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FRANCESCO PETRARCA


CANZONIERE
(Rerum Vulgarium Fragmenta)

Parte I
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
FRANCESCO PETRARCA

sul CANZONIERE
_________

Da Wikipedia
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FRANCESCO PETRARCA  - CANZONIERE - Parte I









































FINE
Parte prima
Il Canzoniere, o meno comunemente conosciuto col titolo originale in latino Francisci Petrarchae laureati poetae Rerum vulgarium fragmenta ("Frammenti di componimenti in volgare di Francesco Petrarca, poeta coronato d'alloro"), è la storia, attraverso la poesia, della vita interiore di Petrarca.

- MANOSCRITTI
Esistono quattro principali testimoni: il manoscritto Vaticano Latino 3196, il cosiddetto "Codice degli abbozzi" in quanto contenente versioni non definitive e ricche di correzioni, ed il 3195, definitivo, composto tra il 1366 e il 1374 (anno di morte del Petrarca), con alcune poesie mancanti rispetto al 3196. Entrambi i manoscritti possono essere catalogati come idiografi/autografi, in quanto scritti in parte dalla mano di Petrarca, in parte da quella dello scriba suo discepolo Giovanni Malpaghini (cfr. a tal proposito Vat. Lat. 3195, c.62r in cui sono riscontrabili le due grafie: Malpaghini per C.317 - 318, Petrarca per C.319 - 320). La mano del Malpaghini è fondamentale in quanto darà vita alla "redazione Giovanni" (Gv), considerabile come strato evolutivo intermedio essenziale per comprendere l'evolversi dell'opera.
Ad essi vanno collegati i testimoni più autorevoli della tradizione, che attestano, prima della conclusione del lavoro nella versione definitiva affidata al Vaticano latino 3195, il passaggio attraverso forme, raccolte, e alcune "edizioni" principali consegnate ai seguenti manoscritti: il codice Chigi L V 176, il Laurenziano XLI 17, il Queriniano D II 21, ma soprattutto per stabilire la forma pre-definitiva al Laurenziano XLI 10 e al Parigino italiano 551.
La vastità delle testimonianze manoscritte del Canzoniere ha comportato un'oggettiva difficoltà nella definizione del testo critico. L’originale del Canzoniere (Vat. lat. 3195) è stato riprodotto diplomaticamente da Ettore Modigliani. Di esso ha procurato il testo critico Giuseppe Savoca ( Francesco Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, Firenze, Olschki, 2008.).

- LE STAMPE
La prima edizione a stampa del Canzoniere, insieme ai Trionfi, si ebbe nel 1470 a Venezia presso il tipografo tedesco Vindelino da Spira. Di questa editio princeps sopravvivono presso biblioteche italiane, europee e americane, meno di trenta esemplari.
Nelle decine di altre stampe del Petrarca volgare fatte in tutta Italia nell'ultimo trentennio del Quattrocento si distingue per il suo notevole valore filologico quella del 1472, approntata dall'editore padovano Bartolomeo Valdezocco (Bortolamio Valdezoco). Questa edizione (nonostante gli errori di lettura e trascrizione) si rivela condotta direttamente sull'originale vaticano (o su un esemplare per la tipografia derivato dall’originale). Rispetto alla editio princeps, la Valdezoco, seguendo abbastanza attentamente il manoscritto originale, introduce una punteggiatura limitata a tre segni: «.»,«:», «?».
Recenti ricerche hanno consentito di accertare che la parola canzoniere è presente, con specifico riferimento ai Rerum vulgarium fragmenta, «già in documenti precedenti al 1484».
Fondamentale, per la costituzione della vulgata petrarchesca, è stata l'edizione uscita a Venezia dalla tipografia di Aldo Manuzio nel 1501, la cosiddetta "Aldina". L'edizione veniva presentata dall'editore come fondata sull'originale del poeta, ma in realtà essa riproduceva una copia manoscritta del Canzoniere approntata da Pietro Bembo, e pervenutaci come codice Vat. lat. 3197, che non deriva direttamente dall'originale. Le cose volgari di messer Francesco Petrarcha del 1501 (basate sul 3197) furono poi, con variazioni, ripubblicate da Aldo nel 1514 come Il Petrarcha.
Editore di grande scrupolo e rigore filologico fu certamente nel '600 monsignor Federico Ubaldini che, senza apporvi nemmeno il proprio nome, pubblicò nel 1642 a Roma, in una forma diplomatica tuttora esemplare, Le Rime di M. Francesco Petrarca estratte da un suo originale (le carte del Vat. lat. 3195).
Tra le edizioni successive da citare è quella curata dall'abate Antonio Marsand (Le Rime del Petrarca, 2 voll., Padova, Tipografia del Seminario, 1819-1820), più che per il valore filologico, per essere l'edizione a cui si rifà esplicitamente Giacomo Leopardi, seguendola in ogni cosa, «eccetto solamente nella punteggiatura». Una citazione chiarifica l’intelligenza filologica di Leopardi, quando si riferisce alla canzone CXXIX, v. 63:

In questo volume ci siamo discostati una volta dalla edizione del professore Marsand, e ciò è nell'infrascritto passo…
«Poscia fra me pian piano: // Che sai tu lasso? forse in quella parte // Or di tua lontananza si sospira: // Ed in questo pensier l’alma respira.»

