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Giovanni Meli - FAVULI MORALI
Prima parte





























































GIOVANNI MELI
Commento di
Francesco Coppola
(Ricercatore I.R.R.E. Sicilia)



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Facendo un salto di alcuni secoli vorrei soffermare la mia attenzione su Giovanni Meli, uno dei poeti più interessanti della nostra tradizione letteraria, l’opera che ci ha lasciato dimostra la sua vastissima cultura; egli è conosciuto soprattutto per “La Buccolica” e le “Favuli Morali”, ma è autore anche di “Odi” oltre che di vari altri componimenti, e proprio in questa raccolta, forse poco organica e senza un filo conduttore, si trovano alcuni gioielli che è il caso di analizzare.
Vorrei partire da “Lu labbru”, un componimento di estrema eleganza formale che si trova spesso citato come uno degli esempi più significativi della musa meliana. Qui non potrei proprio parlare di simbolismo floreale, qui il fiore è utilizzato in senso proprio, non è metafora di altro. Ma leggiamo qualche verso: Dimmi, dimmi, apuzza nica,/ Unni vai cussì matinu?/ Nun cc’è cima chi arrussica/ Di lu munti a nui vicinu:/ Trema ancora, ancora luci/ La ruggiada ‘ntra li prati:/ Duna accura nun ti arruci/ L’ali d’oru dilicati!/ Li sciuriddi durmigghiusi, ‘Ntra li virdi soi bottuni, Stannu ancora stritti e chiusi/ Cu li testi appinnuluni./... (Odi, 6). Nel prosieguo dell’ode il poeta dà indicazioni all’ape su dove posarsi per trovare il miele più dolce, naturalmente sulle labbra della sua amata Nicia. Ma per quel che ci interessa, vorrei far notare l’estrema delicatezza di questi fiorellini addormentati, coi boccioli serrati, con le loro corolle ancora chiuse e la testa reclinata; sembra quasi si stia parlando di bambini che dormono. Questi versi rappresentano forse il culmine della poesia meliana!
Il componimento e altri due che ora affronterò fanno parte di una più ampia corona poetica che ha come oggetto la donna amata dal Meli, i componimenti esaltano le varie parti fisiche della donna o alcuni suoi aspetti, focalizzando un particolare, per es. “La Vuci”, “L’Alitu”, “Lu Neu”, il poeta usa una tecnica molto simile a quella della macrofotografia: un particolare ingrandito fa perdere la percezione del tutto e rende l’oggetto focalizzato come un piccolo mondo a sé. Questa poesia del particolare opera una sorta di trasfigurazione che toglie all’oggetto quasi la sua consistenza reale.
“Lu Pettu” è un'altra prova degna d’interesse, composta nel 1777, fu ispirata da donna Mela Cutelli (cui è dedicata anche “L’occhi”). Il titolo forse non è molto indicativo, dal momento che nel componimento si parla piuttosto del velo che impedirebbe al poeta di vedere le delizie della sua donna, il petto per l’appunto. I modelli cui s’ispira il Meli sono molteplici, fra tutti cito il Marino e il Fontanella: “Qual bianca nube l’odorosa tela”. Ma non sarebbe difficile citare altri poeti che hanno cantato il motivo del velo, si pensi al Gessner, che ha un’immagine che sembra aver suggestionato il Nostro: “Al giovin seno il vel stringea, che ardito/ scoprir tentava il lascivetto Zefiro”, ma potrei ancora ricordare il Pucci e il Sannazzaro quando nell’Arcadia descrive il seno di Amaranta.
In quest’ode il Poeta descrive un giardino che appare come un piccolo mondo primigenio, un giardino edenico in cui Amore raccoglie rose ed altri fiori per farne due mazzetti, vi spruzza poi fiocchi di neve per ravvivare la composizione e il bouquet è pronto per essere donato, qui Amore, che è l’innamorato, si identifica col Poeta il quale con altra variazione celebra le qualità della sua donna. Vi sono tutti i motivi di un canto erotico: il dio, i fiori, il candore della neve e infine il paradiso. Questo però avviene soltanto nella prima strofe del componimento, nel prosieguo il godimento contemplativo è limitato dal velo della pudicizia. Amore non trova il suo completo appagamento e il poeta chiama in aiuto Zefiro, che spazzi via questo velo, il canto termina lasciando intendere la difficoltà della cosa.
L’ultimo componimento di questa serie è “Lu Non-So-Chi”, nell’odicina, pubblicata nel 1814, è svolto il tema dell'indefinibile fascino per il quale la donna del cuore è sempre più bella di tutte le altre. Il motivo del non-so-che, quale espressione usata per indicare l’indefinito e l’ineffabile, è frequente nell’ambito della poesia arcadica, si ricordi ad es. Il Bugiardo del Goldoni, il ritornello della serenata di Florindo nella I scena. Il componimento ha una sua notorietà: in un saggio, intitolato Per l’arte (Catania 1885) il Capuana dice “ddu certu non so chi dell’Abate Meli”. Questo componimento a mio avviso appare un po’ diverso dai precedenti perché, sia pur nella sua leggerezza, sia pur all’interno di un genere laudativo, si caratterizza per un maggiore realismo. Qui la figura della donna mi pare un po’ meno idealizzata, a partire da quel “Bedda bedda-nun cci sì”; il poeta è comunque tenero con la sua donna perché la chiama “vijuledda”, un fiore, direi quasi, più familiare senza essere di tono minore, un fiore non impegnativo ma bello perché prodotto di natura, certamente non caricato di altri significati, un fiore non aristocratico insomma, ma popolare senza essere volgare.
Passiamo ora ad un componimento in cui il fiore è veramente utilizzato in senso simbolico, l’ode si intitola “Lu gesuminu”, in essa viene svolto il tema della caducità della bellezza congiunto con quello dell'incostanza del cuore femminile. La celebrazione del gelsomino è motivo frequente nella lirica amorosa del Sei e Settecento, si pensi al sonetto anonimo “Gelsomino in bocca di bella donna” o ad una cantata del Rolli “Son gelsomino, son piccolo fiore”. Ma qui, come altrove, l’Autore ha la capacità di rinfrescare lo spunto ben noto e tradizionale con la novità della invenzione. Il Poeta si rivolge direttamente al fiore chiedendogli perché si mostri a lui in maniera sostenuta: tu m’ammaschi; è già la prima prefigurazione di un rapporto uomo-donna, l’uomo infatti continua dicendo Stari in menzu di sti raschi, (fiordilatte) / nun lu negu, ch’è un gran chi. La terza strofe (vv. 9-12) è un invito alla moderazione, alla modestia. La quarta strofe (vv. 13-16) riprende il classico motivo dell'incostanza
femminile e quello della fugacità della bellezza, rappresentato per analogia con la brevità della bellezza dei fiori; ed è un luogo comune nella tradizione letteraria, si veda per es. il Gessner “Debil narciso, ahi come tristamente/ chini il languido capo a me daccanto./ In tua freschezza ancor l’alba ti vide;/ or sei svenuto...”. Quindi viene additato, come monito un garofano che il giorno prima era stato considerato una divinità, mentre ora si trova in bassa fortuna e non tocca più “cantusciu” cioè veste femminile lunga, elegante e verosimilmente pregiata, e pertanto si lamenta. La chiusa dell’ode (vv. 29-32) è di carattere moraleggiante: è una cuccagna laddove regna l’incostanza perché la fortuna con la sua mutevolezza può toccare chiunque. Il finale risente un po’ delle “Favuli morali” che abbiamo detto il capolavoro del Meli.
Ciò che mi pare strano nell’ode, e per questo, interessante notare, il fatto che il gelsomino venga visto come simbolo d’orgoglio, mentre la sua leggerezza, forse fragilità, lo destinerebbero quasi ad altri usi, - ma poco importa -, per il Meli il gelsomino è simbolo di altezzosità.
Col carme successivo, “L’aruta”, rimaniamo sempre nell’ambito della poesia moraleggiante, quest’ode è un po’ il contraltare della precedente, la ruta infatti è un’erba perenne, tipica dei luoghi aridi, dall’apparenza modesta, quindi molto diversa dal gelsomino, simbolo della lussuria. L’ode prende spunto da una malattia di Nicia, la donna del Poeta, che ammalatasi, è stata salvata dalla ruta, da qui quasi una maledizione agli altri fiori, rose, gigli e gelsomini, e l’esaltazione della ruta. Leggendo il componimento rileviamo che l’immagine ai vv. 3-4: nudda Ninfa chiù vi tegna/ ntra lu so pittuzzu finu l’abbiamo in qualche modo già vista nell’ode “Lu pettu”: Ntra ssu pittuzzu amabili, ortu di rosi e ciuri,/ dui mazzuneddi Amuri/ cu li soi manu fa.”
Gli ultimi versi (21 e segg.) hanno carattere più moraleggiante, tutta la strofe è un rimprovero ai fiori per la loro altezzosità, per l’orgoglio che mostrano; in questo rimprovero “fiori, in mezzo a questo mare di guai voi ve ne state freddi e oziosi” forse c’è un’eco di un famoso verso catulliano: “Piangete Veneri e Amori, è morto il passero, gioia della mia ragazza”. C’è, sia in Catullo che in Meli, il chiamare a raccolta un mondo per un canto di dolore ma anche d’amore; però i fiori del Meli sembrano più insensibili delle creature di Catullo. Il carme finisce con la lode della ruta, simbolo di modestia, virtuosa e dimessa, che vive semplice e beata e s’appaga di se stessa. Potrebbe essere un ammonimento valido per chiunque.



