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CANTO TERZO



BALDAD.




Baldad Suhites dixit:
Memoria illius pereat de terra et non cetebretur nomen eius in
plateis
Job. XVIII 1. 17.
Ognuno la pensa secondo gli frulla.
Ci si sono per fino i devoti del Nulla
Che in loro sermone favellan così:

« Al Nulla sia gloria che impera sovrano:
Gran padre de' Numi, terribile arcano
Ch' è prima del Prima che primo regnò.
Al Nulla sia gloria che senza mai fino
Al Qualche minaccia l'estreme ruine,
E il SÌ nel suo seno fa identico al No,

« Tu popoli e regi, tu secoli e Numi,
Concentri nel vuoto e il Panto consuini
Per forza segreta che forza non fu.
Non sei, ma ti pensa l'umana natura,
E in te, Nulla immenso, la vile creatura
Si sente nel meno, maggiore del più. »

Tu vedi che dunque ce n'è d'ogni gusto.
C'è il brutto c è il bello, c' è il giusto e l'ingiusto.
Adotta un sistema, comincia a pensar.
Soltanto la scienza del bene e del brutto,
L'immenso pasticcio del Nulla e del Tutto,
Al duol che t'opprime conforto può dar.

O Patriarca, porgi l'orecchio
A chi ti parla la verità.
Sono un filosofo vecchio, stravecchio,
E la saggezza dentro mi sta.

- Puh ! Tutte buffonate ! — il santo Giobbe
A Baldad replicò. — Tu vuoi ch'io cerchi
Nella filosofia qualche sollievo
A' mali miei, ma l'uso e le calate
Facoltà de la mente hanno i tuoi sensi
Imbecillito sì che ignori come
Questo sapere tuo, questo rimedio,
Del male sia peggior. Tu ignori dunque
Come intontisca la filosofia
E come pesi, incomportabil pondo,
Ad un ben nato stomaco? Non sai
Che il Governo vietò severamente
Il Platone del Bonghi in ferrovia
Per paura che i ponti a tante note
Cedesser rovinando? Ignori forse
Che la filosofia conduce dritto
Al Manicomio od al professorato.
Secondo che s'è in buona o in mala fede?

==>SEGUE
Se un filosofo gratti, troverai
Un imbecille o....
— Basta — l'interruppe
Baldad Suhita — basta! Inutilmente
L'onta e l'ingiuria tu rovesci ai saggi
Sul capo. Un solo esempio ti convinca.
Guarda i nostri Licei. Sono imbecilli
Quei mille professor che ai giovinetti
Spezzano il pane dell'Ontologia'?
Non li conosci tu'? Spesso le corte
E negre calze conservar, coprendo
Il capo tuttavia di negra tuba ;
Ma più spesso vestir lunghe le brache,
Crescer lasciaron l'interdetta barba,
E invece del collare hanno il colletto.
Sono imbecilli forse?
— Ah no, — rispose
Giobbe — tali non son, ma... viceversa.
Io li vidi una volta, il capo ascoso
Dal nicchio venerando o dal cappuccio;
Io li sentii dal pergamo saette
Contro la libertà scagliar furenti.
Li conobbi codini e in un momento
In giobertiani tramutarsi! Tristi
Ibridi; mostri dall'accoppiamento
Procreati tra il vizio e l'ignoranza!
i giobertiani mal spretati, o i cari
Metafisici tuoi sfratati peggio.
Come ben li conosco ! Hanno nel core
I pregiudizi vecchi e i vizi nuovi,
La serva e il bigottisino ! Hanno l'amore
Della paga e di Dio nel tempo istesso,
Nella stessa misura. Io li conosco
Questi mal mascherati e ti concedo
Che possano servir di medicina
Quando occorre l'emetico; ma intanto
C'è chi li paga e c'è chi va per forza
Da loro a scuola. Ahi, che pietà ! M'accresce
Non mi scema lo strazio un tal pensiero!

Scosse Baldad la testa e bene intese
D'aver sbagliato via, che l'argomento
Irritava il paziente Patriarca
A buon dritto. Annusò tabacco ancora,
E riprese :
«Sta ben. Non ti contrasto

==>SEGUE
Che questi metafisici sfratati
Che pendon tra il Gioberti e il Bellarmino
Sono poco di buon: non ti contrasto
Ch'a la filosofìa recan vergogna.
Lupi nel bell'ovil, maiali in chiesa.
Ma più su de' tristissimi Licei,
Ne l'Università ce n'è dei buoni.
Giobbe un poco ghignò, quasi dicesse:
Maschera, ti conosco; indi rispose,
Grattandosi col coccio; in questi accenti:

— Oh, se tu mi trovassi
Due filosofi sol che sian d'accordo,
Un soldo ti darei quando l'avessi;
Quando da l'Apennino
In Toscana discendi e alfin t'appressi
A la bella Fiorenza in ferrovia,
Una stazion tu vedi
E grida il conduttor Ponte a Rifredi.
Una antica leggenda
Dice che a far quel ponte
Fur pochi e mal d'accordo.
I filosofi son simili a quelli;
Sono pochi e si prendon pei capelli.
Laggiù dove il Vesevo al ciel turchino
Lancia boando la sulfurea vampa,
Dove sorride il mare, e dove il vento
Degli aranci l'odor toglie a Sorrento,
Scherzo de la natura,
Hegel stanza secura
Ora trovò, mentre Spaventa e Vera
Se ne fer sacerdoti e turcimanni.
Filosofo beato, ei che già disse
Di non capir sé stesso,
Ha ritrovato adesso
Chi pretende capirlo e chi lo spiega !
Strano ! S'avvolgon in tedesche nebbie
Del caldo mezzodì gli ardenti figli;
Fino il senso comun rovina in basso;
Dove Vico pensò scrive Galasso!
È ver che tuttavia
Anche il rovescio c'è della medaglia
E la filosofìa
Come le giubbe ha il suo rovescio anch'essa.
(Tanto è ver che i filosofi son noti
Per voltar giubba spesso.)

==>SEGUE
Deh, non pensare, non pensare agli uomini
Che per natura lor son tutti fragili,
Ma rivolgi il pensier piuttosto a l'opere
Per cui son fatti giustamente celebri.
Pensa alla fama di color che insegnano
Nelle Università, fama che il merito
Agguaglia, e gli stranier quindi c'invidiano
Questa illustre falange di filosofi.
Cinque o sei mila lire essi riscuotono
Dal Governo, ed è poco se consideri
Che sperticato onor fanno a la patria.

Baldad così parlò. Giobbe rispose :

— Li conosco anche questi,
E davver sono senza fine illustri !
O gran celebrità dei Bertinaria,
Dei Corleo, dei Ragnisco,
Bobba, Salterio, Allievo, Paganini,
D'Ercole, Lazzarini,
Che levi in alto i vanni !
O gran celebrità dei Bonatelli
Ovver del sacerdote Di Giovanni!
O Cameadi sublimi
Chi mai di voi parlar sentì, due passi
Fuor de la scola ? Confessar conviene
Che il pubblico denaro è speso bene!
O quanta brava gente
Che il meglio che facesse
Fu di non far niente!
Bàrbera almeno coi volumi grossi
Il calcolo raddrizza
E rivede il latino
A Lagrangia ed Eulero,
Segno di plauso altissimo e sincero.
Ed il buon Fiorentino calabrese
Lascia di specular l'ente e l'idea
Per far de' libri storici, migliori
De le panzane degli altri signori.
E il Passaglia che fa? Transfuga odiato
Da tutti, pensa a le solinghe stanze
Del Gesù dove crebbe ed ha sporcata
Tanta cartaccia per l'Immacolata.
Pensa che se all' ovil fosse rimaso,

==>SEGUE
Gli sciocchi per le vostre pappolate,
Che, madiesì, che a noi non ce la fate.

Quando il dottor Baccelli
Trasse don Ardigò da la scoletta
Per farne un spaventacchio agl'imbecilli,
Saliro al ciel gli strilli
Del platonico Bonghi e compagnia ;
E parea (ma pur troppo non fu vero!)
Che fosse morta la fìlosotìa.
Che filosofo il Bonghi I
Così piccino e così pien di tutto!
Bibliografia, morale,
Politica, finanza, agricoltura.
Diritto, guerra, storia universale,
Medicina, idrostatica, dinamica,
Teologìa, ceramica,
Lingue morte, eloquenza e lingue vive,
Egli parla di tutto e tutto scrive.
Ma il Bonghi almeno, almeno,
Leggendo e rileggendo,
Cercando il verbo in fondo alla facciata.
Tra gl'incidenti lunghi come bisce.
Press' a poco, alla meglio, si capisce :
Ma chi capisce il Trezza
Con quel linguaggio suo particolare.
Se sull'Arno si fa così a cantare?


« Or che i vecchi archimandriti,
Nel carnaio
Seppelliti
Dell'antico polipaio,

Son ribelli alla gioconda
Chiarentana
Che circonda
L'immanenza spinoziana,

Noi dall'organo sociale,
Esplicato
L'integrale
Del romantico latrato,

Distruggiam l'aspro salterio
Metaforico,

==>SEGUE
Catene de' tiranni! Oh. benedetta
La critica che insegna il bene e il male,
Che ci addita la via della salute
E della verità!
— Cara la critica ! —

Giobbe ghignò — Non sai che per apprenderla
Non c'è fra noi che un sol trattato? Quello
Dell'onorevol Mazzarella, il serio
Pastor de' protestanti e l'allegrissimo
Interruttor de' Deputati? A lui
Ricorri e ti dirà quanto ci vuole
Per sconvolgerti in capo ogni pensiero
Ed apparir mattoide in sul suo taglio.
Scienza non è la critica, ma meglio
La puoi dir l'arte di spacciar sciocchezze,
Verità, birberie, come ti pare.
Cercando di piacer. L'ottantanove
Non lo fece Voltèr. Giacca l'Europa
In un brago di sangue e di vergogne,
E il prete e il nobil, torturando i loro
Schiavi, ne spremean l'oro e la pazienza.
La Du Barry fu di Marat la madre,
E nel Parco de' Cervi il legno crebbe
Al gibetto del Re. Non le roventi
Pagine di Rousseau bruciar le porte
De la Bastiglia, ma l'ultimo tizzo
De' focolari de la plebe. dove,
Dove stava la critica ne' giorni
De la vendetta? Prorompean le turbe
Ne le vie, ne le piazze, e le campane
Suonavano a martello ed i tamburi
Rullavan cupamente in mezzo a un fiume
D'armi, d'armati e di bandiere al vento.
Un urlo immenso per le vie sonava
E il rombo del cannon, le grida e il fumo,
Saliano al cielo. Rovinava un mondo....
E, dimmi, allor la critica dov'era?

Se vuoi veder la critica che sia
Guardala dove meglio regna. Guarda
Come all'arte s'avvinghia, edera ghiotta
Che uccide il tronco che la regge. Alcuni
L'arte ne fanno d'adular, ma gli altri
Quella di calunniar, tutti poi quella
Di sciorinar corbellerie giganti
A un pubblico di sciocchi. Oh, santa cosa

==>SEGUE
La critica è di certo se ciascuno
Come la Bibbia a modo suo la tira!
Credi al Molmenti? a Carlo Raffaello
Barbiera? al Capuana? credi forse
Al critico maggior di tutti i critici,
All'Amostante, al gran Cuccù, all' immenso
De' critici Taicùn, al Rapisardi?


« Sol soletto a la gioconda
Fresca brezza del mattin,
Trema un giunco su la sponda
D'un argenteo ruscellin. »

(Questa strofa scellerata
Tra l'Arcadia e il rococò,
Non son io che l'ha rimata,
Rapisardi la stampò.)

Trema il giunco quando sente
Al suo piè l'onda passar
E si piega docilmente
D'ogni auretta a lo spirar.

Or s'abbassa ed or s'innalza,
Si rivolta qua e là,
Si rannichia e poi rimbalza,
Né un istante fermo sta.

Era notte ed io sedevo
Sulla sponda al ruscellin,
Aspettando se vedevo
Star quel giunco fermo alfin.

« Su quell'onda all'aer nero
Un pietoso astro brillò;
Venne all'alba un capinero
E così così cantò: »

(Questo è un pezzo troppo bello
Per tacer chi 'l concepì.
È il gran Mario che l'uccello
Fa cantar così così.)

Disse duuque l'uccellino:
— Giunco, stammi ad ascoltar:
Tu che in mezzo al ruscellino
Non fai altro che piegar,

==>SEGUE

Tu somigli tale e quale
Alla critica del dì,
Che si volta al bene e al male,
Oggi al no, domani al si.

De le Academie sue, de le sue mille
E ridicole Arcadie. Era destino
Che le sciocchezze dei poeti avessero
Eredi quelli che la poesia
Stiman arte ridicola ed inane!
Quante mediche Arcadie, ove imbecilli
Cavadenti si trattan di chiarissimi,
E tra gl'incensi mutui fan pompa
De la lor vanità che par persona !
Quante Memorie sopra un patereccio
Mal guarito ! Che Note profondissime
Per dimostrare che i purganti in genere
Han virtù purgativa, e render chiara
L'influenza civil dei lavativi!

E pur c'è chi ci crede! Hanno trovato
I bacilli nel sangue, io non lo nego,
Ma più imbecilli hanno trovato ancora.

Oh, le Academie ! La commedia disse,
Le Academie si fanno o non si fanno,
E sbagliò, che pur troppo se ne fanno
Ogni giorno di nuove, e delle vecchie
Non ne crepa nessuna. Ecco i Lincei
A vicenda grattarsi ! O, della triste
Academia francese inutil copia
Chi de'tuoi calvi e piccioletti sofi
Osa occupar di Galileo la scranna ?
Dov'è la gloria de'tuoi primi, e il forte
Amor di verità che li movea
A interrogare il ciel sotto i grifagni
Occhi del Bellarmino ? Invan di croci
Questi son carchi e di salari ; invano
Pontifica tra lor Sella, e l'augusta
Gentilezza regal sfida la noia
D'una eterna seduta. Avanti sempre
Pe' radiosi tramiti del vero
Procede l'uom cui l'ale impenna al dorso
La santa Libertà ; procede a novi
Mondi, a vittorie nove.... e voi che fate
Piccioletti Lincei, disputatori

==>SEGUE
Di strani cocci e d'orinali antichi?
Dormite al suon de le discorse vostre.

Già il Patriarca la dolente voce
Cheta ancor non avea, che in alto udissi,
In alto, un inno risonar. Fu questo.



VOCE DAI MANICOMI

Giobbe, che prova vuoi
Migliore a giudicar la medicina
Della schifosa lue che t'assassina,
De' guidaleschi tuoi ?
Da Roma, da Bologna,
Da Padova, da Pisa e da Torino,
Chiama gl'illustri a veder da vicino
Cotesta tua carogna,
E se i lor maledetti beveroni
Ti guariranno, chiamaci buffoni.

