CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS














































































ITALIANI

CHE. LARGITE. LAURO. TRIONFALE.

AD. OGNI. GIULLARE.

ONORATENE. ALTRESÌ. QUESTO. POEMA.

AI. MANI. CONSACRATO.

DI. BARABALLO.

Che s'è grati del bene. Hai ridestato
Le vecchie gliene del Filelfo, i vecchi
Odi del Caro, le vergogne antiche
Del Miirtola tra noi; parato dunque
Ai colpi esser tu devi. Hai morsicato
La man che pria baciavi, or non dolerti
Se quella mano ti percuote. È tuo
Questo scandalo. Invan ne la superba
Anima tu guai sci. È la corona
Questa che ti si deve e che ti cingo.

L'odio già sento che il velen m'avventa
Sibilando, e l'amor de le migliori
Amistà via fuggir; ma non mi cale.
Solo starò come solingo sasso
A cui rigido bora e il ciel maligno
Nullo consente onor d'erbe e di rami:
Si dilungan da lui greggi e pastori,
Ti dilunghi tu stesso, Archipoeta,
Cui l'epistola è sacra: impauriti
Passan lungi gli augelli ; egli co' nembi
Pugna indefesso, infin che una nemica
Forza lo schianti o il suol natio l'inghiotta.
PROLOGO

IN CIELO.

Ecce universa qua habet in manu tua sunt.
Joh I. 12.

Sta nella luce dell'azzurro immenso,.
Sta nella gloria immobile ed eterna
L'Onnipossente. Intorno a lui le sfere
Rotan cantando e danzano le stelle,
Scintillano i pianeti, e, l'ondeggiante
Giuba movendo, l'orride comete
Paion domate dall'eterna possa
Come belve soggette al domatore.
Nubi dell'infinito, iridescenti
Parvenze del creato, in alto in alto
Passan le nebulose. Esce da loro
Una misteriosa sinfonia.
Esce un coro dolcissimo che narra
Le glorie del Signor che tutto move,
La potenza del Dio che crea dal nulla.

Sta sull'eccelso trono il Padre. Gusta
L'ozio del pomeriggio, e ne' socchiusi
Occhi del digerir pare il lavoro.
Dell'ambrosia celeste e del divino
Nettare a lui da' chèrubi recato
E tracannato dalla immensa gola,
Compie il chilo santissimo, nell'ampio
Trono distese le possenti membra.
Nella canuta barba si riposa
La man che move i mondi, e le celesti
Labbra curvate ad un sorriso eterno
Emettono i sospiri a cui l'immane
Pondo del cibo è causa e cui le dolci
Armonie del russar sono vicine.

E russa. Tace allor tutta l'immensa
Corte del cielo e tacciono le sante,
Taccion fino i poeti a cui le porte
Furon del cielo per isbaglio aperte.
Russa, e dal naso eterno esce un fragore
CoTiic di tuono, e tremano atterrite
Le sfere e i mondi. I cherubini intanto
Movendo l'ale lentamente, come
Giovinetta gentil move il ventaglio,

==>SEGUE
Einfrescan l'aria intorno al santo capo,
Caccian le mosche dall'eterno naso.

E russa. Come chi vede il suo prossimo
Spalancar le mascelle allo sbadiglio
E sente tosto rilasciarrsi i muscoli
E salir lo sbadiglio per le fauci,
Così la corte de' celesti al tuono
Del russar sacrosanto è come presa
Da fulmineo contagio, ed imitando
Il dormente Fattor della natura
Cade in letargo e al suo russar fa coro.

Paissano tutti. Chi disteso a terra
Con le mani incrociate in sulla pancia,
Chi col ventre sul soffice tappeto.
Chi rannicchiato, chi seduto a gambo
Larghe. I beati, le beate, i santi,
Le sante, i cherubini, le angiolesse,
A mucchi, a strati, mescolati colle
Braccia intrecciate, colle gambe all'aria,
Di qua, di là, di su, di giù, mischiati,
Confusi, aggrovigliati in mille guise.
Dormono, e dalle sacre bocche un largo
E profondo russar levasi insieme.
Sembra l'Olimpo nell'atto secondo
Della vecchia operetta Orfeo all' Inferno.

Trecent'anni russar profondamento
Come lettori di poemi odierni
In versi sciolti: e russerebber sempre.
Se un suon di tube e di campane e sistri
Sorto non fosse ad annunziar la cena.
Si destan tutti sussultando. Il Padre
Eisbadiglia, il Figliuolo alza le braccia
Stirandosi, e lo Spirito svolazza,
Ancor mal desto, sull'altre Persone,
Si destan tutti e uno sbadiglio corro
Di bocca in bocca. Un grido indi si leva,
Uno stentoreo grido : a cena ! a cena !
Per due ! Per quattro ! Segnate il passo
Su per la strada santa e serena:
Oggi è domenica, mangiam di grasso,
A cena, a cena !
quante salse ! Quante vivande !
Di quanti piatti la mensa è piena !
Oh, di tartuti che odor si spande !

==>SEGUE
Arrosto fanno su pei piatti l'ova
Fritte, al tegame, al guscio, od in frittata
Compiacenti al desio di lor signori.
Piove manna dal ciel, ma tutti quanti
Gustano meglio gli spaghetti al sugo.

Poiché della minestra i larghi tondi
Ebber vuotato, si levò confuso
Delle voci il clamor.
— Dammi da bere ! —
— Ti piaceva il risotto? — Ehi, signorino,
Tenga le mani a casa. — Oh, oh! — Da bere !
— Quanti ne abbiam del mese?—A me non piace
Col zafferano. — Non ho fatto apposta, —
Son di Norcia i tartufi ? — Un po' di salsa ! —
Da bere! — Tante grazie! — Ah sudicione.
Dove ha imparato a far sconcezze a tavola ? —
Ma le pare? — Da bere! — Ah, ah, ci soffro
Il solletico ! — È meglio lo storione. —
Da bere! — L'ha con me? — Ti prendo a, schiaffi,
Lasciala stare — No — Canaglia ! — Infame ! —
Ti tiro la bottiglia — Ahi! — Fermi! — Zitti! —
Fate la pace, via ! — Basta ! — Da bere
Prende tabacco lei ? — Grazie — Da bere !
Ho sete ! — Ho sete anch'io ! — Presto, da bere.

VOCE DALLE SFERE

die bel gusto giiar come arcolai
Nel giorno cliiaro e nella notte oscura;
Senza fermarsi mai,
E senza mai cangiar di seccatura!
Noi domandiamo, clie bisogno c'era
Di questi nostri sempiterni giri?
Non poteva restar ferma ogni sfera
Ad ascoltar gli sciolti ed i sospiri
Delle ragazze affette d'isteria
E dei poeti senza prosodia?




Movea la bionda està (bella parola !)
Movea la bionda està giù da' falciati
Campi a cercar le vive onde marine
(Per farne che, non lo sa poi nessuno),
E coronato il crin d'edra... Che brutte
Parolacce, mio Dio! Cambiam registro.
Dunque il Signor tacea. Ma non taceva
Se non perchè non avea nulla a dire ;
E tutti rispettando il suo solenne
Silenzio, avean l'americana foglia,
Ossia tabacco, co' zolfini accesa ;
E chi quella ricchissima d'Avana,
Chi la turca odorosa e chi la sozza

E puzzolente che l'Italia appesta,
in sigari contorta o nelle varie
Pipe stipata, con piacer fumava.
Lo stesso Padre col pipin di gesso
Annerito dal fumo e dalla eterna
Sporcizia, come vaporiera in alto
Sbuffava ed appuzzava i suoi vicini.
Fumava il Figlio un sigaro toscano
E il celeste Piccin la sigaretta.

Al fumo delle pipe il suo mescea
Acuto aroma l'araba bevanda.
Ma quasi tutti preferiano a lei
La grappa piemontese o l'acquavite.
Rosseggiavano i nasi benedetti
Come le fraghe tra le foglie. Molti,
Stesa la schiena su le sedie, i piedi
Sulle mense tenean ; molti caduti
Erano a terra e digerian russando
Senza veder le offese al buon costume
Celate dalla complice tovaglia.

Ad un tratto s'udì molle un concento
Di tamburi, di timpani e tromboni
E di gran cassa. Unanimi levarsi
I benedetti spiriti, e succinte
Le vesti, incominciar le sacre danze
Che di cancan il nome han tra i mortali.
Oh, come i lombi dimenavan lesti
I confessori, oh come in alto il piede
Scagliavano le vergini ! Non solo

==>SEGUE
E non lo credo.
Nella sala immensa
Si sparse un acre odor come di zolfo,
Tale che ognun chiedeva al suo vicino:
— Ti si bruciano in tasca i zolfanelli? —
Ma il celeste Piccion cui tutto è noto,
Disse — Zitti, perdio! Non v'accorgete
Che questo è il puzzo dell'inferno e addosso
L'ha il diavolo? — Stupiti ammirar tutti
La sapienza profonda del piccione.

Nel silenzio Lucifero fé' un passo
Avanti e colla voce profondissima
Volto all'Eterno — Come stai? — gli chiese.
— Puh ! Non c'è male — gli rispose il Padre —
E tu stai bene? — Starei meglio — disse
Lucifero — se tu non permettessi
Ai poeti per ridere, di darmi
La berta in versi sciolti. Io meritava
L'inferno e mi ci hai messo; ma il peccato
Mio non fu tale da soffrir la pena
Immeritata di quindici canti
Sciolti, arcisciolti, stampati a Milano....
Io me ne appello alla giustizia tua!
Perchè perseguitarmi a questo modo?
Perchè inasprir la pena? Ah, quanto meglio
Fora per me s'io fossi condannato
A la galera nel mio dolce regno
D'Italia, dove i rei sono trattati
Meglio assai de' soldati e de' maestri !
Almeno a lor non scagliano poemi,
Come a me, tra le spalle, ed io protesto! —

— Ma credi tu, — rispose il Padre — credi
Ch'io pur non soffra di poemi'? Ormai
Non c'è scolaro di liceo che stufo
Di studiar la lezione, a me non scagli
Elzevire insolenze e vituperi
In odi barbarissime e sbagliate!
Non sai tu le bestemmie e gli aggettivi
Cui si accoppia il mio nome, specialmente
Nella gentil Toscana? Ivi birbone,
Cane, carogna e peggio son chiamato;
E tu ti duoli per sei mila versi
Scaraventati malamente ! Almeno
Quei versi fan dormir, ma le bestemmie;
Caro Satana mio, levano il pelo ! —

==>SEGUE
- Alle faccende tue — disse Lucifero —
Pensa da te. Se in terra li bestemmiano
Pensaci tu ; ma questo non giustifica
Questo non scusa la novella ingiuria
Che a me fu fatta. Non puoi tu difenderti ?
Non hai per te la Civiltà Cattolica,
L' Ateneo Romagnolo e i per'iodici
Che in ciascuna città stampano i vescovi ?
Non li legge nessun perchè son stupidi,
Son cretini, lo so ; ma pur si stampano.
Io non ho che il Carducci col suo Satana,
Tu centomila preti e frati e monaclie:
I cónti non son pari. Io vo' giustizia
E tu me la farai, corpo del diavolo ! —

- Calmati — disse il Padre — Io giusto sono,
Ed ho capito che poi non hai torto.
Io ti debbo un compenso e tu l'avrai.
Poiché un poema t'ha seccato, è giusto
Che gli avversari tuoi siano seccati
Anch'essi da un poema. Io sono giusto,
E te lo farò fare in versi sciolti.
Occhio per occhio fia così pagato,
Seccatura così per seccatura.
Vuoi dei versi noiosi? E tu li avrai!
Mai carestia non fu nella mia cara
Terra d'Italia di versi noiosi
E di poeti concilianti il sonno.
Lucifero non vuoi? Prenditi il Giobbe. —

Rabbrividiron tutti alla minaccia
E Lucifero cadde inginocchioni.
— No, per amor di Dio, Padre! Risparmia
Al flagellato mondo, alla percossa
Umana schiatta un tal martòro. Uccidi
Colle guerre, le pesti, e le Regìe,
Ma non infligger ai dolenti un nuovo,
Un tremendo poema in versi sciolti !
Pietà, pietà per la straziata stirpe
D'Eva ! Pietà pei miseri redenti
Invano dal tuo Cristo! In me punisci
D'un poeta l'error: ficcami ancora
Nel zolfo liquefatto e nella pece,
Fa di me quel che vuoi.... ma, deh, risparmia
Il poema di Giobbe al mondo ! . .
Scosse

==>SEGUE

La chioma bianca il Padre e tutto intorno
Il ciel tremò:
— L'ho detto e lo mantengo,
E sillaba di Dio non si cancella, —
Pianse Satàno e sulle negre guancie
Le lacrime parean goccie di foco,
Quando il Padre gridò — Parliamo d'altro.
Hai tu visto il mio servo Gigi Alberti
Che mi difende sempre in verso e in prosa ?
Che ne pensi di lui ? —
— Nulla, o Signore,
Se non che il peso suo passa di molto
Quello delle piramidi d'Egitto,
E l'ho visto piangente. —
— perchè piange?

Pria che il passo volgessi all'infecondo
Gaudio di questo tuo pallido regno,
Le diverse cercai parti del mondo.
Dove dell'Orsa l'angoloso segno
Preme dal cielo l'iperborea terra,
Vidi percosso dal possente sdegno
D'una plebe fatal, cui non atterra
Terror di studiati atri martiri,
L'Autocrata che indisse a' suoi la guerra.
Non men rispose a' miei giusti desiri
Roma agitata sulla bara bruna
D'un reo che la straziò co' suoi deliri.
Profonda era la notte: in ciel la luna
I raggi diifondea, ghignando ai vati
C'hanno la pancia e la Musa digiuna,
Allor che salmeggiando uscir schierati
In lunga fila fuor del Vaticano
E bacchettoni e suore e preti e frati.
Ben mille e mille torcie aveano in mano.
Onde le torri e le superbe mura
Sul ciel corusche si vedean lontano.
Il ciociaro guardando alla pianura
Rammenta il fiero incendio di Nerone
E gli si stringe il cor dalla paura.

Giungea frattanto la processione
In piazza Eusticucci, allor die lieta
Da un caffè udissi una volgar canzone.
Chi mai del venerabile profeta
Osa folle insultar la salma antica ?

==>SEGUE
La sua brava querela. Hanno guastato
I connotati ai giovani cattolici ?
Bene! Cinquanta lire! È prezzo fisso.