"Che sai tu lasso?" è la lettura corretta. Ma le tre edizioni seguite dal Marsand, in cambio di "che sai", riportano "che fai", lezione priva di significato. Leopardi apportò dunque la modifica solo per gusto poetico, senza aver mai avuto la possibilità di leggere l'originale petrarchesco.
Dopo Leopardi, una svolta decisiva nella filologia petrarchesca si ebbe nel 1886, quando venne riconosciuto, dal De Nolhac e dal Pakscher, nel codice Vat. lat. 3195 l'originale del Canzoniere. Dieci anni dopo (1896) usciva a Firenze l'edizione di Canzoniere e Trionfi dovuta a Giovanni Mestica. Nel 1899 anche Giosuè Carducci e Severino Ferrari pubblicavano le sole rime del Canzoniere.
Qualche anno dopo, nella ricorrenza del sesto centenario della nascita di Petrarca, Giuseppe Salvo Cozzo, giudicando una sciocca pretesa quella di pensare di «rimodernare l'ortografia», pubblicava un'edizione del Canzoniere basata sull'originale, e che si proponeva di «conservare al testo la sua fisonomia», collazionando anche le principali varianti tra l'originale e le edizioni del Mestica e di Carducci-Ferrari.
Porta la data editoriale del 1904, ma in realtà uscì nel maggio del 1905, la trascrizione diplomatica dell'originale che la Società Filologica Romana aveva affidato a Ettore Modigliani. Questa edizione (pregevole, ma non priva di numerosi errori e di sviste, specie per quanto riguarda l’interpunzione) è tuttora un autentico contributo per la conoscenza dell'originale, ma ha finito, sulla base dell’erroneo presupposto che esso fosse un documento perfettamente aderente al testo trascritto, per esimere gran parte dei filologi e degli editori dallo studio diretto del codice vaticano. A questo distacco dall'originale ha concorso (anche se in misura minore) la riproduzione fototipica dell'originale curata per la Biblioteca Vaticana da monsignor Marco Vattasso nel 1905. Da citare anche le edizioni di Chiòrboli (1924 e 1930).
Il testo di maggiore risonanza nell'editoria del Canzoniere nel secondo Novecento è, senza dubbio, quello approntato da Contini per le edizioni Tallone nel 1949 (ripubblicato per Einaudi nel 1964). Il testo di Contini tanto nella prima quanto nelle successive edizioni dipende totalmente dall’edizione diplomatica di Modigliani, dalla quale gli derivano direttamente numerosi errori di lettura e di trascrizione.
Gli editori e gli autorevoli commentatori post-continiani (da Ponte a Dotti, da Fenzi e Santagata a Bettarini, ecc.) hanno tutti accettato il testo di Contini, talvolta correggendone sviste ed errori di stampa, e anche variandone in qualche luogo l’interpunzione, ma senza contestarne mai le soluzioni di base. Nel 2008 Giuseppe Savoca ha pubblicato un'edizione critica basata sull’originale. Questa edizione riconduce la punteggiatura al sistema "punto, virgola, punto interrogativo", apportando modifiche (rispetto all'edizione Contini e successive) a 3685 versi (dei 7785 che compongono il Canzoniere), a 1542 parole (delle oltre 57.000 del corpus), per un totale di oltre 8000 interventi. Savoca cataloga inoltre le 8472 varianti rispetto ai testimoni più accreditati: il Codice degli abbozzi (Vat. lat. 3196), il Chigiano (L V 176), il Laurenziano (XLI 17), e il Queriniano (D II 21)

- IL TESTO
La raccolta comprende 366 (365, come i giorni dell'anno, più uno introduttivo: "Voi ch'ascoltate") componimenti: 317 sonetti (86.5%), 29 canzoni (8%), 9 sestine(2.5%), 7 ballate (2%) e 4 madrigali (1%). Non raccoglie tutti i componimenti poetici del Petrarca, ma solo quelli che il poeta scelse con grande cura; altre rime (extravagantes) andarono perdute o furono incluse in altri manoscritti. La maggior parte delle rime del Canzoniere è d'argomento amoroso, una trentina sono di argomento morale, religioso o politico.
Sono celebri le canzoni Italia mia e Spirto gentil nelle quali il concetto di Patria si identifica con la bellezza della terra natale, sognata libera dalle lotte fratricide e dalle milizie mercenarie. Fra le canzoni più celebri ricordiamo anche Chiare, fresche e dolci acque e tra i sonetti Solo et pensoso i piú deserti campi.
La raccolta è stata divisa dagli editori in due parti: rime "in vita" (I-CCLXIII) e rime "in morte" (CCLXIV-CCCLXVI) di Madonna Laura. In realtà il Petrarca compose il Canzoniere dopo il 1348, includendovi rime già composte sia per Laura, sia per altre donne (ed attribuendo queste ultime a Laura), stendendo altre rime che finse di aver scritto quando l'amata era ancora in vita ed aggiungendone altre ancora, in modo da rappresentare Laura come l'unico puro amore terreno.