Ci dicon sventurati,
Dicon clie abbiamo un baco nel cervello,
E con tal scusa a doppio chiavistello
Ci tengono serrati.
Ma chi ci guarda poi?
Certi babbei che van per la maggiore,
Certi dottor che sono, sissignore,
Matti peggio di noi.
Qualcun dei nostri risanar vedrai.
Ma quei signori non guariscon mai.

Ci danno a goccia a goccia
Oppio, bromuro ed altre porcherie,
Studiano sopra noi le teorie
E ci danno la doccia.
Poi, se il dolor ci sforza
A gridare ed a perder la pazienza,
Ci sentiamo ordinar per penitenza,
La camicia di forza,
E buon per noi se un infermier birbone
Non ci spiana la gobba col bastone.

==>SEGUE
Eppur questi dottori
Son gli stessi periti criminali
Che vanno tuttodì pei tribunali
A far da professori,
E colla sicumera
Delle parole più straordinarie,
Nevrosi almanaccando ereditarie,
Salvan da la galera,
Per poco che il giurato in lor si fidi,
I ladri, gli assassini e i parricidi.

O sublime Lombroso,
I galeotti sono pur canaglia
Che non t'hanno coniato una medaglia !
Ma non di men famoso
Meritamente vai
Per tutti i bagni ch'ogni giorno illustri,
Sogno d'invidia a' tuoi compagni industri
Pei guadagni che fai.
Per le cause chiassose, ed i felici
Libri die scrivi e le bugie che dici.

O Patriarca, vuoi
Sapere alfìn dov'è la scienza vera,
E la filosofia la più sincera ?
Te lo diremo noi!
No, la scienza presente
Nell'Università panciuta e grave
Più non sta, ma con noi, qui, sotto chiave.
Credilo, inutilmente
Vendon le Facoltà tanti diplomi....
Sta la Filosofia ne' Manicomi.
___________________
Olindo Guerrini - GIOBBE Serena concezione di Marco Balossardi - parte II
Pagina a cura di Nino Fiorillo           == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
COME NACQUE IL "GIOBBE"


di Corrado Ricci
__________________
Facevo versi anch'io, quando apparve un articolo di Giosuè Carducci in cui, col terribile suo nerbo, quasi Gesù nel tempio, menava colpi spietati sui giovani che facevano versi. A me parve d'esser raggiunto da qualcuno di quei colpi, e smisi. E fu bene, perchè rivoltomi a studi più conformi alle mie attitudini, feci cose forse non del tutto inutili, e certo percorsi strada più fortunata. Ora dei versi fatti, mi vergogno: non perchè fossero recisamente stupidi e brutti, ma perchè erano romanticamente sciapi, o classicamente impettiti, come molti, come troppi, pubblicati allora e dopo. Insomma, roba insulsa.
Perchè (e questo i giovani non dovrebbero mai dimenticare) tutte le arti possono aver ragione d'esistenza, anche se non sempre altissime, fuor che la poesia. Non è necessario esser Raffaello per dipingere le insegne delle botteghe o le squadrature delle camere, né Donatello per metter qualche ornamento ai mobili o alle porte o alle finestre o a' cornicioni degli edifici; né Rossini per far la musica che règoli il passo ai soldati che marciano o alle ragazze che ballano. Insomma i pittori, gli scultori, i musicisti anche mediocri possono far qualcosa di utile e di piacevole. I poeti no. I poeti debbono essere... poeti o nulla. Debbono commuovere, sollevare, esaltare, o starsene cheti. E se proprio non possono fare a meno di stendere, in carta e in rima, le proprie debolezze, abbiano almeno il pudore di rimpiattarle, o, meglio, la saggezza di bruciarle.
Commuovere, sollevare, esaltare! Taluni dicono anche divertire', e trovano che la caricatura, la satira, l'epigramma sono forme letterarie ragionevoli per le quali non occorre la mente sublime di Dante, né la fantasia dell'Ariosto, né la profondità del Leopardi. E sia pure ! Ma é da riconoscere che si tratta di poesia solitamente destinata a breve esistenza, sorretta da quell'incomparabile eccitante che si chiama la maldicenza, e vaporante man mano che i lettori pèrdono conoscenza dei fatti e delle persone che la provocarono, e pèrdono su tutto il piacere di veder tartassati i nemici... e specialmente
gli amici.
Il Giobbe di Marco Balossardi ebbe, infatti, un successo clamoroso (Emilio Treves lo seppe bene!) ma fu successo di pochi anni, fors'anche di pochi mesi; ed era naturale. Ora gli amici hanno insistito (una volta tanto "l'insistenza degli amici" non è un pretesto) perchè io ricordi come nacque il poema; ed io cedo, non senza, però, un poco di riluttanza, per le ragioni dette da principio. Torniamo indietro (ahimé!) di quasi trentacinque anni: e precisamente all'estate del 1881. Ero ospite, a Fano, di Lorenzo Stecchetti, in una casetta in riva all'Adriatico, bianca tra lo scopeto. In mare noi passavamo ogni giorno ore e ore, spingendo qua e là con due pertiche una specie di zattera fatta di tavole inchiodate su traversini. E si ciarlava, si rideva, si vegetava, mentre la nostra pelle abbruniva, e il nostro stomaco preparava appetiti furiosi. La terribile polemica tra Giosuè Carducci e Mario Rapisardi era cessata da poco e n'eran vive ancora, per così dire, le oscillazioni, quando una mattina non so che giornale portò la notizia che il Rapisardi, raccogliendosi olimpicamente in sé stesso, aveva detto: "Ai detrattori del Lucifero risposi col Lucrezio, ai detrattori del Lucrezio risponderò con la serena concezione del Giobbe „. Nel pomeriggio, vogando con la nostra zattera sull'onde leggermente mosse dalla brezza, tornammo sull'argomento; ed io dissi: — Facciamolo prima noi, il Giobbel E lo Stecchetti pronto: — Perdio, facciamolo! — E chiamiamolo: " Serena concezione „. E lo Stecchetti come di rimbalzo: — E chiamiamolo " Serena concezione „.
Detto, fatto. La mattina seguente il poema fu concertato e cominciato. Lo schema fu tutto dello Stecchetti. Prima, un grandioso pròlogo in cielo; poi la miseria di Giobbe, e Giobbe sullo sterquilinio tormentato dalla lebbra, dalla moglie e da tre amici che gli parlano di politica, di filosofìa, di letteratura; finalmente un epilogo con la fine del mondo. — E l'intreccio e gli episodi? — chiesi io. — Nessun intreccio — rispose lo Stecchetti. — Quanto agli episodi verranno fuori spontaneamente, cammin facendo. — Ed io che scrivo? — Scrivi quello che vuoi: cose, possibilmente, di attualità, imitazioni di poeti, epigrammi, insolenze: insonmia tutto ciò che ti passa per il cervello. Io poi metterò a posto quello che hai scritto, attaccandolo e adattandolo.
Lo Stecchetti intanto procedeva nel lavoro. Scriveva col suo bel carattere fine, lungo, uguale, su carta grande, minutamente rigata, i suoi versi, senza una cancellatura, senza un pentimento. Io intanto, mettevo insieme i miei brani, alla meglio, con ben altra fatica, e glieli passavo.
Nel Prologo sono mie le terzine sul seppellimento di Pio IX, e mie le voci dei Santi e quelle delle  Vergini. Nel secondo canto miei i primi versi sino a Maledetto colui che il sonno rompe e gli altri da Giobbe, sei grande sino a Ritorniamo ai Sabei che, spaventati e ancora dal verso Allo squillar del campiinel di strada sino a Non trovi d' ora innanzi un editore.
Nel canto secondo mie le Voci dei Poìiziottt, dei Frati, dei Preti, dei Socialisti, dei Trasformisti, e nel seguente soltanto l' imitazione dello stile del Trezza.
Intanto la stagione dei bagni finì e col settembre si tornò a Bologna, col Prologo e coi tre primi Canti finiti. Avvenne allora un curioso fatto. Abbandonata la riva del mare, il bel sole, la vita gaia, in più semplici parole, cambiato ambiente, il lavoro rimase interrotto e chiuso in un cassetto dello Stecchetti, il quale, per giunta, se n'andò nella quiete della sua villa di Gaibola. Passarono due mesi, quando Emilio Treves che già aveva accettato d'essere editore del Giobbe, scrisse chiedendone notizia. — Coraggio, dissi, riprendiamo il lavoro. L'amico annuì. E si finì. Pel quarto canto, scrissi le voci dei Ginnasi e degli Asili, l'imitazione dei versi di Arrigo Boito, di Giuseppe Giacosa e d'Enrico Panzacchi, il Canto dei Ciociari e l'invettiva di Dante contro i commentatori di Dante, di cui difficilmente potrò purgarmi il giorno del Giudizio. Si giunse così all'Epilogo, di cui feci gran parte perchè lo Stecchetti non lavorava più di tanta lena, sapraffatto da un entusiasmo nuovo, quello della fotografia, soppiantato a sua volta quando sul suo orizzonte apparve radiosa la bicicletta. Dell'Epilogo scrissi le prime tre pagine: poi altre quindici pagine, dal verso Stanco però di quegli allegri canti sino a Disse e tuffossi nella Cisternazza e ancora da Seduti intorno al Sommo Padre... sino alla fine, o meglio al Coro finale in greco, per così dire, maccheronico che è dello Stecchetti. Ho indicato la parte mia per far più presto, essendo la più breve; un quarto appena dei versi, e, naturalmente, il quarto meno buono, o meglio, senza complimenti, il quarto cattivo. Perchè bisogna riconoscere che la parte scritta dallo Stecchetti è piena di spirito e di vivacità, e circola spedita tra le persone, le cose e i fatti del tempo, dando botte, spinte, scrollate, pizzicotti che sollevarono risate, lagni, proteste. Ma le ire maggiori (ricordo benissimo) furono quelle dei dimenticati. Insieme al manoscritto fu spedito al Treves il ritratto di... Marco Balossardi, perchè lo riproducesse e lo mettesse in testa al volume. Lo disegnò Luigi Busi tenendosi dinanzi il ritratto di Mario Rapisardi e quello dell'eroe che si vede riprodotto sulle bottiglie dell'Acqua di Janos! Accostamento sintomatico, disse Alfredo Oriani. il libro, presto stampato, fu annunziato l'8 gennaio 1883, con questo sonetto:
Signore — Compio il gradito dovere
con il presente, di venirle a dire
che composi un poema; ed ho il piacere
di farle noto che sta per uscire.
Nel tempo stesso le faccio sapere
come qualmente bisogni avvertire
che i versi son di tutte le maniere,
quasi seimila e costan quattro lire:
ed in quei versi c'è tanto furore
di maldicenza, che si può giurare
che il libro è destinato a far rumore.
La prego il mio poema d'annunziare
e s' Ella mi farà questo favore
ne avrà franco di porto un esemplare.
E caso mai l'autore
le sembri degno delle sue censure,
non abbia alcun riguardo, e faccia pure.
Marco Balossardi.

Al sonetto era aggiunto l'indice degli argomenti. Seguirono i commenti d'alcuni giornali d'accordo nella burla, i quali con racconti piccanti crearono una maledetta confusione di notizie, donde le discussioni che acuirono la curiosità e l'attesa. Emilio Treves dichiarava che il poema gli era arrivato da Firenze, ma non sapeva di chi fosse. Ne lesse alcuni brani agli amici del Cova, ed altri ne diede, abilmente scelti, ai giornalisti. Così, avanti che il libro uscisse cominciarono le attribuzioni e le pretese indiscrezioni. Il poema era del Carducci, si disse prima; poi, dello Stecchetti; poi di tutta la solita combriccola bolognese: Carducci, Stecchetti, Panzacchi e minori. Ma presto vi fu chi assicurò che i versi più feroci erano contro il Carducci, lo Stecchetti e il Panzacchi, e da questo nacque la voce che il poema fosse un'atroce burla dello stesso Rapisardi. Il Don Chisciotte del 15 gennaio stampava: " Mistero per mistero, vi ho svelato intanto il più interessante, ed è che il dott. Marco Balossardi si chiama prof. Mario Rapisardi. A difendere " l'illustre catanese „ da tanta accusa intervenne allora lo stesso Balossardi con una lettera da Firenze, del 17, in cui dichiarava:
" L'odio ingiustificato che i neofiti della scuola bolognese nutrono verso l'autore del Lucifero ha fatto senza dubbio velo al loro giudizio „. Alle proteste del Balossardi successero quelle del Rapisardi, che scrivendo da Catania il 18 gennaio alla Stella d' Italia proclamò che il poema non era suo: " Questo solò deploro nel presente caso: che ci siano al mondo scrittori celebri (come dice l'avviso dei signori Treves) che non arrossiscono di lavorare un anno per far ridere un'ora i maligni e per dare a me il disturbo di dir loro pubblicamente che li disprezzo „. E il Balossardi rimbeccò: " Il Rapisardi dice di sprezzarmi. Lo sprezzo è reciproco e quindi siamo pari „. L'interesse cresceva. // Capitan Fracassa del 27 gennaio fra l'incredulità di tutti annunziò che nel poema v'era qualche lodato: che, ad esempio, dal vilipendio generale alcuni eran sottratti: Renato Fucini, il Carducci, Giovanni Verga e Giovanni Prati. E soggiungeva: "Nella Voce dei preti, questi signori cantano: Vogliam don Albertario! I frati voglion le marchese ! „
Il poema uscì finalmente il 28 gennaio (di sabato) e il successo segui completo. Il Fanfulla ì'u dei primi a riconoscerlo quantunque toccato nel vivo dai versi:
Perde il Fanfulla i «uoi lettor più eletti
attratti dal Fracassa
con Ia cara invenzion dei pupazzetti
e i colpi di gran cassa:
questi per direttor Vassallo prese
e indovinò scegliendo un genovese.
E Marco Balossardi ringraziò il Fanfulla scrivendogli " Ia verità sul mio Giobbe „, che, viceversa poi, non era che un'altra serie di fanfaluche, dove si diceva che il poema era stato imaginato a Livorno sulla piattaforma del Palmieri e (sola cosa esatta) da "due amici brachi- vestiti „. Gandolin infirmò l'articolo come non autentico e inventò la storia d'un' intervista col Balossardi. Solo un giornale solitario della solitaria Ferrara (il Maramaldo del 1° aprile) scrisse che autori del polimetro satirico eravamo il Guerrini ed io. E cosi Maramaldo volle tradire anche il nostro segreto. Faccio grazia ai lettori di quello che stamparono contro la " ditta bolognese „ i giornali di Catania: agli insulti aggiunsero le minaccie, e solo il Rapisardi si mantenne in grande orgogliosa solennità dichiarando che risposta degna ai nemici l'avrebbe data con... altri poemi! All'incontro la "ditta bolognese „ se ne rimase tutta umile in tanta gloria. In una poesia del Balossardi edita allora dal Fanfulla si lesse:
E le cronache e i pasticci
che stampò Corrado Ricci,
e questi versi li scrissi io, poco dopo che il Giobbe aveva bollato lo Stecchetti così:
Ti fingi virtuoso e ti presumi
che del pubblico l'occhio temerario
ad indagar non giunga i tuoi costumi,
e velando col tuo riso bonario
l'avidità per cui tu ti consumi,
cerchi di diventar bibliotecario!
E questi versi li aveva scritti lo Stecchetti.
CORRADO RICCI
Restando gesuita e clericale,
A quest'ora sarebbe cardinale,
E si morde le pugna. — Il Siciliani
Scrive, scrive, riscrive,
E presiede congressi,
Conferenze, adunanze e commissioni ;
Da Vico, ad Hegel, ed a Darwin passa
Ed i sonagli dello Spencer squassa.
Mamiani intanto la decrepitezza
Onoranda trastulla al Tebro in riva
Pontificando maestosamente
E amministrando i sacramenti ai mille
Filosofastri de' Licei. Battezza
Sul sacro fonte dell' Antologìa,
Cresima nei concorsi,
Lega e discioglie, anatemizza o loda;
E il chierichetto Ferri
Gli dà l'incenso e gli tien su la coda.