Tratto da: www.lires.altervista.org

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
PREFAZIONI.
       Mentr'era 'ntra un macchiuni
Cu un libru 'ntra li mani,
Un saviu vicchiuni
Si accosta chianu chianu,
E dici a lu miu latu:
Cos'ài ca sì turbatu?
       Ch'àju ad aviri? Guarda:
Un bonu libru adocchiu,
Viju chi 'un teni scarda,
Lu trov'un crivu d'occhiu!
Sta camula è un'orrenna
Pesti, chi tuttu smenna!
       Lu midagghiuni anticu
L'osserva, e lu rividi,
Poi dici: S'eu ti dicu,
Ch'è sorti, nun mi cridi;
Pri mia si è misu all'asta
Prezzu nun cc'è, chi basta.
       Jeu dissi 'ntra di mia:
O chistu è tuttu pazzu,
O puru mi trizzìa:
Vitti lu miu 'mbarazzu
Lu vecchiu, e un pocu cursu
Ripigghia lu discursu:
       Mi pari ammaraggiatu.
Tu cridi, ch'eu scaminu?
Eu parru da sennatu,
E a diriti anchi  inclinu
L'arcani mei cchiù granni,
Chiusi da centu, ed anni.
       Sacci: ch'eu scinnu drittu
Pri linia masculina

Da Esopu, ch'in Egittu
Fu un mari di duttrina,
Chi apprisi in maggiur parti
Non già da libri, e carti;
       Ma da l'armali, e insetti,
Chi sù pri l'omu muti;
Iddu cu li perfetti
Sensi, e sua gran virtuti,
Ddi gerghi avennu in pratica
Composi 'na grammatica;
       Chi cu fidecommissu
La stissa d'iddu scritta
Dipoi nni l'à trasmissu
In linia sempri dritta,
E in primogenitura
Mentri sua razza dura.
       Dunca eu misi ad esami
Sti fogghi camuluti,
Trovu, chi sti riccami
Sù littiri sculputi,
Sù cifri, ed asterischi
Pi codici armalischi.
       Pr'istintu di natura
Di l'animali a gloria
La Camula avi cura
D'incidirni l'istoria,
Li mutti, li sentenzi,
E l'arti, e li scienzi.
       Scurri li libri tutti,
Non superficiali,
Li mastica, l'agghiutti,
Nni fa sucu vitali;
Poi 'ntra l'intagghi scrivi

Li fatti cchiù instruttivi.
       Chi fatti, intagghi, ed arti?
Jeu ripigghiai, chi mutti?
Lu senziu mi parti!....
Eh via! Comu si agghiutti
Sta pinnula? 'Un sia.mai,
Vidi ch'è grossa assai.
       Lu vecchiu nun desisti;
Ma, mortu di li risi,
Mi dici: capiristi
Un Turcu, ed un Cinisi?
Puru sù tutti dui
Omini, comu nui.
       Va beni, eu cci rispusi,
Ti vogghiu anchi accurdari,
Li gerghi li cchiù astrusi,
Chi sianu pri tia chiari;
Ma di': poi 'ntra sta prova
Chi sucu si cci trova?
       'Na cosa ben ridicula
Sarria st'acquistu a nui ;
Si parra si matricula
'Na bestia sempri cchiui:
Nun giuva, nè instruisci,
Bon'è ca 'un si capisci.
       Ripigghia lu vicchiuni:
Tu decidisti allura
A colpu, ed a tantuni!
La causa 'un è matura.
Nni teni scritti, e carti?
'Ai 'ntisu mai li parti?
       Si nun capisci un jota
Di li brutali accenti

La sua ragiuni è ignota;
Si dunca a lu presenti
Ti mancanu sti guidi,
Cu' è bestia? Cui decidi?
       Tant'è, chi nun sù muti,
La vuci la sintemu:
'Annu li senzi acuti,
E chistu lu videmu:
Conuscinu li priculi,
Notanu l'amminiculi.
       Pirchl pri aviri un rastu
Di Quagghi, o di Faciani
L'omu, chi à un nasu vastu,
Ricurri, e indinga un Cani?
Signu ch'è persuasu,
Chi un cani à megghiu nasu.
       L'Aquila in vista avanza
Di assai la specia umana,
Da l'autu, e in gran distanza
Scuprisci 'ntra la tana
'Na picciula sirpuzza,
Chi affaccia la tistuzza.
       Lu Gaddu! E si pò dari
Barometro cchiù certu?
Anzi si pò chiamari
Un almanaccu apertu,
E insemi un bon curdinu
Cu lu risbigghiarinu.
       Chi cura, e vigilanza
'A pri lu so puddaru!
Contra di cui si avanza
Scudu si fa, e riparu;
Lu pettu esponi, azzarda,

Periculi nun guarda.
       Manteni l'armunia
'Ntra tutti, e quannu alcuna
Gaddina s'inghirria
Curri, e:cu pizzuluna,
Cu gridi, e colpi d'ali
La rendi sociali.
       Si coccia in terra à vistu
O d'oriu, o di frumentu,
Nun pensa farni acquistu
Pri propriu nutrìmentu,
Ma fermu e a pedi 'ncutti
Chiama, e li sparti a tutti.
       Chi meravigghia poi
Si tanta ossequiata
Ven'iddu da li soi?
E l'omu, chi vantatu
Si è di ragiuni tempiu,
Non imita st ' esempiu?
       Chi mai dirrò di l'Api?
Chi munarchj ben saggi!
Rispettanu li capi,
E chisti a li vantaggi
Di la societati
Sù tutti dedicati,
       Si avissi lèna, e ciatu
Dirria di li Furmiculi.
Ma basta. 'Aju pruvatu
Li bruti non ridiculi;
E chi anchi li cchiù tenniri
Nni dunanu d'apprenniri.
       Cu tessiri, e filari
Cu pedi, e cu manuzzi

Nni l'appiru a 'nzignari
Tarantuli, e virmuzzi,
Chiddi chi assai pulita
Nni tessinu la sita.
       Li nostri primi nanni
A li castori intenti
Di casi, e di capanni,
Forsi li rudimenti
Apprisiru, e imitaru,
Chi poi perfezionaru.
       Apprénniri nni fici
L'arti di lu piscari
Lu pisci Piscatrici;
Chi dui cimeddi in mari
Sporgi d'intesta, e adisca
Pisci cun iddi, e pisca.
       Si in oggi pratticamu
Nuiautri la sagnia,
O grossu Ippopotamu,
L'apprisimu da tia,
Chi si ài li vasi chini
Ti l'apri cu li spini.
       Forsi a ddi menti virgini
In chidda età di allura
La Camula l'origini
Detti di l'incisura,
Ed anchi, si nun sbagghiu,
Di l'arraccamu, e intagghiu.
       Si divi a la Cicogna
L'usu di lu clisteri.
Chista, quannu abbisogna,
Si adatta a lu darreri
Lu beccu d'acqua chinu,

Chi caccia a l'intestinu.
       Si cridi, chi un'apuzza
Pusata 'ntra 'na frunna
A modu di varcuzza
Purtata via da l'unna,
All'omini appi a dari
L'idia di navigari.
       Dirriti: ma lu Sceccu
Si vidi, ch'è turduni
Nun senti virga, e leccu;
Cc'è cchiù? cu lu vastuni
Si torci gruppa, e schina,
E ad orsa vi camina.
       Voi chistu interpetrati,
Vera turdunaria?
Ma comu lu pruvati?
Pò darsi chi disia
Pri lu so sangu tardu
Un stimulu gagghiardu:
       Pò darsi di una razza
Di Stoici, e di Zenuni,
Chi soffrinu la mazza,
Li cauci, e l'ammuttuni,
Pri farisi li senzi
Avvezzi a l'inclemenzi.
       Pò darsi, chi pri oprari
Vol'essiri informatu
Di chiddu ch'avi a fari
Pri farlu regolatu;
Truvannusi a lu scuru
Nun opera sicuru.
       Lu servu, chi discurri,
Quannu lu so patruni

Cci dici: prestu curri;
Nè spiega la cagiuni,
Nè duvi lu destina,
S'imhrogghia, e nun camina.
       Ora chi nni vuliti
Da un Sceccu, chi muntati
Senza d'avirvi uniti
Li lingui, e voluntati?
Data sta verità,
È assai chiddu, chi fà.
       E poi vi sia accurdatu
'Ntra tanti, e tanti armali,
Lu Sceccu pr'insensatu,
Pri stupidu, e minnali,
Ch'importa? 'ntra nui stissi
Quantu cci nn'è di chissi!
       Sarrà forsi infamata
Perciò la specj umana
Pirchì in ogni nidata
Dui terzi pri zuzzana,
Toltu lu frontispiziu,
Sù scecchi pri giudiziu?
       Agghiunciu anchi dicchiui:
Sta stissa asinitati
Chi disprizzati vui,
Li rendi cari, e grati
A cchiù di un pirsunaggiu,
Ch'è scarsu di curaggiu.
       Ma poi d'iddi in compenza
Su armali scaltri, oh quanti!
Esalta la prudenza
Pliniu di l'Elefanti;
Ed autri ànnu abbastanza

Scaltrizza, e vigilanza.
       La Vulpi eh! Chi vi pari?
Lu Lupu! Oh ch'è scaltruni!
E cui lu pò gabbari?
Lu Corvu! è maraguni!
Nui d'iddi a li malizj
Nun semu, chi novizj.
       Pirchì natura vosi
Spartiri 'ntra viventi
A ogni unu la sua dosi
D'istinti, e di talenti
Quantu putia bastari
Sua specj a cunsirvari.
       Juncennu all'omu, vitti,
Chi consumati avia
L'istinti supraditti;
Perciò nni arrisiddia
Di bestj na gran parti,
E all'omini li sparti.
       Perciò spissu 'ntra omaggi
Videmu l'Omu-vulpi,
Chi ossequia li malvaggi
Che iniquu, e li soi culpi
Li scarrica, e deponi
Supra li genti boni.
       Videmu l'Omu-lupu,
Chi pari un midagghiuni,
Seriu, devotu, e cupu.
Ostenta la ragiuni,
'Mpastata cu lu meli,
Ma 'ntra lu cori a feli.
       L'Omu-liuni à un funnu
Intrepidu, e custanti;

Precipiti lu munnu,
Stà firmu dda davanti,
Ed a la sua ruina
Opponi pettu, e schina.
       Cc'è. l'Omu-signu intentu
A li gran modi, e l'usi,
Bandera ad ogni ventu
Muta, riforma, e scusi
Abiti, vrachi, e insigni,
Guardannu l'autri Signi.
       È l'Omu-talpa chiddu
Chi campa innamuratu
Di cui nun cura d'iddu,
E tantu nn'è accicatu,
Chi cchiù nun cridi all'occhi,
Ma a chiàcchiari, e 'mpapocchi.
       Cussi cc'è l'Omu-cani,
Chi abbaja di tutt'uri
A poviri, a- viddanii,
A latri, a tradituri,
Ma dannucci lu tozzu
Proi lu cannarozzu;.
       Avemu l'Omu-gattu,
Chi metti a diri: meu,
Appena vidi un piattu,
Avidu, comu Ebreu,
A tuttu stenni l'ugna,
Pigghia, e dicchiù sgranfugna.
       Tralascia li Becchi-Omini
Poi tema a li Satirici.
Jeu citu li fenomini,
A modu di l'Empirici,
E passu, e mi cunfunnu

Di jiri troppu a funnu.
       Avanti, ca cc'è cchiui:
Cci sunnu Omini tali,
(Ma dittu sia 'ntra nui)
Chi sù sutta l'armali.
Quant'è sutta di un Signu
'Na cascia, o puru un sgrignu.
       Tali è lu riccu avaru,
'Na specia d'Omu-cascia:
Si sarva lu dinaru,
Lu chiudi, si l'incascia,
Si sicca, e infradicisci
Sempri guardannu l'isci.
       Cci sù, senza ch'iu nomini
L'Omini-pupi veri
O sia l'Automat-Omini:
L'amica, o la muggheri,
O servu un lazzu movi,
E cci fa fari provi.
       Tu cridi: fors'iu sia
Cursu, o di mala gana,
Contra la specj mia?
Ah! la natura umana,
(E cui nun si nni adduna?)
Cadiu in vascia fortuna!
       E lu gran Culiseu,
Chi di l'anticu fastu
Nun serba pri trofeu,
Chi qualchi oscuru rastu,
Chi appena si discerni
'Ntra li ruini eterni!
       È la ragluni addunca
L'occhiu di grassu in nui?