Parlami dunque, Spirito maligno,
Parlami dunque un po' del tuo Carducci!
Che fa, lo scellerato ? Insulta ancora
La veneranda mia barba coi tetri
Carmi? Che fa? Paventi la vendetta
Mia che comincia ad infierir su lui.
Non è pentito ancor dopo ch' io 'l feci
Per sua vergogna far commendatore ? —
Levò il capo Satàn, sorrise e disse —

Cupo, aggrondato, per le felsinee
strade cercando del suo Cillario,
Enotrio procede, strappando
dal bruno mento la barba rada
e mulinando ruvidi esametri,
sognando l'arte aristocratica,
maledice i giornali e per loro
affila i giambi e pensa e scrive,
e dio nervoso, nume irritabile,
china lo sguardo da la sua gloria
s'abbassa a' percoter gl'insetti
ch'a le sue piante giungono appena.
Oh grande in questo che la calunnia
non lo distolse da le abitudini,
né prese le muse in dispetto,
ed ama sempre gli amici e Bromio.
Cerca, o Signore, tra i tuoi proseliti
un gesuita che sappia scrivere.
Se tu, cbe noi credo, lo trovi,
te lo prometto, mi faccio frate.
Possono farti cento Luciferi
ed un milione di Falingenesi,
ma l'inno di Satana, credi
credimi, almeno non fa dormire.

Ah; se il Carducci meno polemiche
scrivesse e invece più odi barbare,

==>SEGUE
babbo; i tuoi cento poetastri
starebber tutti cheti com' olio
e gli Stecchetti puzzolentissimi
ed i Panzacchi ed i d'Annunzio
ti romperebbero di meno,
Eterno Padre, le sacre tasche.

- Basta ! — il Padre gridò — basta perdio !
Se ancora in versi barbari, mi parli.
Ti ricaccio all'inferno ed il poema
Finisce innanzi tempo. Animo dunque,
E cambiamo discorso. Hai tu veduto
Giobbe, il buon servo mio, quel ch' è citato
Anche in proverbio come il non plus ultra
Della pazienza ? —
— L'ho veduto — disse
Lucifero — ma certo egli fa poca
Fatica a non impazientirsi mai.
A lui ricchezze, a lui salute, vino
Eccellente, bellissime fanciulle.
Figli, commende e prefetture hai dato.

Egli è felice e non è meraviglia
Se t'è fedele e non s'adira mai.
Lascia ch'io 'l tocchi nello scrigno, lascia
Ch'io nelle carni lo percota e allora
Vedrai se non si volge a te con tutti
I moccoli dei beceri toscani.
Vuoi scommetter con me? Scommetto l'alma
Del feroce Ezelin contro la casta
Alma del tuo santissimo Antonelli
Che s'io lo tocco, ei peccherà. Scommetti! —
— Ed io scommetto — gli rispose il Padre —
Egli è in tua man. Di lui fa quel che vuoi
Strazialo come vuoi, purché la vita
Gli salvi e l'intelletto. Io t'interdico
D'ucciderlo e di fargli in ogni modo
Leggere gli elzevir del Zanichelli. —
— Accetto — replicò tosto Satano —
Dammi la mano e la scommessa tiene ! —
Si strinsero le destre e il ciel tremò

==>SEGUE


Alla scena curiosa. Indi s'aperse
Un trabocchetto e il diavolo scomparve
In un acre fetor di pece greca.

Ripresero le sfere il consueto
Giro e tutto tornò com'era prima.
Raccese il Padre il suo pipin di gesso.
Tornaro i santi alle divine danze
E vada un po' a veder chi non lo crede.

VOCE DEI SANTI

Chi non anela a voi, notti stellate
Del basso mondo, non capisce nulla.
Noi accechiamo in queste illuminate
Sfere del ciel ch'eternamente frulla.
Poi che le carte fur da Dio tassate
Nessun giuoco oramai più ci trastulla
E in queste seccantissime serate
Non ci resta che leggere il Fanfulla.
Quel giornal moderato e riverito
Il sangue ci rinnova nelle vene
Con la prosa di zucchero candito.
Talor d'errori ha le colonne piene,
Ma in Paradiso manca un erudito
E il capitan Fracassa non ci viene.

VOCE DELLE VERGINI

Afferma un vecchio proverbio che tutte
Le disgrazie non vengon per far male :
Noi Siam beate perchè fummo brutte,
Perchè tali ci fece Iddio immortale.
Lasciammo il mondo presso che distrutte
Dal fiele, da un isterico ideale;
E da l'invidia per le belle putte
Che dier un calcio ai santi e alla morale.
In questa sempiterna melodia
Delle sfere azzurrine e dei pianeti
Noi leggiamo la Nuova Antologia.
La noia è molta — ma i sensi stan cheti.
E, come fan le Figlie di Maria,
Non deliriamo nell'amor de' preti!

VOCE DEGLI ANGELI

Abbiamo al collo una cvavatta d'ale
E siamo bianchi, rossi e ricciolini ;
Ma Dio, perchè non ci tentasse il male,
Non ci diè che la testa d'angiolini.
Ma per compenso ci abbonò al giornale
All'ottimo Giornale dei bambini,
Opera nuova, splendida, morale.
Dell' Obleight, del Fanfulla e del Martini
Ivi, color che scrivon dappertutto,
Sopra i vecchi cliché de' fogli inglesi
Rifriggon Scavia e parlano di tutto:
E noi, bambini di questi paesi.
Troviamo che il giornal non è poi brutto..
Sol delle scioccherie siamo sorpresi.

VOCE D'IMBECILLI

Siam l'imbecillità santificata,
Siamo il zenith della cretineria,
Abbiamo il gozzo, la paralisia
Coll'idiotismo e la demenza innata.
Il che ci meritò questa beata
Arcibenedettissima allegria,
Gloria in eterno all'ebetismo sia.
Al Padre, al Figlio e a tutta la brigata.
Al nostro cervellaccio da somaro
Cerchiamo d'apprestar cibo asinino,
La gramigna più scelta, il fien più raro,
E per questo leggiamo ogni mattino
La traduzione di Lucrezio Caro,
Il Lucifero, il Giobhe e Bertoldino.
________________________
Olindo Guerrini - GIOBBE Serena Concezione di Marco Balossardi - parte I
Pagina a cura di Nino Fiorillo           == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
COME NACQUE IL "GIOBBE"


di Corrado Ricci
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Facevo versi anch'io, quando apparve un articolo di Giosuè Carducci in cui, col terribile suo nerbo, quasi Gesù nel tempio, menava colpi spietati sui giovani che facevano versi. A me parve d'esser raggiunto da qualcuno di quei colpi, e smisi. E fu bene, perchè rivoltomi a studi più conformi alle mie attitudini, feci cose forse non del tutto inutili, e certo percorsi strada più fortunata. Ora dei versi fatti, mi vergogno: non perchè fossero recisamente stupidi e brutti, ma perchè erano romanticamente sciapi, o classicamente impettiti, come molti, come troppi, pubblicati allora e dopo. Insomma, roba insulsa.
Perchè (e questo i giovani non dovrebbero mai dimenticare) tutte le arti possono aver ragione d'esistenza, anche se non sempre altissime, fuor che la poesia. Non è necessario esser Raffaello per dipingere le insegne delle botteghe o le squadrature delle camere, né Donatello per metter qualche ornamento ai mobili o alle porte o alle finestre o a' cornicioni degli edifici; né Rossini per far la musica che règoli il passo ai soldati che marciano o alle ragazze che ballano. Insomma i pittori, gli scultori, i musicisti anche mediocri possono far qualcosa di utile e di piacevole. I poeti no. I poeti debbono essere... poeti o nulla. Debbono commuovere, sollevare, esaltare, o starsene cheti. E se proprio non possono fare a meno di stendere, in carta e in rima, le proprie debolezze, abbiano almeno il pudore di rimpiattarle, o, meglio, la saggezza di bruciarle.
Commuovere, sollevare, esaltare! Taluni dicono anche divertire', e trovano che la caricatura, la satira, l'epigramma sono forme letterarie ragionevoli per le quali non occorre la mente sublime di Dante, né la fantasia dell'Ariosto, né la profondità del Leopardi. E sia pure ! Ma é da riconoscere che si tratta di poesia solitamente destinata a breve esistenza, sorretta da quell'incomparabile eccitante che si chiama la maldicenza, e vaporante man mano che i lettori pèrdono conoscenza dei fatti e delle persone che la provocarono, e pèrdono su tutto il piacere di veder tartassati i nemici... e specialmente
gli amici.
Il Giobbe di Marco Balossardi ebbe, infatti, un successo clamoroso (Emilio Treves lo seppe bene!) ma fu successo di pochi anni, fors'anche di pochi mesi; ed era naturale. Ora gli amici hanno insistito (una volta tanto "l'insistenza degli amici" non è un pretesto) perchè io ricordi come nacque il poema; ed io cedo, non senza, però, un poco di riluttanza, per le ragioni dette da principio. Torniamo indietro (ahimé!) di quasi trentacinque anni: e precisamente all'estate del 1881. Ero ospite, a Fano, di Lorenzo Stecchetti, in una casetta in riva all'Adriatico, bianca tra lo scopeto. In mare noi passavamo ogni giorno ore e ore, spingendo qua e là con due pertiche una specie di zattera fatta di tavole inchiodate su traversini. E si ciarlava, si rideva, si vegetava, mentre la nostra pelle abbruniva, e il nostro stomaco preparava appetiti furiosi. La terribile polemica tra Giosuè Carducci e Mario Rapisardi era cessata da poco e n'eran vive ancora, per così dire, le oscillazioni, quando una mattina non so che giornale portò la notizia che il Rapisardi, raccogliendosi olimpicamente in sé stesso, aveva detto: "Ai detrattori del Lucifero risposi col Lucrezio, ai detrattori del Lucrezio risponderò con la serena concezione del Giobbe „. Nel pomeriggio, vogando con la nostra zattera sull'onde leggermente mosse dalla brezza, tornammo sull'argomento; ed io dissi: — Facciamolo prima noi, il Giobbel E lo Stecchetti pronto: — Perdio, facciamolo! — E chiamiamolo: " Serena concezione „. E lo Stecchetti come di rimbalzo: — E chiamiamolo " Serena concezione „.
Detto, fatto. La mattina seguente il poema fu concertato e cominciato. Lo schema fu tutto dello Stecchetti. Prima, un grandioso pròlogo in cielo; poi la miseria di Giobbe, e Giobbe sullo sterquilinio tormentato dalla lebbra, dalla moglie e da tre amici che gli parlano di politica, di filosofìa, di letteratura; finalmente un epilogo con la fine del mondo. — E l'intreccio e gli episodi? — chiesi io. — Nessun intreccio — rispose lo Stecchetti. — Quanto agli episodi verranno fuori spontaneamente, cammin facendo. — Ed io che scrivo? — Scrivi quello che vuoi: cose, possibilmente, di attualità, imitazioni di poeti, epigrammi, insolenze: insonmia tutto ciò che ti passa per il cervello. Io poi metterò a posto quello che hai scritto, attaccandolo e adattandolo.
Lo Stecchetti intanto procedeva nel lavoro. Scriveva col suo bel carattere fine, lungo, uguale, su carta grande, minutamente rigata, i suoi versi, senza una cancellatura, senza un pentimento. Io intanto, mettevo insieme i miei brani, alla meglio, con ben altra fatica, e glieli passavo.
Nel Prologo sono mie le terzine sul seppellimento di Pio IX, e mie le voci dei Santi e quelle delle  Vergini. Nel secondo canto miei i primi versi sino a Maledetto colui che il sonno rompe e gli altri da Giobbe, sei grande sino a Ritorniamo ai Sabei che, spaventati e ancora dal verso Allo squillar del campiinel di strada sino a Non trovi d' ora innanzi un editore.
Nel canto secondo mie le Voci dei Poìiziottt, dei Frati, dei Preti, dei Socialisti, dei Trasformisti, e nel seguente soltanto l' imitazione dello stile del Trezza.
Intanto la stagione dei bagni finì e col settembre si tornò a Bologna, col Prologo e coi tre primi Canti finiti. Avvenne allora un curioso fatto. Abbandonata la riva del mare, il bel sole, la vita gaia, in più semplici parole, cambiato ambiente, il lavoro rimase interrotto e chiuso in un cassetto dello Stecchetti, il quale, per giunta, se n'andò nella quiete della sua villa di Gaibola. Passarono due mesi, quando Emilio Treves che già aveva accettato d'essere editore del Giobbe, scrisse chiedendone notizia. — Coraggio, dissi, riprendiamo il lavoro. L'amico annuì. E si finì. Pel quarto canto, scrissi le voci dei Ginnasi e degli Asili, l'imitazione dei versi di Arrigo Boito, di Giuseppe Giacosa e d'Enrico Panzacchi, il Canto dei Ciociari e l'invettiva di Dante contro i commentatori di Dante, di cui difficilmente potrò purgarmi il giorno del Giudizio. Si giunse così all'Epilogo, di cui feci gran parte perchè lo Stecchetti non lavorava più di tanta lena, sapraffatto da un entusiasmo nuovo, quello della fotografia, soppiantato a sua volta quando sul suo orizzonte apparve radiosa la bicicletta. Dell'Epilogo scrissi le prime tre pagine: poi altre quindici pagine, dal verso Stanco però di quegli allegri canti sino a Disse e tuffossi nella Cisternazza e ancora da Seduti intorno al Sommo Padre... sino alla fine, o meglio al Coro finale in greco, per così dire, maccheronico che è dello Stecchetti. Ho indicato la parte mia per far più presto, essendo la più breve; un quarto appena dei versi, e, naturalmente, il quarto meno buono, o meglio, senza complimenti, il quarto cattivo. Perchè bisogna riconoscere che la parte scritta dallo Stecchetti è piena di spirito e di vivacità, e circola spedita tra le persone, le cose e i fatti del tempo, dando botte, spinte, scrollate, pizzicotti che sollevarono risate, lagni, proteste. Ma le ire maggiori (ricordo benissimo) furono quelle dei dimenticati. Insieme al manoscritto fu spedito al Treves il ritratto di... Marco Balossardi, perchè lo riproducesse e lo mettesse in testa al volume. Lo disegnò Luigi Busi tenendosi dinanzi il ritratto di Mario Rapisardi e quello dell'eroe che si vede riprodotto sulle bottiglie dell'Acqua di Janos! Accostamento sintomatico, disse Alfredo Oriani. il libro, presto stampato, fu annunziato l'8 gennaio 1883, con questo sonetto:
Signore — Compio il gradito dovere
con il presente, di venirle a dire
che composi un poema; ed ho il piacere
di farle noto che sta per uscire.
Nel tempo stesso le faccio sapere
come qualmente bisogni avvertire
che i versi son di tutte le maniere,
quasi seimila e costan quattro lire:
ed in quei versi c'è tanto furore
di maldicenza, che si può giurare
che il libro è destinato a far rumore.
La prego il mio poema d'annunziare
e s' Ella mi farà questo favore
ne avrà franco di porto un esemplare.
E caso mai l'autore
le sembri degno delle sue censure,
non abbia alcun riguardo, e faccia pure.
Marco Balossardi.