- POETICA
L'amore non corrisposto per Laura, incontrata l'unica volta - a detta del poeta - il 6 aprile 1327, è il fulcro della vita spirituale del Petrarca; il poeta credeva infatti che, sulla base dei propri studi sui classici, tutto divenisse spontaneamente letteratura. Da tale sostrato letterario ha origine la grande poesia petrarchesca. Con Petrarca la letteratura diventa maestra di vita e nasce la prima lezione dell'umanesimo. In Petrarca si avverte la ricerca della serenità. Lo sconforto, il dolore, la volontà di pentimento, divengono speranza; il pianto per la morte della donna amata si placa nell'immagine di Laura che scende consolatrice dal cielo.
Nella poesia del Petrarca la descrizione dei sentimenti trova riscontro o contrapposizione nel paesaggio. Il Petrarca perfezionò le forme della tradizione lirica medievale, dai provenzali prese il metro (la sestina) e ne rielaborò i modi poetici. Anche la raffigurazione della donna amata si inquadra nella tematica provenzale: Laura è la donna a cui il poeta rende omaggio e costituisce il fulcro ideale intorno al quale si dispone la vita sentimentale del poeta. Presa a modello di virtù e di bellezza non ha nulla di sovrumano; anzi, matura negli anni attraverso il Canzoniere. La sua figura, i suoi tratti umani, i begli occhi, le trecce bionde, il dolce riso, sono ispirati a personaggi reali. L'immagine di Laura è probabilmente quella di una cantatrice attiva in Veneto nella seconda metà del XIV secolo.
La seconda parte del Canzoniere si chiude con la canzone Alla Vergine, nella quale il poeta implora perdono ed esprime un intenso desiderio di superare ogni conflitto, di trovare finalmente la pace. E "pace" è appunto l'ultima, emblematica parola della canzone, la parola che chiude e suggella il libro.
Il Canzoniere si divide fra "rime in vita" e "rime in morte" di Laura.
Si tratta di un'autobiografia spirituale del poeta, come le Confessioni di sant'Agostino, scrittore e teologo che fu modello spirituale e religioso per Petrarca. "Tutta la lirica del Petrarca è un sommesso colloquio del poeta con la propria anima". La sua poesia ha un carattere psicologico, senza toni realistici o narrativi. Il tema dominante è il "dissidio interiore" che il poeta prova tra l'attrazione verso i piaceri terreni e l'amore per Laura, e la tensione spirituale verso Dio. Dall'idea di amore-peccato del primo sonetto ("in sul mio primo giovenile errore") il poeta giunge alla conclusione del Canzoniere con la canzone alla Vergine ("Vergine bella che di sol vestita"): è una palinodia religiosa che chiude l'opera secondo una parabola spirituale ascendente tipicamente medievale. "Il Canzoniere si conclude con un testo di ispirazione religiosa e tono sublime, una delle canzoni più complesse dell’intera raccolta dal punto di vista metrico e retorico. La collocazione della poesia non rispecchia l’ordine reale di composizione, ma risponde all’esigenza di concludere in maniera esemplare la vicenda del poeta con il rifiuto delle tentazioni terrene e dell’amore per Laura”. A questo proposito il critico Gianfranco Contini ha definito il Canzoniere una "storia sacra di un amore profano". Sempre Contini, ha osservato come nell'ambito del Canzoniere, il nome di Laura venga "sillabato" in ogni maniera: " aura", "lauro", "l'auro". Frequenti sono i riferimenti biblici e spesso il verso petrarchesco ricalca passi della Bibbia come nel sonetto LXXXI (Io son sì stanco) dove ad esempio il verso "O voi che travagliate, ecco 'l camino"  riprende il Vangelo di Matteo (XI,28) e la terzina finale ("Qual grazia, qual amore o qual destino/ mi darà penne in guisa di colomba/ ch'io mi riposi e levimi da terra?") riprende il salmo LIV,7. Petrarca si sente smarrito tra realtà e sogno (Di pensier in pensier, di monte in monte), immerso nell'angosciosa solitudine (O cameretta che già fosti un porto), ricercatore di un isolamento dal mondo (Solo et pensoso), aspiratore ad una dimensione spirituale che però è difficile da conquistare (Padre del ciel, Movesi il vecchierel). Egli riconosce, già alla fine del primo sonetto, che frutto del suo seguire le vanità terrene sono la vergogna, il pentimento e il riconoscere che "quanto piace al mondo è breve sogno", riecheggiando così il biblico "vanitas vanitatum" ("vanità delle vanità") dell'Ecclesiaste (Qoelet 2). Certi componimenti hanno il carattere di splendide preghiere, come i sonetti Padre del ciel (LXII), Tennemi Amor (CCCLXVI), Io vo piangendo (CCCLXV), la canzone alla Vergine (CCCLXVI). La canzone Chiare fresche e dolci acque (CXXVI) mostra un'anima tra l'angoscia della realtà e la dolce malinconia del sogno. Come in questa canzone e nel sonetto O cameretta che già fosti porto (CCXXXIV), la valle piena dei suoi lamenti e l'aria calda dei suoi sospiri ed il dolce sentiero (CCCI), l'usignolo (CCCXI), i dolci colli (CCCXX) ed il vago augelletto (CCCLIII) non rappresentano una natura esteriore ma creature di un mondo interiorizzato, vagheggiato nell'immaginazione, confidenti delle pene recondite del poeta che spesso si rifugia in un clima di sogno e di immaginazione. Nella seconda parte del Canzoniere vi sono sonetti notevoli e belli (CCLXXIX, CCLXXXII, CCLXXXV, CCCII) e la Canzone Quando il soave mio fido conforto in cui Laura, donna di vaga bellezza e trasfigurata spiritualmente, lo consola "nelle sue notti dolenti" e "sospira dolcemente e si adira" nel vederlo immerso nelle passioni terrene.
Il critico Umberto Bosco sottolinea che "l'amore è il mezzo di cui Petrarca si serve per concretare liricamente la complessità dei suoi sentimenti", un amore che trapassa dal sogno all'elegia in cui Laura è "una figura evanescente". Il poeta esprime la dolcezza del gaudio in sé ma anche un presagio di dissolvimento e di morte. La caducità è un altro motivo dominante nel Canzoniere ed in altre opere petrarchesche, dal "conoscere chiaramente che quanto piace al mondo è breve sogno" (sonetto proemiale del Canzoniere) al lamento di Magone morente nel poemetto l' Africa, e Laura "è il fantasma poetico nel quale liricamente si concreta, soprattutto, appunto, il senso dell'irrimediabile caducità". Quanto poi all'interiore dissidio del poeta, Bosco osserva che esso "non consiste dunque propriamente nel conflitto umano-divino, ma nel conflitto tra la religione e la ragione da una parte, che gli impongono la concezione di un Dio che comprenda tutto ma in cui tutto si annulli, e l'incoercibile forza del sogno dall'altra, che lo trascina a concepire un Dio riposo degli affanni e garante dell'eternità degli affetti umani".
Altri temi presenti nel Canzoniere sono la condanna della corruzione della curia papale ad Avignone (Fiamma dal ciel su le tue trecce piova, CXXXVI) e l' esaltazione delle virtù italiche nelle canzoni Spirto gentil e Italia mia. Nella prima Roma è portata ad esempio e modello di civiltà per i corrotti contemporanei, nella seconda i reggenti le Signorie italiane sono invitati a chiamare a raccolta il popolo, erede delle virtù romane ("Latin sangue gentil") contro i soldati mercenari germanici discendenti dai barbari sconfitti dai Romani ("Vertù contra furore/prenderà l'arme e fia il combatter corto: /ché l'antico valore/ ne l'italici cor non è ancor morto").

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1
Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond'io nudriva 'l core
in sul mio primo giovenile errore
quand'era in parte altr'uom da quel ch'i' sono,

del vario stile in ch'io piango et ragiono
fra le vane speranze e 'l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.

Ma ben veggio or sí come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;

et del mio vaneggiar vergogna è 'l frutto,
e 'l pentersi, e 'l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.

2
Per fare una leggiadra sua vendetta
et punire in un dí ben mille offese,
celatamente Amor l'arco riprese,
come huom ch'a nocer luogo et tempo aspetta.

Era la mia virtute al cor ristretta
per far ivi et ne gli occhi sue difese,
quando 'l colpo mortal là giú discese
ove solea spuntarsi ogni saetta.

Però, turbata nel primiero assalto,
non ebbe tanto né vigor né spazio
che potesse al bisogno prender l'arme,

overo al poggio faticoso et alto
ritrarmi accortamente da lo strazio
del quale oggi vorrebbe, et non pò, aitarme.

3
Era il giorno ch'al sol si scoloraro
per la pietà del suo factore i rai,
quando i' fui preso, et non me ne guardai,
ché i be' vostr'occhi, donna, mi legaro.

Tempo non mi parea da far riparo
contra colpi d'Amor: però m'andai
secur, senza sospetto; onde i miei guai
nel commune dolor s'incominciaro.

==>SEGUE



Trovommi Amor del tutto disarmato
et aperta la via per gli occhi al core,
che di lagrime son fatti uscio et varco:

però al mio parer non li fu honore
ferir me de saetta in quello stato,
a voi armata non mostrar pur l'arco.

4
Que' ch'infinita providentia et arte
mostrò nel suo mirabil magistero,
che crïò questo et quell'altro hemispero,
et mansüeto piú Giove che Marte,

vegnendo in terra a 'lluminar le carte
ch'avean molt'anni già celato il vero,
tolse Giovanni da la rete et Piero,
et nel regno del ciel fece lor parte.