Ma quantu sia pijunca,
Già lu viditi vui,
Risona lu so titulu;
Ma 'un a vuci in capitulu.
       Capitulu, eu sentu,
Quannu li passioni
Focusi, e in movimentu,
A la riflessioni,
Chi timida si affaccia,
Chiudinu porta in faccia.
       In quali specj, o razza
Di bruti, o d'animali
Si trova una si pazza,
Chi tanti oltraggi, e mali
S'impegna a speculari
Contra di li soi pari?
       Privari 'ntra 'na vampa
Di vita centu, e middi
Fatti a la stissa stampa
Cu carni, e cu capiddi,
E' un'arti, di cui l'omu
Nni a scrittu cchiù d'un tomu.
       Ogn'unu vanta in sè
Pri guida la ragiuni.
Chistu è lu peju, ohimè!
Ragumi a miliuni
Quant'omini sù in munnu!
Va pisca 'ntra stu funnu!
       Chisti mantennu in guerra
Li regni cu li regni,
Fomentanu cca 'nterra
Causi, liti, e impegni,
La genti anchi maligna

La sua ragiuni assigna.
       L'avvisi, e manifesti,
Chi sù 'ntra li nnimici
Preludj di funesti
Guerri desolatrici.
Tutti da capu a fini
Sù di ragiuni chini.
       Li scartafazj immenzi,
Ch'ingrassanu lu foru,
Chi estorcinu sentenzi,
E da li vurzi l'oru,
Ch'imbrogghianu lu munnu
Tutti ragiuni sunnu.
       Ragiuni, chi derivanu
D'autri, e chist'autri ancora
Di autri, ch'in fini arrivanu
A scarruzzari fora
Di li ragiuni, ed ànnu
Radica 'ntra l'ingannu.
       Ch'in nui li passioni
Si affaccianu a lu spissu
Cu mascari assai boni,
E poi fannu un aggrissu;
La mascara comuni
È pr'iddi la ragiuni.
       Però 'ntra l'animali
Lu sulu, e nudu istintu
Regna senza rivali
Dintra lu so recintu,
E li soi visti fissa
Su la sua specj stissa.
       Addunca cui procura
Li bruti studiari

Studia la natura
Unicu, e singulari
Libru di arcani senzi
Chi acchiudi li scienzi.
       Benissimu; diss'iu,
Tu forsi pischi a funnu;
Però lu senziu miu
Mi pari a nautru munnu,
Si beni ài peroratu,
Ch'eu su menzu ammazzatu.
       Mi cci ài saputu induciri
Cu li maneri e l'arti:
Via mèttiti a traduciri
Sti canmluti carti...
Dissi, e lu vecchiu esponi
Li soi traduzioni:
       Jeu agghiuncirò pri restu
Qualchi moralità,
Chi scinni da lu testu,
(Sibbeni 'un cci sia ddà)
Pri 'un dirimi li genti:
Chi 'un cci àju misu nenti.

I.
Li Surci.
Un Surciteddu di testa sbintata
Avia pigghiatu la via di l'acitu,
E faceva 'na vita scialacquata
Cu l'amiciuni di lu so partitu.
Lu Ziu circau tirarlu a bona strata;
Ma zappau all'acqua, pirchì era attrivitu.
E di cchiù la saimi avia liccata,
Di taverni, e di zagati peritu.
Finalmenti Mucidda fici luca;
Iddu grida: Ziu-ziu cu dogghia interna;
So Ziu pri lu rammaricu si suca;
Poi dici: Lu to casu mi costerna;
Ma ora mi cerchi? chiaccu chi t'affuca;
Scutta pri quannn jisti a la taverna.

II.
Li Granci.
       Un Granciu si picava
Di educari li figghi,
E l'ìnsosizzunava
Di massimi, e cunsigghi,
'Nsistennu: v'àju dittu:
Di caminari drittu.
       Chiddi, ch'intenti avianu
L'occhi in iddu, e li miri,
Cumprendiri 'un putianu
Drittu, chi vulia diri;
Sta idia 'ntra la sua cera
D'unni pigghiarla 'un cc'era.
       Iddu amminazza, sbruffa,

L'arriva a castiari;
Ma sempri fici buffa:
Mittennulu a guardari
Vidinu cosci, e gammi
Storti, mancini, e strammi.
       Alza l'ingegnu un pocu
Lu cchiù grannuzzu, e dici:
Papà lu primu locu
Si divi a cui nni fici,
Vaìti avanti vui,
Ca poi vinemu nui.
       'Nzolenti, scostumati.
Grida lu patri, oh bella!
A tantu vi assajati?
L'esempiu miu si appella?
Jeu pozzu fari e sfari
Cuntu nun nni àju dari.
       Si aviti cchiù l'ardiri,
Birbi, di riplicari...
Seguitau iddu a diri,
Seguitaru iddi a fari...
Tortu lu patri, e torti
Li figghi sinu a morti.

III.
Li Babbaluci.
Purtandusi la casa su la schina
Dui Babbaluci all'umbra di una ferra
Cu la vucca di scuma sempri china
Si i'anu strascinannu terra terra.
Dissi unu: Sta mia vita ch'è mischina!
Cchiù chi cci pensu lu miu senziu sferra!
Una frasca sdiserrama, e scintina

Vidi comu va in aria linna, e sgherra!
N'autru. niscenn'un cornu da la tasca,
Si arma lu cannucchiali so maniscu,
Guarda, e poi dici: 'Un ti pigghiari basca:
Chistu è un jocu di sorti buffuniscu:
Pri tantu vola in autu sta frasca
Pirchì è vacanti, ed àvi ventu friscu.

IV.
L'aquila, e lu Riddu.
       Cei fu un tempu, (secunnu certa cronica
Truvata 'ntra l'arcivu di Parnassu)
Chi l'oceddi facìanu vita armonica
In bona cumpagnia 'ntra jocu, e spassu:
Avianu liggì santi, e cuvirnati
Eranu da eccellenti magistrati.
       Duvianu un jornu eligirsi un regnanti,
Perciò si radunaru supra un munti:
Mitteva ogn'unu li soi pregi avanti,
Facennu, senza l'osti, li soi cunti;
L'Aquila, supra tutti, e lu Vuturu
Cridianu aviri lu votu sicuru.
       Ma li saggi l'esclusiru, dicennu:
La forza, e robustizza sù gran pregi
'Ntra lu statu salvagiu, ma duvennu
Stari in società, li privilegi
Maggiuri sù l'ingegnu, e la prudenza;
Meritanu perciò la preferenza.
       Chi si chista a li forti si cuncedi
Nni mittemu a periculu evidenti
Di tristi abusi, e la primaria sedi
Centru di li tirannidi addiventi;
Pertantu lu talentu sia la prova

Di elezioni, e in chiddu unni si trova.
       Decisu lu cunsigghiu in sensi tali;
Si applicaru a pinsari un sperimentu
Pri scopriri in cui cchiù l'ingegnu vali,
Ed in cui spicca prudenza, e talentu;
Ma l'Aquili adoprandu forza, e dolu
Li tiraru a fissarisi a lu volu.
       Stabileru pri tantu: chi cui cchiui
Vulava in autu fussi re assolutu.
Vinniru a prova; ma però cci fui
'N'oceddu leggerissimu, e minutu,
Chi pigghiau 'ntra la testa di nascostu
Di l'Aquila cchiù forti lu so postu.
       Chist'Aquila a li stiddi si nni và,
E 'un vidennusi oceddi a lu so latu,
Ritorna gloriusa, e dici: Olà,
Sù re, pirchl cchiù in autu àju vulatu,
M'addunannusi l'autri di chiddu
Ch'aveva 'ntesta, gridanu: Re iddu.
       L'Aquila esclama, e dici: Vi nni smentu
Lu sforzu di vular'eu l'àju fattu.
Ripigghian'iddi: però lu talentu
A li toi sforzi à datu scaccu-mattu;
Impara quant'importa avir'ingegnu,
E multu cchiù pri governari un regnu.
       Soggiunciu cca 'na nota: nun si osserva
Stu termini reiddu in nudda lingua,
Ma 'ntra la nostra sula si conserva,
Vogghiu chi ogn'unu, perciò la distingua
Pri la cchiù antica lingua originali
Sin da quannu parravanu l'armali.

V.
Lu Surci, e lu Rizzu.
Facia friddu, ed un Surci ngriddutizzu
Mentri stà 'ntra la tana 'ncrafucchiatu,
Senti a la porta lamintari un Rizzu,
Chi cci dumanna alloggiu umiliatu:
Jeu, dici, 'un vogghiu lettu, nè capizzu;
Mi cuntentu di un angulu, o di un latu,
O mi mettu a li pedi 'mpizzu 'mpizzu,
Basta chi sia da l'aria riparatu.
Lu Surci era bon cori, e spissu tocca
A li bon cori agghiuttiri cutugna;
Sù assai l'ingrati, chi scuva la ciocca.
Trasi lu Rizzu, e tantu si cc'incugna,
Chi pri li spini lu Surci tarocca,
E dispiratu da la tana scugna:
E dicchiù lu rampugna
L'usurpaturi, e jia gridannu ancora;
Cui punciri si senti nescia fora.

VI.
Seguita lu stissu suggettu.
       Ma lu Rizzu pagau la penitenza:
Pirchì lu celu teni la valanza,
E boni, e mali azioni compénza
Cu l'estrema esattizza, e vigilanza.
       'N'omu ch'avia dda 'ncostu la dispenza,
S'era addunatu di qualchi mancanza
Di lardu, e caciu, e misu in avvirtenza
Vitti lu Surci fuiri in distanza:
       L'aveva assicutatu; ma nun potti
Jiìncirlu, chi pigghiatu avia la tana,

D'unni lu Rizzu lu spustau la notti;
       M'appena l'alba in orienti acchiana.
Va cu petri, e quacina, e a quattru botti
(Cridennu dari a lu Surci 'mmattana)
       Attuppa, mura, e 'nchiana
Lu pirtusu chi ad iddu era nocivu,
E fu lu Rizzu sippillutu vivu.
       Cirnennu ora lu crivu:
Paga d'ingratitudini la detta
L'ingratu, e cui fa beni, beni aspetta.