Al sonetto era aggiunto l'indice degli argomenti. Seguirono i commenti d'alcuni giornali d'accordo nella burla, i quali con racconti piccanti crearono una maledetta confusione di notizie, donde le discussioni che acuirono la curiosità e l'attesa. Emilio Treves dichiarava che il poema gli era arrivato da Firenze, ma non sapeva di chi fosse. Ne lesse alcuni brani agli amici del Cova, ed altri ne diede, abilmente scelti, ai giornalisti. Così, avanti che il libro uscisse cominciarono le attribuzioni e le pretese indiscrezioni. Il poema era del Carducci, si disse prima; poi, dello Stecchetti; poi di tutta la solita combriccola bolognese: Carducci, Stecchetti, Panzacchi e minori. Ma presto vi fu chi assicurò che i versi più feroci erano contro il Carducci, lo Stecchetti e il Panzacchi, e da questo nacque la voce che il poema fosse un'atroce burla dello stesso Rapisardi. Il Don Chisciotte del 15 gennaio stampava: " Mistero per mistero, vi ho svelato intanto il più interessante, ed è che il dott. Marco Balossardi si chiama prof. Mario Rapisardi. A difendere " l'illustre catanese „ da tanta accusa intervenne allora lo stesso Balossardi con una lettera da Firenze, del 17, in cui dichiarava:
" L'odio ingiustificato che i neofiti della scuola bolognese nutrono verso l'autore del Lucifero ha fatto senza dubbio velo al loro giudizio „. Alle proteste del Balossardi successero quelle del Rapisardi, che scrivendo da Catania il 18 gennaio alla Stella d' Italia proclamò che il poema non era suo: " Questo solò deploro nel presente caso: che ci siano al mondo scrittori celebri (come dice l'avviso dei signori Treves) che non arrossiscono di lavorare un anno per far ridere un'ora i maligni e per dare a me il disturbo di dir loro pubblicamente che li disprezzo „. E il Balossardi rimbeccò: " Il Rapisardi dice di sprezzarmi. Lo sprezzo è reciproco e quindi siamo pari „. L'interesse cresceva. // Capitan Fracassa del 27 gennaio fra l'incredulità di tutti annunziò che nel poema v'era qualche lodato: che, ad esempio, dal vilipendio generale alcuni eran sottratti: Renato Fucini, il Carducci, Giovanni Verga e Giovanni Prati. E soggiungeva: "Nella Voce dei preti, questi signori cantano: Vogliam don Albertario! I frati voglion le marchese ! „
Il poema uscì finalmente il 28 gennaio (di sabato) e il successo segui completo. Il Fanfulla ì'u dei primi a riconoscerlo quantunque toccato nel vivo dai versi:
Perde il Fanfulla i «uoi lettor più eletti
attratti dal Fracassa
con Ia cara invenzion dei pupazzetti
e i colpi di gran cassa:
questi per direttor Vassallo prese
e indovinò scegliendo un genovese.
E Marco Balossardi ringraziò il Fanfulla scrivendogli " Ia verità sul mio Giobbe „, che, viceversa poi, non era che un'altra serie di fanfaluche, dove si diceva che il poema era stato imaginato a Livorno sulla piattaforma del Palmieri e (sola cosa esatta) da "due amici brachi- vestiti „. Gandolin infirmò l'articolo come non autentico e inventò la storia d'un' intervista col Balossardi. Solo un giornale solitario della solitaria Ferrara (il Maramaldo del 1° aprile) scrisse che autori del polimetro satirico eravamo il Guerrini ed io. E cosi Maramaldo volle tradire anche il nostro segreto. Faccio grazia ai lettori di quello che stamparono contro la " ditta bolognese „ i giornali di Catania: agli insulti aggiunsero le minaccie, e solo il Rapisardi si mantenne in grande orgogliosa solennità dichiarando che risposta degna ai nemici l'avrebbe data con... altri poemi! All'incontro la "ditta bolognese „ se ne rimase tutta umile in tanta gloria. In una poesia del Balossardi edita allora dal Fanfulla si lesse:
E le cronache e i pasticci
che stampò Corrado Ricci,
e questi versi li scrissi io, poco dopo che il Giobbe aveva bollato lo Stecchetti così:
Ti fingi virtuoso e ti presumi
che del pubblico l'occhio temerario
ad indagar non giunga i tuoi costumi,
e velando col tuo riso bonario
l'avidità per cui tu ti consumi,
cerchi di diventar bibliotecario!
E questi versi li aveva scritti lo Stecchetti.
CORRADO RICCI
VOCE DALLE NUBI

Possa venire un canchero nel core
A quel somaro c'ha inventato il vento,
Che va sempre in furore
E fermar non ci lascia un sol momento !
Accidempoli a chi ci ha messo al mondo
Per dar gusto al villan che vuol la piova,
Per farci correr sempre in lungo e in tondo
Guastando il tempo ad ogni luna nova!
Siam condannate a non fermarci mai
Per dar da guadagnare agli ombrellai!

VOCE DALLE CUCINE

Lo strutto non è buono, il burro è caro,
Costano i polli un occhio della testa,
Ed il Padrone avaro
Vuol spender poco e sempre stare a festa.
La sera poi, quando facciamo i conti.
Lesina i soldi e ci tratta di ladri !
Muti cuoco il Signor, che noi slam pronti
A cedere il grembiule ai Santi Padri,
E lo schdion del rosto al Sant'Uffizio,
E ci lasci, perdio, mutar servizio.
Voce nel naso.
Ascoltate, Signori, il triste canto
D'un povero poeta raffreddato
E digiuno da tanto
Tempo, magro, stecchito, allampanato!
Dalla mensa santissima porgete
Almen un osso al povero poeta !
Fatelo professor, se non l'avete.
Che de' poemi suoi questa è la meta !
Fate che vocin gli scolari stolti:
a Abbasso Senofonte e viva i sciolti ! »
Tacquer le voci e tutto fu silenzio.

Dio tacca da gran tempo. Ai consueti
Balli moveano in ciel gli astri, e con dura
Infallibile norma albe ed occasi
Il monotono Sol dava a la terra.
Reddian le nevi a biancheggiar le spalle
Del tremante dicembre, april venia
Col suo manto di fiori; arida e stanca

==>SEGUE




CANTO PRIMO



lOB.




Testa saniem radebat, sedens in sterquilinio.
lOB II. 8.

Alta è la notte. Una solenne pace
Su l'erma terra dalle stelle piove.
Tacciono l'opre e i venti. Non del mare
Un gemito lontan su le petrose
Coste Gerrèe risuona e la superba
Chioma de le foreste al viandante
Coll'urlo lungo non agghiaccia il core.
Tutto riposa.
Chi oserà l'immensa
Turbar quiete del creato? Iddio
Vuol che nel sonno le languenti membra
Ristorino gli schiavi, onde col sole
Escan più forti del signore al cenno
D'Idume a coltivar l'arena ingrata.
Maledetto colui che il sonno rompe
Del servo stanco; maledetto cento
Volte, se col rumor di danze o grida
Eccitate dal vin, desta l'ilota
Nel suo duro canil. Meglio che gli occhi
Non apra e sogni. Alle rosate larve
Visitatrici del giocondo sonno
Il misero lasciar giova. Non fate,
Non fate, no, che con l'orecchio teso
Al suon degl'inni vostri, al tintinnio
Delle tazze che s'urtano, ricordi
Il digiuno del dì. Non fate mai
Che sui cubiti ritto, a notte chiusa,
Mentre cenate voi, pensi alla fame !

Giobbe questo non sa, Giobbe, il felice
Signor di mille campi e mille armenti !
Egli siede al convito e già vicino
È il dì novello; già roseo traluce
Per le tenui cortine il primo riso
Dell'aurora che sorge. A lui d'intorno
Ebbri stan sette figli e cento amici.

Nei turiboli d'or fuman le gomme
Del benzoino, il cinnamomo, il nardo,
E sovra i lini della mensa i gigli

==>SEGUE
D'Engaddi, misti a le purpuree rose
Di Gerico, son sparsi. Ai convitati
Pendon ghirlande da le chiome e bende
Festive. Cento giovanette, appena
Dai procaci di Coo veli coperte,
Recan intorno l'anfore d'argento
Mescendo il vino e concedendo i baci.
S'udian sonar le tazze d'oro e l'alte
Risa ed i canti. Fervea l'orgia, quando
Ecco mal fermo sovra i pie, rubizzo
In volto, move dall'estremo letto
Del concavo triclinio, un poetuccio
Che alimentò di sé cento giornali,
Tutti falliti, e che imitando scrisse
Molti enormi elzevir di versi matti.
Mise gli occhiali sul gran naso e, presa
In man la cetra, incominciò a cantare.

Giobbe sei grande. — L'umile tuo cuore
Chiamò dal nostro Iddio tanta fortuna.
Se tu soccorri il povero
Vate che prega, ei ti farà signore
Di tutto l'oro ch' è sotto la luna.
Giobbe sei grande— ed io cui tanto attrista
La vecchia tabe del corrotto mondo,
Voglio la vita scorrere
Da castigato puro idealista,
Inteso sempre al tuo saper profondo.
E se nell'orgia dei conviti, i baci
Tu muterai con qualche giovinetta.
Io canterò << Più splendida
Nel gran desìo del bello tu mi piaci,
natura d'amor semplice e schietta ! »
L'accarezzar ne le segrete alcove
Le vinte mogli degli amici imbelli,
Colpa per noi non stimasi;
L'infamia è pubblicarlo ne le nuove
Forme degli elzevir di Zanichelli.
Quando, parce sepulto, il reverendo

==>SEGUE
Color de la viola e di lontano
Tremola il mare azzurro, << Un invisibile
« Spirto, qual di canora aura fremea
<< Per le fibre del mondo (oh che sciocchezza!)
E da le selve susurrando, uscia
Per le città dell' Idumea frequenti.

Ecco un raggio di sol s'insinuando
(Non è parola mia) nell'ampia sala,
Illuminò i bicchieri e le bottigllie.
Il Patriarca Giobbe alla finestra,
Ciondolon ciondoloni, il piede trasse
E — Finalmente — disse — finalmente
Torna il bel tempo ! Ma chi sa che danni
Fatto avrà la tempesta che sentimmo
Ruggire in ciel, sono tre giorni ! I campi
Se d'altri disertò, poco m'importa;
Solo, perdio, mi seccherebbe assai
Che sovra i campi miei fosse caduta
Poiché non sono assicurato. Un'altra
Volta bramo sentir dalla Fondiaria....

Mentre così dicea, sovra i suoi campi
La tremenda sventura era caduta!
Misero lui!

Tre giorni prima il cielo
S'ottenebrò. Dalle fosche montagne
Calarono le nubi brontolando
Su le sue terre sconfinate e un brivido
Gelido corse per gli umani petti
E per le bionde messi. La natura
Indi si tacque, come moribondo
Che pria di chiuder le pupille al sole
Tutta col suo pensier scorra la vita.
Ruppe il silenzio un fulmine che cadde
Sul campanile d' un'antica chiesa;
Innalzata già un dì dal padre Adamo
(Come si sa dall'opera sull' Arte
Cristiana del Garrucci, un gesuita
Dotto e pesante, che le pietre guaste
Cerca, raccoglie, copia, studia e stampa,
Per dimostrar che sopra Dio c'è il papa.)
E l'uragano imperversò. — Dal cielo
Piovver di foco dilatate falde
Tre dì e tre notti, e già le oppresse genti
Temean eterna quella notte, quando
All'oriente ricomparve il sole
Che illuminò ben più funesto scempio.

==>SEGUE

Le sette mila pecore di Giobbe,
Allora dato a banchettar coi tìgli
Coi giornalisti e coi grami poeti,
Periron tutte nel divino arrosto.
Indi trascorse il nembo e si distese
Su le deserte case de' Sabei.

Perchè non ride al povero poeta
Autor di questo biblico poema
La forte Musa che, trascorso il mondo,
Altri de' baci suoi non trovò degno
Che un picciol figlio de la terra etnea?
A descriver l'orror de l'atterrita
Orda e il fragor del ciel non basterebbe
L'ottava famosissima del Tasso
« Chiama gli abitator dell'ombre eterne »
Pochi son gli erre: anzi Torquato, quando
La scrisse forse era briaco e aveva
Col vin bevuta la nervosa lettera.
Udite un po' come prepara ai retori
Barbogi un bell'esempio d'armonia
Imitativa in questi versi il Vate:
« Al novo grido del pensier ribelle
« Tremai con l'are i troni e giù dai troni
« Precipitar scettri purpurei e teste
« Coronate di re! » Ma qui sostiamo:
Cogli erre altrui, c'è gusto a lacerare
I ben costrutti orecchi dei lettori?

Ritorniamo a' Sabei che, spaventati
Dal turbo, lascian la natia dimora.
Come quando nel mio regno d'Italia
Spiega qualcuno il tricolor vessillo.
O smunto grida d'aver fame, un'orda
Di delegati, di carabinieri,
Di spie, di poliziotti e di sbirraglia
Gli si riversa orribilmente addosso,
Cosi su i prati fertili di Giobbe,
Che l'uragano non avea percosso,
Essi calaron depredando i buoi
Stretti all'aratro e l'agili somare
Intese a pascolar placidamente.
La nuova dell'orribile sventura
Prima che a Giobbe pervenisse, tutti
Girò i paesi de l'ardente Arabia,
Passò i confini e fra l'orde rapaci
Si stese de' Caldei.
Sapeano questi
Che poco lungi tra difese mura,

==>SEGUE
Tre mila s'accogliean curvi camelli
Del Patriarca. Senza alcun indugio
Prese l'irte zagaglie e i giavelotti,
Colla rapidità della saetta
Compier di Giobbe la total mina.

Dall'aereo balcone intanto il guardo
Egli volgea d'intorno, il ciel turchino
Non macchiato da nube contemplando
E i verdi colli e' l mar che riposava
Come il suo cor tranquillo. Ahi duro fato
Dell'uomo ! Quando ei più remota crede
La rea sciagura a punto allor gli piomba
Tremenda in capo e lo distende a terra ! —

Allo squillar del campanel di strada
Giobbe si scosse e sbadigliando disse
« Ecco la posta! ». Poco dopo in fatti
Un servo entrò con un enorme fascio
Di lettere, di libri e di giornali.
Aperto tosto il capitan Fracassa
Lesse la storia dell'Oca novella.
E il vate intanto dischiuso il Fanfulla
Domenicale (ciò serve alla storia
Per stabilire che quel dì fu un sabato!)
Il suo nome cercò fra le dogmatiche
Bibliografie ; ma nol trovando « — Come —
Sclamò— è noioso! » e guardò un libro enorme
Che nel titolo avea Giobbe — Poema
Di Mario Rapisardi e in manoscritto
Al dotto e nobil Patriarca, tenue
Ricordo dell' autore. Aperto a caso
E letti pochi versi, il cortigiano
Restò di sasso e alzando al ciel le mani;
« — Misericordia, — disse, — che morale !
Il poema ti dedica e poi scrive
Corna de' fatti tuoi, povero Giobbe! — »
Questi si strinse nelle spalle e senza
Adirarsi pigliò quel libro in mano
Malinconicamente. — « È questo, — disse,
Indizio certo d'una gran sciagura ! — »
E lesse a lungo, e sconsolato pianse:

O Padre nostro, che ne' cieli stai
Per puro amore del superno coro,
Una cappella in duomo io t'innalzai
Ricca di marmi, di scolture e d'oro,
Dove, come saprai, ti faccio dire
Dodici messe al dì per cinque lire.