Bonavino a Milano
Scordò l'attività d'Ausonio Franchi
Ed i ginocchi stanchi
Gli van tremando già, quasi piegarsi
Volessero davanti al vecchio altare;
A quest' altar cui sale
La prece clericale
Mal mascherata di conservatrice ;
A quell' aitar cui cerca Augusto Conti
Catecumeni invano e sacerdoti.
Arciconsolo illustre, o non vi basta
Il duchista Frullone,
Non vi bastan la Crusca e il Dizionario
Per farvi canzonar da le persone?
Alle guagnele, non vi contentate
D'ammaestrarci nel sermon toscano,
Di stacciar le parole
Squasimodeo, introcque e a fusone,
A cafisso e a busso e a la ramata,
Garabullando in confrediglia a bacchio,
Rozza petarda. Lapi, Nuti, Cinti,
Non son minciolfì perchè sien zembuti,
Gioie che l'otta non corbava a raffio
Ed altre amenità tolte al Pataflìo ?
Cercate un poco tra i conservatori

==>SEGUE




CANTO QUARTO



SOPHAR.




Sophar Naamanites dixit:
Hoc scio a principio....
Quod laus impiorum brevis sit et gaudium hypocritae ad instar
pancti
Job. XX. 1. 4. 5.
Poiché tacquer le voci, in lungo anch'essi
Silenzio assorti, stettero i tre saggi
E il Patriarca.
Si levava il sole
De l'Eufrate al di là, di là dai monti
D'Elam azzurri. Oh, del mattino amica
Ora, quanto sei bella! Un aura molle,
Piena di freschi odor, movea le brune
Chiome de l'alte palme e dai fioriti
Cespugli e da' rosai rapidamente
Si lanciavan gli augei verso il turchino
Firmamento cantando. A poco a poco,
La città si destava e un mormorio
Lungo e profondo di lontane voci
Dalle mura salìa, misto ai rumori
Delle industri officine e delle incudi
Dai martelli percosse e delle grida
De' mercati. La vita al nuovo giorno
Redìa nel mondo dei viventi, e novo
Desìo di ragionar persuadeva
Ai saggi e novi al Patriarca affanni
Seco portava.
Sophar Naamanita
Che per due giorni avea taciuto, ruppe
Il sapiente silenzio. Era costui
Letterato e poeta, e più volumi
Di ben laudate liriche composti
Avea, col bravo titolo in latino.
Ne' giornali scrivea bibliografie
Critiche, dove malmenava tutti
E sé stesso lodava: onde tenuto
Era il sommo poeta dei Caldei.

« Giobbe, — così Sophar parlò — vedesti
L'inanità della filosofia
E l'inutilità della politica,
Tal elle già sei convinto e persuaso
Che conforto al tuo mal non posson darti.
Ma poi ch'io veggo che tu pur di versi
Non sei digiuno e le bellezze intondi

==>SEGUE
Degli accenti, dei metri e della rima,
Lascia ch'io tenti di persuaderti
A cercare un conforto, una speranza,
Nella letteratura. A te son note
Di Ciceron le belle frasi: Haec studia
Adolescentiam alunt, ei ci disse,
Senectutem delectant, nientemeno!
Con quel che segue; e l'orator d'Arpino
Non può aver torto. Avrai provato spesso
Le possenti virtù di certi libri.
Spesso la noia e la malinconia,
L'insonnia spesso, ti stan sopra. Allora
Tu prendi un libro, un romanzo, un poema.
Un Giobbe, e leggi!... Oh voluttà! Pei nervi
Irritati e vibranti un dolce passa
Senso di calma clie discende al core.
Si rallentano i muscoli, una molle
Bonaccia a le tempeste del cervello
Succede, e spesso sovra gli occhi scende
Il benefico sonno. Oh, quanti e dolci
Sono i conforti che agli afflitti arreca
Questa figlia di Dio, letteratura ! »

— Sarà — Giobbe rispose — io non lo nego,
Anzi t'accordo che all'insonnia spesso
Giovino certi libri. Ma d'altronde
Ti confesso però, Naamanita,
Che molte volte inducono nell'alma
Una melanconia leopardiana,
Un'amarezza, un tedio della vita,
Che consolar non giova. Oggi i poeti
Non trovan nulla a modo lor. Le donne
Son tutte traditrici oppur bagascie.
Gli uomini ladri, scellerati e peggio,
E non si stampa un povero sonetto
Dove non sia provato che non vale
La pena d'esser nati a questa vita
Dolorosa e sciupata. Infìn dai banchi
De le scolette la malinconia
Attossica i poeti e tu mi dici
Che consolar mi può la poesia !

==>SEGUE
Sotto al riso divin del nostro cielo
L'Arcadia è rifiorita.
I ragazzi che han messo il primo pelo
Son stanchi delia vita.






VOCE DAI GINNASI

Ogni vigor di vita in noi vien manco,
E il giovinetto fianco
Nel tedio ognun di noi vinto abbandona!
Là nel funereo piano
Poserem la tristissima persona.
Come lieta sarà l'ora di morte
A noi che stanchi del fragor mondano
Malediciam la sorte !

Sia trista l'ora, o genitori ingrati,
Che cedeste abbracciati
A le bugiarde illecebre d'amore,
Di quanto pentimento
A voi fonte, ed a noi di che dolore!
Sia così maledetto il sen materno
Che degli esami ci crebbe al tormento,
Maledetto in eterno !

Sui mari e 'l pian, sui monti lusinghiera
Torna la primavera,
Tornano i fiori al prato, al ciel gli augelli,
E dai colli ridenti
Precipitando cantano i ruscelli ;
Luminoso è il mattin, molle la sera,
Recano intorno i lor profumi i venti...
Ecco la primavera!

Ma freddo è il nostro cor, freddo in un verno
Rigido e sempiterno,
E la vita per noi non ha che affanni. —
A noi che amammo tanto
E Siam stanchi del mondo a dodici anni,
Vano è il sorriso di gentil fanciulla!...
Sol nel sepolcro cesserem dal pianto.
Riposerem nel Nulla!

VOCE DAGLI ASILI

Da che fuggì l'amore
Non trovò più conforto
Il nostro arido core,
E il suo palpito è morto!

Nei teneri cervelli
Muor l'ultimo pensiero...
Aprite nuovi avelli
Nel triste cimitero!

Causa del nostro pianto,
Tu pur sei morta, o Speme !
Andiamo al Camposanto
A riposare insieme !


— Poveri sciagurati ! — il Patriarca
Esclamò spaventato — E chi di sciocche
Idee li rimpinzò, così che il latte
Hanno dimenticato ed il lattime
Che ancor fiorisce sulle ingenue zucche?
Sono stanchi del mondo? O che ne han visto
Loro dai banchi de la scola, dove
Portano ancor le brache fesse e pendulo
Di camicia non bianca un lungo lembo ?
Poveri bimbi ! Essi credono ancora
Che si distinguan gli uomini e le donne
Dalle sottane e dalle brache solo,
E son già sazi dell'amor ! Non era
Questo a' miei tempi de' bambini il vezzo.
Si giocava a buchette o a mosca cieca,
Si rubavan le chicche e qualche volta
Si ricevean le sculacciate. Appena
Qualche barlume a noi di poesia
Del Fusinato discendea coi versi
Mestamente romantici. Ricordo,
Che l'imitavo allor. Sophar, m'ascolta.


Sotto il raggio della luna,
Per un tacito sentier,
Una schiera bruna bruna
Reca un morto al cimiter.

Sovra un panno tetro tetro,
Cinto il crin di vaghi fior,
Dorme Estella sul feretro,
Dorme uccisa dall'amor.

==>SEGUE
Quando Ugon vestì la maglia
E a combatter se ne andò,
Tra il rumor de la battaglia
Un nemico l'ammazzò.

Mentre un dì pregava Estella
La gran Madre del Signor,
Gliene giunse la novella
E morì di crepacuor.

O fiinciulle lusinghiere
Che ascoltate il trovator,
Non amate un cavaliere,
Fosse pur commendator,

Perchè al raggio della luna,
Per un tacito sentier.
Una schiera bruna bruna
Reca Estella al cimiter !

Oh benedetto, Sophar mio, l'ameno
Romanticismo de' verd' anni miei!
Che belle idee! Che metri! Ahimè, che cosa
Sono al confronto quei versacci orrendi
Che giustamente barbari son detti ?
Ricordi tu -- « Va per la selva bruna
Solingo il Trovatore » -- Sopra quel ritmo
Quante romanze anch'io scrissi, al soave
Lume di luna, vaneggiando elmetti
Dame, liuti, brocchieri, tornei
E turchi del color di cioccolata !

Triste, di lito in lito,
Orbo d'argento e d'or,
Chiuso nel suo dolor
               Va l'ammonito.
Ahi, che in un' ora trista,
Spinto dal reo destin,
Rubava il moccichin
               D'un farmacista!
Invano ha protestato
Che non pensava a mal :
Il sordo tribunal
               L'ha condannato.
L'han messo in una strana
Carrozza cellular,
Lo vogliono portar
               A Favignana.

==>SEGUE

Così di lito in lito,
Orbo d'argento e d'or,
Chiuso nel suo dolor
               Va l'ammonito !

Questi son metri! La sonora rima
Ne la sua maestà le mende vela
De l'argomento. A che tesser sudate
Strofe a la greca, rinnegando il gusto
Dell'Evo medio cui la rima piacque?
Ed anzi, a che cercar di strane rime
E di versi bisbetici un garbuglio
Per parer stravaganti e come Boito
Infilar versi strambi come questi?


Se tu chiedi
Rime strane
Di due piedi
Tronche o piane,
Non si scusa
L'usa
Musa,
E
Te
Ne
Dà.
L'arte fina
Stava ascosa
Nella China
Portentosa,
Ma trovata
Grata,
Data
Più
Su
Fu
Già.
Solo Giobbe
Di quest'arte
Riconobbe
Ogni parte.
Voi che udite,
Dite,
Dite,
Chi
Va
Di
Là?



Rime balzane! Eppur son rime anch'esse!
Povera poesia, quante nel seno
Omai sterile tuo son da recarsi
Nove riforme ritornando al vecchio !
Gemono i pargoletti in versi lungamente
dolenti le sventure loro,
I geloni ed i bachi! Udisti il pianto
Senza conforto de' bambocci sazi
Del viver prima ancor d'aver vissuto!
Ma i babbi lor che fanno? A' tempi miei
Che scappellotti sarebber piovuti !
Mancano i pedagoghi in poesia,
Che un giovinastro baccellon non possa
Imparare a rimar quattro sciocchezze
Senza pianger da burla o senza dire
Vituperi alle donne? Eppur ci sono
Casti poeti ancor su questa terra ;
Casti di forma e di sostanza. Vive
Qualche prete quaggiù che canta bene
In canto fermo. Imparino da lui.




La vita dei giovani
Cessò d'esser bella,
Ma c'è per correggerla
L'abate Zanella
Coi nimbi, cogli angeli,
Con tutti i trovati
Dei preti spretati.

Di nenie britanniche,
Di sacro concime,
Di baie scientifiche
Gonfiando le rime,
Largisce ai proseliti
Del proprio Vangelo
Papaveri in gelo.

Ai cento Lampertico
Del veneto suolo
Gettò sovr'al talamo
Di versi un lenzuolo;
Pudica abitudine
Che piace alla sposa,
Ma molto noiosa.

==>SEGUE


Mancano dunque, mancano i poeti
Che possan dare ai giovanetti un filo
Nel labirinto della Poesia
Moderna? Deh, perchè seguir Carducci,
Vituperando la patria comune
E chiamandola vile in duri versi.
Mentre v'ha pur chi di mertate laudi
A lei porge l'incenso in dolci carmi
Dove la melodia regna e governa,
Vìen da l'eterna Roma un suon di voci
Innocenti che cantan la canzone
Del Placidi. Porgete, itale Muse,
L'orecchio al suon del patrio verso. Udite.

Viva Umberto, il nostro Rege
Per la cui virtù preclara
Sortì Roma dalla bara,
E l'impero della lege
Sovra noi stende l'imper.

Viva, viva Margherita,
Prediletta sua consorte,
Benefizio della sorte
Che lodiam con voce unita
Al mattino ed alla ser.

Ecco scoppiano i fochetti
Che festeggian lo Statuto !
Niun di noi rimanga muto
Ma cantiamo, o fanciulletti,
La mia bella canzoncin.

Benedetto sia il destino
Che fé' libera l'Italia
Dall'oltralpica canalia !
Viva, viva il principino,
Viva Umberto e la Regin!


Mancan dunque poeti ai giovinetti
Quando la bella ancor Scuola Romana
Vegeta, e madre generosa accoglie
Tra le classiche braccia i peregrini
Che d'ogni parte a lei piovono in seno'?

Di là dal Foro, nel chiaror velato
Che piove da le stelle a tarda notte,
Nereggia immensa una mina, il Circo
De' Flavi. Lungo i muti intercolonni

==>SEGUE
CANTO DI CIOCIARI

Noi Siam venuti ad alternar coi canti
I lieti balli, poiché il ciel s'imbruna,
Tra l'erme torri e i colonnati infranti
Scesi dal monte al lume della luna.

Ecco di squille un tremulo concerto
Dal Lateran saluta il dì che muore.
Dolce è la sera e mena intorno il vento
Di mille fiori un indistinto odore.