VII.
Lu Cani, e la Signa.
       Un gentil'omu avia 'na Signa, e'un Cani,
Chi tinia 'ncatinati 'ntra un perterra,
Vitti la Signa un jornu, chi lu pani
Di lu cumpagnu era ristatu a terra
Cci spija: A tia la fami 'un manca mai,
Pirchì ora 'un manci? dimmi: chi cosa ài?
       Rispunni iddu: Malatu 'un mi cci criju;
Ma cci àiu 'ntra lu cori 'na gramagghia:
Lu patruni àvi assai chi nun lu viju,
Cui sa?..Ma lu parrari idda cci stagghia:
Poh! Nun cc'è autru? E di': senza di tia
Lu patruni, chi forsi 'un manciria?
       Replica: Nun lu sacciu; ma mi costa
Ch'una vota eu mi spersi, e mi circau.
Ripigghia l'autra: Nautra vota apposta
Vinni cu un lignu, e ti vastuniau,
E tu da veru saccu di vastuni
Cci liccasti li manu, e li garruni.
       Chistu, dici lu Cani, voli diri
Aviri gratitudini, ed un cori,

Chi la cunserva a costu di muriri.
Ma dici l'autra: Tu tantu ti accori
Per iddu, ed iddu (si tu spii a mia)
Mancu pinseri, e trivulu à di tia.
       Grida lu Cani: menti pri la gula.
Tu, chi si tutta pazza, ed incustanti
Cerchi cumpagni pri nun stari sula.
Lu patruni mi stima; e non ostanti
Ch'iddu nun mi stimassi, eu sempri esattu
Cci sarrò pri ddu beni, chi mi à fattu.
       Un cori a la mia specj vosi dari
Gratu, e riconoscenti la Natura,
Pirchì duvia sirviri pri esemplari
All'omu stissu e ad ogni criatura,
Acciò profitti di nostra allianza,
E apprenda gratitudini, e custanza.

VIII.
Lu Gattu, lu Frusteri, e l'Abati.
       Trasìu 'ntra un rifittoriu di frati,
(O forsi era di monaci) un Frusteri,
E cu lu Guardianu, o puru Abati
Osservava li vanchi, li spadderi,
E di lu locu la capacità,
Com'è l'usu di cui girannu và..
       Vidi, chi passiava cu gran sfrazzu
Un grossu Gattu di culuri 'mmiscu,
Cci luceva lu pilu, e a lu mustazzu
Paria un suldatu svizzaru, o tudiscu;
Lu guarda, e dici «Per Bacco, che un Gatto
Non v'e in Soria sì grosso e sì ben fatto!»

       Lu Reverennu cci rispunni: E puru
Vossia nun vidi, chi li pregi esterni,
O sia fisici, ch'iu nenti li curu.
Ma li pregi morali, o sia l'interni
Chisti lu fannu raru, e singulari,
E cci li farrò vidiri, e tuccari.
       Cussi dittu, cumanna a un fratacchiuni:
Metticci un piattu di pisci davanti:
(Chistu ubbidisci, e porta un gran piattuni
Chinu di vopi, e trigghi, ed a l'istanti
Chi lu posa, cci dici: Guarda ccà:
E immobili lu Gattu si sta ddà.
       Vinniru autri dui Gatti (o chi tirati
Di li pisci a l'oduri, o puru apposta
Cci foru da lu laicu avviati)
E ogn'unu d'iddi a lu piattu si accosta.
Ma lu Gattu robustu in un balenu
Cc'è supra, li rincula, e teni a frenu..
       Ammira cu stupuri lu Frusteri
L'onuratizza d'iddu, e la pussanza.
Quannu duvennu entrari un cucineri
Grapi 'na porta, e a fudda si sbalanza
Una truppa di Gatti, e tutti a un trattu
Tiranu pri avvintarisi a lu piattu.
       Tintau lu grossu Gattu argini fari
Dannucci supra; ma mentri cummatti
Cu quattru o tri, vidi autri sfirrijari:
Ddocu si perdi, e nun stà cchiù a li patti,
Torna, si afferra la cchiù grossa trigghia,
Sfiletta, e l'autri poi cui pigghia pigghia.
       Dici lu Reverennu: Lu miu Gattu
'Avi giudiziu, o no'? forza e curaggiu
Tentau.. Poi pinsau ad iddu.E beni à fattu,


Fari megghiu putia l'omu cchiù saggiu?
L'autru tistija, e dici : «Padre mio
Ben vi spiegate, vi ò capito. Addio.

IX.
La Rindina, e lu Parpagghiuni.
       'Na Rindina pusatasi vicinu
A un Parpagghiuni, ch'era supra un ciuri,
Guardannulu ammirava in ali, e schinu
L'inargintati e varj soi culuri;
Ma supra tuttu poi cc'invidiava
Li quattr'ali, chi all'aria spiegava:
       E dicia 'ntra se stissa: È veru ch'iu
C'un paru d'ali giru pri lu munnu,
Ma quantu, oimè! mi affanuu, e mi fatiu,
E 'ntra li vasti mari mi cunfunnu!
Cu quattru, senza incommodi, e disaggi,
Cchiù prestu mi farria li mei viaggi.
       Fratantu vidi a chiddu chi vulannu
Quattr'ali appena in aria lu sustennu;
Pocu s'inalza, e va sempri pusannu!
Si compiaci in se stissa: Ed ora apprennu,
Dici, chi 'ntra l'oggetti cchiù brillanti
Assai cc'è di superlluu, e di vacanti.
       Non tutti li vantaggi di apparenza
Sù tali valutannusi in sustanza;
Vi dunanu di arrassu compiacenza,
Ma vana poi travati l'eleganza,
E chiddu chi apparisci a nui vantaggiu,
Tanti voti è molestia, o disaggiu.

X.
Lu Crastu, e lu Gaddu-d'India
       Mentri pasceva un Crastu
Sutta di 'na carrubba,
In tuttu lu so fastu
Si affaccia, e cu gran tuba,
Un Gaddu-d'India; e acutu
Cci scarrica un stranutu.
       Surprisu a l'impensata
Lu Crastu retrocedi;
L'autru a dda sbravazzata
Vidennulu, chi cedi,
Si cridi, chi àja chiddu
Soggezioni d'iddu.
       E si cci para avanti
In tutta la sua gala
Superbu, e minaccianti,
La 'nnocca allonga, e cala,
Stenni lu coddu, e sbruffa,
Sfidannulu a la zuffa.
       Lu Crastu rinculannu
Lu so vantaggiu adotta
Gran campu guadagnannu,
Poi torna, e dà la botta
Chi lu stinnicchia a terra,
E termina la guerra.
       Nun apprittati troppu
Cui soffri, e stà cuetu,
Truvati qualch'ìntoppu,
Chi vi arrinesci a fetu:
Pinsati a lu cuntrastu
Di Gaddu-d'India, e Crastu.

XI.
L'ortulanu, e lu Sceccu.
       Sei tummina di terra, metà ad ortu,
Metà a jardinu un povir'omu avia;
E li zappava dannusi confortu
Pri lu fruttatu, chi cci prumittia;
M'appena chi li frutti maturaru,
Li parpacini cci l'aggramagnaru;
       Sibbeni arvuli, e frutti non maturi,
Ristaru intatti, e l'ervi di l'ortaggiu,
Pirtantu appoja a profitti futuri
Li soi spiranzi, e si duna coraggiu.
Ma pri sua sditta 'na notti surtiu
Chi lu capistru l'Asinu rumpiu.
       E sdetti immenzu all'ortu, e alu jardinu
Manciannu, e scarpisannu l'insalati,
Facennu d'ogni cosa un'assassinu,
Rusicannu li frutti anchi ammazati,
Rumpennu rami, cu jittuni, e inziti,
E insumma fici fracassi infiniti.
       Lu patruni in sbigghiarsi la matina
Cchiù chi scurri cchiù metti a 'mpallidiri.
Vidi lu dannu so, la sua ruina;
Li latri, dici, dannu dispiaciri,
Ma lu Sceccu però liberu e sciotu
Unni pò fari guastu, è un tirrimotu.

XII.
Lu Liuni, lu Sceccu, ed autri animali.
       Un Liuni un Sceccu vitti,
Chi pascia 'ntra la gramigna,
Lu squatrau, ma nun lu critti
Una preda d'iddu digna.
       Nonostanti si cci accosta
Pri truvarsi un'ammucciagghia,
Stanti chi facia la posta
Ad un Ursu di gran vagghia.
       Trema l'Asinu, e si annicchia
In vidirlu avvicinari;
Iddu pàrracci a l'oricchia,
E cci dici: 'Un ti scantari.
       Statti firmu avanti a mia,
Ch'eu ti guardu d'ogni tortu.
Ddu animali si cantia,
Pri lu scantu è menzu mortu.
       Puru fa quantu cci dici
Pirchì sbàttiri un pò cchiui,
Cussi stannu comu amici;
Stritti, e 'ncutti tutti dui.
       Lu Liuni già in distanza
Scopri l'Ursu, chi si affaccia,
E ad un sautu si sbalanza,
Curri a daricci la caccia.
       L'animali sin d'allura,
Chi lu re 'ntra ddi cuntrati
Era apparsu, pri paura
Tutti si eranu 'ntanati,
       Ed avennu cu esattizza

Da l'ingagghi taliatu
L'amicizia, e la 'ncuttizza
Chi a lu Sceccu avia accurdatu,
       Incomincianu a guardarlu
Per un grossu personaggiu,
Onorarlu, ossequiarlu
Ed a faricci anchi omaggiu.
       A lu signu, chi dd'armali
Pri li tanti vampaciusci
Si è scurdatu quantu vali,
Cchiù se stissu nun conusci.
       S'ingannaru, ed iddu, ed iddi,
Chi applicaru a lu Liuni
Ddi viduti picciriddi.
Chi a lu vulgu sù comuni.
       Cu' è politicu li miri
Chiusi l'à cu chiavi, e toppi,
E pri 'un farli travidiri
Batti oremi, e joca coppi.

