e nella bieca notte
fredda la piova incalza.
L'acqua che scroscia dalle gronde rotte
sui ciottoli rimbalza.

Entro l'oscurità profonda e vuota
delle vie taciturne
guizzan, specchiate nell'immonda mota,
le fiammelle notturne

e nel sordido fango e nel pattume
putrefatto del suolo,
miserabile spettro, agita il lume
e fruga il ciccaiolo.

Quand'ecco dal silenzio esce il lontano
scalpito d'una rozza
e tra la pioggia, il vento ed il pantano,
appare una carrozza

che in un dirugginìo di chiavistelli
trabalza oscenamente,
col profilo dei birri agli sportelli
e le lanterne spente.

==>SEGUE

E ben ci sta. Come la nebbia incombe
sui colli sacri dove crebbe il fior,
così, freddo l'oblio, copre le tombe
dove riposa dell'Italia il cor,

il generoso cor che non pesava
nelle battaglie il quando ed il perchè,
ma che del sangue suo crocesignava,
crisma divino, sulla fronte i Re.

Ed or, poveri morti, ai soddisfatti
troppo la soma del dover pesò.
L'istessa lingua che giurava i patti,
ruppe la fede data e spergiurò,

mentre voi che giuraste – o Roma, o morte –
l'eterno sonno lo dormite qui,
dove, quadrata, l'ultima coorte
gittò l'ultimo grido e poi morì.

Ultimo fior dell'epopea romana,
nato di sacrificio e di virtù,
o fior di Villa Glori e di Mentana,
la tua radice non germoglia più!

AFFRICA
I.
MENTRE PARTONO

Tu che aprendo il mercato alla menzogna
alto salir potesti
e che senza pietà, senza vergogna,
vivo, di noi ridesti,

or nella tomba dormirai contento,
buon vecchio di Stradella,
che accompagnar solevi al tradimento
l'arte di Pulcinella.

Dormi, buon vecchio, ormai dimenticato
dai servi e dai rivali
e sogghigna se 'l puoi. T'han perdonato
i morti di Dogali.

A ben più grave e più feroce guerra
l'Italia è condannata;
nuovo sangue latin beve la terra
dell'Eritrea bruciata.

==>SEGUE
Voi rispondete: – «Ahimè, dormite in pace
» del triste campo nel silenzio enorme!
» Qui dei delitti la memoria tace,
» qui stipendiata la giustizia dorme.

» Sovra i tumuli vostri erra feroce
» la iena e ne la notte urla il leone,
» ma gli eroi da poltrona hanno la croce
» e gli assassini vostri han la pensione».

VIII.
ARRI!

Ohimè, quanti scambietti!
Oh Dio, quanti nitriti!
I poveri muletti
li veggo imbizzarriti!

Che siate benedetti,
muletti riveriti;
ma che? Per due versetti
strillate inferociti?

Adoperate ingegno,
badate! Non conviene
mostrar così lo sdegno.

Tirate calci? Ebbene,
ma questo non è segno
che v'ho frustato bene?


PER LE CANNONATE ITALIANE
ALLA CANEA

Quando vividamente in ciel la sera
le fiamme del tramonto accoglie in sè,
e nel bacio del sol s'alza Caprera
su l'onda rotta che le mugge al piè,

il vigile nocchier volge le attente
luci a la tomba che da lungi appar,
l'orecchio intende ed una voce sente
alta e sonora sul deserto mar,

che dice: – O madre Italia, io t'ho lasciato
un retaggio di gloria e di virtù:
madre dei forti, dove l'hai gittato,
che Garibaldi non ricordi più?

E pure il vento un lungo suon di trombe,
quasi chiedenti aiuto, a te recò!
e pure un cupo brontolar di bombe
su l'onda sacra dell'Egèo passò!

Spenta è dunque l'idea che i forti mosse
a ribellar le tue cento città?
Dunque non ci son più camicie rosse
per le battaglie della libertà?

Dove dorme oramai chi la parola
del tuo Vangelo al popolo bandì,
e col capestro attraversato in gola
benedisse il tuo nome e poi morì,

o chi sul campo il sangue suo t'offrìa,
il sangue generoso, e lo versò
quando nel singhiozzar dell'agonia
col viva dell'addio ti salutò?