Una lampada a spese mie si tiene
Che brucia sempre come fa un vulcano
E sciupa molte botti d'olio piene,
Forse perchè ne ruba il sacrestano...
E se tu non dicessi : — Perdonate —
A quest'ora l'avrei preso a pedate.

Se della fede mia certo tu sei,
Perchè adunque permetti un tal poema?
Se vuoi ch'io non protegga i Farisei
E che non ti rinneghi all'ora estrema.
Deh, fa, gran Dio, che il piccolo cantore
Non trovi d'ora innanzi un editore!

Così disse pregando. Indi riprese
A frugar dentro ai vergini giornali
E ritrovò una lettera — «Mi sembra, -
Disse guardando a l'umile indirizzo, —
Carattere di Tonio, il mio fattore. » —
Ruppe la bianca busta e aperto lesse
La inesorata triplice sventura.
Come la tigre che tornando al caro
Antro, bramosa di lambir le svelte
Membra de' suoi nati, più non li trova
Perchè da industre cacciator rubati,
Ritorna fuori all'infuocato sole
Ruggendo, e corre per le sabbie ardenti
Dietro lasciando una bava sanguigna,
Tal balzò Giobbe dal purpureo toro
E forsennato uscì per Hus marmorea,
Tutte assordando di strazianti grida
Le popolose vie.
Quando il poeta
E il giornalista videro vicina
La miseria di Giobbe, incontanente
Senza dir grazie infìlaron la porta.

A quel fracasso dal profondo Averno
Satana uscì, feroce sghignazzando,
E in sembianza di povero tapino
Venne alla porta del palazzo a chiedere
Con finta fame e ironici lamenti

==>SEGUE


La caritade per l'amor di Dio.
Quando reggendo i colonnati d'oro
Dell'atrio, fresco per leggiadre fonti,
— « Capperi — disse — che edilizio ha il nostro
Buon Patriarca ! Troppo s'assomiglia
Alla prigione del roman Pontefice
Là in Vaticano. Non vorrei che ora
L'affittasse o vendesse e in tal maniera,
La mia sconfitta a preparar, mettesse
Insieme un nuovo capitale. Or bene
Assicuriamci della sua disfatta ! » —
Disse e protese le pelose braccia.

Come da orrendo terremoto scossa
L'immensa casa minò, schiacciando
Sotto i fumanti ruderi, i figliuoli
Innocenti di Giobbe ed i suoi servi. —
Solo (o del fato profonda ironia!)
La moglie si salvò, perch'era andata
Nel monastero dei Camaldolesi
A raccontare al padre confessore
Tutti gl'intrighi delle sue vicine.

Era dunque in bolletta il Patriarca
Giobbe, e pensava già di far l'istanza
Corredata di tutti i documenti
Per essere impiegato al Ministero,
Quando il Maligno, visto che nessuna
Era bestemmia dal suo labbro uscita,
Si servì del permesso del Signore
E colpi nella carne il poveretto.

Avea cenato Giobbe con un tozzo
Di pan duro accattato, e un cetriolo
Rubato all'ortolan che già fu suo,
Quando nel coricarsi sulla paglia
Sentì caldo alla pancia e forte peso
All' inguine. La notte una gran febbre
Addosso gli saltò. Corse la moglie
I medici a cercar, ma non ne venne
Alcuno quando seppero che Giobbe
Non poteva pagar. Chi disse: — a me
Non spetta; — chi—non posso; — chi rispose—
Andatevi a far friggere. — La mesta
Donna recossi dal veterinario
Che dal continuo frequentar le bestie
Era fatto de' medici più umano.
Venne costui, vide il malato e scosse

==>SEGUE


La mia dote perduta, ed in miseria
Cacciata ! Come? Io che facea la prima
Figura in Hus, io che dettava legge
In materia di mode e i più eleganti
Cappelli inalberava e le migliori
Vesti della Giobergia e della Bossi ;
Io che alla messa ed al teatro ed alle
Feste di ballo solea far furore,
Ahì lassa ! dunque non avrò più un cencio
Da coprirmi le spalle ed una treccia
Da coronarmi il capo? Ah non fìa mai
Ch' io rinunzi alla polvere di Cipro,
Ai guanti da quattordici bottoni,
Alla tintura Zempt ch' è la migliore
Benché costi al flacon quattro e cinquanta !
Io protesto ! » —
Ciò detto, incontanente
Recossi all'avvocato. ... un avvocato
Che nominar non voglio. Il buon lettore
L'indovini da sé. Ma, come tutti
I suoi colleghi di garbuglio, avea
Costui trovato cinquecento bestie
Che l'avevan mandato in Parlamento,
Ed in quel punto alla Camera stava
Confabulando col Guardasigilli
Cui prometteva il voto se mettesse
In riposo un tal Giudice che osato
Avea di fargli perdere una causa.
Era in casa però l'avvocatessa
Cui del marito la malizia un poco
S'era attaccata e che scriveva in versi
E in prosa sui giornali, combattendo
In favor del divorzio e dei diritti
E del primato feminil.
La donna
Del Patriarca le contò il suo caso,
Indi le chiese quanto si spendesse
Per far divorzio.
— « Ahimè, disse la vecchia
Letterata, la legge fu proposta
Dall'ex-ministro Villa, un avvocato
Che la sa lunga! Ma fu indarno! Dorme
Quella provvida legge in Parlamento,
Dorme a vergogna nostra ! E tu meschina,
Fin che il viver ti duri, alla carogna
Del Patriarca tuo sei catenata !
Non han pietà di noi, povere schiave,

==>SEGUE
Era un giorno di sabato. Il mercato
Ad Hus in piazza si tenea quel giorno
Ed in città per questo era calato
Il popol fìtto de' villani intorno.
Chi galline vendea, chi mandorlato,
E chi semi di zucca a suon di corno;
Fervevano i contratti ed il rumore
Sotto il sol, tra la polve e nel fetore,

Quando si rovesciò nella gran piazza
Un ululante popol di megere,
Una turba furente, un'orda pazza,
Con tamburi scordati e con bandiere;
Che se le Furie avesser fatto razza,
Queste matte sarian lor figlie vere.
De le belle ce n'erano parecchie,
Ma quattro quinti eran bagascie vecchie.

Dice il proverbio : con due donne e un'oca
Il mercato è già fatto. Ora pensate
Che mercato facesse questa poca
Caterva di pettegole adirate!
Non ce n'era una che non fosse roca,
E tutte quante, rosse e scapigliate,
Urlavan che parevano il demonio
« Viva il divorzio, abbasso il matrimonio !»

Scottava il sole, le megere urlavano
Levando in alto un fitto polverone,
Scappavan l'oche, gli asini ragliavano
E tiravano calci a le persone:
Le Guardie di Questura bastonavano
Chi non vedeva la dimostrazione....
Era una cagnaraccia tanto acuta
Che pareva la Camera in seduta.

Inanzi a l'altre, colle vesti a strappi,
Discapigliata come una befana,
E colle calze in gamba a cavatappi,
Madonna Giobbe procedea in sottana.
Delle bandiere sui luridi drappi
Stava scritta la massima romana
« Chi vento seminò tempesta coglie.
Chi le corna non vuol non prenda moglie.»

Corse il Prefetto coi carabinieri,
Ma il Sindaco mancò perch'era morto.
Era il Prefetto assai sopra pensieri
Perchè aveva paura d'aver torto ;

==>SEGUE

E se aveva ragione, i gazzettieri
Ad ogni modo avrian tagliato corto
E l'avrebbero tanto tartassato
Che il Ministro l'avrebbe giubilato.

Salì il Prefetto sopra un muricciuolo
E alle donne di là parlar voleva.
Ma l' urlo immenso del femineo stuolo
La fioca voce del poter vincea.
Parean le turbe scaturir dal suolo
Né già la piazza più le contenea.
Quando la moglie del Prefetto venne,
Mostrò le gonne e un po' di calma ottenne.

— « colleghe di sesso, o giovinette.
Poiché Siam tutte giovani e siam belle,
Perchè lasciaste i ferri e le calzette
E qui veniste ad arrischiar la pelle ?
Rivolgetevì a me fidenti e schiette,
Dite quel che chiedete, o mie sorelle;
Ed ogni vostra voglia, ogni prurito,
Dirò al Commendatore mio marito, » -

Sì fé' silenzio, per quanto si possa
Far silenzio da tante chiaccherone,
E così tra il tumulto e la sommossa
Si fece in fretta una deputazione
Che colla brava sua bandiera rossa
Andasse a dire la comun ragione ;
E voi sapete senza ch' io l'esprima
Che la signora Giobbe era la prima.

Salirono al palazzo del Governo
Queste deputatesse pettorute.
Mentre rumoreggiava dall'esterno
L' irato armento delle prostitute.
Da un magro cavaliere subalterno
Furono poi condotte, e ricevute
Da Sua Eccellenza e furono servite
Di gelati; ma vollero acquavite.

E quand'ebber bevuto a modo loro,
Chiese il Commendator quel che volessero ;
E le deputatesse tutte in coro
Il desiderio del divorzio espressero.
Parevano ghiandaie a concistoro
pur gatte in amor che contendessero ;
Ma poi che ognuna il proprio error conobbe,
Lasciarono parlar madonna Giobbe.

==>SEGUE
« Signor Prefetto — incominciò madonna —
Signor Prefetto, come lei ci vede,
Siamo femine tutte colla gonna
E può verificarlo se nol crede.
Siam qui per i diritti della donna.
Tutte soldate della nuova fede :
Vogliam essere tutte emancipate,
Divorziate, e se occorre anche impiegate.

« Scriva dunque al Ministro che dall'alto
Delle nostre interiori convinzioni,
Noi protestiamo contro il vecchio appalto
Che de le gonne tengono i calzoni;
Noi ci leviamo ad un novello assalto
Contro i sistemi vecchi e le opinioni :
Scriva al Ministro suo, cignor Prefetto,
Che tutte quante protestiamo ! Ho detto, » —

Lentamente s'alzò il Commendatore
Con un soave risolino in bocca,
E disse: « Belle donne, è un grande onore
Che in questo lieto dì, per voi mi tocca.
State certe, certissime, o signore,
Che nell' ufficio mio non si balocca
E immantinenti, dentro a la giornata,
Fia la pratica vostra evacuata.

« Farò, dirò, vedrò, state sicure.
Scriverò, parlerò, non dubitate:
Tranquillatevi dunque, andate pure,
Che tra poco sarete contentate.
Questa è la meglio delle prefetture
Per ottener le cose domandate.
State buonine, andatevi con Dio,
Che a farvi contentar ci penso io. » —

E detto ciò, la prefettizia mano
Ficcò nello sparato del panciotto,
Levando il capo come un Artabano,
Stringendo gli occhi e guardandole in sotto.
Tutta la maestà del suo Sovrano,
L'oratoria civil del quarantotto,
L'autorità, la legge e lo stipendio
Sopra il suo viso apparvero in compendio.

Le dimostranti, meglio persuase
Dalla mimica sua che dal discorso,
Furon convinte di studiar la base
D' un progetto di schema di ricorso

==>SEGUE
E di tornar tranquille a le lor case,
Così troncando all' ire nove il corso.
Ma voller la parola del Prefetto,
Che mantenuto avrìa quel che avea detto.

E dopo molti giuramenti e molte
Strette di mano e nobili promesse,
Risventolando le bandiere sciolte
S'accomiataron le deputatesse,
E nella piazza giù furono accolte
Come in trionfo da quell'altre ossesse.
Reser conto di quel che avevan fatto
Ed il sinedrio immenso fu disfatto.

Ritornarono tutte a casa loro
Del divorzio sicure e d'altre cose ;
Novo ai mariti e più crudel martoro,
Insolenti, maligne e scandalose.
Ai maschi fecer obbligo il lavoro
E voller dritto a sé di stare oziose,
Tal che la sera stessa il parapiglia
Era stato normal d'ogni famiglia.

I mariti dovettero chinare
Il capo ed accettar questa disdetta,
E le mogli li fecero filare,
Tessere, cucinar, far la calzetta;
E li avrebbero fatti anche allattare
Se avessero trovata la ricetta.
In conclusione delle conclusioni,
Gettar le gonne e vollero i calzoni.

Ma il Prefetto vegliava. Appena via
Fu andato il sole, mise in giro tutti
I micheletti della polizia,
Le spie, le circolari e i farabutti.
Hus piena fu di quella porcheria,
Di facce da galera e ceffi brutti
Che sfoderando rivoltelle e spade
Aggredivan la gente per le strade.

Come in Italia, quando è proibito
Di gridar viva il Re, prorompe fuori
Di canaglia un esercito infinito
Camuffato da guardie e da questori
Che aggrediscono e picchian l'aggredito,
Gli prendon l'orologio ed i valori,
E se per caso un sol lamento emette
Zitto lo fanno star colle manette;

==>SEGUE


Così per la città fu sguinzagliata
Quanta maggior canaglia si potesse
Ed immediatamente fu mandata
Ad arrestare le deputatesse.
Madonna Giobbe fu tosto arrestata
Del Prefetto in omaggio alle promesse,
E poi che protestò contro al potere
Le risposero a calci nel sedere.

Poco tempo passò che dal Prefetto
Fu presa una solenne decisione.
A donna Giobbe regalò il Libretto
Accompagnato dall'ammonizione.
Ebbero l'altre in pegno del suo affetto
Un regalo di multa e di prigione.
Fece così che tutto si quietasse
E lo promosser subito di classe.

Questo v' insegni, donne mie garbate,
A far le cose con maggior giudizio,
Poiché vedete come le piazzate
Conducan le faccende a precipizio.
A far così sarete bastonate.
Sarete prese a calci in quel servizio;
Basta.... quel che successe a Giobbe intanto
Lo potrete sentir nell'altro canto.
Nudo, coperto d'ulceri, di piaghe
E di schifosi guidaleschi, il santo
Patriarca giacea là dove un tempo
Il suo palagio s'innalzava. Steso
Sulle macerie, ai passeggeri offria
Spettacol turpe di se stesso e i mille
Monelli d'Hus (età spietata !) intorno
Gli si affollavan a schernirlo, e in capo
Gli scagliavan sozzure e pietre, urlando.