XIII.
Li Cani, e la Statua.
       Dui Cani, seguitannu lu patruni,
D'Apollu 'ntra lu tempiu si ficcaru,
Dda vidinu li genti a munzidduni
Inginucchiati avanti di l'otaru,
Duvi era 'na gran statua colossali,
Chi un Diu raffigurava naturali.
       Un Cani dici all'autru : oh fortunatu
Marmu chi à cultu, ed adorazioni!
Rispunni lu cumpagnu: Si è insensatu,
Nun senti gusti, e consolazioni:
S'àvi menti, àvi in idda, anchi ripostu

Quantu cci custa junciri a ddu postu.
       Tu nun sai quantu colpi di mannari,
Di pali, e mazzi in barbara manera
Fu custrittu in principiu a suppurtari
Pri essiri smossu da la sua pirrera:
E poi quanti autri colpi di scarpeddu
Pri assimigghiari a un Diu ridenti, e beddu?
       Li summi posti, li gradi eminenti
Nun sù facili tantu a conseguirsi,
Custanu serj, e lunghi patimenti;
E chisti nun purrianu mai suffrirsi
S'in parti la sfrenata ambizioni
Nun cci sturdissi la sensazioni.

XIV.
Lu Gattu, e lu Firraru.
       Aveva un Gattu disculu un Firraru,
Chi la notti facìa lu malviventi,
E multu cchiù in decembru, ed in jinnaru;
Lu jornu poi durmia tranquillamenti;
Ed unni vi criditi, chi durmia?
'Ntra la strepitusissima putia.
       Ma quannu poi cissava lu fracassu,
Pirchi già si mittevanu a manciari,
Si arrisbigghiava, e vinia passu passu.
Lu patruni lu sgrida in accustari:
Bestia dormi 'ntra strepiti, e bisbigghi,
E a lu scrusciu di labbri ti arrisbigghi.
       Si ponnu a tuttu l'omini avvizzari,
Comu anchi l'animali; ma l'istintu
Nun si fa mai da l'abiti smuntari,
Pirchì a la guardia di la vita è 'mpintu;


Perciò lu scrusciu di labbri, o di piatti
Basta pri arrisbigghiari omini, e gatti.

XV.
La Vulpi, e l'Asinu.
       Una Vulpi fuia scantata tutta.
E si guardava davanti, e darreri,
Circaunu pri ammucciarisi 'nta grutta.
Cui ti assicuta? Cci spija un Sumeri...
Nuddu... 'Ai fattu delittu'? impertinenza?..
Di nenti mi rimordi la cuscenza...
       Addunca pirchì fui? di chi ti scanti?..
Ti dicu: Mi fu dittu, chi è nisciutu
Ordini di la Curti fulminanti
Di catturari un Tauru curnutu;
Nun sacciu chi delittu cc'è imputatu;
Basta si cridi reu di un'attintatu...
       E tu ch'ai di comuni a Tauru, e Vacca?..
Beatu Asinu tu, chi nun sai nenti!
'Ntra sti affari a jittarivi 'na tacca
Cridi chi cci stà assai lu malviventi?
L'invidiusu? L'occultu 'nnimicu?
Basla chi ti denunzia per amicu.
       O chi dica: d'aviri ritruvatu
Qualchi vestigiu di li toi pidati
'Ntra ddi lochi, chi chiddu ò frequentatu,
O con autri pretesti mendicati
Lu judici o zelanti, o ambiziusu,
Ti fa sudditu so dintra un dammusu.
       Ed incuminci a patiri stritturi,
Ad essiri subutu, esaminatu;
Nuddu azzarda parrari in to favuri,
Cuntu d'iddu da tia nni vonnu datu;


Fussi anchi d'innuccenza un tabernaculu,
Si tu nni nesci vivu è un gran miraculu.
       Dissi, e si la sbignau. Lu Sceccu intantu
(Benchì Sceccu qual'era) 'ntra se dissi:
Cuscenza lesa genera lu scantu;
Piccati vecchi criju chi nni avissi;
Jeu chi a lu munnu nun cacciu, nè minu
Vaju sicuru pri lu miu caminu.

XVI.
Li FURMICULI.
       Misi l'ali 'na Furmicula,
E sollevasi a momenti
Su li troffi di l'ardicula,
E di l'ervi cchiù eminenti.
       L'autri a terra rampicannu
Si stuperu a sta vulata;
L'ammiravanu, esclamannu:
Oh chi sorti! o fortunata!
       E da bravi adulaturi,
Chi unni vidinu appuggiari
La fortuna, dda li curi
Vannu tutti ad impiegari;
       Cussi chisti, anchi di arrassu,
di li osscquj, e riverenzi
Affrittavanu lu passu
Pri ottennirinni incumbenzi.
       Ma ristaru trizziati,
Chi prescrittu avia la sorti
L'ali d'idda, e li vulati,
Pri preludj di la morti.
       Si mai cadi si sfazzuna


Cui sta in cima di la scala;
Li favuri di fortuna
Su carizj cu la pala.

XVII.
Esopu, e l'oceddu Lingua-longa.
       Vidi Esopu 'nterra stisu
Un oceddu; ma si accorgi
Chi per arti cci stà misu;
Una lunga lingua sporgi
Da lu beccu, chi la lassa
A l'arbitriu di cui passa.
       Ed infatti china tutta
Di furmiculi già era,
Licca ogn'una, ma poi scutta
La sua detta tutta intera.
Chi la lingua in ritirarisi
Veni tutti ad ammuccarisi.
       Ridi Esopu, e dici: Or iu
Differenza, nè divariu
Nuddu affattu cci nni viu
'Ntra st'oceddu, e l'usurariu:
'Mpresta, e poi cu usuri, e frutti
Tuttu agghiommara, ed agghiutti.

XVIII.
Li CUCUCCIUTI.
       Si avia pisatu un'aria di frumentu,
Cu li Voi cuncirtati a varj stracqui;
Ma nun si spagghiau beni, chi lu ventu
Spirau contrariu, e poi vinniru l'acqui;
Perciò la pagghia ristau supra tutta

Comu cchiù leggia, e lu frumentu sutta.
       Dui Cucucciuti, o tri di primu volu
Cci fora supra pri pizzuliari;
Ma trascurrennu lu supremu solu
Autru chi pagghia 'un pottiru truvari,
E nni ristaru cursi, e nichiati
Malidicennu tutti ddi cuntrati.
       Dicianu: Lochi fatti pri li staddi,
Nun siti digni d'essiri abitati
Chi da li suli scecchi, e li cavaddi;
Ma l'autri oceddi cchiu scaltri, e addistrati
Di l'aria scavulianu lu funnu,
E trovanu frumentu grossu, e biunnu.
       Quannu in un statu cci sù fazioni,
E partiti, e politicu scuncertu,
Ii suggetli prudenti, saggi, e boni
Si stanuu sulla misi a lu cuvertu,
E lassanu a li pagghi li cchiù leggi
Godirisi l'onuri, e privileggi.

XIX.
Li Scecchi, ed Esopu.
Dui Scecchi cu li coddi incrucicchiati
L'unu raspava all'autru. Nun cci leggi
Lu vulgu nenti cchiù, chi asinitati.
Li guarda Esopu, e grida: Oh testi leggi!
Gran lezioni è chista; profittati:
Lu bisognu reciprocu. Iddu reggi
Tutti li societati, e li bilancia,
L'unu raspannu all'autru unni cci mancia.

XX.
La Cucucciuta e lu Pispisuni.
Mi si permetta stu picciulu prologu.
L'applicu a li D. 'Ninnari stu apologu.
'Na Cucucciuta vidia passiari
Un Pispisuni linnu, ed attillatu,
Chi appena 'nterra si vidia pusari,
Sbriciu, galanti, e di coddu alliggiatu.
Dissi 'ntra d'idda: cci vurria spiari
Chi pretenni accussi 'mpipiriddatu?
Cu st'eleganza, dimmi, chi cci abbuschi?..
Ci accosta, e vidi chi ammuccava muschi.

XXI.
Lu Rusignolu, e L'Asinu.
       'Ntra murtiddi di addauri curunati
Un Rusignolu armonicu aggiuccatu
'Ngurgiava sinu a perdita di ciatu
Li suavi soi noti, e varj, e grati.
       Tenniri cori, ed almi dilicati
Stavanu attenti di un macchiuni allatu
Pri lu piaciri avevanu scurdatu
Li guai, da cui vinianu molestati;
       Quannu improvisu un Sceccu cu la pagghia
Jetta un arraggbiu, e subitu 'mpannedda;
Sclamanu chiddi: oh pesta a stugramagghia!
Grida un viddanu: st'armunia 'ncasedda,
       Jeu sulu apprezzu l'asinu, chi arragghia,
Pirchì mi servi pri varda, e pri sedda.
La musa è bona, e bedda,
(Dici lu vulgu a lu guadagnu intentu)

       Ma soni, e canti sù cosi di ventu.
Nè vuci, nè strumentu,
Nè tuttu Pindu basta a sodisfari
Lu tavirnaru, chi voli dinari.

XXII.
La Camula, e lu Tauru. - A Nici.
       Nun lu negu, si l'estrattu
Di l'onuri, e la custanza,
Ed ài datu anchi lu sfrattu
A suggetti d'impurtanza:
       E cunfessu: Chi stu tali,
Chi ti mustra affezioni,
Nun è oggettu, chi privali,
Nè di dari apprensioni.
       M'àju a menti... Orsù cuntamula,
Certa istoria strepitusa
Pi un insettu dittu Camula,
Di natura pittimusa.
       Dunca cc'era a sti cuntorna
Un gran Tauru grassu, e grossu
Chi manciannucci li corna
Dava a un vecchiu truncu addossu.
       A sti botti affaccia un pocu
Un virmuzzu la sua testa,
E poi grida: Olà cu' è ddocu?
Cui lu truncu mi mulesta?
       Nun si digna di rispundiri
Di l'armenti lu bascià,
E cridendulu cunfundiri
A lu truncu forti dà.

       Lu Virmuzzu si nni ridi,
Dipoi dici: cci scummettu,
Chi la forza, in cui tu fidi,
Cca si perdi senza effettu.
       leu mi fidu di pruvarti
Cu evidenza, e cu cirtizza,
Chi pò cchiù la flemma, e l'arti
Chi la forza, e robustizza.
       Sia lu Tauru diggià stancu
Pri li sforzi fatti avia,
Sia diggià vinuta mancu
La sua boria, e bizzarria,
       Pigghia pausa, e dici: orsù
Jeu ti accordu sicuranza,
Dimmi prima cui si tù?
D'unni nasci sta baldanza?
       Jeu sù un essiri, rispundi,
Di misuri pocu esatti,
Lu miu corpu 'un corrispundi
Cu lu grandi di li fatti:
       Chistu truncu, chi a lu cozzu
Azzannau li corna toi,
Mi lu arrusicu pri tozzu,
Pozz'eu farlu, e tu nun poi.
       Va... si pazzu, dici, e parti,
Lu gran Tauru; ma l'insettu
Da lu truncu nun si sparti,
Nè abbanduna lu progettu;
       A lu signu, chi passatu
Cchiù di un lustru, oh meravigghia!
Lu gran truncu sbacantatu
Cadiu in pulviri e canigghia!
       Chi nni dici tu, curuzzu,


Cu lu beddu to talentu?
Nun è statu chi un virmuzzu
Chi produssi stu purtentu!