I miei Mille ove son, belli e giulivi
tra la mitraglia, di Milazzo al piè?...
No, se in tanta viltà giacciono i vivi,
si leveranno i morti intorno a me!

Venite, o morti miei! Sovra i fumanti
spaldi, superba la bandiera sta.
Carabinieri genovesi, avanti!
La tromba squilla ed il nemico è là!

==>SEGUE
Così ben dici, o vecchio Re, contento
di questi tuoi nepoti,
oggi birri del turco e, al buon momento,
birri dei sacerdoti.

Ben dici e sfreni con superba gioia
il riso alto e sonoro,
tu che, regnando con la forca e il boia,
fosti miglior di loro.

Ma questo almen ti affligga e dei ferini
gaudi il tripudio arresti,
che tra i bombardatori e gli assassini
non c'è chi tu vorresti.

Vedi? Quando le navi alzan la gala,
manca la tua bandiera,
e il tricolor che sventolò a Marsala
non guida più la schiera;

nè tra gli squilli che, salendo in alto,
vibrano in ciel sublimi,
s'ode la tromba che suonò all'assalto
sotto Calatafimi.

Memori ancora de la nostra istoria,
del Gianicolo in vetta,
cinta d'un trionfal nimbo di gloria,
vediamo un'ombra eretta

che, su la cima quirinal lontana
figgendo le pupille,
chiede: «Potresti ereditar Mentana
e mitragliare i Mille?»



PRESAGIO

L'ala molle del vento increspa l'onda,
bacia e fa susurrar le selve al monte
ed al signor che della messe bionda
gode, accarezza la giuliva fronte;
ma nella pace del seren profonda
s'alza una nuvoletta all'orizzonte
e quella nube, piccola e leggera,
prima dell'annottar sarà bufera!
II.
E tu pure una madre, o poveretto,
avesti un dì che ti cullò cantando,
che ti amò, che sperò, beata quando
sorrider ti vedea sovra il suo petto.

Povera madre! e t'abbracciava stretto,
del torbido avvenir forse tremando;
poi, moribonda, il viso tuo cercando,
dal profondo del cor t'ha benedetto.

Ben fortunata se nel suo materno
sogno non divinò l'orror del vero
e della vita tua tutto l'inferno,

nè ti vide morir nel vitupero,
nè ti seppe scagliato, ultimo scherno,
nella fogna di tutti al cimitero!




III.
O Padre, ed anche a noi punse la mente
la pazzia della stampa e del giornale,
che se fortuna il nostro mal consente,
anche noi moriremo all'ospedale.

Per ciò l'imagin tua grama e dolente
sempre negli occhi abbian, viva e vitale,
povero stolto, povero innocente,
che il ben cercavi e non facesti il male.

Ah, negli oscuri dì vegliaci accanto
come padre fedel, tu che soffrivi
serenamente la miseria e il pianto,

e il tuo lungo martirio in noi ravvivi,
più luminoso e manifesto, il santo
sogno di libertà per cui morivi!
III.

ADJECTA

parte III
OLINDO GUERRINI
Maledetta la madre – e mai sorrida
il figlio a lei sul petto –
che ti sa crudelmente infanticida
e non t'ha maledetto!...»

O avara e rea Cartagine moderna,
ascolta come sale
nell'ombra, verso la Giustizia eterna,
il canto di Natale!


NON IO

I.
Mi chiede la pagina bianca:
perchè, sciagurato, non scrivi
e i versi di cui mi fiorivi
racchiudi nell'anima stanca?

Riprendi coraggio, rinfranca
la fiamma dei versi giulivi:
ritorna nel mondo dei vivi
che ai forti l'applauso non manca!

Ed io sonnolento rispondo:
Io vissi. De' morti nel regno
riposo in un sonno profondo.

Tu d'arte mi parli e d'ingegno
ed io per l'applauso del mondo
non ho che il fastidio e lo sdegno.

II.
Ah! l'arte! Ne' chiusi salotti
lusinga le dame annoiate,
abbrevia le lunghe giornate
e il sonno concilia alle notti;

o tenta gl'ignavi e i corrotti
coi canti e le danze sfacciate,
o chiede alle tazze vuotate
il lercio profluvio dei motti.