Un prete che abitava in quei dintorni
E che spesso di Giobbe a mensa stette,
Volle toglier d'accanto a la sua casa
Lo . spettacolo infame e fé' ricorso
Al Municipio.
Il Sindaco alle Guardie
Gli ordini diede.
A mezzodì, nel punto
Che'l sol più scotta e più feroci al pasto
Orrendo traggon ronzando le mosche
Ed i tafani sulle membra oscene
Del Patriarca santo, ecco le Guardie
Con un carretto, di quelli che servono
L'immondizie a portar municipali.
Da molti scioperati e dai monelli
Seguite, a Giobbe vennero: — « Ehi, carogna !
Levati e vien con noi! » — dissero. Giobbe
Non mosse labbro né piegò sua costa,
Tanto la piena del dolor vincea
Ogni forza del corpo. — « Alzati dunque,
Ritratto dello schifo, o noi sapremo
Farti levar di lì! » — Ma Giobbe tacque.

Nessun volea toccar del Patriarca
Le purulenti membra ed alle Guardie
Chiamar convenne il beccamorti. L'orrida
Carcassa fu gettata in sul carretto,
E tra le grida, i fischi e le sassate,
Fuor di porta condotta ai letamai
Pubblici. Là tra le carogne, il puzzo,
E gli escrementi de la città intera,
Scaraventate fur le sante membra
Malvive e sozze di Giobbe. Il Nemico
Su di lui fatto aveva ogni sua possa !

Qual tronco annoso dal furor schiantato
Del possente uragan, da l'alto monte
Precipitando a valle, in sua ruina

==>SEGUE
A
CAMILLO QUERNO
MONOPOLITANO
ARCHIPOETA
___________________________

EPISTOLA.

Firenze, la notte dell'Epifania del 1882.

Perchè in nitida forma alfln prorompa
Dai ferrei torchi, e terra e ciel non tema
Questo del mio pensier figlio diletto
Cui sta sul fronte il glorioso nome
Scritto di Lui che t'emulò nel santo
Riso e nel cor del decimo Leone,
Temer degg'io che di livido ingegno
E d'anima superba tu m'accusi"?
Prima ascolta gli auguri. A questa cara
Madre, l'Italia, mancherà ben presto
D'un suo Aglio l'amor. Candide nevi
Già mi pioVver sul crine. Il corpo stanco
Tragge al riposo della tomba e forse
L'ultima è questa alata voce ond'io
De la mia vita un segno al bel paese
Che mi fu culla, do. L'ultima è questa
Parola di dolor che mi prorompe
Dal cor disingannato ! Io ti sognai,
cara madre mia, nel glorioso
Tuo seggio assisa e ti facean corona
I liberi poeti ed i pensosi
Soft e i gran capitani e i bene accorti
Che la ragion di Stato e la tua gloiia
Studiano insieme. Ti sognai tornata
Eegina e grande... ma la morte omai
Presso mi sta, nò il caro sogno è vero!
Odi l'augurio che dal cor profondo
Il canuto ti manda, o patria cara:
Possa, deh, su la tomba ov'io non reco
Eredità d'affetti e, dei chiamati
Col nome mio, discendo ultimo e solo,

==>SEGUE

L'oblio posar perennemente! possa
Il mio sonno turbar la maledetta
E sacrilega man di ladro infame;
Possa, il mio nome bestemmiato, ai tardi
Nepoti nostri ricordar soltanto
Memorie di vergogna e vitupero.
Ma tu levarti alfin da questo brago
Dove la vii mediocrità ti tiene!

T'auguro questo.
Le discordi voci
Nel bel paese gracidanti, assieme
S'uniran per fischiarmi: io non le curo.
Fama non cerco e l'iagiuria disprezzo.
Io non distesi già l'audace mano
Sull'onor di nessuno e rispettai
In tutti l'uomo. Non indussi il volgo
Nei domestici lari o ne le chiuse
Coscienze. Ma stimai come mi parve
Quel che ciascun del pubblico al giudizio
Espose. Anch'io son pubblico ed anch'io
Giudico come tale. voi, che nulla
Contraria voce sopportate e grandi
Per forza esser volete, ecco le pietre
Per lapidarmi se il potete. Io sprezzo.

Sprezzo: ma se de la mia vita il breve
Stame non cessi pria del tempo, io spero
Eagunar tutte le pietre scagliate
Indarno contro me, per farne un alto
Monumento ed eterno, ove si legga
La mia vendetta e la miseria vostra.

E tu che il lido di Catania estremo
De le tue ciance assordi e i compiacenti
Tuoi scolaretti a l'infantil tumulto
In tuo favor commovi, inutilmente
Ti dorrai del mio canto e doloroso,
Sdegno e pietà mendicherai mostrando
I meritati lividi. Tu solo
L'hai voluto. Non è come tu fai

==>SEGUE

A cena, a cena !
Quante candele nei candelieri!
Che luce intorno chiara balena !
Quante bottiglie ! Quanti bicchieri !
A cena, a cena !
In questa cena straordinaria
Un fiasco aspetti quell'altro appena!
Ecco i turaccioli saltan per aria !
A cena, a cena !
Sia benedetta la pingue e bella
Terra del Chianti vicino a Siena!
Viva la fertile Val Policella !
A cena, a cena !
Viva Borgogna, Zucco, Xebiolo,
Vino di Capri, vin di Bibbiena,
Bordò, Vernaccia, Peno, Barolo!...
A cena, a cena !
Per due ! Per quattro ! Dobbiam cioncare
Fino che in corpo duri la lena!
Stelle; che sbornia s'ha da pigliare!
A cena, a cena !
Tanti sauti da parte mia,
Scienza solenne, santa ed amena,
Tanti saluti. Teologia !
A cena, a cena !

Va cantando così la sacra turba,
E l'Eterno sorride. È sterminata
La sala ove s'accoglie il popol misto
Degli eletti. Dall'alto risplendenti
Pendono mille stelle, e il sole in mezzo
Brucia senza fetor di moccolaia.
Sono colonne i monti, e il mar bacino
Per tergersi le dita. Ardono mille
Vulcani giù in cucina, e mille, e mille
Bei cherubini apportan le vivande.
Volan pernici cotte ed a ciascuna
Al collo pende la salsiera piena.
Cotti su per la mensa i porcelletti
Di latte vanno, e come ammaestrati
Seggono in faccia a'banchettanti e attendono
Che una fetta di lor tagli chi vuole ;
Poi vanno altrove a chieder tagli nuovi
Guizzano i pesci fritti, e van le triglie
Cotte alla livornese intorno intorno
A cercar le forchette ; e le galline

==>SEGUE

Le giarrettiere seriche far viste,
Ma sin le spalle apparvero e la gola.

L'Eterno sorridea centellinando
L'ampia tazza di Moka, e le carole
S'annodavan più. fitte e più gioconde;
Quando alla porta d'adamante un busso
Energico sonò, che per la sala
Rimbombò fortemente. Ognun ristette
Come attonito, chi col piè per aria,
Chi del salto a metà, chi a mezzo abbraccio.
Ma l'Eterno fé' un cenno, e lestamente
Corse alla porta il santo portinaio
E chino al buco della serratura
Chiese — chi bussa? —
Una possente voce,
Alquanto roca per aver parlato
Troppo in versi scioltissimi, ma cupa
Qual di basso profondo, a lui rispose :
— Apri, imbecille. Satana son io. —
Tremaron tutti e quatti quatti intorno
Al Padre si serrar confusamente,
Al Padre che tacea, solenne in volto,
Benché il pipino gli tremasse in bocca.
— Apri, gridò l'Eterno. — Il portinaio
Colla tremante man volse la chiave,
E cigolando la porta pesante
Si spalancò sui cardini mal unti.

Ritto sull'alta soglia apparve un bruno
Giovane. Il guardo suo fisse nel Padre
Com'aquila nel sole, e nel profondo
Occhio guizzava una terribil fiamma.
Era il vestito suo come or si dice
Di società, nero, a due code, e neri
I calzoni; ma candida sul petto
La camicia stendeasi inamidata.
Volse l'occhio d'intorno lentamente,
E lentamente il cappello a cilindro
Trasse dal capo, e la gran fronte apparve.
M'ha detto non so chi, che oscure e fredde
Strisciavan sulla sua fronte immortale
Strane larve di sfingi e di chimere ;
Ma queste scioccherie son troppo grosse

==>SEGUE
E degli afflitti svizzeri la pietà?
Oltre il rogo non vive ira nemica ;
S'egli fu un sacco di letame, basta
Che nel suo libro il padre Curci il dica.
Ma lasciate passar la negra casta ;
Lasciate pur, lasciate pur che pianga;
Un più duro castigo a lei sovrasta!
Dai fischi e dalle grida ognun rimanga.
Oh! qui non serve Addio mia bella, addio
Per castigarli ben, ci vuol la stanga ! —
Così pensava allor nel capo mio.
Quando il popol capì la grande offesa
E incominciò un orrendo tramestìo.
Volan le torcie nella mischia accesa,
E sotto ai pugni dei profani cade
L'oscena turba della santa Chiesa.
Come torrente che la messe invade
Dai sette colli il popolo romano
Scende ed innonda le sonanti strade.

Io seduto sull'alto Vaticauo,
Incitava a la pugna i miei seguaci
Cui di vindici pietre armai la mano.
Sui caccialepri si scagliar gli audaci,
Che non trovar ne' molti birri intoppo
E colle stanghe spensero le faci.
Ma i preti tuoi non si fermaron troppo
Ad aspettar le nostre bastonate
E il feretro scappò via di galoppo.
Così il vicario tuo tra le fìschiate
E tra gli scherni nel sepolcro scese
E i tuoi devoti fur presi a sassate.
Per questo Gigi tuo va per le chiese,
Correndo ad ogni squillo di campana,
Impetrando mercè per queste offese,
E piange sempre come una fontana !

— Bella forza I — rispose il Padre — Bella
Forza picchiar quei santi caccialepri
Che cantavano i salmi ! Ah, ma giustizia
Ancor morta non è nel basso mondo
E il Tribunal gli ha condannati tutti,
In persona di pochi, i tuoi buzzurri I
Paghin la multa di cinquanta lire
Per l'offesa a me fatta! Oh, Dio non pagii
Il sabato, ma porge al Tribunale

==>SEGUE
Padre Ceresa inculcò la morale
Ai fanciulletti teneri.
Le apparenze salvò certo tacendo,
Chi in piazza lo portò fu il tribunale.
Sian nascoste le colpe. — I cupi orrori
Dell'Averno son fiabe dei minchioni;
E poi, s'anche ci fossero,
Mancano forse al tempio i confessori
Con le indulgenze e con le assoluzioni ?

Giobbe sorrise. Allor d'applauso un grido
<< Lieto s'alzò dai convitati petti. »
Giammai riscosse tanto plauso il Giovine
Ufficiai di Paolo Ferrari
Su i sapienti italici teatri!
Un giornalista contraffatto surse
Da la fenicia porpora del toro;
Un giornalista che Dio ve ne scampi
Se foste figli mai dell' Antonelli!
E dopo un cupo rantolo, gettando
Le braccia al collo del poeta ansante:
<< Te beato, gridò, per le felici
Strofe piene d'amore e pei concetti
Castigati, limati, inzuccherati,
Onde il miglior fra tanti imitatori
Tenuto sei dalla felice Ausonia !
Nei. riveduti articoli di fondo
Mai fia disciolto il nome tuo da quello
Santissimo di Giobbe e del Ministro
Che su l'Interno siede! »
Intanto i rosei
Destrieri aggioga all'indorato carro
(Per favellarvi ormai di cose nuove,
Come disse Gian Carlo Passeroni
E va facendo Mario Rapisardi)
La bella Aurora, ed abbandona il vecchio
Titon pei baci adulteri d'Apollo,
Che desioso le vien dietro. Chiazze
Di porpora si stendono su i monti

==>SEGUE
La saggia testa, mormorando: — « Fructus
Belli, mio caro; frutto delle belle!
Non è roba per me. Cercate nella
Pagina degli annunzi ne' giornali
Un rimedio per voi: felice notte, » —
Restò d'ebano Giobbe! Il guardo fisse
Nell' ulceri sbocciate e amaramente
Pianse, pensando ai ferri del chirurgo.

LAMENTO DI GIOBBE

Ahi, Genovese improvvido,
Che delle Ispane navi
Le prue su l'onde incognite
Dell' Oceàn guidavi,
E de le strane Americhe
Aprivi il reo cammino
A Florio, Rubattino
Ed altre società.
Non sai di quanti spasimi
Crebbe l'uman dolore
Poi che recasti il tossico
Che ci guastò l'amore'?
Non sai che notti orribili
Passiam, che giorni grami
E che bevande infami
Il medico ci da'?
Invano, invan negli umidi
Prati la malva alligna
E pei malati e gli asini
Vegeta la gramigna,
Invan l'amaro balsamo
Dall'Oriente viene
Chi la pigliò la tiene,
E chi non l'ha l'avrà.
Ma Giobbe in odio agli uomini,
Al cielo, alla natura,
Perchè non ha un centesimo
Non potrà far la cura;
Ei non avrà cerusico,
E non bagni a vapore:
Ròso dal suo malore,
Pover a lui, morrà.

Così piangeva il Patriarca. Intanto
La moglie in sé volgea rabbiosi sensi :
—« Ah, dunque ei mi tradì ? Dunque non basta
Ch'ei m'abbia colla sua sostanza ancora

==>SEGUE


Questi maschi tiranni, e non sappiamo
Imitar noi l'alto consiglio dato
Dall'attico Aristofane alle donne.
La Lisistrata leggi e il duro patto
Cui si legar le greche a piegar l'alma
De' mariti alla pace. Ahi, che pur troppo
La greca forza non è in noi ! Siam tutte
Deboli, siamo fragili, comare,
E vano è quel consiglio. Il meglio fora
Scendere in piazza insieme, e le bandiere
Spiegando ai venti far dimostrazioni,
Meeting, letture, conferenze e caldi
Discorsi pel divorzio. Ma ci manca
Un capo....
— « Io lo sarò ! » — disse la moglie
Del Santo Patriarca, e scintillando
Sacro furor dagli occhi, in mezzo a cento
Varie bandiere ad ogni evento pronte,
Una ne tolse, ed infilò le scale.

L'avvocatessa la seguì cogli occhi,
E con la gialla man di dotto inchiostro
Largamente macchiata, alle fluenti
Chiome fe'una carezza e disse: — « Quante,
Quante cause novelle a mio marito ! » —





CANTO SECONDO



ELIPHAZ.




Eliphaz Themanita dixit:
Si caeperimus loqui tibi, forsitan moleste accipie
JOB. IV. 1;.


GIOBBE
SERENA CONCEZIONE
DI
MARCO BALOSSARDI

OLINDO GUERRINI
Trae gli arboscelli a lui propinqui e grave
Pondo di terra, di macerie e sassi;
Finchè nel fondo del burron si ferma
E gigantesco sta con le divelte
Radici al sole, immobili le chiome
Già pur virenti or gialle , industre nido
D' innumeri formiche o di civette ;
Tal stette il Patriarca, infame peso
Al letamaio vil, nido di fitte
Turbe d'insetti, di puzzo e di tabe!
Stette immobil qual tronco, e sol di quando
In quando con un coccio a le prurienti
Membra dava conforto e via radendo
La sanie andava e si. grattava.
Il calice
Amarissimo ancor non era pieno !
Venne la moglie, e innanzi a lui rotando
Le luci di megera e le canenti
Chiome squassando, gli mostrò il libretto
Che la Questura le largì, e puntate
Le man sui fianchi, ad ingiuriarlo prese.