Voi che i sepolcri antichi, i templi e l'are
Interrogate, postumi profeti,
Voi cui la notte ed il sonante mare
E il ciel confìdan tutti i lor segreti,

Che non venite a queste fosche mura
L'eco a destar dai minati marmi?
Parlano qui la storia e la natura,
E le stelle dal ciel dettano i carmi.

Piangi, alma Roma ! — Degli antichi vati,
De' cantor più che umani è il seme spento.
I tuoi poeti ora cantan sdraiati
Nel piccolo Caffè del Parlamento.

Vedi tu là quel che la chioma nera
Sospirando accarezza leggermente ?
De la temuta Erinni petroliera
Amante un dì lo conoscemmo ardente

Ed oggi, come pallido giacinto
Che il turbine schiantò, mesto riposa,
E va così di nova fede cinto
Cantando versi che son vera prosa.

Udiam — Comincia distendendo il braccio:
« Io m'alzo la mattina di buon'ora,
« Mi lavo il viso ed al balcon m'affaccio,
« Veggo i monti che il sol d'auro colora. »

Qui posa un poco, poi guardando in giro :
« Mi stropiccio le mani allegramente,
« Empio la pipa, la prim'aura spiro
« A duplici polmoni avidamente. »

Plaudono intanto i facili scolari
Venuti al Parlamento in turba fitta
Col bardo che trasfuse i Refrattari
Del Vallés negli Eroi della Soffitta.

==>SEGUE

Questi col capo accenna e l'odorata
Ambrosia piove da la bruna chioma.
Freme convulsa allor la fortunata
Schiera ascoltando il tuo poeta, o Roma.

Ei balza in piedi e sovra i capi appare
Dei seduti d'un dito appena appena;
Indi de'carmi suoi prende a versare
L'inzuccherata inesauribil vena.

« In mezzo a un gregge eternamente privo
« De la luce immortai de l'intelletto,
« Miseramente, in mezzo a un gregge vivo,
« Senza gloria, senz'arte e senza affetto.

E via continua in queste offese ai lieti
Figli d'Apollo che gli corron dietro,
Alzando canti e incensi come i preti
Usano al successor del sommo Pietro.

E che direm di Fabio Nannarelli
Che si pon quinto tra i romani vati ?
E che diremo d'Ettore Novelli
Coi suoi versi cromati e biscromatì?

Deh, basti a Fabio l'encomio lunatico
Di Paolo Emilio Castagnola, ah basti ! —
Sul traditore di Museo Grammatico,
Dai concettini attillatuzzi e casti,

Getti ben altra laude il Bersagliere,
Che su Virgilio e sovra Enotrio il pone
Nelle sgrammaticate tiritere
Fatte ad imagin del suo buon padrone.

Roma piange perchè mira — e ne geme —
Monaci Ernesto colle sue pretese
D'esser linguista, ei che confonde insieme
Col veneto dialetto, il ferrarese.

Piange che il solo a cui largì la sorte
La sacra fiamma, le si fa infedele....
Povero Gnoli condannato a morte
Nel caos de la Vittorio Emanuele!

Deh, chi consola de la Musa i crucci
Poiché il Governo le ha rubato il Gnoli?
Le frasche forse del vuoto Narducci
O le prolissità del Giovagnoli ?


==>SEGUE
O i sonetti del Revere più duri
De la carne di bufola senile,
Pieni di zeppe e di viluppi oscuri,
Dove di qua e di là schizza la bile?

È ver che a Roma venne il gran Coppino
Di cui prima nessun faceva motto;
Ma, dopo il Minister, parve divino
Nel suonare il trombon del quarantotto.

C'è il Massarani co' sermoni suoi
Pregni dell'oppio dell'Antologia....
De' poeti ce n'è quanti ne vuoi,
Ma son di quelli che fan scappar via.

Ahi che ti giova, o Roma, il saper quanti
Sono i mediocri che ti die' fortuna?
Torniamo ai nostri balli, ai nostri canti,
Innamorati de la bianca luna,

Mentre dal Lateran dolce un lamento
Di campane saluta il dì che muore
E tutto intorno va recando il vento
Di mille fiori un indistinto odore.


Giobbe parlava ancor che il Naamanita,
Dimenando le lacche in sul letame
Siccome quei che d'impazienza è preso,
Dava già segno di voler parlare,
Quando una voce misera e nasale
Qual di prete che miagoli la messa,
Lentamente suonò dal ciel sereno:


RUGIT LEO

« Plaudite Nobis boni Catholici, plaudite Nobis
Rugit Leo fortis, ciocis indutus adhuc.
Cui macaronica regna cretini donarunt
Cantare decet Carmen macaronicum. »

I tre saggi con Giobbe, una risata
Sonorissima dier. Ma il Naamanita,
Dopo riso cogli altri un quarto d'ora,
— O Patriarca, il mal che ti divora
La carne e l'ossa — disse finalmente —
Ti rabbuia il giudizio e d'atrabile
Te lo intorbida. Dunque a tuo parere

==>SEGUE
Nessun poeta è in Roma !
— Naamanita
Questo non dissi già — riprese Giobbe —
Che avrei detto bugia. Ve n'ha sol uno,
Vecchio pur troppo, ma giovane sempre
Dell'intelletto; ma non è romano.
Vive il cantor d'Edmenegarda e canta:


Ahi che s'appressa l'ultimo
Giorno del viver mio,
Che le mie chiome imbiancano
E mi ricordo Iddio !
Un nuovo gel mi serra
Il core antico, e squallida
Mi pare omai la terra.

O mia diletta patria
Che senza fine amai,
O madre mia dolcissima,
Che piansi e che cantai,
Chino le bianche chiome
Sul sen materno, e sembrami
Che non morrà il mio nome.

Ne' miei pensier che trepido.
Diffuso aere sereno !
Che piena, indefinibile
Onda di vita al seno !
Sugli occhi miei che presto
Ire e redir d'immagini!...
Io son poeta e resto.

Io resto ne le memori
Pagine della storia,
E tra color non ultimo
Che incoronò la gloria.
Vivrò, madre mia bella,
Fin che il parlar degli angeli
Sarà la tua favella!


E dice il ver. Poeta, veramente
Poeta, egli già fu, di cor, d'ingegno,
Ai mal cresciuti epigoni vergogna
Per la costanza del pensier, per l'alto
Intelletto e gl'intenti e le canzoni.
Stanco, posò la combattuta vita

==>SEGUE


A l'ombra molle di quella corona
Che profetò. Non l'insultate! A lui
Altro sogno miglior non sorridea,
E seduto al tuo pie, candida croce,
Il nunc dimittis sussurrò, beato
Che il suo caro ideal sia fatto vero.
Onorate il poeta! Innanzi a lui
Questa superba satira s'inchini.
O poeti lombardi e piemontesi,
A voi toccava continuar la scola
Del poeta sublime. Invece appena
Il Cavallotti approssimarlo tenta
Ritornando al Berchet. Perchè le calde
Voci del cor, di meno inculte frasi
Ei non adorna, poi che il verso suo
Sembra sempre cantato all'improvviso ?
Ed il Fontana cui di largo ingegno
Fornì natura, perchè di prolisse
Francescherie lardella il verso strano?

Infine giustizia
M'è stato renduto!
Voilato di nebbie
Parigi ho appercuto
E la siloetta
Che il domo del Panteon
Nel cielo progetta.

Promenasi il popolo
Francese la notte;
Nel fango pietinano
Gommosi e cocotte,
Guardati dai mille,
Col sabre nel fodero,
Sergenti di ville.

Le figlie dell'Opera
Revando regardo
Che al riso mi movono
Col naso camardo
E le sciagurate
Suivanti di Venere
Che son maquigliate!

E penso alle pallide
Bellezze natie,
Naife, che ignorano
Coteste lubie;
E penso ai valloni
Là dove fioriscono
Orangi e citroni.



Da più che quattro secoli la civiltà latina
Sull'itala contrada giacea vasta ruina.
La polvere de' morti e de' vulcani spenti
Avea d'Ausonia tutta coperti i monumenti
E sovra le sepolte città la capra errava
E più negra e pungente l'ortica vegetava,
Quando un giorno d'autunno, il sole era all'occaso
Non so se per volere del cielo oppur del caso,
Un giovinetto pallido, pensoso, vagabondo,
Che avea lo sguardo azzurro e come il ciel profondo
Incontrò una sottile e mite verginella
Della camelia bianca più tenera e più bella.
Come agli angeli il nimbo, intorno al suo bel volto
In lunghe treccie d'oro il crin piovea disciolto.
Il molle venticello che il profumo dei monti
Coll'ala sua rapiva, il rumor delle fonti,
Lo scintillar degli astri, il languido chiarore
Del crepuscolo... tutto favellava d'amore.
S'accostaron tremanti, spinti da un senso arcano;
Egli gettò il mantello e presala per mano
Le susurrò — Più dolce dell' orezza, o mia bella.
Se ondeggian sul mio viso, son le tue bionde anella ;
Più soave del murmure delle fonti è il tuo detto.
Più del raggio degli astri , fanciulla, m' è diletto
Quello degli occhi tuoi; più del mesto chiarore
Del cadente crepuscolo è bello il tuo rossore! -—
La giovinetta tenera vinta, al parlar gentile,
Così gli rispondeva con grazia femminile:
O mio dolce signore, sulla tua fronte bruna
Leggo che tu sai vincere la nemica fortuna,
Leggo che tu sei forte, e, ben che sia scudiere,
Tu sei già degno d'essere promosso cavaliere.
Sento nel cor che palpita sensi d'amor novelli,
E ti guardo negli occhi che sono tanto belli ! —
Si strinsero la mano, sedetter sovra un letto
Di muschi e di viole, in riva a un ruscelletto
Ove placidamente correvan latte e miele.
E mentre il rosignolo tlautava le querele,
Un gelsomino bianco velò i soavi amori.
Un quarto d'ora dopo, senza troppi dolori
L'avventurata sposa partoriva un bambino
Come quel della fiaba candido e ricciolino.
Cresciuto un po', coi frati seguiva le lezioni
Del trivio e del quadrivio ed altre purgazioni.

==>SEGUE
Baldad Suhita, cui sublime in petto
Di filosofo un cor palpita e freme.
L'occhio in Giobbe fissò, l'occhio benigno
Dove il saver sorride. Ai dolci clivi
De la patria fuggendo adolescente,
A Ninive volò cercando il dolce
Miel di filosofia; le giovanili
Forze a lo studio date ei non permise
Sollievo al corpo mai. Per le gioconde
Vie de l'Assira capitale, invano
Gli sorridean le crestaine belle
E, sollevando de la veste il lembo,
Lo snello piede, l'attillata calza,

Come per caso gli facean vedere.
Egli spregiava ogni mondan diletto.
Macerando la carne in lunghe veglie
Sui volumi de' Sofi. Ah, non per lui
Corser l'eburnee palle il panno verde
A rovesciar gli ometti: ah, non per lui
Saltare in alto i sugheri sonanti,
Frisser le costolotte, o i gallinacci
Di tartufi imbottì l'industre cuoco!
Studiò, studiò tenacemente, e quando
Del lauro dottoral cinse la chioma,
Parve un portento a' suoi maestri, e parve
A chi ben se ne intende.

Sublime ed immortal filosofia, incretinito.
Così tu conci i tuoi fedeli! Ai pochi
Che de' misteri tuoi tengon la chiave
Ogni catena material disciogli
E ai regni oltremondani alto li guidi.
Così poi che la mente al vero eterno
Volgono speculando e fisi stanno
A contemplar la psiche e l'infinito,
Scordan la terra e prendono l'aspetto,
E qualche cosa più, di scimuniti.
Baldad Suhita fisse l'occhio in Giobbe
E di tasca traendo una tornita
Teca, un pizzico andò d'americana
Polve annusando, fin che alzossi e disse:

==>SEGUE

O Patriarca, porgi l'orecchio
A chi ti parla la verità.
Sono un filosofo vecchio, stravecchio,
E la saggezza dentro mi sta.

Ascoltami. Un fato tremendo ti opprime,
Ti sforza a giacere su questo concime,
Ti strazia le carni, ti lacera il cor;
E tu miserello, mal vivo e mal morto.
Non hai più speranza, non trovi un conforto,
E il mal ti soggioga, ti vince il dolor.

E pur c è un sollievo, c'è un balsamo ai mali,
Che allevia le pene de' tristi mortali.
Che giova i tormenti del mondo a scordar ;
La scienza sublime del divo Platone,
La scienza di Critia, di Gorgia e Zenone,
La scienza che insegna la carne a domar.

Ti dolgono l'ossa nel virus marcite?
E tu fa un dilemma, combina un sorite,
E tosto avrà fine l'atroce soffrir.
L' antitesi calma lo spasimo ai denti.
La tesi guarisce le pance dolenti,
Ed il sillogismo concilia il dormir.

Deh, sia benedetta la filosofia
Che i veri contiene dell'Ontologia,
La Logica industre, la santa Moral:
Che inebbriai digiuni, che sgombra i briachi,
Che libera i bimbi trafitti dai bachi,
Che purga, ristora, guarisce ogni mal !

Ce n' è d'ogni gusto, da Grate a Mamiani ;
Se Kant non ti piace, ci son gli hegeliani ;
Se l'Hartmann ti secca, puoi darti a Littrè.
C'è i neri, c'è i bianchi, c'è i grigi, i turchini,
Credenti, ateisti, tomisti, cretini ;
Domanda, domanda: per tutti ce n'è.

E tutti a lor modo conoscono il vero.
Ciascuno a sua posta ti spiega il mistero,
Rischiara la notte o scuro fa il dì.
==>SEGUE

Come percote ben su gli avversari
Le mistiche vesciche il gran Fornari!
O gloria della Chiesa,
O decoro di Roma,
Dimmi, quando scrivevi
Quelle tue pappolate in quinci e quindi
Se allo specchio vedevi
La cara l'accia tua, di' non ridevi?
La tua Vita di Cristo
Vinse Strauss, Renan, vinse la prova
Contro Germania tutta.
Un libro come il tuo mai non si vide
E chi se lo ricorda ancor ne ride.
O dolce terra, dove
Crescon gli aranci sotto il sol fiammante,
Perchè tanti filosofi produci?
Ti vendichi di noi? Glie l'abbiam fatto
Che tanti pazzi tu ci mandi a un tratto?
Non ci son Manicomi e non prigioni
Di là del Garigliano
Per questi vizi del cervello umano?
Mandaci quel che vuoi, per tutti i Santi,
Ma filosofi no. Meglio i briganti.