Di sé nascendo a Roma non fe' gratia,
a Giudea sí, tanto sovr'ogni stato
humiltate exaltar sempre gli piacque;

ed or di picciol borgo un sol n'à dato,
tal che natura e 'l luogo si ringratia
onde sí bella donna al mondo nacque.

5
Quando io movo i sospiri a chiamar voi,
e 'l nome che nel cor mi scrisse Amore,
LAUdando s'incomincia udir di fore
il suon de' primi dolci accenti suoi.

Vostro stato REal, che 'ncontro poi,
raddoppia a l'alta impresa il mio valore;
ma: TAci, grida il fin, ché farle honore
è d'altri homeri soma che da' tuoi.

Cosí LAUdare et REverire insegna
la voce stessa, pur ch'altri vi chiami,
o d'ogni reverenza et d'onor degna:

se non che forse Apollo si disdegna
ch'a parlar de' suoi sempre verdi rami
lingua mortal presumptüosa vegna.

6
Sí travïato è 'l folle mi' desio
a seguitar costei che 'n fuga è volta,
et de' lacci d'Amor leggiera et sciolta
vola dinanzi al lento correr mio,

che quanto richiamando piú l'envio
per la secura strada, men m'ascolta:
né mi vale spronarlo, o dargli volta,
ch'Amor per sua natura il fa restio.

Et poi che 'l fren per forza a sé raccoglie,
i' mi rimango in signoria di lui,
che mal mio grado a morte mi trasporta:

sol per venir al lauro onde si coglie
acerbo frutto, che le piaghe altrui
gustando afflige piú che non conforta.

7
La gola e 'l sonno et l'otïose piume
ànno del mondo ogni vertú sbandita,
ond'è dal corso suo quasi smarrita
nostra natura vinta dal costume;

et è sí spento ogni benigno lume
del ciel, per cui s'informa humana vita,
che per cosa mirabile s'addita
chi vòl far d'Elicona nascer fiume.

Qual vaghezza di lauro, qual di mirto?
Povera et nuda vai philosophia,
dice la turba al vil guadagno intesa.

Pochi compagni avrai per l'altra via:
tanto ti prego piú, gentile spirto,
non lassar la magnanima tua impresa.

8
A pie' de' colli ove la bella vesta
prese de le terrene membra pria
la donna che colui ch'a te ne 'nvia
spesso dal somno lagrimando desta,

libere in pace passavam per questa
vita mortal, ch'ogni animal desia,
senza sospetto di trovar fra via
cosa ch'al nostr'andar fosse molesta.

==>SEGUE


Ma del misero stato ove noi semo
condotte da la vita altra serena
un sol conforto, et de la morte, avemo:

che vendetta è di lui ch'a ciò ne mena,
lo qual in forza altrui presso a l'extremo
riman legato con maggior catena.

9
Quando 'l pianeta che distingue l'ore
ad albergar col Tauro si ritorna,
cade vertú da l'infiammate corna
che veste il mondo di novel colore;

et non pur quel che s'apre a noi di fore,
le rive e i colli, di fioretti adorna,
ma dentro dove già mai non s'aggiorna
gravido fa di sé il terrestro humore,

onde tal fructo et simile si colga:
così costei, ch'è tra le donne un sole,
in me movendo de' begli occhi i rai

crïa d'amor penseri, atti et parole;
ma come ch'ella gli governi o volga,
primavera per me pur non è mai.

10
Glorïosa columna in cui s'appoggia
nostra speranza e 'l gran nome latino,
ch'ancor non torse del vero camino
l'ira di Giove per ventosa pioggia,

qui non palazzi, non theatro o loggia,
ma 'n lor vece un abete, un faggio, un pino
tra l'erba verde e 'l bel monte vicino,
onde si scende poetando et poggia,

levan di terra al ciel nostr'intellecto;
e 'l rosigniuol che dolcemente all'ombra
tutte le notti si lamenta et piagne,

d'amorosi penseri il cor ne 'ngombra:
ma tanto ben sol tronchi, et fai imperfecto,
tu che da noi, signor mio, ti scompagne.



Da lei ti vèn l'amoroso pensero,
che mentre 'l segui al sommo ben t'invia,
pocho prezando quel ch'ogni huom desia;

da lei vien l'animosa leggiadria
ch'al ciel ti scorge per destro sentero,
sí ch'i' vo già de la speranza altero.

14
Occhi miei lassi, mentre ch'io vi giro
nel bel viso di quella che v'à morti,
pregovi siate accorti,
ché già vi sfida Amore, ond'io sospiro.

Morte pò chiuder sola a' miei penseri
l'amoroso camin che gli conduce
al dolce porto de la lor salute;
ma puossi a voi celar la vostra luce

per meno obgetto, perché meno interi
siete formati, et di minor virtute.
Però, dolenti, anzi che sian venute

l'ore del pianto, che son già vicine,
prendete or a la fine
breve conforto a sí lungo martiro.

15
Io mi rivolgo indietro a ciascun passo
col corpo stancho ch'a gran pena porto,
et prendo allor del vostr'aere conforto
che 'l fa gir oltra dicendo: Oimè lasso!

Poi ripensando al dolce ben ch'io lasso,
al camin lungo et al mio viver corto,
fermo le piante sbigottito et smorto,
et gli occhi in terra lagrimando abasso.

Talor m'assale in mezzo a'tristi pianti
un dubbio: come posson queste membra
da lo spirito lor viver lontane?

Ma rispondemi Amor: Non ti rimembra
che questo è privilegio degli amanti,
sciolti da tutte qualitati humane?

11
Lassare il velo o per sole o per ombra,
donna, non vi vid'io
poi che in me conosceste il gran desio
ch'ogni altra voglia d'entr'al cor mi sgombra.

Mentr'io portava i be' pensier' celati,
ch'ànno la mente desïando morta,
vidivi di pietate ornare il volto;
ma poi ch'Amor di me vi fece accorta,

fuor i biondi capelli allor velati,
et l'amoroso sguardo in sé raccolto.
Quel ch'i' piú desiava in voi m'è tolto:

sí mi governa il velo
che per mia morte, et al caldo et al gielo,
de' be' vostr'occhi il dolce lume adombra.

12
Se la mia vita da l'aspro tormento
si può tanto schermire, et dagli affanni,
ch'i' veggia per vertù de gli ultimi anni,
donna, de' be' vostr'occhi il lume spento,

e i cape' d'oro fin farsi d'argento,
et lassar le ghirlande e i verdi panni,
e 'l viso scolorir che ne' miei danni
a ·llamentar mi fa pauroso et lento:

pur mi darà tanta baldanza Amore
ch'i' vi discovrirò de' mei martiri
qua' sono stati gli anni, e i giorni et l'ore;

et se 'l tempo è contrario ai be' desiri,
non fia ch'almen non giunga al mio dolore
alcun soccorso di tardi sospiri.