« Ci ho gusto, brutto porco, brutta carogna infame,
Ci ho gusto che tu crepi sopra questo letame !
Che ti valser le preci innalzate al Signore,
L'esser chiamato sempre a Signor Commendatore ?
L'aver comprato i voti per esser consigliere
Comunale, esser pio, onesto e fabbricere?
Dimmi dov'è il tuo Dio? Ah, come hai bene spesa
Una somma a tenergli tante lampade in chiesa !
Corri dal tuo Governo, e fatti tor via il male
E salutami tanto la Costituzionale !
E ti sta bene. Hai sempre fatto l'opposizione
Alle mie sante idee sopra l'abolizione
Che il Bertani propugna ; volesti a mio dispetto
Mantenuta la visita, mantenuto il libretto!
A che t'hanno giovato le leggi restrittive
E le tue strombazzate garanzie preventive?
Ora tu l'hai nell'ossa. Fattela levar via
Da' tuoi Regolamenti e dalla polizia !
Marcisci nel letame, crepa nella vergogna,
Retrogrado, consorte, animale, carogna! » —

Ma Giobbe tacque. Alfin levando il manco
Braccio, col pugno chiuso, in alto il mosse
E colla destra aperta un picciol colpo

==>SEGUE
Diessi là dove suol punger la vena
Il flebotomo esperto, e quindi stette
Qualche tempo così movendo il cubito.
Risposta unica e degna a la pettegola.

Poiché la donna fu partita, vennero
Tre onorande persone a cercar Giobbe.
Eliphaz Themanita che politico
Era, Baldad Subita gran filosofo,
E Sophar Naamanita letterato.
Del Patriarca amici vecchi; i quali
A lui mangiato avean di molti pranzi
E s'eran fatti far di molte firme
Nelle cambiali, e Giobbe avea pagato.

Venner d'animo grato esempio raro,
Per riveder l'amico e consolarsi
Veggendolo soffrir, che non v'ha cosa
Agli amici che stanno in sulla riva
Più grata del veder la fragil nave
Dove gli amici lor varcano il mare,
In preda ai venti e dai marosi rotta.
Vennero e giunti al letamaio, tutti
Inorridir veggendo il mostruoso
Mucchio di tabe, di carne e di piaghe
Che un dì fu Giobbe, cui solo la lingua
Era sana rimasta per dolersi.
Finsero di strapparsi i vestimenti,
Finsero di buttarsi sulle calve
Teste la polve, poi sedetter colle
Gambe incrociate sulla nuda terra,
E sette giorni e sette notti tacquero,
Finch' Eliphaz discorse a questo modo:

Conosci tu il paese ove fioriscono
Grli aranci d'or sotto le brune foglie?
Dove chi s'impacciò della politica
Accuse in premio e vituperi coglie'?
Dove i ministri vecchi prendon moglie
E più servono a lei che non al Re?

Conosci tu il paese ove governano
Le vanità che sembrano persone,
Buone solo a pranzare ed a far brindisi
Da canzonare il popolo minchione
Che in piazza, in folla, sta sotto al balcone,
Sperando di veder non si sa che?

==>SEGUE
Là di menzogna il gran Depretis fodera
L'antica lealtà del suo Sovrano,
Là l'indeciso Zanardelli dondola
Tra il credo regio e tra il repubblicano,
E il Mancini da buon napoletano
Chiacchera, dorme ed in campagna sta.

Cento leggi in un dì laggiù si formano,
Ma il ben più s'allontana e' l mal sovrasta,
Dove Spaventa errò Berti s'impapera,
Dove Bonghi sfondò Baccelli guasta,
Tutto è un pasticcio della stessa pasta
Da chi vien, rovinato, e da chi va.

Ma in codesta Babel que' che guadagnano
Son quegli uncinatissimi avvocati
Che, messe l'ugne nell'aver del prossimo,
Diventan cavalieri e deputati.
Rivendono le grazie ai condannati,
Le ferrovie, gl'impieghi e l'onestà.

Così lo Stato in una vigna mutasi
Vendemmiata dai furbi e dai bricconi,
Dove si tratta come servo il pubblico
E gl'impiegati fanno da padroni,
E tra pratiche, incarti e posizioni.
Nessun di loro sa quel che si fa.

Di chi la colpa? Son le leggi o gli uomini,
Son le costituzioni od i ministri?
Ma che val che le prime il mal sanciscano
che dagli altri peggio s'amministri?
Il fatto sta che i destri ed i sinistn
Van gareggiando di bestialità.

Di chi la colpal La risposta è facile:
Tutta la colpa è dell' ottantanove.
La colpa è delle idee false e massoniche,
Delle vecchie follie che sembran nuove.
E Dio ti sottopone a tante prove
Perchè credesti nella libertà.

Per questo, Giobbe mio, d'un amarissimo
Pianto tu versi innanzi a noi le stille.
Per questo, Giobbe mio, tolti ti furono
L'oro, le mandre, il credito e le ville.
Per questo, Giobbe, povero imbecille.
Giaci nella sozzura e ben ti sta.

==>SEGUE
Muta pensiero, e muta la politica:
Al Papa credi, e credi al Gius divino.
Battiti il petto peccator ; confessati.
Prendi le specie del pane e del vino.
Credi alla donazion di Costantino,
E la fortuna tua si cambierà.

« Taci — interruppe il Patriarca — e poni
Fine a discorsi che non han né capo,
Né coda. Tu fai presto, Themanita,
A canzonar la libertà, tu fai
Presto a bandir come rimedio solo
D'ogni male, il ritorno al Medio Evo !
Sei papalino più. del Papa e più
Del Fanfulla! Tu leggi senza dubbio
Il faceto giornal dove alla corda
E al boia un inno d'inesausto amore
Ogni giorno si manda, e dove parve
Poco adorar l'autorità d'un solo,
Tal che due se n'adoran umilmente;
Quella del Papa e quella del Sovrano.
Deh, se mischiarle a lui fosse concesso.
Come l'udresti nel Giorno per giorno
Scioglier inni pindarici e bruciare
Profumi e genuflettersi divoto
Innanzi a un Papa-re, pur che una stilla
Di sangue savoiardo in lui ci fosse !

Io no — Quando la vita a me ridea
Lieta di gioie e di ricchezze, sempre
Lessi La Lega e il capitan Fracassa.
M'annoiava il Diritto, il Bersagliere
Mi sconvolgeva i nervi, la Riforma
Mi faceva dormir profondamente
E il Popolo Roman mi facea recere.

Tunisi? Figlio mio, vorrei che in mano
Fosse il timon del regno al più possente,
Al più grande cervel del mondo intero,
Magari al Rapisardi, e poi vedresti
In che mare d'imbrogli ed in che secche
Ci condurrebbe.
Nei tuguri dove
Il sol non entra mai, ne' fondi oscuri
Geme un popol di miseri, che appena
Apre le luci : un popolo di vinti
Cui la forza dell'oro onnipossente

==>SEGUE
E il terror delle carceri e la truce
Minaccia de' gaudenti e più la forca
AI silenzio ridusse. A poco a poco
In quell'oscurità portiam la luce
Noi stessi. Noi di scuole e di sonanti
Prediche a lor siam larghi e di diritti
Parliamo! A lor l'armi porgiamo, ed essi
Le affllan di nascosto. Un giorno, ahi presto !

Ci desterem tra il fumo e le scintille.
La casa brucierà per colpa nostra.
Sulle vie sorgeran le barricate
Per colpa nostra. Crollerà nel sangue
La vecchia società : sciolta nel vizio
Perirà la famiglia e un evo orrendo,
Una fiumana torbida, di nuovo
Dall'Alpi scenderà, dai trivi nostri
Zampillerà, per allagar la bella
La dolce Italia mia... per colpa nostra!

E che facciamo noi? Chi mai provvede
All'urgente ruina? Ecco Bisanzio
In Senato cavilla ed il nemico
Rompe le porte! Ascolta, o Themanita,
Ascolta pur le voci sciocche, ascolta
Chi provveder dovrìa come favella.
VOCE DI POLIZIOTTI

Da le nevate cime
De l'Alpe sino all'ultima Catania,
Di gloria e di dolor magion sublime,
Da chi dolce riposa
Per noi sicuro, oh coine si dilania
Ingratissimamente il nostro nome !
Nel laconismo d'una falsa prosa
Lieto il prefetto ci affida il paese ;
Ma quando ai colpi siamo ed all'offese,
Scarica tutto sulle nostre some.
Quest'arte prefettizia,
A dirla schietta, non ci garba affatto.
Questa non è politica, è malizia;
È un cavar la castagna
Dal foco ardente col zampin del gatto.
Oh, lo chiamino pur machiavellismo
Necessario in Sicilia ed in Romagna
Per sostener l' autorità labente:
Ma noi con frase un poco più evidente
L'abbiamo battezzato depretismo.

Spesso tra gli arrestati
Che dalla piazza a le natie prigioni
Noi trasportiam, ci son degli avvocati
Che con parole ostili
Spingean la plebe a le dimostrazioni
E ci chiamavan fondi di galera,
Servi di servi, stipendiati e vili.
Però il prefetto allor taglia di corto,
Rilascia gli avvocati e ci dà il torto.
Senza ascoltar ragione, né preghiera.
Siamo stanchi di tale
Barcamenar continuo a nostro danno.
Non basta che vegghiamo a l'invernale
Bufera, a tarda notte.
Pel bisogno, esecrabile tiranno,
Acqua fredda sfidando e neve e venti
Con gli occhi stanchi e con le gambe rotte
Perchè mai questo pan secco ed ingrato
Ce lo volete dare avvelenato
Dalle vostre ingiustizie prepotenti?
VOCE DI PREFETTI

Oh, che brutto mestiere
È mai fare il prefetto !
Ci tocca di tenere
Il popolo soggetto
Per mezzo d'una schiera
Terribile e bestiale
Che più del tribunale
Ricorda la galera!
Noi che vogliam la pace
De le città sorelle
E che intanto ci piace
Di custodir la pelle,
Quando il fragor rimbomba
Di qualche agitazione.
Diamo disposizione
Di suonare la tromba.
Ma quella turba trista,
Con astuto pensiero,
Ci mette in mala vista
Del nostro ministero
Lavorando di mano,
Di calci, di saette,
Di daghe e di manette
Sul popolo sovrano.
Allora dai giornali
Sopra la nostra testa
D'articoli triviali
Ci piomba una tempesta
Da cui non v'ha difesa...
In fine i deputati
Si mischiano all'impresa
E noi Siam... traslocati!
VOCE DI MINISTRI

Ahimè Ministri,
Destri o Sinistri,
Sempre tutti meniam vita infelice!
Sebben facciamo
Quel che possiamo.
« Piove; Governo ladro ! » ognun ci dice.

Diamo le croci
Come le noci
A quintali per poco a chi le vuole;
Abbiam creati
Tanti impiegati,
Tanti maestri nuovi per le scuole:

Mettemmo fuori
Commendatori
Ufficiali, gran croci e gran cordoni,
E pur gl'ingrati
Amministrati
Ci chiamano imbecilli o pur birboni!

Se avrà energia
La polizia,
Vi daran dell' autocrata inumano :
Ma se lasciate
Far due chiassate
Tutti vi grideran repubblicano,

Ed i prefetti
Furbi od inetti
D'ogni cosa dan colpa al ministero!
Non muove foglia.
Voglia o non voglia,
Che non sia colpa nostra, e non è vero.

Se un poliziotto
Scaglia un cazzotto
Nei denti a un ladro che non ha pazienza,
Sino i giornali
Ministeriali
Danno tutta la colpa a Sua Eccellenza.

Ogni bel gioco
Vuol durar poco
E queste storie ormai ci hanno seccato.
Il mondo vada
Per la sua strada
E vada pure come è sempre andato,

==>SEGUE
Che noi Ministri,
Destri o Sinistri,
Siam stanchi di passar per farabutti.
Strillino i matti
Che a conti fatti
Noi pranziam bene e abbiamo in tasca tutti.

Mentre le voci de' Ministri lente
Vanian per l'aria, come in sulla sera
Per le campagne suon d'ave-maria,
Lieto Eliphaz sorrise, la bestemmia
Da lo sdegno di Giobbe ornai credendo
Vicina. Ed incalzò: — « Credi che tutta
Questa povera gente che sospira,
Sotto lo scettro del roman pontefice
Non riposasse più contenta? Quando
Sul Temporale comandava il prete
Poco di sgherri e tribunali e carceri
Facea bisogno, che a sfamarsi allora
Non occorreva di rubar, nò al bosco
Profugo infame trascinar la vita;
Bastava bazzicar ne la penombra
De le chiese e condur le proprie donne
Ne l'episcopio... Perciò arricci il naso,
Santo Giobbe? Credi tu che sotto
A un governo di Destra o di Sinistra
Le mogli non coronino ugualmente
D'aguzzi serti dei mariti il capo?
Ma mentre allora un monsignor portava
Figli e quattrini nelle case, adesso
Chi vi ruba l'onor ruba i quattrini.
Tu fingi d'ignorar come gran parte
De la tua angoscia e de la tua miseria
Ti sia venuta da la donna ; come
Col tuo bel patrimonio a centinaia
Abbian sfoggiato nerboruti servi
Tolti a le glebe ed umili staffieri ?
Tua moglie, caro mio...
« Taci — riprese
Rabbioso urlando il Patriarca, — Taci...
Non ti basta veder come il malore
Mi distrugga la carne a poco a poco
Che tu vieni a straziar l'anima mia !
Forse perchè dal Vatican tu senti
Aleggiar di speranza un' aura dolce,
Forse perchè Bismarck viene a Canossa,
E accorron pellegrini, e nuovi santi
Oman gli altari, e nell'Italia stessa

==>SEGUE
Levano i vinti le superbe corna
Mal mascherati da Conservatori,
Credi ch'io segua il mal esempio e aiuti
La lima sorda dei reazionari 'i
Stolto ! Per loro è nome vano Amore,
E celando il pugnai sotto il mantello
Concupiscenti preci alzano a Dio
Che negli iniqui cor legge la brama
Di guerra e d'odio disperata. -- Ascolta.

VOCE DI FRATI

Perchè nati non siam cent'anni prima,
Quando ai nostri conventi
Coll'obolo venian l'amor, la stima,
De le povere genti?

Le chiavi sacre conduceano illese
Al bene corporale,
Al talamo gentil de le marchese,
A la mensa regale.

Ed or Siam disperati — Il nostro pane
È di farina nera :
E a Sodoma che sola ci rimane
Incombe la galera.

Satana, vieni — Noi siamo affamati
Di donne, d'or, di gare...
maledetto Iddio: gli allampanati
Son stanchi di pregare!