— O Giobbe, Giobbe, tu ciurli nel manico —
Il Suhita riprese in versi sdruccioli.
— Tu che pel mondo vai lodato e celebre
Per la tua sofferenza pazientissima,
Tal che potresti dar de' punti all'asino,
Invece quando parli de' filosofi
Velenoso ti fai come una vipera !
Che t'hanno fatto? Se tua moglie torsero
Dal diritto cammin, tu sai benissimo
Che ponno in questo somigliar la gocciola
Che il mar non fa calare e non fa crescere.
Se, parassiti, a' pranzi tuoi papparono
Come affamati e grazie non ti resero,
Se si fecero dar quattrini a prestito
E di restituir dimenticarono,
Se dopo averti dedicato articoli
Libri, trattati, scritture ed opuscoli
Per cavarti un regalo, ora ti lasciano.
Anzi ti fuggon come cane idrofobo.
Non accusarli, no, d'ingratitudine.
Questa si chiama indipendenza d'animo :
La più bella virtù d'ogni filosofo !

==>SEGUE

Del pomerio.
Rinforzando il clima storico.

Così cada la chimera
Che sostiene,
Lusinghiera,
Le platoniche cancrene

E ritorni alla coscienza
La divina
Conoscenza
Dell'ignota disciplina!

O signori, starà fresca
L'eresia
Loiolesca
Coll'olimpica ironia

De' balordi archimandriti,
Nel carnaio
Seppelliti
Dell'antico polipaio! »


Bella roba, per Dio ! Son questi dunque
Gl'illustri filosofici campioni
Che tengon alto il nome
Nostro in faccia agli estrani?
Non torcerti le mani, '
Filosofo Suhia, innanzi a questa
Mediocrità, e sorridi.
Sai la massima mia
Appunto circa la filosofia ?
Quanti meno i filosofi saranno,
E tanto meglio le faccende andranno.

— Odio — disse Baldad — terribil odio,
È quel che nutrì tu contro la bella
Filosofia, contro la quintessenza
D'ogni umano saver ! Tu dunque ignori
Quel che dobbiamo a lei? Pur le dobbiamo
L'ottantanove, cui spianò la strada
La critica. Dobbiamo esser ben grati
Agli enciclopedisti e a tutti quanti
I critici d'allora. I pregiudizi
Sotto i lor colpi caddero e le mille

==>SEGUE
— Ahimè — disse Baldad — mio Patriarca,
Hai perduto le staffe e vai cantando
In metro sciocco le sciocchezze altrui!
Ma se nell'arte fé' mediocre prova
La critica, tu sai come si debba
A lei della scienza ogni progresso.
Tu sai quali conquiste a noi concesse
Su l'inerte natura. Oh medicina,
Fin dove non giungesti ? A te la palma
Del progredir fia data. E non stupisci,
Santo Giobbe, in veder quanta grandezza
Oggi la salutare arte raggiunse?

- Grazie, — riprese Giobbe — oh, tante grazie
A l'arte salutar! Pria che da Coo
Ippocrate scrivesse i suoi trattati,
Tutti stavan più sani. Or son passate
Ventitré giuste centinaia d'anni,
E i medici guarir non sanno ancora
Una pipìta o un mal di denti. È vero
Che i bacilli trovar nel sangue umano
Da la malaria guasto, e i vibrioni.
Le cellule minute e il protoplasma:
Ma come al tempo di Galen si crepa.

Che importa a noi se un magistero industro
Di combinate lenti e di specchietti
Ingrandisce ogni cosa e ci rivela
Di che mali moriam? Meglio sarebbe
Le malattie guarir che andar cercando
Le parvenze del mal nel ventre ai morti.
O Mantegazza, igienico maestro,
Lirico de la scienza, a che ti giova
I crani misurar, saper di quanti
Millimetri il tuo naso d'europeo
È d'un naso zulù più stretto o lungo,
Mentre se ti tormenta un callo al piede
Tu non lo puoi guarir? Che importa i cani
Vivi sparar se se ne impara solo
Quanto l'odio è mortal de le beghine
Fiorentine ed inglesi, a cui le rughe
Più non consenton dei lacchè l'amore ?

E pur l'umana asinità di mille
Academie fa pompia, ove si sdraia
La birberia volgar de'ciarlatani.
La poesia che agl'istrioni è madre
Benigna tanto, vergognossi pure

==>SEGUE
VOCE DAI LICEI

S'oscura Ausonia il tuo cielo, ed il mite
Raggio del tuo bel sole;
Cessa l'Autunno d'indorar la vite,
L'april non ha viole.

La nebbia o la malaria ornai t'ingombra
Dai faggi agli aranceti,
Ma noi perduti nel fango e nell'ombra
Siamo tutti poeti.

E chi al mattino cantò : « Benedetto
Sia Cristo in Sacramento! »
Dopo pranzo declama: « A me un berretto
Frigio, ch'oggi mi sento

Di rinnovare il popolo latino
E Bruto sottomano :
Ira dateci e canti e molto vino...
Viva il mondo pagano ! »

Un altro canta: « Poi che il Padre Eterno
M'ha negato un milione,
Cantiam l'orgie dell'utero materno,
Le ragazze, il lenone,

E il vin elio non si beve e le marchese
Che si finge d'amare.
La noia femminil che segna il mese....
Cantiam pur di cantare. »

« Ecco — vocia la turba — ecco di fronte
L'ideal col reale !
Su, fuori i lumi, abbasso Senofonte,
E il corso liceale! »

Satto gli occhiali dell'Arcadia mite
Sorridono i vecchietti.
Viva l'antonomasia ed il sorite,
Zefiro e i ruscelletti.

==>SEGUE
E solo in lui trovasi
La santa pienezza
Dei dogmi cattolici
Derisi dal Trezza.
Al mondo ed a Satana
Che sacre pedate
Disferra l'abate!

Tornate a Don Giacomo,
Ragazzi sciupati,
E sotto la ferula
Sarete beati.
Si vive lietissimi
La vita dei ciuchi
Facendosi eunuchi.

Sembra che parli lui, con quei senari
Saltellanti, affannosi ed antipatici!
II Rizzi almeno scrive meglio, e salvo
Quella sdolcinatura manzoniana
Che affligge tutti i fedeli seguaci
Del gran Lombardo, lavora i sonetti
Per bene. Nocque a lui chiudersi stretto
In una scuola senza luce ed aria,
Che se fortuna gli avesse concesso
Pari all'animo i doni, egli sarebbe
Forse primo tra i primi. Invece appena
Produce pochi sonetti in un anno,
Caro a chi lo conosce da vicino.
Satirizzato a torto da chi vide,
« Come falso veder bestia quand'ombra, »
Un nemico implacabile nel mite
Suo genio. Ascolta un suo sonetto inedito.

colombelle bianche come neve
Che vi posate sovra il tetto mio,
Pure siccome gli angeli di Dio
della Scuola Superior le allieve,

Bianche colombe, deh, non vi sia greve
Far pienamente pago il mio desio
Ed a me rivelar qual culto pio
A questa vostra purità si deve.

Deh, colombelle mie, perchè tubate
Rincorrendovi a coppie sovra i tetti?
Per carità, per carità, non fate !

Basta, basta, lascivi animaletti!
Basta, colombe!... Voi siete passate
Di certo sul giardini dello Stecchetti.


Da l'eriche vestiti, un soffio passa
Come fremito d'ala. Oh, siete voi
Antichi spirti che tornate al mondo
A veder l'opre de' nepoti ? È forse
Quest'aura mossa dal mite fantasma
Del Mantovano, ovver la bianca toga
Passa d'Orazio epicureo pei cupi
Vomitori, cercando il podio sacro
Dove le sacre Vergini di Vesta
Sedean ne' veli avvolte? Oh non vedeste.
Ombre divine, per l'arena urlando
Saltar le tigri e sbranar de' cristiani
Le carni palpitanti ! Oh non vedeste,
Voi morti al tempo del divino Augusto,
Germogliar da quel sangue un età nova
E la nostra viltà! Siam Galilei
Dove voi foste cittadin Romani,
Soffrire e perdonar la nova legge
Ci comanda. Di là dal biondo fiume
Non vedete salir fino alle stelle
Il cacume d'un tempio? Il novo Dio
Ivi d'oro e di preci un culto accoglie,
Il novo Dio che rovesciò gli altari
Degl'indigeti Numi! A l'ombra nera
Del tempio immenso, fabbrica gl'inganni
E tesse i lacci ai malaccorti un cupo
Sacerdote, che d'oro avido, sogna
La tiara infame ed il cruento regno
De' Medici e de' Borgia. Un dì, riscossa
Questa Italia dal sonno, al capo imbelle
Del suo predecessor levò la mano,
Gli strappò la corona e gliela infranse
Tra gli occhi. Da quel dì la lunga guerra
Divampò più feroce e alla vendetta
Nostra mancan omai pur troppo i forti.
E pochi sono ad animar le schiere
Gli aspettati Tirtei. Veglia il nemico
Dal Valicano e noi lenti in Senato
Sofistichiam quando Sagunto cade.
O poeti di Roma, il vostro carme
Dov'è? Chi mai può de le glorie antiche
Vantarsi erede? Tra i ruderi immani
Del pauroso Colosseo, la notte
Passan l'ombre de' grandi e de' poeti,
Mentre a vergogna nostra a pie del clivo
Capitolin, gonfiando la zampogna,
Ballano intorno e cantano i ciociari.

Chi dunque, là dove il Manzoni sciolse
Gl'inni eterni, redo dal gran poeta
Una sacra scintilla ? Io ti nomai
Già il Massarani e il Rizzi e il feci a torto,
Poiché ciascun di lor se si ricrea
Talvolta a tesser versi o bene o male,
Non professa quell'arte, o sol la tiene
Qual passatempo cui recar non giova
D'ogni possa vital lo sforzo intero.
Già il Baravalle fu, valido arnese
Da fronteggiar tedeschi, ornai dal tempo
Fatto invecchiato e inutil tronco. Un giorno
Si provò l'Arnaboldi e il tepidetto
Carme agghiacciossi ne l'indifferente
Orecchio dì pochissimi. Ricorda
Alcuno forse le romanze antiche
Scritte nel gusto del tempo che Berta
Filava, in cui fu Carcano maestro,
Ei che tradusse più che non intese?
Oh, le romanze brodose e sciapite
Del beato Cantù, chi le ricorda?
E pur cedendo a la malìa di questi
Vecchi orpelli, cercò nel Medio Evo
E ne' fantasmi con tanto di barba,
Anche Boito la fama! Antri Abduani
Romantici ancor siete, e il gran Parini
Invan cantò, dove traduce ancora
E traduce, traduce e ritraduce
Il frigido Maffei ; dove pur tenta
Rammodernarsi il Betteloni ! Oblia
L'antica gloria, i benedetti giorni
Quando bandivi il verbo, oblia, Milano,
I romantici tuoi, morti cui bene
Non furon chiusi gli occhi, e tornerai
La città dei poeti e dell'ingegno!

E più colpevol se', tarda Milano,
Che per l'influsso tuo Torino ancora
In romantiche fole bamboleggia.
De le sue ciarle improvvisate ancora
L'assorda il buon Regaldi, a cui natura
Florida die la gioventù del corpo
Altre volte, non mai quella dell'estro.
Solo vi tenta Corradino alzarsi
Ad altri cieli, ma sovrano regna
A pie de l'Alpi col Giacosa, il vecchio
Tempo de' trovatori e dei baroni.




GIOBBE
SERENA CONCEZIONE
DI
MARCO BALOSSARDI

OLINDO GUERRINI
Di Marenco e Giacosa ora è lodato allievo,
Conosciuto col caro nome di Medio Evo.

Così di nenie e di lattiginosi
Idilli è pieno il suol cbe già sonava
De' ferrei carmi tuoi, forte astigiano !
Dove son, dove son gli eredi, i figli
Dell'Alfieri? Chi può ne' risonanti
Patriottici rebus del Bertoldi
Trovar la rude, ma virile impronta
De' tuoi geni, o Piemonte? Ai pochi sciolti
Del profumato ambasciator che l'arte,
Le dame e la politica, del pari,
A Parigi studiava e a Pietroburgo,
Ricorrer t'è mestieri. Almen que' pochi
Versi potranno sollevarti dalla
Profluvie sterminata onde ti coprono
Due generazion di Silorata!
Ah, che d'Alfieri voi non siete i figli,
Ma del muliebre Pellico i nepoti!

Ed ora a voi, toscani e bolognesi,
Intolleranti nella breve chiesa
Da voi mal fabbricata! Invan, profeta
Dell'irritabil Giosuè, il Chiarini
Al barbaro evangel scrive le chiose,
Che il novo Giosuè non ferma il sole.
O che? Lungi dall'Arno, ovver dal Reno,
Più non si fanno versi giusti? forse
L'arte di piluccar dieresi e sdruccioli
È privativa vostra, o cacciatori
Dì versi zoppi? E pur questo poema
Vi potrebbe insegnar che non è vero.

Eccoti, o gran Stecchetti, coi bugiardi
Tuoi vizi, imitazion d'imitazione.
Che devi la tua fama a un falso morto.
Non è verismo il tuo, ma vitupero.

Tu nelle carni marce e sanguinanti,
Fingendoti vampiro, affondi l'ugna
E ti compiaci de' solinghi amanti
Descriver tutta la nascosta pugna.

Celebrar le baldracche ed i birbanti
Alla tua sporca Musa non ripugna,
E Dio bestemmi e fai le fiche ai santi
Pien di birra e di vin come una spugna.

==>SEGUE
Ti fingi virtuoso e ti presumi
Che del pubblico Tocchio temerario
Ad indagar non giunga i tuoi costumi,

E velando col tuo riso bonario
L'avidità per cui tu ti consumi,
Cerchi di diventar bibliotecario.

Passiam, turando le narici.
O dolce
Cantator di romanze e laudatore
Di prime donne, cantami Panzacchi,
Cantami, deh, la tua miglior romanza.

Quando le pioggie di novembre e i venti
Batteano ai vetri del tuo ostel romito,
Che mai dicevi alle foglie cadenti
Dai platani del parco intisichito?
Coll'animo tremante ed angosciato.
Pensavi al nostro amore sfortunato?
pur, soffusa di gentil rossore.
Pensavi al nostro sventurato amore ?

Noi so; ma certo la tua cara voce,
Irresistibilmente lusinghiera,
A me pel cielo tornava veloce
Come un notturno di Chopin, leggera: .
E susurrava: « II parco mio negletto
Getta la spoglia ed io non muto affetto;
Il parco verde le foglie ha perduto,
Ma il tempo può mutar, ch'io non mi muto. »

Come l'imitator di tutti quanti,
Il piccolo Milelli, anche codesti
Non imitò? Toscani e bolognesi,
Passò la vostra primavera, e stucchi
Siamo de' vostri velenosi fiori.
Tutti cadrete nell'oblio che copre
I clamori d'un giorno. Un sol di voi
Vivrà. Vivrà colui che non stimate
Giungervi alla caviglia; il più modesto,
II migliore tra voi. Vivrà il Fucini.