XXIII.
Lu Cagnolu, e la Cani.
       Un Cagnolu 'na strummula si vidi
Scurriri attornu sula, e firriari,
Pri sprattichizza un armali la cridi,
Chi avia, comu iddu, vogghia di jucari,
Perciò cci accosta calatu calatu,
Ma fu cu 'nn spaddata ributtatu.
       Cci struppiau lu mussu a signu tali,
Chi rucculannu cursi 'ntra 'na gnuni.
Cridennu chi so figghiu avissi mali,
Nesci la matri, e mustra li scagghiuni,
E in vidirlu trimanti, e stupefattu,
Cci dumanua: cui fu? chi ti ànnu fattu?
       Iddu rispunni: cc'era un armaluzzu,
Chi sulu sulu girava, curria,
Ali accostu pri ciorarlu, e appena truzzu,
Mi duna un ammuttuni, e mi struppia...
Tale, tale vidi ca torn'arreri!
Dissi, e scantatu si jittau 'nnarreri.
       La matri ridi, e poi dici: ol! babbanu!
Chistu è un pezzu di lignu. La sua forza,
Lu so motu è vinutu da la manu
Di lu picciottu, chi la scagghia, e sforza;
Tutta la sua putenza, e tuttu chiddu
Spiritu chi dimustra, nun è d'iddu.
       Sai com'è pressu a pocu: lu patruni
Ammetti in casa pri spassu, e piaciri,
(Comu tu sai) Ruffiniu, e Corbelluni,

Pari ad un scioccu in chisti di vidiri
Di lu patruni cu la grazia in frunti
Un superbu Gradassu, e un Rodomunti.
       Si mai la grazia da iddi alluntanati,
Nun avrannu cchiù fumi, nè valia;
Divintirannu strummuli scacati,
Scuprennu ogn'unu l'essenza ch'avia,
Chi tolta in iddi l'indoli maligna.
In suslanza nun sù chi trunchi, e ligna.

XXIV.
Lu Rizzu, la Tartuca, e lu Cani.
       A la Tartuca sutta un scornabeccu
Dissi lu Rizzu: o pazza, fa sciloccu,
E tu vai cu visèra, e cu cileccu,
E dicchiù porti supra lu marroccu!
       Rispunn'idda: Tu all'autri metti peccu!
E pirchì armatu di dardu, e di stoccu
'Ntempu di paci vai, facci di sceccu,
Comu duvissi sustiniri un bloccu?
       Mentri autri inciurj sù pronti a lu sbuccu
Rumpi Sta quistioni un Cani-braccu,
Chi l'immesti, e li sbatti a trucc-e-ammuccu,
       Poi dici: ogn'unu stia 'ntra la so scaccu,
Sapi cchiù 'ncasa propria un pazzu ,o un cuccu,
Ch'in casa d'autri un saviu, ed un vigghiaccu.

XXV.
Lu Sceccu Omu, e l'Omu Sceccu.
       Un bon'Omu avia un Sceccu assai turduni,
La sorti, ch'è bizzarra e stravaganti,
Cancia lu Sceccu in Omu, e lu patroni
Lu cancia in Sceccu; ma com'er'avanti
Ristau la menti in iddi; pirchì 'un vali
La sorti a trasmutari lu morali.
       Cunsidirati, chi peni, ed affanni
Diva suffriri un Omu, chi ragiuna
Assuggittatu a un Sceccu grossu.e gramii,
Fatt'Omu da un capricciu di fortuna!
Puru àrriventa eu coraggiu eroicu,
E la nicissitati lu fa stoicu.
       Vinni lu casu, chi duvennu fari
Lungu viaggiu lu Sceccu patruni,
Metti lu Sceccu servu a carricari
Di bagagghi, e di robba a munzidduni,
Senza considerari, chi 'un putia
Reggiri a lu gran pisu, e a la fatia.
       L'alflìttu carricatu a summu stentu
Tir'avanti pri un migghiu, ed arriventa.
All'autru migghiu lu 'passu è cchiù lentu,
E a spinciri li pedi suda, e stenta;
Ogni pitrudda cci duna cuntrastu;
Ma l'autru dà mazzati a tuttu pastu.
       Finalmenti vicinu a 'na lavanca
Truppica, cadi, e supra di 'na rocca
S'apri la testa, e si struppedda un'anca;
Lu patruni pri rabbia tarocca;
Ma lu so taruccari nun apporta
Vita a lu Sceccu, nè la robba porta.

       L'espedienti sulu chi cci resta
È lu pisu addussarisi di chiddu,
E parti sù la schina, e parti in testa
Jirisillu adattannu supra d'iddu,
Chi cci rinesci tantu cchiù gravusu.
Quantu menu a li pisi cci avia l'usu.
       Stenta, suda, si affanna, spinci forti,
Cadi, si susi, si sconquassa, ed eccu
Contru st'armali, ad onta di la sorti.
Torna com'era, ed è dni voti Sceccu,
E comu tali cu lu pisu addossu
Finisci allavancannusi 'ntra un fossu.
       La sorti è 'un ventu, chi alza li Sumeri,
E cci fa fari vóli sorprendenti;
Ma da se stissi poi cadinu arreri.
Cadissiru iddi suli sarria nenti,
Ma tanti voti sù peniciusi
All'omini onorati, e virtuusi.

XXVI.
La Rinduna, e la Patedda.
       Stanca da li viaggi supra un scogghiu
Chiusi l'ali, e pusau 'na Rindinedda;
Un pocu sutta cc'era 'na Patedda,
Chi pri tettu cci offriu lu so cummogghiu.
       Ti ringraziu, cci dissi, nun lu vogghiu,
Ma tu sempri stai ddocu? o puviredda!
Jeu gira mari, paisi, castedda,
Osservu tuttu, e doppu mi la cogghiu.
       Dimmi, l'autra spijau: li lochi visti
Sù d'acqua, e petri?. .Si.. .Cc'è armali?. .Oh quanti!.


L'omini sù a dui pedi?...Comu chisti...
       Periculi cci nn'è di vita vostra?...
Cui li pò diri?... Basta.'Un jiri avanti.
Tuttu lu munnu è comu casa nostra.

XXVII.
La Formica  e la Cucucciuta.
       Veru cchiù chi 'un si dici: Li disigni
Di lu poviru mai, mai vennu a fini:
Suda, travagghia, fa cunti, e rassigni,
Pri un granu dà la facci 'ntra li spini,
Sparagna, si allammica, si assuttigghia,
Lu diavulu veni, e cci li pigghia.
       Aveva la Furmicula a gran stentu,
Tissennu sempri campagni, e chianuri,
Risiddiatu un pocu di furmentu,
Chi avia sarvatu in suttirranj scuri,
Spirannu cu sta picciula dispenza
Reggiri di l'invernu a l'inclemenza.
       Ven'intantu l'autunnu, e 'na timpesta
Cc'insuppa tutta la provisioni,
Chi si tali qual'è sarvata resta
Si cci ammuffisci, e va in corruzioni;
Pri tantu aspetta 'nchiaruta l'aurora,
E pri asciucarla si la nesci fora.
       Aveva appena nisciutu di sutta
L'ultimu cocciu, chi cala affamata
'Na Cucucciuta, e cci la mancia tutta,
Dicennu: cca la tavula è cunsata,
Veramenti Natura appi giudiziu
La Furmicula à fattu in miu serviziu.
       Da l'autru latu, amariggiata, affiitta
Cunsidirati quantu l'autra resti!

Jeu, dici, travagghiai, la mmaliditta
Si la manciatu, chi cci fazza pesti.
Oh celu! E tu chi sai quantu mi custa
Pirchì mi rendi sta cumpenza ingiusta!
       Mentri l'afflitta sfugava l'affannu
Centra lu celu, vid'in aria un Nigghiu,
Chi va la Cucucciuta assicutannu,
E già la strinci 'ntra lu crudu artigghiu.
La Furmicula osserva tuttu, e dici:
Bonu cci stia; ma intantu eu sù infelici.
       La cruda morti d'idda, e lu so mali,
Sihbeni in apparenza sia vinditta,
A mia nun mi suffraga, e nenti vali
A cumpinsari in parti la mia sditta,
Soffru travagghi, sfuma lu profittu,
E intantu mi assicuta lu pitittu!
       Ma è mali assai maggiuri, si nun sbagghiu,
L'essiri assicutata da lu Nigghiu;
Giacchì sibbeni è pena lu travagghiu,
Puru diri si pò salamurigghiu;
Chi ultra chi vi procaccia lu manciari,
Cci dà sapuri, e vi lu fa gustari.

XXVIII.
Li Cani.
       Si fannu stu dialogu dui Cani:
Tu 'ncatinatu! E pri quali delittu?...
Nun è castigu, su carigni umani;
Lu patruni di mia nn'àvi profittu:
       Mi à vistu cacciari pri li chiani,
Mi apprezza, e timi chi cci vegna dittu:
Lu rubbaru, o si spersi; perciò un pani

Mi duna, ed ossa, e cca mi teni strittu...
       Fratantu in premiu di l'abilitati
Lu bon patruni to riconoscenti
Ti à fattu privu di la libirtati?
       Si a stu modu li meriti, e talenti
Sù da l'omini in terra premiati,
È gran fortuna nun avirni nenti.

XXIX.
Lu Rusignolu, e lu Jacobbu.
A lu Jacobbu dissi un Rusignolu:
Di': sta pittima amara è cantu, o picchiu?
Rispus'iddu: Gnuranti fraschittolu,
Chi canti ad aria misu in cacaticchiu,
Si 'un sai di contrapuntu, ergo citrolu;
Sai spàrtiri lu tempu a spicchiu a spicchiu.
'Nterrumpi l'autru sarrai bon pedanti,
Ma non pri chistu si un bravu cantanti.
XXX.
Lu Merru, e li Pettirrussi.
Un Merru vitti cu l'ali caduti
Alcuni Pettirrussi, e cci à spiatu:
Chi vi avvinni ca siti arripudduti?
Tu pirchì zoppu? E tu pirchl spinnatu?
Rispusiru: Nni semu divirtuti
Cu 'na Cucca, e 'ncappammu 'ntra un viscatu.
Diss'iddu: Oimè! cu smorfj, e jucareddi
St'errami Cucchi smennanu l'oceddi!

