GIOVANNI MELI
Commento di
Francesco Coppola
(Ricercatore I.R.R.E. Sicilia)
.............................................................
Facendo un salto di alcuni secoli vorrei soffermare la mia attenzione su Giovanni Meli, uno dei poeti più interessanti della nostra tradizione letteraria, l’opera che ci ha lasciato dimostra la sua vastissima cultura; egli è conosciuto soprattutto per “La Buccolica” e le “Favuli Morali”, ma è autore anche di “Odi” oltre che di vari altri componimenti, e proprio in questa raccolta, forse poco organica e senza un filo conduttore, si trovano alcuni gioielli che è il caso di analizzare.
Vorrei partire da “Lu labbru”, un componimento di estrema eleganza formale che si trova spesso citato come uno degli esempi più significativi della musa meliana. Qui non potrei proprio parlare di simbolismo floreale, qui il fiore è utilizzato in senso proprio, non è metafora di altro. Ma leggiamo qualche verso: Dimmi, dimmi, apuzza nica,/ Unni vai cussì matinu?/ Nun cc’è cima chi arrussica/ Di lu munti a nui vicinu:/ Trema ancora, ancora luci/ La ruggiada ‘ntra li prati:/ Duna accura nun ti arruci/ L’ali d’oru dilicati!/ Li sciuriddi durmigghiusi, ‘Ntra li virdi soi bottuni, Stannu ancora stritti e chiusi/ Cu li testi appinnuluni./... (Odi, 6). Nel prosieguo dell’ode il poeta dà indicazioni all’ape su dove posarsi per trovare il miele più dolce, naturalmente sulle labbra della sua amata Nicia. Ma per quel che ci interessa, vorrei far notare l’estrema delicatezza di questi fiorellini addormentati, coi boccioli serrati, con le loro corolle ancora chiuse e la testa reclinata; sembra quasi si stia parlando di bambini che dormono. Questi versi rappresentano forse il culmine della poesia meliana!
Il componimento e altri due che ora affronterò fanno parte di una più ampia corona poetica che ha come oggetto la donna amata dal Meli, i componimenti esaltano le varie parti fisiche della donna o alcuni suoi aspetti, focalizzando un particolare, per es. “La Vuci”, “L’Alitu”, “Lu Neu”, il poeta usa una tecnica molto simile a quella della macrofotografia: un particolare ingrandito fa perdere la percezione del tutto e rende l’oggetto focalizzato come un piccolo mondo a sé. Questa poesia del particolare opera una sorta di trasfigurazione che toglie all’oggetto quasi la sua consistenza reale.
“Lu Pettu” è un'altra prova degna d’interesse, composta nel 1777, fu ispirata da donna Mela Cutelli (cui è dedicata anche “L’occhi”). Il titolo forse non è molto indicativo, dal momento che nel componimento si parla piuttosto del velo che impedirebbe al poeta di vedere le delizie della sua donna, il petto per l’appunto. I modelli cui s’ispira il Meli sono molteplici, fra tutti cito il Marino e il Fontanella: “Qual bianca nube l’odorosa tela”. Ma non sarebbe difficile citare altri poeti che hanno cantato il motivo del velo, si pensi al Gessner, che ha un’immagine che sembra aver suggestionato il Nostro: “Al giovin seno il vel stringea, che ardito/ scoprir tentava il lascivetto Zefiro”, ma potrei ancora ricordare il Pucci e il Sannazzaro quando nell’Arcadia descrive il seno di Amaranta.
In quest’ode il Poeta descrive un giardino che appare come un piccolo mondo primigenio, un giardino edenico in cui Amore raccoglie rose ed altri fiori per farne due mazzetti, vi spruzza poi fiocchi di neve per ravvivare la composizione e il bouquet è pronto per essere donato, qui Amore, che è l’innamorato, si identifica col Poeta il quale con altra variazione celebra le qualità della sua donna. Vi sono tutti i motivi di un canto erotico: il dio, i fiori, il candore della neve e infine il paradiso. Questo però avviene soltanto nella prima strofe del componimento, nel prosieguo il godimento contemplativo è limitato dal velo della pudicizia. Amore non trova il suo completo appagamento e il poeta chiama in aiuto Zefiro, che spazzi via questo velo, il canto termina lasciando intendere la difficoltà della cosa.