Sophar timidamente il magno sfogo
Interruppe di Giobbe, e a bassa voce
— E Gigi Alberti? — domandò. La bocca
Per un metro quadrato il Patriarca
Spalancò sgangherata e forte rise.

==>SEGUE
Incoraggiato allor Sophar riprese:
— E al mezzodì non v'ha poeta alcuno? —
— Molti: troppi! — rispose il Patriarca —
Lizio Bruno, i Linguiti e l'Ardissone,
E mille e mille... Ma scompaion tutti
Come la nebbia innanzi al Rapisardi.

— Ah no — Sophar riprese — Ah no, paziente
Giobbe, non mi seccare un'altra volta
Con questo eterno Rapisardi! In bocca
L'hai sempre e contro lui sempre ti scagli!
Cambia discorso e lascia de' poeti
La filatessa in pace ! Agli eruditi,
Agli storici, volgi il tuo pensiero.
Ai filologi, a quei che dell'inane
Vanto de' carmi non sanno che farsi.
La lingua tua maledica, su loro
Esercita, gran Giobbe. Udir ci è grato.

— E ben, Sophar, tu fai — rispose Giobbe
E ben, Sophar, tu fai
Movendomi a parlare,
Che cose grandi e rare
Poche, ma molte piccole saprai.

Molti babbi ha la Storia,
Come spesso han le figlie
De le belle signore. Il babbo grande,
Il babbo sommo, l'avo forse, è certo
Quel Cesare Cantù che t'ho già detto.

Cara quella badiale
Sua Storia Universale,
Dove gli error formicolan più spessi
Che le formiche dentro al formicaio!
E benedetta poi
La bella Cronistoria che fa il paio,
Dove abbondan calunnie e vituperi
A questa patria nostra
Dov'ei beve pacifico e manduca
Gorgogliando gli evviva all'Arciduca!
Ma, se Dio vuol, vedremo
L'istoriografo santo del Concilio
A magno nostro onore
Diventar Senatore.

O meglio, meglio assai
Il buon Padre Marchese

==>SEGUE
Che glorifica i suoi domenicani,
O il matto Leonetti
Che dei Borgia tentò l'apologia!
Meglio le astruserie degli hegeliani
Cucinate nei facili volumi
Dell'illustre Marselli,
O le ingenuità bipedi e implumi
Dell'allegro Massari,
Storico de' più nuovi e de' più rari.

Un giorno io mi sedea
Ne' posti di platea
Del teatro Corea,
Quando al suon de le trombe alto stuonanti
Un atleta comparve. A quel teatro
L'equestre compagnia del Suhr ci dava
Spettacoli curiosi e guadagnava.

Mostrò l'atleta in giro
I muscoli superbi e come piuma
Colla destra levò, tesa, parecchi
Enormi pesi. Sollevò del Broglio
La storia; sollevò, ma con fatica,
Del cruschevol Del Lungo il magno Dino
E del Raina le Fonti dell'Orlando,
Sollevò pur, sudando,
I libri del Carutti,
Del Vallauri il latino,

Del veneto Fulin i documenti.
Provò, con molti stenti,
Di levar quelli poi del Bertolotti
E quei dell' Ademollo,
Ma, sciagurato ! si provò pur troppo
D'alzar da terra un dito
Di Sbarbaro un volume e fu servito.
Restò schiacciato come una frittata
E all'ospedal morì nella giornata.

Scende ai lettori stanchi
Sovra 'l petto com'incubo notturno
Lo zibaldon di Nicomede Bianchi,
Ed i lettori casti
Quando voglion dormir per non peccare,
Leggono i libri frigidi del Guasti.
A stento poi riescon a destarsi
Col Villari e col Berti,
Galvanizzati un po' dal Maramaldo

==>SEGUE
Dell' Alvisi, o dal caldo
Vivo dell'isteria dell' Imbriani
Che brucia sino all'osso
Il pastor Scartazzini ed il Giuliani.

Dantofìli, dantisti e chiosatori,
Ben avete la faccia di granito
A spararle sì grosse
Ed a far parlar Dante a vostro modo !
Stanco di vostra ciarla
Udite il Sommo che così vi parla.

Sia maledetto il dì che posi mano
A frugar dentro le segrete cose
Per cavarne il poema sovrumano !

Se il mondo crede a le bugiarde chiose
Che una turba di poveri menanti
Stende, altercando in tisicuzze prose,

Mai più ritornerà ne' palpitanti
Petti l'antico italico vigore
Che vive intero ne' miei cento canti.

Fiorenza, madre di ben poco amore.
Me un giorno spinse a mendicar la vita
Fuori dal beli' ovil, qual traditore,

Né dopo tanti secoli contrita
Farmi l'ingrata, poi che l'insolenza
D'un sacerdote non è in lei punita.

Ostenta al mondo l'ottima scienza
Del mio poema e ne rafferma il testo
Sì che a me negheria varia sentenza.

Era il poema mio serbato a questo
Che lo frugasse! Terrazzi e Giuliani,
Vano il secondo ed il primo indigesto.

Né men pesa colui che tra i Germani,
Eretico pastor, superbo sfida
I dardi licambei de l'Imbriani;

De l'Imbriani che contento snida
Mille diatribe sul mio nascimento
E vaneggia, e cavilla, e sogna, e grida,

Sciupando l'irritabile talento
A por le corna sovra il capo mio.
Ed a vestirmi d'irta barba il mento,

==>SEGUE
Tal che Boccaccio ed il Villani ed io
E il Pucci e il cardinale del Poggetto
Facciam ne le sue carte un buscherìo !

Sia tristo il gondolier che fé' mal getto
Per me del remo, e il vecchio modanese
Col suo drama corretto e ricorretto.

Sia tristo l'istrione forlivese
Che mi fa scioccamente delirare
In una lingua di nessun paese,

E favoleggia d'un turpe giullare
Che la mia figlia insulta e me grottesco
Apparir fa nel suo matto cantare.

Sia tristo il gregge elvetico, tedesco,
Russo, spagnuolo, francese e krumiro.
Croato, turco, svedese e moresco...

Ah, s'io li veggo dal superno giro
Costor, domando un accidente a Dio
E gli faccio la punta e glielo tiro.

Razza di scellerati, armento rio
Gonfio di mille impertinenti fole.
Che sì, che sì, ne pagherete il fio;

E il Mariotti anche lui, che nella mole
Del mio poema numera con cura
Le virgole, gli accenti e le parole!

Picchierò poi sovra la testa dura
Del catanese che l'onor mi scema
Mostrandomi di stupido in figura,

E trulla in nome mio dentro un poema
Trogolo enorme ripieno di bile,
Di malva, di papavero e di crema.

E punirò la chiaccliiera scurrile
Di chi mi fa cantar, come sentite,
Peggio d'un mascalzon rustico e vile.

Poi quando tante chiose scimunite
Di tante razze e di tante favelle
Avrò veduto tutte incenerite,

Tornerò in cielo a riveder le stelle.
Così mi par che l'anima sdegnosa
Favelli, divampando
Contro i commentator che l'han tradito,
Gli storici frattanto al gran lavoro
Di contraddirsi sempre tra di loro
Vanno pur faticando.
Spingono su per l'erta
Di Sisifo lo scoglio a le meschine
Forze troppo gran peso. A la fatica
Vedi il vecchio Ricotti,
L'anglo Cavalcaselle ed il Franchetti,
Vannucci il venerando e Comparetti.
Sudano il Gozzadini,
L'Amari, il Bertolini
E lo prefetto Zini.

Se la storia civil è un gran pasticcio,
Dite che sarà poi la letteraria
Messa tutta per aria
Dall'Ascoli glottologo giudeo,
Dal semita d'Ancona e dal Biondelli
Cattolico romano, e dal Malfatti
Che poco crede, e dal Gorresio prete,
Dai dogmi vecchi e dai sogni novelli?
E dite innanzi tutto
In che lingua parliamo ?
Ha ragione il Gelmetti od il Morandi,
il D'Ovidio ha ragione?
S'abbaruffano i dotti per sapere
Come parlar dobbiamo,
E intanto son sei secoli precisi
Che si parla italiano in barba ai dotti,
E si parla benone.

Suda il Bartoli intanto e suda il mite
Canello, e il solitario
Zumbini, e Caix e Graf; sudano tutti,
Teza, Monaci, Occioni,
Minghetti, Fornaciari ed altri cento
Tal che la testa agli studiosi gira
Come un mulino a vento.
Ogni scrittorellastro
Impasta un polpetton come i De Castro
E sopra tutti veglia
Il fiero difensor della morale,
Coi grandi occhi severi,
Il puro Baccio Emanuel Maineri.

==>SEGUE
Ahimè che baraonda
Menan la storia, la filologia,
I critici, i dantisti ed i pedanti I
Riddano tutti quanti
Confusi scapigliati e barcollanti.
Tal che chi guarda un poco da vicino
Ad un veglion ripensa del Quirino,
E, l'occhio al ciel converso.
Dolente grida: -- oh quanto tempo perso ! --

Né l'avvenir migliori a noi prepara
Gl'ingegni, poi che del futuro nostro
Son padroni gli Scavia ed i Parato,
I Berrini, i Mottura e tal maestri
Cui della scola ancor saria bisogno.
Nò d'ingegni men forti educa un sacro
Stuolo la furberia degli Scolopi
Toscani, o il Dazzi, cui la Crusca in seno
Volle pei libri dolciastri e le sciatte
Tavolette pei bimbi, o il padre Ricci,
O l'Alfani, o quel Tigri a cui Selvaggia
Tanti fischi costò. Dal Eigutini
E dal Tortoli copto e dal Cerquetti
Vagliator di parole, e dal Chinazzi
Cattolico, apostolico e romano,
O dal Bagatta o alfin dal Buonazia
Che discepoli avremo? Oh, quante ciarle
Pedagogiche e matte assordan l'aria !
Non studiò Garibaldi agli Scolopi,
Né Dante apprese il verbo a la scoletta
Piena dei vostri metodi minchioni !
Voi ci darete un popolo di donne
Dove il miglior poeta appena giunga
Alla Bonacci-Brunamonti, o appena
Segua la Colombini o la Ferrari,
la Mancini e l'altre poetesse.
Anzi le gonne vinceran le brache
Se non le vincon già nelle novelle
Leggere e brevi dell'Albini, della
Sperani, di Cordelia e di Neera.
Chi più forte scrittor della Serao,
De la Percoto, o della Pigorini
Doman potrà vantarsi ? chi di dolci
Idiotismi toscani i suoi bozzetti
Potrà spalmar come la Siciliani,
dei romanzi giudiziari il nodo
Della Saredo scioglier meglio ? Prima

==>SEGUE
In archeologia la Lovatelli
Doman sarà, come sarà la prima
Scrittrice nostra la Colombi. A questo
I pedagoghi alfin ci condurranno.
Al teatro ! al teatro ! Ivi una schiera
Di grandi segue Paolo Ferrari,
L'Aristofane nostro, a cui non ride
Più la fortuna giovenil de' primi
Suoi passi, poi che le serene arguzie
Per le tesi lasciò. Torelli tenta
Riafferrar la fronda benedetta
Dell'alloro, negato dopo tante
Speranze. Un popol di fantasmi sciocchi
Che persona non son, Marenco evoca,
Amaramente ricordando i cari
Tempi della Celeste, in cui la plebe
Dal facile loggion si sdilinquiva.
Chiuso nel suo Castel del Medio Evo
Cesellando Giacosa i martelliani,
Stanca la mano industre, ora che in pace
Ci lascian finalmente i proverbisti
Incipriati, De Renzis, Martini,
Che con due soli personaggi un atto
Lungo facean : il Conte e la Marchesa.
Chiaves riposa, Costetti riposa.
Fortis riposa, Pietracqua riposa,
E Giacometti per forza riposa.
Se il Muratori tepido lavora,
Bersezio, spento l'inno del trionfo,
Più non ne azzecca e diluisce in lunghi
Romanzi, ahi troppo lunghi! il bell'ingegno.
Il Carrera sonnecchia e Gigi Alberti
Fa il polemista letterario. Stanco
Il Castelvecchio posa e il Castelnovo
Ai proverbi si ferma. Or chi ci resta ?
Chi degnamente di Plauto ai nepoti
Il miel porge dell'arte e non si caccia
Per altre vie, tentando altri ideali ?
Due solo : il Ferravilla ed il Barbieri.
Il resto dorme perchè vuol dormire ;
Ma nei nostri teatri anche si dorme. —
Sophar, a bocca spalancata, stava
Ascoltando le chiacchere di Giobbe
Pazientemente, allor cbe a questo punto
Dalla bile fu vinto ed interruppe.
— Basta, basta, pettegolo maligno !
Non ti par tempo di tacer? Dal nome
Mio va fregiato questo quarto canto
Del poema. Dovrei parlar sol io.
Esser protagonista, orator solo,
E ancor non m'hai lasciato aprir la bocca,
Che maledetta sia la levatrice
Che un dì lo scilinguagnolo ti ruppe !
Lasciami favellar che ho tante belle
Cose da dire. —
— Parla pur — rispose
Il Patriarca — parla. Io non avrei
Nulla da dirti più, fuor che talune
Cosuccie intorno a parecchi scrittori.
Ma non te lo dirò. Vorrei parlarti
Di tutti quanti i nostri prosatori
E mettere in un mazzo coi migliori
I mediocri, i piccini e fin gli scarti ;
Ma dissi mal di tanti,
Che non mi salverian neppur i santi.

Il De Amicis che fa? Più s'attendea
Da lui, tenero sì, ma bravo almeno.
Dunque s'addormentò lieto e sereno
Nel dolce nido che si componea,
O tace pel rimorso
D'aver aperto ai bozzettisti il corso?

Che dì beato, non è vero, Edmondo ?
Che dì fu quello, allor che ti cantammo
II trionfal peana e ti levammo
Su gli scudi sonanti, in faccia al mondo
Primo tra i gloriosi
Nostri campioni. Ed or perchè riposi ?

Guarda il pali De Gnbernatis, come
Non scoraggiato da fatiche immani,
Non spaventato da latrar di cani,
Manda al futuro, lavorando, il nome ;
Esempio agli scrittori
Nostri che russan sui facili allori.

Lavorate, perdio, ma lavorate,
Boito (Camillo), Fortis, Capuana
Che un libro noi vogliam per settimana,
Ed i poeti d'imitar tentate

==>SEGUE
Che per nostro malanno
Almeno figlian un poema all'anno.

O Medoro Savini ! Almen ci davi,
A'tempi vecchi, un tuo romanzo al mese
E sui giornali del mio bel paese
Appendici parecchie insiem stampavi.
Eri tu dunque il solo
Scrittor fecondo in questo nostro suolo?

Ma ci resta il Barrili, anch'ei fecondo
Scrittor di libri se ce n'è mai stato,
E il Petruccelli che non ha cessato,
Benigno Giove, di piover sul mondo
Articoli, riviste,
Storie e romanzi in lingue mai più viste.