XXXI.
La Signa, e la Vulpi.
       Vi scrivu, e vi presentu tali quali
Lu dialogu, comu era distisu
Dintra lu camulutu originali
Traduttu da lu vecchiu. E' assai concisu
Pirchì è traduzioni litterali;
Di lu miu nenti affattu cci àju misu,
Tali, com'era, da mia si cunsigna,
Vi prevenga chi primu parra Signa.
       Cummàri comu stati ?.. Ih! Tinta assai!..
Dativi cura...E chi!..st'infirmitati
È d'una specj, ch' 'un si cura mai...
E pirchì?.. Pirchì è mali di l'etati...
       Pribbiru! pocu fa mi nni addunai,
Chi avivu tutti li cianchi spilati...
E chist'è nenti, cci sunn'autri guai...
Quali sù?.. Sugnu modda pri mitati...
       Mischina! chianciu sta vostra muddura!..
Vogghiu a l'oricchia pri stu bonu offiziu,
Darti un rigordu. Accostati a drittura...
       Ah tu muzzichi! ahi-ahi!..Metti giudiziu
Vulpi, e Lupi nun cancianu natura,
Lu pilu pirdirannu, e no lu viziu.

XXXII.
L'ursu, e lu Ragnu.
       Saziu di meli sinu 'ntra li naschi,
Un Ursu ripusava 'ntra la tana.
Un Ragnu appisu a li soi riti laschi
Si cci fa avanti, e dici: La suvrana
Altizza Vostra comu soffri in paci

L'insetti molestissimi, ed audaci?
       Ver'è, ch'è un gran discapitu lu sò.
Mittirisi cun iddi a tu pri tù;
Ma affidami l'incaricu a mia pò,
L'attaccu, e 'mburdu a tutti quantu sù.
Fissu, e chiantatu a la porta davanti
Sarò 'na sintinedda vigilanti.
       L'Ursu accetta l'offerta, ed eccu un velu
Vidi distisu avanti di l'entrata.
Ma poi si accorgi, chi 'un è tuttu zelu;
Giacchì ogni Musca chi resta 'ncappata,
E preda di lu Ragnu, chi la suca,
E la testa, e li vini cci l'asciuca.
       E puru chistu l'avirria suffertu;
Ma quannu vidi poi, chi Vespi, ed Api
Trasinu franchi, comu fussi apertu,
Dici: sta riti d'ingiustizia sapi.
Teni a frenu li picciuli, nè vali
Pri li grossi chi fannu maggiur mali.
       Conchiudu: O tutti o nuddu. A disonuri
Ieu tegnu, ed a viltà lu dominari
Li deboli, e li vili. Tu procuri
Lu sulu to vantaggiu, e voi lasciari
La taccia a mia di vili, e di tirannu?
Sfunna, e vattinni pri lu to malannu.

XXXIII.
Lu Lebbru, e lu Camaleonti.
       Dissi lu Lebbru a lu Camaleonti:
Tu mi pari un complessu di portenti,
Quanti voti ti guardu, tu ti appronti
Di aspettu, e di culuri differenti;

Ed ultra poi di chistu, ancora sentu,
Chi ti alimenti d'aria, e di ventu.
       Rispusi: pri castigu fui da Giovi
Canciatu da lu primu aspettu umanu.
Pirchì pri ambizioni tali provi
Cu l'impiegu facia di corteggianu.
Ripigghia l'autru: cercati l'eguali
Dunca 'ntra li anticàmmari, e li sali.

XXXIV.
Li Virmuzzi.
       L'intressu propriu pinci a nui l'oggetti
Ora boni ora pessimi, a secunna
Di unni a guardarli qualcunu si metti.
L'esperienza di sti fatti abbunna
'Ntra li tanti lu Vecchiu vi cunsigna
Dui Virmuzzi 'ntra un filu di gramigna.
       L'unu spija: Cullega chi si dici?
Rispunni l'autru: Guai! cc'è mali novi!
Lìberu è già lu campu a li nnimici
Pri fari supra nui crudili provi:
Vennu li feri agneddi a devorari
St'ervi, e nui chi cci semu ad abitari.
       Ripigghia chiddu: e li benefatturi
Lupi, benigni lupi nni lassaru?
Sù stati di l'agneddi lu terruri,
Vigghiannu sempri pri nostru riparu:
Per iddi intatta ancora si conserva
La nostra vita, ch'è affidata all'erva.
       Ahimè! l'autru esclamau, ahimè! li cani
E li pasturi armati, ed a munseddu
L'assautaru anchi dintra di li tani,

E nni ficiru orribili maceddu.
Li barbari tripudiu nni fannu,
Chiancemu in iddi nui lu propriu dannu.

XXXV.
La Vulpi, e lu Lupu.
       Standu 'na Vulpi supra la finestra
Di un casalinu vecchiu inabitatu.
Guardava a bassu in macchi di jinestra
Un Lupu, chi vidennusi guardatu.
Cci spija: t'àju a dari? Idda surrisi
Dicennu: àju squatratu quantu pisi.
       Tu nun si tanta leggia, iddu rispusi,
Ma puru si 'ntra nui cci fussi lega
Tintiriamu l'imprisi cchiù azzardusi.
'Ntavulamu un trattatu; pensa, spiega,
Ditta li liggi tu, ch'eu tutti quanti
Juru osservarli comu saggi, e santi.
       Benissimu, diss'idda, pri cuscenza
Sacciu quantu pò avirinni lu lupu,
Onuri nni pò vinniri a cridenza;
'Nzumma si Giovi 'un è pri tia chi un pupu,
Si fidi in tia, nè probità cci trasi;
Stu trattatu unni posa, e metti basi?
       Lu vantaggiu reciprocu, ripigghia
Lu Lupu. Ma la Vulpi: cca ti vogghiu.
L'amur propriu nun dormi, sempri vigghia,
E si cci torna commodu un imbrogghiu,
Posponi, scarpisannu ogni trattatu,
All'utili comuni lu privatu.
       Dunca, ripigghia l'autru, già si vidi,
Chi cu la tua manera di pinsari
La guerra sula è chidda, chi decidi.

E idda: Chi autru da tia si pò spirari?
Unni cc'è radicata la malizia
Allignari 'un cci pò mai l'amicizia.

XXXVI.
L'INGRATlTUDINI: O
LA VECCHIA, E LU PORCU.
       'Na vecchia chi tiratu
Si avia da un puzzu l'acqua,
'Nni sdivacau lu catu
'Ntra un lemmu, e poi si sciacqua.
       Un Porcu arsu di siti,
Vidennu l'acqua scappa,
E senza offerti, o inviti,
Arriva, e si l'appappa.
       Nun pensa farci mali
La vicchiaredda pia,
E godi ca dd'armali
Si sazia; e si arricria.
       Vivennu quantu pò
Lu Porcu poi nun lassa
Fari da paru sò,
Lu lemmu cci fracassa.
       La vecchia a sta vinditta
Si pila, e si contorci
Dicennu mesta, e afflitta:
Faciti beni a Porci!

XXXVII.
Animali Notturni, e Giovi.
       Lupi, Vulpi, e autri bestj di rapina,
Uniti a li Jacobbi, e a Varvajanni,
Facianu istanza a Giovi ogni matina
Contra di Febu pirchì in terra spanni
Tanta luci, pri cui vennu obbligati
Starisi in grutti, e tani incrafucchiati,
       E chi l'està cci robba li megghiu uri
Di scurriri li campi, e di circari
Da cavaleri erranti l'avventuri:
Conchiudevanu in fini: chi cui fari
Vosi la luci putia fami a menu,
Bastannu di la notti lu sirenu.
       Giovi primu usau flemma, finalmenti
Stancu da tanti istanzi bestiali
Cci dici: virgugnativi insolenti,
Chi siti sutta assai di l'autri armali,
Pirchì la luci a vui nun torna a versu
Nni vuliti privatu l'Universu!
       Comu si vidirianu senza luci
L'operi mei magnifici, ed esatti?
Cui li viventi avviva? cui produci,
Cui fecunda li campi? O siti matti,
O furbi, chi timiti a chiaru lumi
Esponiri li vostri rei costumi.
       Quannu mi si accurdassi la licenza
Dirria: chi si la luci è 'na sustanza,
Chi rischiara li corpi; la scienza
Rischiara l'almi, e ottenebra ignoranza.
Cu da saggiu si regula, e conduci
Scurri francu 'ntra l'una, e l'autra luci.

XXXVIII.
La Sorti o sia
li Siminseddi, e li Venti.
       Dui troffi di Cardedda
L'una si trova nata
Supra 'na finistredda
Di casa sdirrupata,
E l'autra 'ntra li cimi
Di turri auta, e sublimi.
       Sti dui cu lu favuri
Di tutti l'elementi
Spicanu, e fannu ciuri,
Sti ciuri finalmenti
Fannu li Siminseddi
Chini di sfiluccheddi.
       Già sicchi, e maturati
Sti Siminseddi vannu,
Da venti traspurtati,
Pri l'aria vagannu,
Sirvenducci di vila
Li sfiluccheddi, e pila.
       Perciò succedi spissu,
Chi chidda nata bassa
S'alza, e lu ventu stissu
In cima poi la lassa
Di la gran turri, e crisci,
Prospera dda, e ciurisci.
       L'autra a l'incontru nata
Ch'era 'ntra tanta altizza,
Doppu chi in aria nata.
Cadi 'ntra la munnizza
In lochi vili, e vasci,

Unni germoglia, e nasci.
       Pè insuperbirsi chidda,
E disprizzari a chista?
Forsi si divi ad idda
L'essiri ben provista
Di un locu autu, eminenti?
Fu l'opra di li venti.