La disser già pura e modesta,
ricinta di candide bende
il vergine seno e la testa,

e invece del ricco che spende
rallegra le pompe e la festa...
Ah, l'arte si compra e si vende.

III.
Nel grigio tramonto il villano
con l'impeto cieco del bruto
incombe sul vomere acuto
e squarcia i maggesi del piano.

Vedrà biondeggianti di grano
i campi che ignudi ha veduto,
ma indarno! Sul solco mietuto
ben altri distese la mano!

Ah, i vinti! Parlate con loro
dell'arte che i cieli spalanca
tessendo ghirlande d'alloro!

Non io. Qui, dinanzi alla stanca
mia man che rifiuta il lavoro,
rimanga la pagina bianca.

HUNYADI JANOS
Alla memoria del Signore
ANDREA SAXLEHNER.
Non più anelanti a i pascoli latini
le barbare cavalle Attila caccia
rivisse il fior de gl'itali giardini
su la sua traccia.

Tacque indarno il deserto e crebbe l'erba
dove l'alta Aquilea fumando giacque;
da le feconde ceneri superba
Venezia nacque.

Il Danubio lavò le curve spade
grondanti di gentil sangue romano,
ma di quel sangue mai goccia non cade
versata invano,

e con le stille che tingevan l'onde
de 'l pescoso Tibisco e de la Drava
di Roma il fato a fecondar le sponde
barbare andava,

e di messi la steppa e di vitigni
rise, ed a 'l sol che civiltà conduce
i biechi de i mongòli occhi sanguigni
vider la luce;

nè più l'Europa giudicò minaccia
ma baluardo de' magiàri il petto,
quando il Corvino alzò la spada in faccia
a Maometto;
==>SEGUE
nè più imprecò il latino in val di Pado
a i varchi onde calò di Dio il flagello,
ma l'unno che morì sotto Belgrado
disse fratello.

Oh, benedetto il suol che trepidava
sotto il galoppo de la santa schiera
se il vincitor Giovanni alto levava
la sua bandiera!

Oh, benedetto il suol che de la buona
ausonia civiltà reca le impronte
se de l'Unnìade in nome a noi sprigiona
salubre un fonte

ne 'l cui salso licor Natura mise
le virtù sue più santamente buone,
se più genti salvò che non ne uccise
Napoleone.

Canti a gli sciocchi gli epinìci suoi
chi l'umile bontà sprezza e deride
e novera tra i grandi e tra gli eroi
solo chi uccide:

dica l'alta epopea le stragi orrende,
le città divampanti e combattute;
modesto io canterò l'acqua che rende
vita e salute.

Altri faccia sonar strofe ammirande,
ch'io dirò sottovoce il canto umìle
e il cantor degli eroi sarà più grande,
io più civile.
AURORA

Muore l'antico mondo e pur l'invade
la ferocia d'un tempo e ancor minaccia.
Ardono i fuochi e a fucinar le spade
mancano ormai le braccia,

e i tardi vecchi, cui negli occhi ladri
rosseggia un lampo di pensier cruenti,
tolgon per forza ai baci delle madri
i giovani fiorenti;

segnan le schiere e dicon loro: «Andate!
Vil chi piangendo volge indietro il viso!
Dateci sangue e vivi non tornate
se non avete ucciso».

Ma tra le schiere un fremito si sente,
un susurrar che cresce ad ora ad ora.
Tutti appuntan lo sguardo all'orïente
verso una nova aurora,

e aspettano così l'astro fatale
che le tenebre alfin farà sparire;
aspettan rutilante e trïonfale
il sol dell'avvenire!

FINE

Son la fontana che nasce sui monti
limpida e gaia tra i sassi sonanti,
fresco ristoro di greggi vaganti,
vergine ancora di mura e di ponti

e che, ingrossata da torbide fonti,
bagna e feconda le valli aspettanti,
poi, ferma in larghe paludi stagnanti,
vapora febbri nei grigi tramonti;

indi travolta a città pestilenti,
livida inghiotte le salme dei vinti
e scalza e scuote le reggie possenti,

finchè, gli spazi del mare raggiunti,
tra i flutti eterni dal vento sospinti
si perde e gode l'oblio dei defunti.