13
Quando fra l'altre donne ad ora ad ora
Amor vien nel bel viso di costei,
quanto ciascuna è men bella di lei
tanto cresce 'l desio che m'innamora.

I' benedico il loco e 'l tempo et l'ora
che sí alto miraron gli occhi mei,
et dico: Anima, assai ringratiar dêi
che fosti a tanto honor degnata allora.

==>SEGUE
16
Movesi il vecchierel canuto et biancho
del dolce loco ov'à sua età fornita
et da la famigliuola sbigottita
che vede il caro padre venir manco;

indi trahendo poi l'antiquo fianco
per l'extreme giornate di sua vita,
quanto piú pò, col buon voler s'aita,
rotto dagli anni, et dal cammino stanco;

et viene a Roma, seguendo 'l desio,
per mirar la sembianza di colui
ch'ancor lassú nel ciel vedere spera:

cosí, lasso, talor vo cerchand'io,
donna, quanto è possibile, in altrui
la disïata vostra forma vera.

17
Piovonmi amare lagrime dal viso
con un vento angoscioso di sospiri,
quando in voi adiven che gli occhi giri
per cui sola dal mondo i' son diviso.

Vero è che 'l dolce mansüeto riso
pur acqueta gli ardenti miei desiri,
et mi sottragge al foco de' martiri,
mentr'io son a mirarvi intento et fiso.

Ma gli spiriti miei s'aghiaccian poi
ch'i' veggio al departir gli atti soavi
torcer da me le mie fatali stelle.

Largata alfin co l'amorose chiavi
l'anima esce del cor per seguir voi;
et con molto pensiero indi si svelle.

18
Quand'io son tutto vòlto in quella parte
ove 'l bel viso di madonna luce,
et m'è rimasa nel pensier la luce
che m'arde et strugge dentro a parte a parte,

i' che temo del cor che mi si parte,
et veggio presso il fin de la mia luce,
vommene in guisa d'orbo, senza luce,
che non sa ove si vada et pur si parte.

==>SEGUE


Cosí davanti ai colpi de la morte
fuggo: ma non sí ratto che 'l desio
meco non venga come venir sòle.

Tacito vo, ché le parole morte
farian pianger la gente; et i' desio
che le lagrime mie si spargan sole.

19
Son animali al mondo de sí altera
vista che 'ncontra 'l sol pur si difende;
altri, però che 'l gran lume gli offende,
non escon fuor se non verso la sera;

et altri, col desio folle che spera
gioir forse nel foco, perché splende,
provan l'altra vertú, quella che 'encende:
lasso, e 'l mio loco è 'n questa ultima schera.

Ch'i' non son forte ad aspectar la luce
di questa donna, et non so fare schermi
di luoghi tenebrosi, o d' ore tarde:

però con gli occhi lagrimosi e 'nfermi
mio destino a vederla mi conduce;
et so ben ch'i' vo dietro a quel che m'arde.

20
Vergognando talor ch'ancor si taccia,
donna, per me vostra bellezza in rima,
ricorro al tempo ch'i' vi vidi prima,
tal che null'altra fia mai che mi piaccia.

Ma trovo peso non da le mie braccia,
né ovra da polir colla mia lima:
però l'ingegno che sua forza extima
ne l'operatïon tutto s'agghiaccia.

Piú volte già per dir le labbra apersi,
poi rimase la voce in mezzo 'l pecto:
ma qual sòn poria mai salir tant'alto?

Piú volte incominciai di scriver versi:
ma la penna et la mano et l'intellecto
rimaser vinti nel primier assalto.


21
Mille fïate, o dolce mia guerrera,
per aver co' begli occhi vostri pace
v'aggio proferto il cor; mâ voi non piace
mirar sí basso colla mente altera.

Et se di lui fors'altra donna spera,
vive in speranza debile et fallace:
mio, perché sdegno ciò ch'a voi dispiace,
esser non può già mai cosí com'era.

Or s'io lo scaccio, et e' non trova in voi
ne l'exilio infelice alcun soccorso,
né sa star sol, né gire ov'altri il chiama,

poria smarrire il suo natural corso:
che grave colpa fia d'ambeduo noi,
et tanto piú de voi, quanto piú v'ama.

22
A qualunque animale alberga in terra,
se non se alquanti ch'ànno in odio il sole,
tempo da travagliare è quanto è 'l giorno;
ma poi che 'l ciel accende le sue stelle,
qual torna a casa et qual s'anida in selva
per aver posa almeno infin a l'alba.

Et io, da che comincia la bella alba
a scuoter l'ombra intorno de la terra
svegliando gli animali in ogni selva,
non ò mai triegua di sospir' col sole;
pur quand'io veggio fiammeggiar le stelle
vo lagrimando, et disïando il giorno.

Quando la sera scaccia il chiaro giorno,
et le tenebre nostre altrui fanno alba,
miro pensoso le crudeli stelle,
che m'ànno facto di sensibil terra;
et maledico il dí ch'i' vidi 'l sole,
che mi fa in vista un huom nudrito in selva.

Non credo che pascesse mai per selva
sí aspra fera, o di nocte o di giorno,
come costei ch'i 'piango a l'ombra e al sole;
et non mi stancha primo sonno od alba:
ché, bench'i' sia mortal corpo di terra,
lo mio fermo desir vien da le stelle.

==>SEGUE
Prima ch'i' torni a voi, lucenti stelle,
o tomi giú ne l'amorosa selva,
lassando il corpo che fia trita terra,
vedess'io in lei pietà, che 'n un sol giorno
può ristorar molt'anni, e 'nanzi l'alba
puommi arichir dal tramontar del sole.

Con lei foss'io da che si parte il sole,
et non ci vedess'altri che le stelle,
sol una nocte, et mai non fosse l'alba;
et non se transformasse in verde selva
per uscirmi di braccia, come il giorno
ch'Apollo la seguia qua giú per terra.

Ma io sarò sotterra in secca selva
e 'l giorno andrà pien di minute stelle
prima ch'a sí dolce alba arrivi il sole.