VOCE DI PRETI

Muore la grande civiltà che, nata
Ne le povere celle de' conventi,
Lungamente temuta e venerata
Crebbe al caldo dei roghi ed ai tormenti.
Per lei fu l'eresia solo schiacciata
E mostrò Arrigo quarto al ghiaccio e ai venti,
Sotto il sogghigno della gran Contessa
E d'Ildebrando, l'anima dimessa.

A quei che regge la romana chiesa
È il nome di Leone un'ironia.
Se non ha core per la gran contesa
Torni a legger l'uffìzio in sacrestia.
Lungi il giorno non è che vilipesa
Vedrem la sacrosanta gerarchia
Per l'animo rimesso d'un Sovrano
Condannato a marcir nel Vaticano.

==>SEGUE
Sperammo, allor che nel sepolcro scese
La matta ballerina marchegiana
Che credè vendicar l'itale offese
Colla piccola strage di Mentana,
Si richiamasse un general francese
A disertar la terra italiana.
Stolta speranza, invece d'un leone
Fu fatto papa un povero minchione.

Ei non seppe schiacciar, mistico agnello,
Le calunnie d'un ruvido avvocato
Onde il corpo di Pio, dentro l'avello
Turpemente si chiuse invendicato.
Il canonico Enrico di Campello
Il coro di San Pietro ha già lasciato
Fingendo amor di patria, ma per bile
D'esser soggetto a un Papa così umile.

Vogliam don Albertario, il qual fé' tanto
Per la fede cattolica e romana,
Quando chiamato lo Spirito Santo,
Dal ciel lo fece scendere a Viadana,
Dove col suo divino soffio, il pianto
Terse a una giovinetta parrocchiana
Che dopo quella visita gradita
Consolata rimase e concepita.

Vogliam don Albertario. In men d'un anno
Egli racquisterà l'antico regno,
E patiboli e forche torneranno
Del perdono di Dio placido segno.
I timorosi dello scorso affanno
Tremino al nostro religioso sdegno
Onde avverrà che a noi restino sole,
Le loro mogli con le lor figlinole !

— Non ti curar — rispose il Themanita
Al Patriarca — delle voci inani
Che il Nemico di Dio per l'aure gitta.
Il sacerdozio è santo e le parole
Che son contro di lui, son contro Dio.
Chiedilo al deputato Bortolucci,
Chiedilo al Toscanelli, benché questi,
Come Noè, dal mal digesto sugo
De le sue vigne, ciurli un po' nel manico.
È pessimo il suo vino, e son cattive
Anche spesso l'idee che attinge in quello.
Chiedilo ad Alli-Maccarani, a tutti
I Lucumoni tuoi che tengon cento
Coccarde in tasca e gli Scolopi in core.

   ==>SEGUE


Te lo diranno lor, quanto il rispetto
Al sacerdozio necessario sia
A l'anime ben fatte, a la politica
Compensatrice, comoda e fruttifera.
Chiudi dunque l'orecchio a l'empie voci,
Chiudi a Satana il core. Altre, ben altre
Son le voci del ver che per l'immensa
Etra narran le infamie e le vergogne
De' liberali tuoi. Son voci orrende
Che fan rizzar le chiome in capo ai calvi !
Aguzza, Giobbe, il purulento orecchio;
Ascoltale parlar, giudica e taci.

PARLANO I MODERATI

Noi moderati siam se torna il conto,
Ma se non torna furibondi siamo.
Eredi di Cavour ci predichiamo
E chi dice di no, ci fa un affronto.
Di Sella al cenno ognun, di noi già pronto
Scendeva come augel per suo richiamo;
Ora in un gran pasticcio ci troviamo,
E Babilonia è vinta nel confronto.
Ma che c'importa? Mutino i balordi,
Noi no. Un partito della nostra sorte
Non si piega nemmeno a giusti accordi.
Saremo in uggia al popolo, alla Corte,
Sarem convinti d'esser vecchi e sordi,
Ma sarem moderati inflno a morte.

PARLANO I PROGRESSISTI

Siam progressisti ma così per dire,
Perchè tra noi ce n'è di più colori,
Però ci puoi conoscere e capire
Dall'esser tutti noi commendatori.
Ci siamo accorti, ahimè, che vuol finire
Questa cuccagna d'impieghi e d'onori;
Ma non sappiamo a chi rivolger l' ire.
Non sappiamo a chi offrir novelli amori.
Ma dopo tutto, nasca quel che nasca,
Vengano presto o tardino i congedi,
Ci siamo messi la fortuna in tasca.
Non conosciamo ancora i nostri eredi,
Ma se dobbiam cascar, che già si casca.
Noi cercheremo di cadere in piedi.
PARLANO I REPUBBLICANI

O Repubblica, deh, spiega il tuo volo
E vieni presto a noi, vieni domani,
Che Siam ridotti in cento capitani
E non abbiamo un fantaccino solo !
Che se non vieni presto a questo suolo.
Non ci saranno più repubblicani.
Cresce il bisogno d'allungar le mani,
E cala tutti i giorni il nostro stuolo.
Intanto del poter l'empio sicario
Caricando su noi condanne nuove.
Sa che gli crescon merito e salario.
Ma non finiscon mai le nostre prove?
Siam all' ottantadue, dice il lunario,
E nulla annunzia ancor l'ottantanove.

PARLANO I SOCIALISTI

Con lieto volto e con mendaci accenti
Chi mai d'amor, di pace e di pietate,
Osa parlare ai miseri languenti
Ne le soffitte o su le terre arate?
Oh, non è lunge il dì che consigliate
Da l'atra fame sorgeran le genti,
E in fatali di guerra armi affilate
Trasformeranno i rustici strumenti !
Tutto allor tremerà. La dama istessa
Sui morbidi cuscini ove si corca
Ci attenda. È cosa dei violenti anch'essa.
Tremi, o borghesi, in voi l'anima sporca !
L'ora del sangue e del furor s'appressa..
È nostro l'avvenir, vostra la forca !

PARLANO I TRASFORMISTI

Folle colui che irato ai disinganni
Che seco porta quest'insulsa vita,
Con gli atti audaci e la parola ardita
Aumenta il carco dei comuni affanni.
La vita è breve e se ai frequenti danni
L'uman consorzio non ci reca aita,
È inutile tacciar di gesuita,
Chi si procura il bene con gl'inganni.
Giusta cosa non è forse che i vari
Partiti, in mezzo ai tempestosi flutti,
Cerchin lo scampo in danno agli avversari?
Perchè adunque ci dan dei farabutti
Se, moribondi naufraghi del pari,
Noi per salvarci la teniam da tutti?
Chinò pensoso il capo il santo Giobbe,
Come sgomento, e sussurrò — « Pur troppo
Le faccende non vanno a modo mio,
Per quanto tutti i giorni il Ministero
Ci sostenga il contrario nei quintali
Di cartaccia che stampa ! Oh, quella carta,
Di statistiche sporca, ove si trova
Per esempio che i nasi in su rivolti
Son cinquecento mila e quattro decimi,
E che in Italia c'è dieci milioni
Cinquecentoseimilatrentasette
E cinque ottavi di zucche pelate !
Mi farebbero perder la pazienza
Se pur Giobbe non fossi! E per cotesto
Si mantengon migliaia d'impiegati
E si pagan milioni! Brava gente
Sicuro, ma pedante!... Un de' più cari
Era il Rezasco che fu già il sultano
Dell'istruzione per molti anni, e celebre
Era creduto, ed egli lo credeva.
Per certo Dizionario burocratico
Che comincia a stampar soltanto adesso
Dopo averlo ponzato quarant' anni,
Godendone la fama! Oh, fortunate
Le scuole di pittura ed i Musei
A lui soggetti ! Oh, le Biblioteche,
Piene di ladri, come stetter bene
Sotto il suo regno, allor che si fregava
Le mani nel sentir che freddo infame
Regnasse di Gennaio in quelle sale.
« Meglio così: non ci Terrà nessuno, »
Disse una volta, e lo ritrovi tutto
Lo czar dell' Istruzione in quella frase !

Le faccende non vanno a modo mio,
Massime poi da che le vecchie parti
In gruppi omeopatici divise
Si mordono tra lor sì come cani,
Per baciarsi il di dopo. Anzi, mio dolce
Eliphaz, ti confesso che ne l'ozio
Di questo sterquilinio, alcuni versi
Ho schiccherato giù su quest'affare.
È una sciocchezza ve'! Bada, non credo
D'aver fatto un Lucifero; ti pare!
Non discendo fin là. Questa è soltanto
Un umil canzonetta che si canta
Sull'aria del Girella, o press'a poco.
Gruppino, bindolo
E birro smesso,
Cbe alzava il gomito
Più del permesso,
Andò alla Camera
Tutto agghindato.
Colla medaglia
Da Deputato
E visto il pubblico
Di buona luna,
Entrò nell'aula,
Montò in tribuna
E col vocione
Vinolento, mugliò questa canzone;

Dite, onorevoli
Dei due partiti,
Non è ridicolo
Lo stare uniti,
Scusando un vincolo
Di soggezione
Col bene pubblico
Che ce lo impone?
Sembriam le pecore
Del mio fattore
Che non san pascere
Senza pastore,
E in Parlamento
Noi veniamo a stabbiar, docile armento.

Come alla Camera
Tanti avvocati
Rimaner possono
Disciplinati?
Via non facciamoci
Più compatire
Che questo scandalo
S' ha da finire !
Le cose semplici
Son da imbecilli,
I grandi e gli abili
Crescon tranquilli
Dentro ai viluppi.
Qui bisogna imbrogliar. Facciamo i gruppi-.

Se pur vuol essere
Ancora eletto,
Ogni onorevole
Faccia un gruppetto.

==>SEGUE
In dieci o dodici
Si fa un partito;
Dunque sia il numero
Prestabilito
Di quattro al maximum
Per fare un gruppo.
Così la Camera
Sarà un viluppo
Dove la gente
S'accorgerà di non capir più niente.

Sarà più facile
In tal maniera
Quando fa comodo
Mutar bandiera,
Ottener ciondoli,
Goder favori,
Le liti vincere
Degli elettori.
Sussidi attingere
Dal Ministero,
Impaurendolo
D' un voto nero,
E farsi un pregio
D'aver di ferrovie pieno il Collegio.

Così Nicotera
Può andar con Sella,
A Crispi arrendersi
L' uom di Stradella,
Massari assidersi
Presso Mancini,
Pinzi il solletico
Fare a Mordini,
E Lanza pronubo,
Con Zanardelli,
Condurre al talamo
Bonghi e Baccelli,
E per procura
Altre nozze compor contro natura.

O gruppi, o splendida,
Somma invenzione,
Che unite all' utile
La convinzione.
Verrete al pettine ?
Chi sa ! Può darsi,
Specie se il popolo
"Venga a destarsi;

==>SEGUE
Ma intanto è compito
Dei Deputati
Far gruppi e prendere
Da tutti i lati
Fincliè sian stanchi....
(Applauso general da tutti i hanchì).

Eliphaz scosse il capo e così disse :
— Ah, santo Giobbe, di che ritmo vecchio
Ancor bamboleggiando ti compiaci !
Seduti come Titiro e Menalca,
Non sotto un faggio, ma sopra il letame,
Noi canterem come ne le Bucoliche
Grareggiarido fra noi d'alte e di voce.
Io di più nuovi metri e di più dotti
T'assorderò le grandi orecchie. Ascolta.

I Numi de le genti minori mostrarti m'è caro
che in Parlamento fanno da chiericlietti agli altri.

A destra son pochi, son male d'accordo tra loro
siccome quelli de'l ponte di Rifredi.

Va le fedine Biancheri movendo da Sella a Minghettì,
fedine spioventi quasi per lungo lutto,

perchè gli ritorna ne'l cor sanguinante il ricordo
del dolce tempo quand'era Presidente.

Adesso Farini tormenta co'l pugno nervoso
il campanello istesso eh' egli più mite scosse,

e sente ogni rintocco ferirlo ne'l vivo de'l core....
oh gloria umana come trapassi presto !

E intanto il fiero Pinzi che pare non possa star fermo
aborre la Sinistra come aborrì i tedeschi,

là dove Cavalletto più calmo, da vero decano
de la sfasciata Destra, parla sei volte al giorno

in i>uro dialetto di Padova, come Peruzzì
parla una volta a l'anno nel gergo de i Bechi e de i Bobi.

Affina Lioy la bile temprandone acute quadrella,
E Fano ghigna né perde l'appetito.

Teano lungo lungo, ma corto ne' l resto, non giunge
a la statura di Sambuy gigante

==>SEGUE
cui solo tolse il vanto d'altissimo tra i Deputati
il buon Pandóla rimasto ne la tromba.

Arbib tentenna e forse ricorda la sua gloriosa
camicia rossa de' l giorno di Milazzo,

stanco di starsi vicino a i suoi conterrani, a gli etruschi
facili lucumoni che voltano casacca.

Chimirri si strugge di giungere in alto, Codronchi
si duole invece d'esser caduto in basso.

Posa De Zerbi intanto, scrivendo di tutto, parlando
di tutto. Posa Guiccioli su'l suo banco.

Quanti ne mancan purtroppo! Ahimè dove son gli scrittori
di Destra? Dove Bersezio con Barrili'?

Guerzoni almen s' è fatto il nido e riposa e non scrive
più quei suoi libri zeppi di tanti errori.

Broglio dov' è ? Contende pe 'l suo Federico Secondo
co 'l'editore? Vive ancora D'Ondes Reggio ?

Amicarelli pure portò di qui fuori la coda
e Cantù indarno si strugge pe'l Senato

dove sonnecchiano Bembo, Giorgini, Finali, Brioschi,
dove con Massarani sonnecchia Bellinzaghi,

dove Saracco cerca il pelo ne'l ovo e combatte
strenuamente co'l suo fido Lampertico.

La Destra, ahimè, la Destra è morta ! Falangi compatto
le minoranze stanno, e frangonsi ne '1 giorno

de la vittoria. Invece la Destra, da 'l giorno fatale
de la caduta, quando mancolle il dolce

vincolo che stringeva ciascun de' consorti alla mensa
spezzossi come vaso di fragil vetro.

Addio, degenerati nepoti de'l Grande che dorme
a Sàntena, felice d'essere a tempo morto !

==>SEGUE
Addio, memorie forti, se non grandi. Passano gli anni
e portano seco con gli uomini l' idee.

Ecco il tuo vecchio plettro, Prati ; ne desta le corde
e canta l'epicedio de la defunta Destra.

« Visse felice fino che liete le arriser le sorti
ma debole fu ne la sventura. Dite un Requiem.»

No — disse Giobbe — questi maledetti
Esametri e pentametri mi sono
Duri da digerir. Ma poiché siamo
In via di metri barbari, provare
Mi voglio anch' io. Gli Dei delle Minori
Genti Sinistre canterò. M'ascolta.