XXXIX.
Li Crasti.
       'Na quantità di Crasti in un sticcatu
Mentri chi si scurnavanu 'ntra d'iddì,
Nni fu da un strifizzaru unu acchiappatu,
Chi un ferru cci ficcau 'ntra li gariddi,
E in presenza di tutti l'ammazzau,
L'unciau, lu battiu beni, e lu scurciau.
       L'autri si eranu mossi a vindicari
Lu so mortu cumpagnu, e allura certu
Eranu in statu di putirlu fari,
Ma nun fu di durata lu cuncertu;
Pirchì testi di crasti, e testi assai;
Pignata di comuni, 'un vugghi mai.
       Da multi si dicia, chi l'ammazzatu
Era superbu, e chinu di arroganza,
'Na mala spina nni avemu livatu,
Quali sconsu nni fa la sua mancanza?
Menu consumu d'erva, e la sua parti
Crisci la nostra, pirchì a nui si sparti.
       Si eranu cuitati a stu cunfortu,
Quannu lu strifizzaru trasi arreri.
Ed. eccu cadi nautru Crastu mortu,
Tornanu l'autri a mettirsi in pinseri,

Freminu; ma poi trovan'anchi in chistu
Li soi difetti, ch'era fausu, e tristu.
       Vidinu poi, chi la processioni
Seguita a longu, nè la straggi speddi;
Vannu trasennu in costernazioni,
Ed in timuri pri la propria peddi.
Perciò tennu cunsigghiu espressamenti
Pri risolviri un giustu espedienti.
       Ma mentri si consulta, e si riscontra
Da una parti e dall'autra ogni progettu,
E si matura cu lu pro, e lu contra,
Menzu sticcatu è già sbrigatu, e nettu,
Pirchi scannannu a drittu, ed a traversu
Lu strifizzaru tempu nun nni à persu.
       L'ultimi, ah! tardi apprisiru,e a so costu,
Chi duvia farsi a privati odj un ponti,
Lu nnimicu comuni avennu 'ncostu!
E chi 'ntra gran periculi li pronti,
E li cchiù arditi risoluzioni
Sunnu a salvarci unici menzi, e boni.

XL.
Lu Lupu rumitu e lu Cani.
       Un Lupu vecchiu, chi nun putìa cchiui
Scurriri, e assassinari li campagni,
Fattusi un rumitoriu, si cc'inchiui,
Li zocculi si adatta a li calcagni,
'Na corda 'ntra lu cintu, e in schina, e testa
'Na menza peddi d'asinu pri 'mmesta.
       Cu li pedi davanti 'ncrucicchiati,
L'occhi modesti, stisu 'ntra la porta
A cui passa di dda la caritati

Dumanna umiliatu, e poi li esorta
A sfuiri ogni viziu, e pompa vana,
E supra tuttu la carni munnana.
       'Ntra tanti bestj, chi cci sù a lu munnu,
Nni trova alcuni sciocchi a signu tali,
Chi cridinu stu Lupu di bon funnu,
Simplici, e senza nudda umbra di mali;
Chisti a cui putia cchiù facianu a prova
Dannucci carni, e pani, e caci, ed ova.
       Lu vidi un Cani, e dici: Eh! via si sapi,
Chi 'ntra li Lupi la divuzioni
E' strataggemma vecchiu.e cchiù nun capi,
Nè trova locu 'ntra li testi boni.
Vinisti a mali tempi, 'ntra st'etati
Cchiù nun si cridi a lupi mascherati.
       Almenu, ripigghiau lu Lupu astutu,
Mi divi essiri gratu, pirchì vivu
Da saggiu, nè cchiù fazzu lu sbannutu,
Nè sugnu cchiù a li pecuri nocivu.
L'interrumpiu lu Cani: ma stu beni.
Chi tu vanti, da tia certu nun veni.
       Veni da li toi forzi già mancanti,
Pri cui fari nun poi maggiuri dannu,
Ch'otteniri pri pura caritati
Chiddu, chi a forza carpivi rubannu,
'Nzumma qualunqui pirsunaggiu fai,
Lupu nascisti, e Lupu murirai.

XLI.
Lu cunvitu di li Surci.
       Un Surci di autu rangu, pirchì natu
Supra di un campanaru, essennu un jornu
Scinnutu a terra, vidi in un fussatu
Tanti autri Surci a un munnizzaru attornu,
Li compiangi dicennu: oh miserabili!
Dipoi cci parra cu maneri affabili:
       Cci pinsiriti a ripulirvi! E quannu?
Pirchì abitari in lochi sporchi, e bassi,
L'aria cchiù impura sempri respirannu
Sellevativi. E ogn'unu si spicchiassi
In mia, chi staju unni ogni ventu batti,
Sicuru anchi da trappuli, e da gatti.
       E pri farvi vidiri, ch'è lu veru
Quantu dicu, v'invitu pri dumani
Quannu lu suli è sutta st'emisferu
A cenari cu mia 'ntra li mei tani
Si avriti lu coraggiu appiccicari
Dda turri e agugghia, chi a menz'aria pari.
       Li Surci cci accunsentinu, e cuntentu
Si parti ogn'unu, e a disiari attenni
L'ura prefissa di l'appuntamentu
Pr'interveniri a stu invitu sollenni.
Multi però, di umuri cchiù bagianu,
Nun cci vonn'iri cu li manu in manu.
       Ma cui cci porta crusti di furmaggiu,
Cui tozza duri, cui castagni, e nuci,
Cui ficu sicchi pri lu cumpanaggiu,
E cui di turti muddicheddi duci.
Cussi tutti a lu tempu stabilitu
Si ficiru truvari a lu cunvitu.

       Lu baruneddu di lu campanaru
Muntatu in cirimonia li ricivi,
L'introduci a traversu di un sularu
Supra di un curniciuni, unni giulivi
Vidinu stisi comu in un tirrazzu
Pani, lardu, prisuttu, acci, e tumazzu.
       Li cunvitati stupefatti ammiranu
Lu situ, la veduta, la eminenza,
Mettinu a passiaricci, e respiranu;
Finalmenti a lu tàffiu poi si penza,
Si alliffanu li mussi, e dannu saccu
Pri fari allegri di dda robba smaccu.
       Mentri sù 'ntra lu megghiu di lu spassu,
Lu sagristanu li campani sona,
Li Surci non avvezzi a ddu fracassu,
Non sannu si sù fulmini, o sù trona,
Cci pari chi lu munnu si sprofunni,
E lu spaventu li sturdi, e cunfunni.
       Lu baruni à la vogghia di gridari:
Nun vi scantati ch'è cosa di nenti,
Si sgargia indarnu, nun li pò frinari,
Lu ribumbu è lu sulu chi si senti,
Chiddi attirruti currinu a tantuni
Precipitannu da lu curniciuni.
       Lu Surci di lu locu si dispiaci,
Pri 'un aviri previstu sta frittata:
Ma eu nun cci culpu, dici, e si dispiaci,
Mancia, e si godi la campaniata.
Lu tradutturi è terminatu ccà,
Ed eu cci agghiunciu sta moralità:
       L'esperienza nni fa dotti, e l'armi
Nni sumministra a reggiri custanti
Contra li colpi di li fausi allarmi,

E nn'insigna a distinguirli a l'istanti
Da li veri periculi, e di fatti
Utili è all'omu, a cani, a surci, e a gatti.

XLII.
La Corva, e lu Groi.
       Stavasi mesta, ed accufurunata
'Na mugghieri di un Corvu. Passa, e spia
Un Groi: Dimmi cos'ai? chi si malata?
Rispusi: Assai, ma di malincunia.
       Mentri aspittava cca la ritirata
Di miu maritu, 'na vulpazza ria,
Fincennusi già morta, stinnicchiata
Stavasi a panz'all'aria 'ntra la via.
       Iddu la scopri, cala, si l'afferra,
Luttanu in aria, ma la vulpi ocidi
Lu Corvu, e tutti dui scoppanu a terra.
   Dissi lu Groi: Stu munnu è un gran teatru!
Cc'è cui chianci, e cui ridi! Ma nun ridi
A longu la mugghieri di lu latru.

XLIII.
Lu Surci, e la Tartuca.
       Durmia sutta 'na macchia 'na Tartuca,
Un Surci la tuccau, la vitti dura
La critti petra, o radica di vruca;
Pinsau di farni esperimentu allura;
Ma mentri supra cci azzicca lu denti
Arriminari, e smóviri la senti.
       Si arrassa, la cuntempla tutta intera,
E vidi, chi àvi testa, ed occhi, e vucca.
Dici 'ntra d'iddu: è armali 'ntra la cera!

Ma la casa strascina unni si aggiucca!
Forsi àvi assai chi perdiri, e di toppi
Nun si fida; oggi si aprinu cu sgroppi.
       Spija: pirchì pigghiariti sta pena
Di purtari la casa unn'è chi vai?
Rispunni chidda: Pri stari serena
Unni mi piaci, e nun aviri mai
A lu miu latu lu malu vicinu,
Chi è preludiu di pessimu matinu.

XLIV.
Li SCRAVAGGHI.
       Cc'era sparsa pri terra certa stuppa,
Pirchì li manni avianu dda cardati;
Un Scravagghiu nni arrunza.e mett'in gruppa.
Di la sua schina 'na gran quantitatì,
Cridennu farsi maistusu, e grossu,
Cu ddu volumi vavaciusu addossu.
       Mentri camina si senti tirari
Li pedi di darreri...Vota, e guarda;
Ma sbutannu si senti cchiù 'mpacciari,
E prova un non so-che chi lu ritarda!..
Vidi chi'ntra li gammi cc'è un imbrogghiu;
Si dà coraggiu, e dici: mi nni sciogghiu.
       Tenta sbrugghiari un pedi, e mentri spinci
L'autru in ajutu a chiddu, chistu spintu
In autri fila s'impidugghia, e 'mpinci...
Torna a sbutarsi, e cchiù si trova cintu...
Si cunfunni a la fini, e chiam'ajutu
D'unu ch'aveva assai 'ntisu, e vidutu.
       Chistu, senza spustarsi, dici, avogghi,
Amicu, di gridari quantu poi.
Cui si à fattu li 'mbrogghi si li sbrogghi.

L'imbrogghi (gira, e sbota quantu voi)
Sempri sù 'mbrogghi. Guai pri cui cci trisca,
Ed a cui pri sbrugghiarli si cc'immisca.

XLV.
La Patedda, e lu Granciu.
       Mentri chi 'na Patedda
Durmeva cuitedda,
E forsi si sunnava,
Un Granciu la vigghiava,
Appittimatu, e duru
'Ncostu di lu so muru;
E 'ntra sta positura
Cchiù jorna, e notti dura.
       Surtìu, chi assajann'idda
Di apriri 'na 'ngagghidda
Pri vidiri si attornu
Erasi fattu jornu,
Chiddu chi sempri 'mpressu
Dda stavasi indefessu,
Profitta vigilanti
Di l'opportunu istanti,
Bastannucci sta 'ngagghia
Pri oprari la tinagghia.
       Trasennucci la punta
Fa leva, e tuttu smunta
Lu so cuverchiu, e tettu,
Ed eccu, chi l'insettu,
Chi pri timuri, e scantu
S'era guardatu tantu,
Appena, chi un minutu
Trascurasi, è pirdutu,


E veni devoratu.
Guai guai pri cu' è vigghiatu!
SECONDA PARTE
Favuli morali
SECONDA PARTE
MONUMENTO A
GIOVANNI MELI
Medaglia di bronzo dedicata a G.Meli (Collez. F. Di Rauso - Caserta)