Deh, Jorick, segui ancora a farci ridere,
E tu Sbarbaro caro ad annoiarci!
Jack la Bolina, seguita a portarci
Sovra quel mar che non possiam conquidere,
E tu buon Filopanti
Levaci ancora sulle stelle erranti.

Col De Sanctis partiam pe' cento mondi
Che in ogni scritto suo nuovi discopre :
Studiam col Curci le terribil opre
Ch'egli ci svela de' zelanti immondi,
Mentre il Filippi adesca
Le platee colla musica tedesca.

E reverenti salutìam la vera
La viva gloria di Catania, il Verga,
In cui l'ingegno più virile alberga
Di tutta questa Italia romanziera.
Non può la mia malizia
Altro mordere in lui che la pigrizia.

I tre C salutiamo. Il Castelnuovo,
Caccianiga, Capranica e.... vediamo,
Chi più ci resta?... Non dimentichiamo
La Serao che in memoria ancor mi trovo,
E poi.... pensiamo! e poi
Io non ne trovo più. Cercate voi.

E si conclude ? Adagio : andìam coi guanti
Per non offender le riputazioni.
Si conclude che pochi sono i buoni
E molti, ahimè ! moltissimi i calanti.
Leggiam poco, diranno;
Ma quanti son che leggere si fanno?


—Ahi — Sophar disse — Perchè Dio le membra
Tutte t'imputridì fuor che la lingua ?
Che figura farò presso i lettori
Che s'aspettan da me sì belle cose
E tu sempre mi togli la parola ?
Sono critico anch'io, giudico e mando
Anch'io secondo avvinghio con la coda.
Or ti risponderò. Tutte le sciocche
Impertinenze ricacciarti in gola
Facile mi sarà. Sai, Patriarca,
Ch'io sono illetterato e me ne vanto,
Ma son critico pur de' più stimati,
Ed in cento giornali la mia prosa
Detta la legge. Ti farò un discorso
In sei parti diviso, e nella prima
Ti mostrerò..,.
Giobbe le spalle scosse,
E taci — disse — Il canto è troppo lungo !




EPILOGO



IN TERRA.




Dominus autem benedixit novissimìs Job, magis quam principio eius.
JOB. XLII. 12.
Et aperuit puteum abyssi.
Apoc. IX. 2.
Vestitevi di rose, aride arene
De l'ardente Caldea! L'ira d'inferno
Lascia la carne de l'orante Giobbe.

Eliphaz Temanita e l'adirato
Sophar con Baldad tornano piangendo
Ad Hus, curiosa de la gran novella.
Col lungo tedio de le discussioni
Politico-morali-letterarie
E col terror de la vicina morte
Non fur possenti a sollevar la candida,
Contro il sommo fattore, alma di Giobbe.
Vestitevi di rose, aride arene
De l'ardente Caldea, che la bestemmia
Mai del tentato Patriarca al labbro
Non è salita, ed il Signor perdona.

Quando il Guerzoni che vagava ai prati
Solingamente, vide i dolorosi
Filosofi tornar, capì a l'istante
Che si trattava d'un rinascimento,
E accorse tosto a darne avviso al Sindaco
Che al Cardinale lo comunicò. —
Intanto Iddio da le superne sfere,
Avuto un telegramma dal Prefetto
Che l'avvisava de la gran vittoria,
Lieto saltò dal letto e ordinò tosto
A le fanfare di suonar la veglia.

Balzano in piedi i santi ed i beati
Sonoramente sbadigliando, e corrono
Tosto a lavarsi ne la fonte gli occhi.
Fatta così una rapida teletta,
Tranquilli posan su le molle nubi
Al divin verbo dolcemente attenti.
Il Padre Eterno gongolò contento,
Sputò due volte sopra un piatto antico
Di mastro Giorgio che costò al Corona
Molte ricerche, e dopo aver pregato
San Pietro a non fischiarlo con le chiavi
E San Tomaso a credergli in parola,
La destra alzando incominciò a parlare.

Poichè a l'alto mio seggio un audace
Scagliò incontro un insulto pagano
Da le plaghe del facile piano
Dove il popolo Etrusco fiorì,
Dall' Averno coll'ascia e la face
Levò il braccio l'eterno Nemico

==>SEGUE
E, tornato con gli anni impudico,
A insultarmi nel cielo salì.

Non giovò che tentassi coi canti
D'un poema dettato in suo onore
D'ammansar quel terribile core
Che Lombroso può solo scusar,
Non giovò che il mio buon Filopanti
S'agitasse col Dio liberale....
Ahi! lo Spirito iniquo del male
Non giungemmo nessuno a calmar.

Dalle lande cui preme Boote,
Dal superbo cervello del mondo,
E dal suolo di Roma ingiocondo
Già si vede il suo truce baglior.
Dove passa la terra si scuote,
Trema il cielo ed il pelago rugge,
Ei solleva, sprofonda, distrugge,
Seminando la morte e il terror.

Ma più certa dei premi divini
Pur non cede l'umana coscienza
E più fida alla nostra clemenza
S'inginocchia nei giorni del mal....
E per questo dai cieli azzurrini
Come pioggia di candide rose,
Scenderà sovra l'alme pietose
Il conforto d'un bene immortai.

Non prevalgon le porte d'inferno,
E il Nemico lo vide e il conobbe
Quando il corpo e gli averi di Giobbe
Vanamente percosse e guastò.
Che il paziente, fidato all'Eterno,
Sollevando il suo cor dalla terra
Superata ha l'orribile guerra....
Questa bella notizia vi do.

Come fan l'acque d'un laghetto, quando
È in lor gittata una pietruzza, in cerchi
Luminosi da Dio mossero gli Angeli
E girando ne l'iride divino
Con dolci note presero a cantare.
Il Padre Eterno con San Pietro intanto
Fecero un vaglia di dugentomila
Lire per Giobbe, che in quell'ora appunto
Rinovellato di novella carne,
Sano, ringiovanito e rimbiondito,

==>SEGUE
Scendea trinciando capriole e salti,
Per miracol di Dio, dal suo letame.
I due primi che a lui mossero incontro
Fui il poeta e il giornalista, i servi
Devoti ed umilissimi di Giobbe
Quando fortuna gli arrideva. — Il clero
Indi seguiva e in mezzo il cardinale
Gastaldi, a cui tenean de la pianeta
Alte le falde due conservatori.
Dopo di lui, lunghissima di frati
Di suore, d'educande e di beghine
Salmodiava variopinta schiera.
I consiglieri del comune d'Hus
Venivan poi col sindaco Peruzzi,
Che, con applauso unanime, a la nuova
Città il felice di Firenze stato
Infaticabilmente procurava.
Ma per quanto lavori il buon lettore
Di fantasia, né pure un quarto forse
Può imaginar del popolo festante
Che per le vie, pei floridi balconi,
Per le finestre e i tetti e i campanili,
A la sferza del sol volto a l'occaso,
Il ritorno attendea del Patriarca. —
Un colpo di cannone e al ciel turchino
L'allegro suon de le campane sciolto
Nunzio che Giobbe dentro a la cittade
Entrava. — Come ne l'estate ondeggia
Solenne al vento il già maturo grano,
La folla accorsa s'agitò, di gaudio
Levando al cielo un risonante grido.
Indi (trascorso lentamente Giobbe
Sotto una pioggia continua di fiori)
Si riversò cantando per le strade
E per le piazze, ove più bande, al lume
Di numerosi lampadari elettrici,
Care tedesche melodie mutavano.
Intanto Giobbe de la sua pazienza
Coglieva i frutti a pranzo del Prefetto,
Dal quale apprese che la sua consorte
Era morta di tabe a l'ospedale.
Ei non ne pianse : se ogni gaudio Iddio
Gli avea serbato in quel giorno felice,
La fine de la trista a lui dal Cielo
Era mandata certamente a bene.

Il caso, de'più strani e de' più rari,
Fece tosto moltissimo rumore
Ed in tutti i giornali letterari
Si lesser molti articoli ad onore
Del Patriarca, cui davano il vanto
Di saggio, di magnifico e di santo.

Primo tra gli altri lo cantò il Fanfulla
Domenicale in un'alcaica adorna,
E tutti quei che non capiron nulla
Si credetter tenuti a dirne corna,
Tal che il povero foglio vilipeso
Calò di fama ed aumentò di peso.

Ma tardò poco a superar gl'intoppi
Con le riviste sue piene di pratica,
Dove conta col dito i versi zoppi
E gli errori di lingua e di grammatica,
E dove espone i giovani al dileggio
Di tutti i calvi che scrivono peggio.

Al Fanfulla seguì l'Illustrazione
Con quattro schizzi grandi e due schizzetti,
E in mezzo, una bellissima incisione
Fatta sopra un disegno del Michetti
Che vi mostrava sopra un foglio intero
Lo sterquilinio copiato dal vero.

E il Supplemento della Piemontese
Sostenne a spada tratta e spron battuto
Che Giobbe era un baron saggio e cortese
Dal più bel Medio Evo a noi venuto;
Ma la Farfalla di Milano invece,
Bohème il disse della miglior spece.

Classico il disse il Preludio d'Ancona,
E la Cronaca immensa Bizantina
Paragonollo in una colonnona
Alla Nerina ed alla Teresina,
Mentre il Costanzo nella sua Fiammetta
Gli dedicò di versi una polpetta.

L''Ateneo Romagnolo sfoderò
Mezzo quaderno di volgarità
Adulatrici, ed in ballo tirò
La donna, l'ideal, l'umanità,
E finalmente il Direttor si diè
Del sublime poeta da per sé.

==>SEGUE
Lo cantò poi benissimo l'Alceo,
Il Faust gli dedicò quasi un opuscolo,
Lo laudar la Libellula, il Torneo,
Il Prometeo, la Donna ed il Crepuscolo,
Il Fanfani, il Borghini ed altrettali
Bellissimi ed incogniti giornali.

Lo stesso Don Chisciotte di Catania
Per cui soltanto Rapisardi è Dio,
Ad un tratto fu preso dalla smania
Di lodar Giobbe e fece un buscherìo
E un fracasso così straordinari.
Che giunse ad esitar quattro esemplari.

E l'Opinion del Giovedì coll'aria
Grave che le sta ben, si prese gioco
Della fredda Gazzetta letteraria
Di Firenze, che avea lodato poco ;
E la riprese come si conviene;
Ma il Fieramosca la difese bene.

Tutti insomma i giornali letterari
Furon pieni d'elogi e di sonetti,
Dall'organ magno del Protonotari
Giù, giù, fino all'anodino Barellii ;
E nel Travaso fin, versi divini
Intonò Tito Livio Cianchettini.

E siccome sbagliar può in cento modi
Anche l'uom meno credulo e più saggio,
Il Patriarca si succhiò le lodi
Come un dovuto e meritato omaggio ;
Ma il fatto sta che ognun l'avea lodato
Per veder di cavarne un abbonato.


Avea dunque il Signor vinto la grande
Scommessa, che nel Prologo leggeste,
Contro al Nemico. Egli scommesso avea,
Se il ricordate ben, che dal devoto
Labbro del Patriarca un solo accento
Bestemmiator, mai non sarebbe uscito,
Per quanto grave nell'aver iattura
Colpisse Giobbe, o le fiorenti carni
Gli torturasse orribilmente. Indarno
Satana lo colpì. Vennero indarno
Gli amici a tormentarlo. Appena, appena
Gli scappò qualche piccolo perdìo,

==>SEGUE
Interiezione non maligna. Fermo
Nella sua fede stette e finalmente
Colla pazienza superò l'orrenda
Ira d'abisso.
Iddio la gran scommessa
Contro il Nemico vinto avea.... Nel cielo
Ed in terra per ciò si facea festa.

Stanco però di quegli allegri canti
E dispettoso de l'altrui fortuna,
Da l'Inferno, scuotendo i fiammeggianti
Vanni, Satàn saltò sopra la luna.
Fisse lo sguardo ne le stelle erranti
Per la volta del ciel tacita e bruna,
E volgendolo giù. verso il profondo,
A pena scorse il piccioletto mondo.

« Folle natura de la schiatta umana
Che l'esistenza di per sé peggiora !
Stolti nati da Dio — disse Satana
Malignamente sogghignando allora —
Se di quassù vedeste la lontana
Vostra microscopissima dimora,
Riconoscendo forse i scerpelloni
Esclamereste : « Come siam buffoni ! »
« E forse (oh sorte ! benché sia già tardi
Per il buon gusto e la letteratura)
Dai poemi di Mario Rapisardi
La società potrebbe andar sicura,
Non vedrebbe così senza riguardi
Intitolarmi una sbrodolatura
Da chi, se la superbia mia conobbe,
Ignora certo l'umiltà di Giobbe. »

Qui tacque e il guardo all'alto ciel rivolto
Un riso diè superbamente altero
Che l'aspetto gli fé' truce e stravolto.
Indi, come colui ch' è in gran pensiero
Tutto ad un tratto ottenebrossi in volto,
Aperse l'ali e s'innalzò leggiero
Ver la plaga gentil del Paradiso
Rapidissimamente. — Avea deciso.

Nel tempo che tu leggi due parole
Ei del Dio ladro traversò il pianeta;
Baciò Ciprigna e si scaldò nel sole,
E visto Marte da la faccia inquieta
E Giove con le sue bianche figliuole,

==>SEGUE
La cerchiata guardò massa incompleta
Del Dio che instrusse le romane squadre.
Si mangiò i figli e smascolò suo padre.

Giunto in tal modo al tempio eccelso e pio,
Somigliante a una gran coppa di vetro,
Sorpreso a tanto femminil vocìo
Pensò più volte di tornare indietro:
Ma risoluto di parlar con Dio
Bussò alla porta e comparì San Pietro,
Il quale, intimorito a la feroce
Vista, si fece il segno della croce.

Satana rise e stesagli la mano
Domandò tosto: « È in casa il Padre Eterno? »
Ripreso fiato il santo guardiano,
Mandò a cercarlo per un subalterno,
Tanto per avvisarlo sottomano
Ch'era venuto il sire dell'Inferno
E che pria di venire in parlatorio
S'armasse d'acqua santa e d'aspersorio.

Quando, temente dì novel martoro,
Smorto il messaggio traversò le sfere
Piene di lieti cherubini d'oro
E d'odorose nuvole leggiere,
S'agitò tutto il santo concistoro
E gli si strinse adesso per sapere
Qual tristo caso mai fosse accaduto
Ch'egli era così pallido o abbattuto.