L’ultimo componimento di questa serie è “Lu Non-So-Chi”, nell’odicina, pubblicata nel 1814, è svolto il tema dell'indefinibile fascino per il quale la donna del cuore è sempre più bella di tutte le altre. Il motivo del non-so-che, quale espressione usata per indicare l’indefinito e l’ineffabile, è frequente nell’ambito della poesia arcadica, si ricordi ad es. Il Bugiardo del Goldoni, il ritornello della serenata di Florindo nella I scena. Il componimento ha una sua notorietà: in un saggio, intitolato Per l’arte (Catania 1885) il Capuana dice “ddu certu non so chi dell’Abate Meli”. Questo componimento a mio avviso appare un po’ diverso dai precedenti perché, sia pur nella sua leggerezza, sia pur all’interno di un genere laudativo, si caratterizza per un maggiore realismo. Qui la figura della donna mi pare un po’ meno idealizzata, a partire da quel “Bedda bedda-nun cci sì”; il poeta è comunque tenero con la sua donna perché la chiama “vijuledda”, un fiore, direi quasi, più familiare senza essere di tono minore, un fiore non impegnativo ma bello perché prodotto di natura, certamente non caricato di altri significati, un fiore non aristocratico insomma, ma popolare senza essere volgare.
Passiamo ora ad un componimento in cui il fiore è veramente utilizzato in senso simbolico, l’ode si intitola “Lu gesuminu”, in essa viene svolto il tema della caducità della bellezza congiunto con quello dell'incostanza del cuore femminile. La celebrazione del gelsomino è motivo frequente nella lirica amorosa del Sei e Settecento, si pensi al sonetto anonimo “Gelsomino in bocca di bella donna” o ad una cantata del Rolli “Son gelsomino, son piccolo fiore”. Ma qui, come altrove, l’Autore ha la capacità di rinfrescare lo spunto ben noto e tradizionale con la novità della invenzione. Il Poeta si rivolge direttamente al fiore chiedendogli perché si mostri a lui in maniera sostenuta: tu m’ammaschi; è già la prima prefigurazione di un rapporto uomo-donna, l’uomo infatti continua dicendo Stari in menzu di sti raschi, (fiordilatte) / nun lu negu, ch’è un gran chi. La terza strofe (vv. 9-12) è un invito alla moderazione, alla modestia. La quarta strofe (vv. 13-16) riprende il classico motivo dell'incostanza
femminile e quello della fugacità della bellezza, rappresentato per analogia con la brevità della bellezza dei fiori; ed è un luogo comune nella tradizione letteraria, si veda per es. il Gessner “Debil narciso, ahi come tristamente/ chini il languido capo a me daccanto./ In tua freschezza ancor l’alba ti vide;/ or sei svenuto...”. Quindi viene additato, come monito un garofano che il giorno prima era stato considerato una divinità, mentre ora si trova in bassa fortuna e non tocca più “cantusciu” cioè veste femminile lunga, elegante e verosimilmente pregiata, e pertanto si lamenta. La chiusa dell’ode (vv. 29-32) è di carattere moraleggiante: è una cuccagna laddove regna l’incostanza perché la fortuna con la sua mutevolezza può toccare chiunque. Il finale risente un po’ delle “Favuli morali” che abbiamo detto il capolavoro del Meli.
Ciò che mi pare strano nell’ode, e per questo, interessante notare, il fatto che il gelsomino venga visto come simbolo d’orgoglio, mentre la sua leggerezza, forse fragilità, lo destinerebbero quasi ad altri usi, - ma poco importa -, per il Meli il gelsomino è simbolo di altezzosità.
Col carme successivo, “L’aruta”, rimaniamo sempre nell’ambito della poesia moraleggiante, quest’ode è un po’ il contraltare della precedente, la ruta infatti è un’erba perenne, tipica dei luoghi aridi, dall’apparenza modesta, quindi molto diversa dal gelsomino, simbolo della lussuria. L’ode prende spunto da una malattia di Nicia, la donna del Poeta, che ammalatasi, è stata salvata dalla ruta, da qui quasi una maledizione agli altri fiori, rose, gigli e gelsomini, e l’esaltazione della ruta. Leggendo il componimento rileviamo che l’immagine ai vv. 3-4: nudda Ninfa chiù vi tegna/ ntra lu so pittuzzu finu l’abbiamo in qualche modo già vista nell’ode “Lu pettu”: Ntra ssu pittuzzu amabili, ortu di rosi e ciuri,/ dui mazzuneddi Amuri/ cu li soi manu fa.”
Gli ultimi versi (21 e segg.) hanno carattere più moraleggiante, tutta la strofe è un rimprovero ai fiori per la loro altezzosità, per l’orgoglio che mostrano; in questo rimprovero “fiori, in mezzo a questo mare di guai voi ve ne state freddi e oziosi” forse c’è un’eco di un famoso verso catulliano: “Piangete Veneri e Amori, è morto il passero, gioia della mia ragazza”. C’è, sia in Catullo che in Meli, il chiamare a raccolta un mondo per un canto di dolore ma anche d’amore; però i fiori del Meli sembrano più insensibili delle creature di Catullo. Il carme finisce con la lode della ruta, simbolo di modestia, virtuosa e dimessa, che vive semplice e beata e s’appaga di se stessa. Potrebbe essere un ammonimento valido per chiunque.
Tratto da: www.lires.altervista.org