23
Nel dolce tempo de la prima etade,
che nascer vide et anchor quasi in herba
la fera voglia che per mio mal crebbe,
perché cantando il duol si disacerba,
canterò com'io vissi in libertade,
mentre Amor nel mio albergo a sdegno s'ebbe.
Poi seguirò sí come a lui ne 'ncrebbe
troppo altamente, e che di ciò m'avvenne,
di ch'io son facto a molta gente exempio:
benché 'l mio duro scempio
sia scripto altrove, sí che mille penne
ne son già stanche, et quasi in ogni valle
rimbombi il suon de' miei gravi sospiri,
ch'aquistan fede a la penosa vita.
E se qui la memoria non m'aita
come suol fare, iscúsilla i martiri,
et un penser che solo angoscia dàlle,
tal ch'ad ogni altro fa voltar le spalle,
e mi face oblïar me stesso a forza:
ché tèn di me quel d'entro, et io la scorza.

I' dico che dal dí che 'l primo assalto
mi diede Amor, molt'anni eran passati,
sí ch'io cangiava il giovenil aspetto;
e d'intorno al mio cor pensier' gelati
facto avean quasi adamantino smalto
ch'allentar non lassava il duro affetto.

    
   ==>SEGUE
Lagrima anchor non mi bagnava il petto
né rompea il sonno, et quel che in me non era,
mi pareva un miracolo in altrui.
Lasso, che son! che fui!
La vita el fin, e 'l dí loda la sera.
Ché sentendo il crudel di ch'io ragiono
infin allor percossa di suo strale
non essermi passato oltra la gonna,
prese in sua scorta una possente donna,
ver' cui poco già mai mi valse o vale
ingegno, o forza, o dimandar perdono;
e i duo mi trasformaro in quel ch'i' sono,
facendomi d'uom vivo un lauro verde,
che per fredda stagion foglia non perde.

Qual mi fec'io quando primier m'accorsi
de la trasfigurata mia persona,
e i capei vidi far di quella fronde
di che sperato avea già lor corona,
e i piedi in ch'io mi stetti, et mossi, et corsi,
com'ogni membro a l'anima risponde,
diventar due radici sovra l'onde
non di Peneo, ma d'un piú altero fiume,
e n' duo rami mutarsi ambe le braccia!
Né meno anchor m' agghiaccia
l'esser coverto poi di bianche piume
allor che folminato et morto giacque
il mio sperar che tropp'alto montava:
ché perch'io non sapea dove né quando
me 'l ritrovasse, solo lagrimando
là 've tolto mi fu, dí e nocte andava,
ricercando dallato, et dentro a l'acque;
et già mai poi la mia lingua non tacque
mentre poteo del suo cader maligno:
ond'io presi col suon color d'un cigno.

Cosí lungo l'amate rive andai,
che volendo parlar, cantava sempre
mercé chiamando con estrania voce;
né mai in sí dolci o in sí soavi tempre
risonar seppi gli amorosi guai,
che 'l cor s'umilïasse aspro et feroce.
Qual fu a sentir? ché 'l ricordar mi coce:
ma molto piú di quel, che per inanzi
de la dolce et acerba mia nemica
è bisogno ch'io dica,
    
   ==>SEGUE
benché sia tal ch'ogni parlare avanzi.
Questa che col mirar gli animi fura,
m'aperse il petto, e 'l cor prese con mano,
dicendo a me: Di ciò non far parola.
Poi la rividi in altro habito sola,
tal ch'i' non la conobbi, oh senso humano,
anzi le dissi 'l ver pien di paura;
ed ella ne l'usata sua figura
tosto tornando, fecemi, oimè lasso,
d'un quasi vivo et sbigottito sasso.

Ella parlava sí turbata in vista,
che tremar mi fea dentro a quella petra,
udendo: I' non son forse chi tu credi.
E dicea meco: Se costei mi spetra,
nulla vita mi fia noiosa o trista;
a farmi lagrimar, signor mio, riedi.
Come non so: pur io mossi indi i piedi,
non altrui incolpando che me stesso,
mezzo tutto quel dí tra vivo et morto.
Ma perché 'l tempo è corto,
la penna al buon voler non pò gir presso:
onde piú cose ne la mente scritte
vo trapassando, et sol d'alcune parlo
che meraviglia fanno a chi l'ascolta.
Morte mi s'era intorno al cor avolta,
né tacendo potea di sua man trarlo,
o dar soccorso a le vertuti afflitte;
le vive voci m'erano interditte;
ond'io gridai con carta et con incostro:
Non son mio, no. S'io moro, il danno è vostro.

Ben mi credea dinanzi agli occhi suoi
d'indegno far cosí di mercé degno,
et questa spene m'avea fatto ardito:
ma talora humiltà spegne disdegno,
talor l'enfiamma; et ciò sepp'io da poi,
lunga stagion di tenebre vestito:
ch'a quei preghi il mio lume era sparito.
Ed io non ritrovando intorno intorno
ombra di lei, né pur de' suoi piedi orma,
come huom che tra via dorma,
gittaimi stancho sovra l'erba un giorno.
Ivi accusando il fugitivo raggio,
a le lagrime triste allargai 'l freno,
    
   ==>SEGUE
et lasciaile cader come a lor parve;
né già mai neve sotto al sol disparve
com'io sentí' me tutto venir meno,
et farmi una fontana a pie' d'un faggio.
Gran tempo humido tenni quel vïaggio.
Chi udí mai d'uom vero nascer fonte?
E parlo cose manifeste et conte.

L'alma ch'è sol da Dio facta gentile,
ché già d'altrui non pò venir tal gratia,
simile al suo factor stato ritene:
però di perdonar mai non è sacia
a chi col core et col sembiante humile
dopo quantunque offese a mercé vène.
Et se contra suo stile essa sostene
d'esser molto pregata, in Lui si specchia,
et fal perché 'l peccar piú si pavente:
ché non ben si ripente
de l'un mal chi de l'altro s'apparecchia.
Poi che madonna da pietà commossa
degnò mirarme, et ricognovve et vide
gir di pari la pena col peccato,
benigna mi redusse al primo stato.
Ma nulla à 'l mondo in ch'uom saggio si fide:
ch'ancor poi ripregando, i nervi et l'ossa
mi volse in dura selce; et così scossa
voce rimasi de l'antiche some,
chiamando Morte, et lei sola per nome.

Spirto doglioso errante (mi rimembra)
per spelunche deserte et pellegrine,
piansi molt'anni il mio sfrenato ardire:
et anchor poi trovai di quel mal fine,
et ritornai ne le terrene membra,
credo per piú dolore ivi sentire.
I' seguí' tanto avanti il mio desire
ch'un dí cacciando sí com'io solea
mi mossi; e quella fera bella et cruda
in una fonte ignuda
si stava, quando 'l sol piú forte ardea.
Io, perché d'altra vista non m'appago,
stetti a mirarla: ond'ella ebbe vergogna;
et per farne vendetta, o per celarse,
l'acqua nel viso co le man' mi sparse.
Vero dirò (forse e' parrà menzogna)
    
   ==>SEGUE


ch'i' sentí' trarmi de la propria imago,
et in un cervo solitario et vago
di selva in selva ratto mi trasformo:
et anchor de' miei can' fuggo lo stormo.