« Ragazzi miei, rispose, stamattina
Quando ci siamo tutti radunati
Allo squillar della tromba divina,
La Somma Verità ci ha canzonati!
Di Lucifero è falsa la ruina
E i trionfi di Dio sono inventati:
Il fatto è fatto; il Diavolo è a le porte
Ed hanno le bugie le gambe corte. »

A le parole de l'ambasciatore
Fu tanta la sorpresa e lo sgomento
Onde agghiacciossi agli altri spirti il core,
Che il Paradiso fu tutto un lamento.
Non può paragonarsi un tal rumore
Che un'altra volta al nostro Parlamento
Quando, concluso che concluderanno,
S'alzano i deputati e se ne vanno.

==>SEGUE
Il Padre Eterno che su l'aureo trono
Leggendo il Giobbe s'era addormentato,
Scosso da quell'orribile frastuono
Balzando in piedi come trasognato,
Si fregò gli occhi ed esclamò: « Dio buono,
Perchè tanto rumor? Che cosa è stato?
Forse l'adagio conferman col fatto,
Ballano i sorci quando dorme il gatto? »

Dolente allora il messaggier divino
Gli si accostò con lagrimoso ciglio.
Fatta la smorfia solita e l'inchino
De l'imminente l'avvisò periglio
Che con Satana prevedea vicino;
Gli suggerì di San Pietro il consiglio
D'armarsi d'acqua santa o de la paglia
Su cui morì il prigion da Sinigaglia.

A la dura novella il glorioso
Padre fu per cascar subitamente.
A San Luigi s'appoggiò pensoso
Figgendo gli occhi su la mesta gente.
Ma poi di tanta sua viltà sdegnoso,
Alzando il pugno coraggiosamente,
Sclamò con voce ferma al famigliare:
« È venuto Satàn ? Fatelo entrare. »

Come quando a calmar l'estiva arsura
S'avanza il temporal gravido e lento
E tacita riposa la natura,
Né s'ode voce, ne sospira vento,
A questa decision pronta e sicura
S'acquetarono i santi in un momento;
Però tremanti ne l'incerta attesa
D'un gran perdono o d'una grande offesa.

Satana, avuta la risposta, mosse
Verso il trono di Dio sdegnoso e fiero.
Bench'egli avesse come fiamma rosse
Le pupille e peloso il corpo nero,
Trasaliron le vergini commosse
Al suo robusto portamento altero.
Egli avanzossi e contro al re dei Santi
Queste fiere avventò voci tonanti :

==>SEGUE
Dio del mondo,
Se improvviso
Nel giocondo
Paradiso,
Dal profondo
Del Oocito
Son salito
Senz'invito,

Rassicura
Le tue schiere,
E una dura
Non temere
Disventura.
Già l'Audace
Si compiace
De la pace !

Se a trattare
Vengo franco.
Non pensare
Che sia stanco
Di pugnare,
Che al tuo stuolo
Magricciuolo
Basto io solo,

Ma, o collega,
Per dar posa
A la bega
Vergognosa
Che ci niega
Ogni aita
Ne la vita
Rimbambita,

Lo strumento
De la pace
Ti presento
Con verace
Pentimento,
Ma col patto
Che sia fatto
Tal contratto:

==>SEGUE
Darti in dono
Mi compiaccio
Con Pio nono
Gregoriaccio,
T'abbandono
Quel monello
Del ribello
Don Campello,

Ma tu sire
Con gii squilli
Del Dies ire
I pusilli
Dei punire,
Caccia il mondo
Nel profondo
Finimondo.

Se a trattare
Vengo franco,
Non pensare
Che sia stanco
Di pugnare,
Che al tuo stuolo
Magricciuolo
Basto io solo,

Ma, o collega,
Vo' dar posa
A la bega
Vergognosa
Che ci niega
Ogni aita
Ne la vita
Rimbambita !


Il Maligno così dava promessa
D'eterna pace a Dio, pur che la terra
Fosse distrutta e il giorno del Giudizio
Fosse de la tenzon l'ultimo giorno !
Gli angeli e i santi, i quali a la proposta
Dolcissima di pace a poco a poco
S'eran venuti rallegrando, alfine
Usciro in grida d'entusiasmo.
Troppo,
A certi santi moderati, audace
La domanda parca, né che tal fosse

==>SEGUE
La colpa umana da troncar col fiero
Giudizio estremo. Ma il pensier che dopo
Quel sacrificio, la serena gioia
Del Paradiso dagli avversi spirti
Non verrebbe turbata in sempiterno,
Il moto vinse di pietà che prima
Alcuni petti avea commosso. — Il Sommo
Padre col campanel più volto indarno
Al silenzio chiamò la saltellante
Turba, che tacque solo allor che Sàtana
Fischiò col medio e l'indice fra i denti.
Iddio sorrise a l'atto grazioso,
In piedi alzossi e cominciò a parlare :

Se da le spiagge dove Acheronte
Volge furioso le fosche arene
Tu mi prometti l'audace fronte
Verso le plaghe del ciel serene
Di non alzar;
In questo istante sul mio asinello
Nel basso mondo scendo bel bello
Per giudicar.

Con questo patto l'antico amore
Forse in eterno confermeremo;
Messo da parte l'odio e il rancore
Gli anni in tranquilla trascorreremo
Felicità.
Mettete il basto su'l mio asinello
Che ora nel basso mondo, bel bello
Si calerà.

Tutto d'intorno s'agitò il Concilio
D'una sol voce confermando i detti
Del Padre Eterno, che i quinari snelli
Avea trattati per non star di sotto
A Satana. — Di poi bene imitando
Il podestà di Sinigaglia, al massimo
Dei presepi del ciel cheto avviossi.
A questo punto narra il Vate, come
« Ivi, poiché dì Giosuè la verga,
Del sole il cocchio a mezzo il ciel sostenne,
E impietriti restar di sotto al giogo
I fulminei cavalli, una falange
D'umili sì ma intelligenti onagri
Pasce in greppie d'argento orzi ed avene
Di tal virtù, che nel lor sangue infonde

==>SEGUE
Gaio tripudio e giovinezza eterna.
Non appena sentir sopra la soglia
La presenza del Dio, tutti in un punto
Drizzare i colli ed affilar le orecchie
Lievemente anelando ; e a lui rivolti
Con dolci e riverenti occhi, la voce
Del comando attendean. Videli il Nume
Lucidi e belli e ne gioì ; ma il cenno
Che tutto può, valse a te solo, illustre
Asin di Betelemme, a cui su'l dorso —
Premio dell'opra onde immortal tu vivi —
Crescon due luminose ali, per cui,
Pregio da tutti invidiato, e solo
Da Dio concesso a le beate essenze,
Varchi il cielo senz'orme e l'aer fendi, »
Satana rise pel grottesco aspetto
Del Nume e del somaro. Indi pensoso
Si tacque forse per virtude arcana
Antileggendo quel che il Vate aggiunge:
« Tu presentisti il divin cenno, ed ambe
Le ginocchia piegando, appo la ferma
Con chiovi adamantini aurea predella,
Offeristi umilmente il dorso alato.
Fé' forza il Nume e vi montò ; si attenne
Con ambe mani a le petose orecchie
Del diletto onigrifo; ai ben pasciuti
Fianchi gli strinse le ginocchia inferme,
Gli occhi serrò, diede la voce, e via
Lascia il cielo. » Satàn dischiusi i vanni
Dietro gli venne e in un minuto appena
Scesero insiem su l'Etna fiammeggiante
Dove, de' versi ch'io v'ho detto, ancora
Ripetea l'eco le trullanti voci.

Era il mattino e il sol da le tranquille
Onde dell'Ionio mar salìa, celando
La faccia d'oro tra le nebbie, quasi
Presago dell'orribile sciagura.
Satana allor rivolto a Dio: — M'aspetta,
Sclamò, su questo vertice nevoso
Mentre ch'io scendo pel cratere al fosco
Mio regno a sollevar l'orde seguaci.
Quando sui Monti Rossi e la Ruina
Vedrai di fumo sollevarsi al cielo
Un orrido pennacchio, allor col cenno
Dagli angeli che già calan da l'alto
Invoca il grido mistico ed i sette
Tuoni con la fanfara de la Morte. —
Disse e tuffossi nella Cisternazza.
==>SEGUE

Il Padre Eterno si guardò d'intorno
E quando ascosa fra i vapori scorse
Appena appena la vocal Catania,
Dal divin petto un gran sospiro all'aere
Mandò esclamando: — povero figliolo
(Forse in quest'ora di già curvo sulle
Sudate carte del tuo Giobbe!) ascolta.
Se fra poco l'umil tetto campestre,
Picciol peso a la terra, e ad esso in giro
Di contro a Mongibel le brevi aiuole,
Caro asil de'tuoi sogni ed ara insieme
Ove talor sagriflchi a le Muse,
Saranno invase da l'ardente lava,
Non creder già che men clemente e giusto
Iddio sia teco. Una maligna forza
M'astringe a tanto onde aver pace in cielo.
Però non disperar, che fra i beati
Un aureo seggio non saprò negarti.
Da quando bimbo a la romita pieve
Col cuor gonfio di preci e di paure
Movevi, ai giorni che proruppe in nitide
Forme dai torchi il soliloquio estremo
Del primo che per la cristiana fede
Morì schiacciato da profane selci
Con simpatico sguardo io ti seguiva.
De la tua Palingenesi ì vocali
Papaveri gustai che t'han fruttato
Laudi dall'Hugo che il tuo idioma ignora.
Il giulebbe gustai de'catulliani
Tuoi tradimenti e la travestitura
Di Lucrezio e le care Ricordanze
Così piene di zucchero e di brodo.
Mi canzonasti un po' nel tuo Lucifero,
Ma poi ch'io so come d'un core ingrato
Ti feci dono, non me n'ebbi a male.
È tutta colpa mia. Stavi facendo
La tua serena concezion del Giobbe,
Quand'ecco stretto da promessa e vago
Di finir ne la pace i vecchi giorni,
Sto per frangere il mondo. Oh, poveretto,
Chi ti darà l'applauso e le corone
Che omai ti promettevi? Addio corone.
Cattedra addio, scolari buonanotte !

Eri superbo ; il so. Tu ti credevi
Il primo, il solo vate,
Ed orgogliosamente sorridevi
A le turbe prostrate.

Davi il bìblico crine in preda al vento,
Il tuo crin di Sansone;
Portavi il capo come il Sacramento
Quando va in processione,

Meravigliando nel superbo orgoglio
Di non veder persona
Che venisse a condurti al Campidoglio
Per cinger la corona.

E sorridevi amaramente a questo
Secoletto birbante
Che non conobbe in te, troppo modesto,
Il vincitor di Dante.

Insuperbivi in te d'aver domato
L'empio Enotrio Romano
Con un solo tuo cenno, accompagnato
Da un sonetto sovrano.

Insuperbivi, e ben ti si conviene,
D'avergli steso accanto
De Gubernatis, che ti fé' del bene
Senza menarne vanto.

Eri forte, eri grande, eri sublimo,
O mio figlio diletto,
E i gravi sciolti e le stitiche rime
Ti prorompean dal petto.

E i critici toscani ed i lombardi.
Vinti dallo spavento,
Sottoscrivean per te, mio Rapisardi,
Per farti un monumento.

E colà dove l'Arno al mar dichina
Tra una gente civile,
Lambendo il pie della città regina
D'ogni arte più gentile,

Tal si trovò che su le Sacre Carte
Piegò la testa scema,
E per tua gloria e per l'onor de l'arte,
Figliò questo poema.

==>SEGUE

Non ti doler se ti par fatto male
E con ritmi diversi ;
Pensa che il nome tuo sarà immortale
Solo per questi versi.

Rovineran de' sciolti tuoi le some
Del muto oblio nel fondo.
Ma in questo Giobbe durerà il tuo nome
Malgrado il finimondo !


Ed ecco udissi ne' crateri un rombo,
Indi un tremuoto orribilmente scosse
Da le radici il monte. — Intorno, intorno
Dai più remoti abissi de la terra
Di ceneri, di pomici e di sassi
Scagliata al ciel profondo una rovina
Velò la luce de l'estremo sole. —
Negli ardui templi, per le vie, pei fóri
Già illuminati dal baglior d'Averno
Corron piangendo forsennate turbe
Di poverelli ad invocar dal cielo
Di non commesse crudeltà perdono.
Tutto sordido il crin, squallido il viso,
Chi un giorno bestemmiò, giace tremante
A piè dell'ara ove sorride immota
L'imagine di Dio. — Qualche poeta
Che un dì la penna nei sereni gorghi
De le pagane correntie deterse
Impreca a Giove e all'ora che su l'orme
Il piede mise de'ribelli eterni.

Seduti intanto il Sommo Padre e Satana
Sopra le lave de l'etnèo cacume
Col telescopio si godean l'orrenda
Vista ridendo a crepapelle, tanto
Che il fiero Sire avea negli occhi lacrime
Di fuoco ardenti e profumate l'altro
Goccie di purgativa Zoedóne.
Certo men lieti su la stessa cima
Non si posaro gli alpinisti, dopo
L'aspra salita e il pranzo onde il Comune
Si dissestò di Biancavilla.
Il settimo
Sigillo apriva del misterioso :
Libro l'Agnello su nel ciel. — D'intorno
Tacque lo spazio per mezz'ora, mentre
Calar d'innanzi al Padre e al suo nemico
I sette spirti con le sette trombe.

==>SEGUE
Un altro venne e si fermò d'appresso
Col turibolo d'or pieno di mirra;
E dopo averlo ripetutamente
Dondolato, gittollo sulla terra
Tra una furiosa chioma di saette.
Addio, sereno de le muse albergo,
Culla de l'Arte e figlia prediletta
De la Natura, moribonda Esperia,
Già l'angelo fatal porta a le labbra
La prima tuba e sulla terra lascia
Cader frammiste a una pioggia di sangue
Falde di fuoco che distruggon tutte
Le florid'erbe e gli alberi. — Diviene
Denso qual siero e rubicondo il mare
All'altro squillo — al terzo si tramutano
E i fiumi e i laghi e le fontane e i pozzi
In puro assenzio, onde briachi cadono
(O degna fine a l'ambizione umana!)
Molti mortali per le terre —
Agli ultimi
Suoni, fioccando come neve in alpe,
Si sciolsero stridendo i rai dorati
Del sole e i bianchi de la luna ; e aprissi
Una vorago a vomitar locuste
Colla corona su la testa d'uomo,
I capei lunghi, i denti di leone.
Coverto il seno femminil d'usberghi,
E di scorpion la coda. — Estremi mossero
I quattro fidi da l'Eufrate, innanzi
Ai furiosi destrier spiranti in negro
Fumo sulfuree vampe ed agitanti
Le pendule ceraste, onde percossa
Giacque l'umanità.
Così fur pieni
I patti che il Signor fe'col Nemico
E le scioccliezze de l'Apocalisse.

Cantan gli spirti sovra le ruine
Dove Catania fu, dove fu il mondo,
E dicon quel che segue in lor favella.
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CORO FINALE.