Saffica Musa, a 'l Carbonelli togli
l'arguto eloquio piscatorio e dimmi
se meglio scrive l'osco Petrucelli
De la Gattina,

o non piuttosto Lazzaro ne'l Boma.
Dimmi se il limbo più noiosi accoglie
chiaccheratori di Melchiorre, ovvero
de'l Pierantoni.

Ecco i padroni nostri ! Il farmacista
Asperti, esperto a fabbricar cerotti,
i due Basetti, Gian Lorenzo e l' altro,
medici entrambi.

La Porta smania dietro a '1 portafoglio.
La Cava è giunto ad esser segretario ;
deh, perchè quella Porta in quella Cava
non cade alfine ?

Oh, il bel Pianciani, il Sindaco leggiadro,
come sta bene accanto a San Donato,
Sindaco sfatto che tornar vorrebbe
Sindaco ancora !

Oh, quanti abati mal disabatati !
Ecco Abignente che la Storia insegna
Sacra ne l'aule cbe Pessina onora,
ecco Merzario !

e il trasformista Billia ed il Morana
che per un giorno fornicò con Sella,
e Della Rocca fido a 'l suo barone
salernitano.

==>SEGUE
E il Baratieri che da Trento viene,
l'arguto Mussi ed il baron de Renzis
caro ai proverbi, e l'Adamoli cosa
sacra a Cairoli.

Odi, là in alto la montagna freme
d'aver perduto il medico Bertani,
ma Cavallotti ancor le resta e Bovio
da la gran voce.

E quanti ancora mancano a la manca !
Dov' è il Puccini transfuga, che fece
due relazioni, una contraria a l'altra,
ne'l giorno stesso?

Dov'è il Ricciardi tolto a l'allegria
de i Deputati, cui riinan soltanto
il Mazzarella per fiorir di risa
ogni verbale ?

E il Maiorana che co' l Doda ai tardi
sonni si diede del Senato, lascia
Amadei solo a protegger le viti
contro gì' insetti !

Ci reggon questi e fan sereno e pioggia,
a lor talento e votano milioni
allegramente, e Pantalon che paga
li ciba ancora ;

Poiché non havvi deputato gramo
che non si faccia offrire un pranzo in gala
e poi non paghi subito lo scotto
con un discorso.

È questo il regno de' mediocri ; spesso
regno de' nulli o peggio. Ma il paese,
dicono i saggi, ha sempre quel governo
che gli sta bene.


— « Bada, son brutti vèrsi — al Patriarca
Eliphaz disse: — Tu cantavi meglio
Ne' vecchi ritmi e non è pan per tutti
Il novo ritmo barbaro. Ti voglio
Infligger la canzon de'  Maggiori
Della Destra, infilata in metro barbaro.
Salute a i vinti che si divisero
quando più. grave premea il pericolo,
a i vinti che lasciano il campo
gittando a terra la vecchia insegna !

Salute a i vinti che si rassegnano
ad una muta parte di vittima,
a quelli che vanno a 'l nemico,
a i disertori de la bandiera !

A te salute, Minghetti roseo,
già nominato l'eterno pargolo,
che muti il color de la pelle
come fa il vario camaleonte;

Oggi smanioso di forme libere
e di riforme tutte britanniche,
domani abbracciato a 'l Cantelli,
invidiando lo Czar a i russi!

Sella, vedi, corrono i transfughi
a 'l tuo rivale, solo lasciandoti
co 'l guercio Coppino e Grimaldi
sommo ne 'l arte di svesciar ciarle !

Tra i Lincei fuggi, tra le academiche
baie i capaci fiaschi dimentica,
tra il credulo armento de i dotti
che, quanto a fiaschi, sono indulgenti.

T'aborre Lanza, l' ingenuo medico,
t'odian Spaventa duro ed energico
e il bene azzimato Codronchi,
ed il poeta cesareo Prati.

Rudini il tardo, parla lentissimo,
ma non di meno te pur vitupera.
Saint-Bon ne 'l suo franco-italiano
anch'ei ne dice d'ogni colore,

ed il brillante Massari sfodera
le barzellette sue più ridicole.
Visconti-Venosta fa il morto,
ma anch' ei ti tratta male parecchio.

Ahi, Sella ! in odio a 'l cielo a gli uomini,
morso da 'l Bonghi co 'l dente assiduo,
da tutti respinto, spiacente
tanto a 'l Signore che a' suoi nimici,

==>SEGUE
dove il rossore vuoi tu nascondere,
tu, micidiale, che desti l' ultima
strappata di laccio a la Destra
cui fé' Minghetti da tirapiedi?

Ritorna a Biella !. Guarda le patrie
montagne immense che a'I cielo s'ergono.
Un dì ti parranno quei monti
de 'l tuo rimorso men gravi assai.


— Non c' è maluccio per un moderato —
Replicò il Patriarca — e queste strofe
Han migliore armonia de' tuoi pentametri.
Ma tuttavia non son pane ai miei denti
E di barbari versi ormai son stanco.
Io ti voglio cantar gli Dei Maggiori
Della Sinistra, e come tu con Sella
Io mi sbizzarrirò contro il Depretis.
Metterò mano alle terzine. Un ritmo
Più venerabil non saprei trovare.


Tutto rovina in questo mondo orribile:
Fino il giudice ormai mancar si sente
Di sotto la ciambella inamovibile.

Ma il vecchio di Stradella impenitente
Sta duro ancora come fosse eterno
E inganna tutti quanti allegramente.

Egli è pur giunto dalla etate al verno
E spera di veder quest'altra estate
Maturar le bugìe del suo governo.

Spera veder le turbe minchionate
Creder che sotto ai candidi capelli
Gli germoglino idee, non busclierate ;

Pronto a buttar nel fiume Zanardelli,
Acton se occorre, Berti, Baccarini,
Magliani insieme a Ferrerò e Baccelli :

Pronto a buttar nel fiume anche Mancini,
Benché le ciarle lo terranno a galla
Come le zucche tengono i bambini.

Ai venturieri egli darà di spalla
Pur di star ritto, e farà il Ministero
Più sozzo che non fu d'Augìa la stalla.

==>SEGUE
O buon Cairoli, o povero sìncero,
Che ìmpossibil credevi ogni mendacio
E avesti fede in chi mai disse il vero,

Con lui vivevi come pane e cacio;
Ma quando egli a Gethsemani ti vide.
Coi birri, a notte, venne a darti il bacio.

Indarno Crispi furibondo stride
Perchè lo tien di tavola lontano,
Ch'ei gli ammicca, l'inganna e gli sorride;

Ed al baron Nicotera la mano
Sotto il tavolo tende e per disopra
Ambizioso lo dice e ciarlatano.

Ora Correnti ora Cialdini adopra,
Poi li rinnega come nulla fosse
E non gli cal se la bugìa si scopra.

Nessun dire o disdir mai lo commosse.
E se lo sa De Sanctis, poveretto.
Che ne conserva ancor le guancie rosse ;

Egli che nel Diritto aveva detto
Che all'onestà tornar facea mestieri,
Ai costumi di Sparta ed al brodetto !

E pur, cogli occhi grifagni e severi,
Sull'onorando seggiolon seduto,
Farini guarda e conta gii adulteri.

Ma quando il vecchio è per un dì caduto
E corron tutti a lui gridando aita,
Rinnova incontanente il gran rifiuto.

Sdegna abbassar l' intemerata vita
In questo fango di mediocri inganni
E la volgare furberia l' irrita.

Passan così di male in peggio gli anni,
Di bassezza in bassezza, e crescon solo
Ad ogni nuovo sole i nostri danni.

Credevam di levare in alto il volo
A l'aquile superbe emuli e pari,
Ed invece striscian rasente al suolo

Come lumache sudicie e volgari.
« Tu te la cavi meglio, o Santo Giobbe —
Eliphaz disse — te la cavi meglio
Con questi versi che cogli altri. Io pure
Provar mi voglio ai vecchi ritmi e dirti
In rima le virtù dei giornalisti.


Benedetto sia tu, quarto potere
Degli Stati moderni,
Che infrangi le corone a tuo piacere
E fabbrichi governi.
Non per servir principii o sentimenti.
Ma sol per aumentar gli abbonamenti.

E se dei vaglia la raccolta sia
Alquanto dimagrata.
Non sdegni un poco di pornografia
Magari anche illustrata ;
Salvo però a stampar nell'altra carta
Che ci bisognan le virtù di Sparta.

Forse il fior di virtù straordinarie
Del Chauvet (con licenza),
Ovvero di don Davide Albertario
La santa continenza,
O l'onestà incorrotta dei signori....!
(Badate che ne lascio e dei migliori)

Eppure in mezzo a tanto sudiciume
Ce n' è qualcun de' buoni j
Parecchi anzi, che fuggono il costume
De' colleghi birboni
E per danari non scendono a patti,
E tanto meno poi fanno ricatti.

Non posso enumerar tutti gli onesti,
E mi scuso umilmente
Se mi fermo a parlar solo di questi
Che mi vengono in mente ;
E così non s'offendano gii esclusi
Come se tralasciandoli li accusi.

E prima all'editor scioglier conviene
Un inno di onoranza,
Che questo Giobbe mi ha stampato bene
E pagato abbastanza ;
Ma la lode dev'esser riservata
Perchè non abbia l'aria di stoccata.

E il cranio di D'Arcais lucido e schietto,
Terso come un ginocchio,
Notiamo, ed il Pancrazi poveretto
==>SEGUE
Un po' losco da un occhio.
Che a dire il vero ha fatto assai ciarlare....
Ma un occhio chiuderò. Lasciamo andare.

Oh, l'Avanzini ! È proprio un gran peccato
Che un gentiluomo tale,
Di cui non si può dare il più garbato.
Sia quasi clericale,
E, come al rosso infuriano i torelli,
Perda la vista a ricordar Baccelli !

Perde il Fanfulla i suoi lettor più eletti
Attratti dal Fracassa
Colla cara invenzion de' pupazzetti
E i colpi di gran cassa :
Questi per direttor Vassallo prese
E indovinò scegliendo un genovese.

Arbib nel foglio suo va tentennando,
E Lazzaro sgrammatica.
Il Diritto divenne venerando
E i Ministeri pratica.
Il Bersagliere commenta il Barone.
E la Riforma secca con Bacone.

Pesa un quintale la Perseveranza
Su cui Platone incombe.
Bottero di veder nutre speranza
Di preti un ecatombe,
Ma Don Margotti, che scordò il randello,
Coll'obol va ingrassandosi bel bello.

Mario, beffando il povero Lavini,
Calmi tramonti attende;
Obleigt sorride a tutti e fa quattrini
Poiché l'annunzio rende,
E la Rassegna frigge nel suo grasso,
Senza salire e senza cader basso.

Intanto tutti corron dai giornali
Per avere un soffietto,
Usando furberie fenomenali
Per un articoletto ;
Facendo ancora qualche figuraccia
Per una sola riga di prosaccia.

I giornali così, Destri o Sinistri,
Diventan potentati.
I direttori diventan Ministri
E gli altri Deputati....
Benedetto sia tu quarto potere,
Che fai pioggia e sereno a tuo piacere !

==>SEGUE
Era già sceso il sole all'orizzonte
Rosso e, come dorate, ancor le cime
De' monti azzurri di Caldea l'estremo
Bacio dell'astro raccogliean. Più. grave
L'aria era fatta ed un silenzio immane,
Precursor della notte, ogni premea
Cosa d' intorno. Raccoglieano il volo
Gli augei sui noti nidi e dai silenti
Campi redian gli agricoltori al dolce
Focolare. La calma e la solenne
Pace crepuscolar stendean le molli
Piume sul mondo. La città vicina
Più di clamori non sonava e solo
Un indistinto murmure mandava
Come d' un alvear che s'addormenti.
dolcemente mesta ora, che inviti
Il pensiero ai ricordi e il core al pianto,
Che vuoi tu dagli afflitti ? A lor non rise
Il fiammante meriggio e tu la greve
Melanconia su loro incomber fai.
Ora triste ai dolenti ! All'occidente
Muor la vita del dì, salgono folte
Consigliatrici di delitti e d' ira
Le tenebre notturne. Ah, dunque è vero
Che ai maledetti da la sorte, un giorno
Un ora sol, non v' ha di pace ? sole,
Perchè ritorni, splendida ironia
Del cielo, ai maledetti? Oh, se la notte,
L'eterna notte, del sepolcro, senza
Riso di stelle o di mattin speranza,
Involgesse la terra ! Ai maledetti
Più del sereno dì grata sarebbe.

Alla melanconia lenta dell'ora
Cedendo i saggi e il Patriarca, in lungo
Silenzio tacquer tutti. Eran seduti
Al letamaio accanto i tre, che a Giobbe
Davan conforto di parole e i gomiti
Puntati sui ginocchi, entro le palme
Posavano le guance, al suol tenendo
Le luci fisse. Sul concime intanto
Giobbe adagiò le puzzolenti membra
Quasi attendendo il sonno, ed i tre saggi
Che come tutti i saggi eran deserti
D'ogni moneta, stavano pensando
Dove dormir senza pagare. In cielo
Salìa la notte sempre più, la notte
Che nel suo vel nasconde assai benigna
Molti rossor, molte vergogne e peggio.
==>SEGUE

Eliphaz disse — Amici, ove dormiamo"?
Molte cliiacchere sciocche oggi abbiam fatto
E più farne dobbiam domani a giorno
Per compirne un poema. Io proporrei
Che per destarci presto domattina
Si dormisse con Giobbe sopra questo
Morbido sterquilinio, che mi pare
Non puta molto. Così appena il sole
Domani spunterà, riprenderemo
Gli' interrotti discorsi. —
Gli altri due
Finsero un po' d'inorridir, ma poi
Adducendo che alzarsi era mestieri
All'indomani presto, al Themanita
Assentirono al fin. Ma la ragione
Unica fu che non avean quattrini.
Sonnecchiavan distesi in sul letame
I saggi e il Patriarca, e nella mente
Assonnata tornavano indistinte
Le chiacchiere del dì, l'eco lontana
Delle canzoni recitate, i lunghi
Discorsi di politica e i compianti
Per la patria scaduta, allor che un tardo
Passegger per la via, tornando a casa,
Cantò questo sonetto a cui bordone
Tenner russando il Patriarca e i saggi.

VOCE NEL BUIO

O cara madre mia, terra che adoro
Come il fedele del suo Dio la madre,
O patria de' miei figli e di mio padre,
Perchè sciolta ti sei la stola d'oro

E all'ombra pigra del tuo vecchio alloro
Torni a posar le nudità leggiadre.
Sonnolenta così che le man ladre
Tentan, mal contrastate, il tuo tesoro?

Ti potessi affondar dentro ai capegli
La man che verga questo inutil carme
E scuoterti finché non ti risvegli !

Salgono i Galli al Campidoglio in arme,
Mentre al varco non sta Manlio che vegli,
E non c'è Rapisardi a dar l'allarme!
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