Canzon, i' non fu' mai quel nuvol d'oro
che poi discese in pretïosa pioggia,
sí che 'l foco di Giove in parte spense;
ma fui ben fiamma ch'un bel guardo accense,
et fui l'uccel che piú per l'aere poggia,
alzando lei che ne' miei detti honoro:
né per nova figura il primo alloro
seppi lassar, ché pur la sua dolce ombra
ogni men bel piacer del cor mi sgombra.

24
Se l'onorata fronde che prescrive
l'ira del ciel, quando 'l gran Giove tona,
non m'avesse disdetta la corona
che suole ornar chi poetando scrive,

i'era amico a queste vostre dive
le qua' vilmente il secolo abandona;
ma quella ingiuria già lunge mi sprona
da l'inventrice de le prime olive:

ché non bolle la polver d'Ethïopia
sotto 'l più ardente sol, com'io sfavillo,
perdendo tanto amata cosa propia.

Cercate dunque fonte piú tranquillo,
ché 'l mio d'ogni liquor sostene inopia,
salvo di quel che lagrimando stillo.

25
Amor piangeva, et io con lui talvolta,
dal qual miei passi non fur mai lontani,
mirando per gli effecti acerbi et strani
l'anima vostra dei suoi nodi sciolta.

Or ch'al dritto camin l'à Dio rivolta,
col cor levando al cielo ambe le mani
ringratio lui che' giusti preghi humani
benignamente, sua mercede, ascolta.

Et se tornando a l'amorosa vita,
per farvi al bel desio volger le spalle,
trovaste per la via fossati o poggi,

   ==>SEGUE


fu per mostrar quanto è spinoso calle,
et quanto alpestra et dura la salita,
onde al vero valor conven ch'uom poggi.

26
Piú di me lieta non si vede a terra
nave da l'onde combattuta et vinta,
quando la gente di pietà depinta
su per la riva a ringratiar s'atterra;

né lieto piú del carcer si diserra
chi 'ntorno al collo ebbe la corda avinta,
di me, veggendo quella spada scinta
che fece al segnor mio sí lunga guerra.

Et tutti voi ch'Amor laudate in rima,
al buon testor de gli amorosi detti
rendete honor, ch'era smarrito in prima:

ché piú gloria è nel regno degli electi
d'un spirito converso, et più s'estima,
che di novantanove altri perfecti.

27
Il successor di Karlo, che la chioma
co la corona del suo antiquo adorna,
prese à già l'arme per fiacchar le corna
a Babilonia, et chi da lei si noma;

e 'l vicario de Cristo colla soma
de le chiavi et del manto al nido torna,
sí che s'altro accidente nol distorna,
vedrà Bologna, et poi la nobil Roma.

La mansüeta vostra et gentil agna
abbatte i fieri lupi: et cosí vada
chïunque amor legitimo scompagna.

Consolate lei dunque ch'anchor bada,
et Roma che del suo sposo si lagna,
et per Jesú cingete ormai la spada.

28
O aspectata in ciel beata et bella
anima che di nostra humanitade
vestita vai, non come l'altre carca:
perché ti sian men dure omai le strade,
a Dio dilecta, obedïente ancella,
onde al suo regno di qua giú si varca,
ecco novellamente a la tua barca,
ch'al cieco mondo ha già volte le spalle
per gir al miglior porto,
d'un vento occidental dolce conforto;
lo qual per mezzo questa oscura valle,
ove piangiamo il nostro et l'altrui torto,
la condurrà de' lacci antichi sciolta,
per drittissimo calle,
al verace orïente ov'ella è volta.

Forse i devoti et gli amorosi preghi
et le lagrime sancte de' mortali
son giunte inanzi a la pietà superna;
et forse non fur mai tante né tali
che per merito lor punto si pieghi
fuor de suo corso la giustitia eterna;
ma quel benigno re che 'l ciel governa
al sacro loco ove fo posto in croce
gli occhi per gratia gira,
onde nel petto al novo Karlo spira
la vendetta ch'a noi tardata nòce,
sí che molt'anni Europa ne sospira:
cosí soccorre a la sua amata sposa
tal che sol de la voce
fa tremar Babilonia, et star pensosa.

Chïunque alberga tra Garona e 'l monte
e 'ntra 'l Rodano e 'l Reno et l'onde salse
le 'nsegne cristianissime accompagna;
et a cui mai di vero pregio calse,
del Pireneo a l'ultimo orizonte
con Aragon lassarà vòta Hispagna;
Inghilterra con l'isole che bagna
l'Occeano intra 'l Carro et le Colonne,
infin là dove sona
doctrina del sanctissimo Elicona,
varie di lingue et d'arme, et de le gonne,
a l'alta impresa caritate sprona.
    
    
    ==>SEGUE
Deh qual amor sí licito o sí degno,
qua' figli mai, qua' donne
furon materia a sí giusto disdegno?

Una parte del mondo è che si giace
mai sempre in ghiaccio et in gelate nevi
tutta lontana dal camin del sole:
là sotto i giorni nubilosi et brevi,
nemica natural-mente di pace,
nasce una gente a cui il morir non dole.
Questa se, piú devota che non sòle,
col tedesco furor la spada cigne,
turchi, arabi et caldei,
con tutti quei che speran nelli dèi
di qua dal mar che fa l'onde sanguigne,
quanto sian da prezzar, conoscer dêi:
popolo ignudo paventoso et lento,
che ferro mai non strigne,
ma tutt'i colpi suoi commette al vento.

Dunque ora è 'l tempo da ritrare il collo
dal giogo antico, et da squarciare il velo
ch'è stato avolto intorno agli occhi nostri,
et che 'l nobile ingegno che dal cielo
per gratia tien' de l'immortale Apollo,
et l'eloquentia sua vertú qui mostri
or con la lingua, or co'laudati incostri:
perché d'Orpheo leggendo et d'Amphïone
se non ti meravigli,
assai men fia ch'Italia co' suoi figli
si desti al suon del tuo chiaro sermone,
tanto che per Jesú la lancia pigli;
che s'al ver mira questa anticha madre,
in nulla sua tentione
fur mai cagion' sí belle o sí leggiadre.

Tu ch'ài, per arricchir d'un bel thesauro,
volte le antiche et le moderne carte,
volando al ciel colla terrena soma,
sai da l'imperio del figliuol de Marte
al grande Augusto che di verde lauro
tre volte trïumphando ornò la chioma,
ne l'altrui ingiurie del suo sangue Roma
spesse fïate quanto fu cortese:
et or perché non fia
    
    ==>SEGUE
cortese no, ma conoscente et pia
a vendicar le dispietate offese,
col figliuol glorïoso di Maria?
Che dunque la nemica parte spera
ne l'umane difese,
se Cristo sta da la contraria schiera?

Pon' mente al temerario ardir di Xerse,
che fece per calcare i nostri liti
di novi ponti oltraggio a la marina;
et vedrai ne la morte de' mariti
tutte vestite a brun le donne perse,
et tinto in rosso il mar di Salamina.
Et non pur questa misera rüina
del popol infelice d'orïente
victoria t'empromette,
ma Marathona, et le mortali strette
che difese il leon con poca gente,
et altre mille ch'ài ascoltate et lette:
perché inchinare a Dio molto convene
le ginocchia et la mente,
che gli anni tuoi riserva a tanto bene.

Tu vedrai Italia et l'onorata riva,
canzon, ch'agli occhi miei cela et contende
non mar, non poggio o fiume,
ma solo Amor che del suo altero lume
piú m'invaghisce dove piú m'incende:
né Natura può star contra'l costume.
Or movi, non smarrir l'altre compagne,
ché non pur sotto bende
alberga Amor, per cui si ride et piagne.

29
Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi
non vestí donna unquancho
né d'or capelli in bionda treccia attorse,
sí bella com'è questa che mi spoglia
d'arbitrio, et dal camin de libertade
seco mi tira, sí ch'io non sostegno
alcun giogo men grave.

Et se pur s'arma talor a dolersi
l'anima a cui vien mancho
consiglio, ove 'l martir l'adduce in forse,
    
    ==>SEGUE


rappella lei da la sfrenata voglia
súbita vista, ché del cor mi rade
ogni delira impresa, et ogni sdegno
fa 'l veder lei soave.

Di quanto per Amor già mai soffersi,
et aggio a soffrir ancho,
fin che mi sani 'l cor colei che 'l morse,
rubella di mercé, che pur l'envoglia,
vendetta fia, sol che contra Humiltade
Orgoglio et Ira il bel passo ond'io vegno
non chiuda et non inchiave.

Ma l'ora e 'l giorno ch'io le luci apersi
nel bel nero et nel biancho
che mi scacciâr di là dove Amor corse,
novella d'esta vita che m' addoglia
furon radice, et quella in cui l'etade
nostra si mira, la qual piombo o legno
vedendo è chi non pave.

Lagrima dunque che da gli occhi versi
per quelle, che nel mancho
lato mi bagna chi primier s'accorse,
quadrella, dal voler mio non mi svoglia,
ché 'n giusta parte la sententia cade:
per lei sospira l'alma, et ella è degno
che le sue piaghe lave.

Da me son fatti i miei pensier' diversi:
tal già, qual io mi stancho,
l'amata spada in se stessa contorse;
né quella prego che però mi scioglia,
ché men son dritte al ciel tutt'altre strade
et non s'aspira al glorïoso regno
certo in piú salda nave.

Benigne stelle che compagne fersi
al fortunato fianco
quando 'l bel parto giú nel mondo scórse!
ch'è stella in terra, et come in lauro foglia
conserva verde il pregio d'onestade,
ove non spira folgore, né indegno
vento mai che l'aggrave.

  ==>SEGUE
So io ben ch'a voler chiuder in versi
suo laudi, fôra stancho
chi piú degna la mano a scriver porse:
qual cella è di memoria in cui s'accoglia
quanta vede vertú, quanta beltade,
chi gli occhi mira d'ogni valor segno,
dolce del mio cor chiave?

Quando il sol gira, Amor piú caro pegno,
donna, di voi non ave.

30
Giovene donna sotto un verde lauro
vidi più biancha et piú fredda che neve
non percossa dal sol molti et molt'anni;
e 'l suo parlare, e 'l bel viso, et le chiome
mi piacquen sí ch'i' l'ò dinanzi agli occhi,
ed avrò sempre, ov'io sia, in poggio o 'n riva.

Allor saranno i miei pensier a riva
che foglia verde non si trovi in lauro;
quando avrò queto il core, asciutti gli occhi,
vedrem ghiacciare il foco, arder la neve:
non ò tanti capelli in queste chiome
quanti vorrei quel giorno attender anni.

Ma perché vola il tempo, et fuggon gli anni,
sí ch'a la morte in un punto s'arriva,
o colle brune o colle bianche chiome,
seguirò l'ombra di quel dolce lauro
per lo piú ardente sole et per la neve,
fin che l'ultimo dí chiuda quest'occhi.

Non fur già mai veduti sí begli occhi
o ne la nostra etade o ne' prim'anni,
che mi struggon cosí come 'l sol neve;
onde procede lagrimosa riva
ch'Amor conduce a pie' del duro lauro
ch'à i rami di diamante, et d'òr le chiome.

I' temo di cangiar pria volto et chiome
che con vera pietà mi mostri gli occhi
l'idolo mio, scolpito in vivo lauro:
ché s'al contar non erro, oggi à sett'anni
che sospirando vo di riva in riva
la notte e 'l giorno, al caldo ed a la neve.

==>SEGUE
Dentro pur foco, et for candida neve,
sol con questi pensier', con altre chiome,
sempre piangendo andrò per ogni riva,
per far forse pietà venir negli occhi
di tal che nascerà dopo mill'anni,
se tanto viver pò ben cólto lauro.

L'auro e i topacii al sol sopra la neve
vincon le bionde chiome presso agli occhi
che menan gli anni miei sí tosto a riva.
31
Questa anima gentil che si diparte,
anzi tempo chiamata a l'altra vita,
se lassuso è quanto esser dê gradita,
terrà del ciel la piú beata parte.

S'ella riman fra 'l terzo lume et Marte,
fia la vista del sole scolorita,
poi ch'a mirar sua bellezza infinita
l'anime degne intorno a lei fien sparte.

Se si posasse sotto al quarto nido,
ciascuna de le tre saria men bella,
et essa sola avria la fama e 'l grido;

nel quinto giro non habitrebbe ella;
ma se vola piú alto, assai mi fido
che con Giove sia vinta ogni altra stella.

32
Quanto piú m'avicino al giorno extremo
che l'umana miseria suol far breve,
piú veggio il tempo andar veloce et leve,
e 'l mio di lui sperar fallace et scemo.

I' dico a' miei pensier': Non molto andremo
d'amor parlando omai, ché 'l duro et greve
terreno incarco come frescha neve
si va struggendo; onde noi pace avremo:

perché co llui cadrà quella speranza
che ne fe' vaneggiar sí lungamente,
e 'l riso e 'l pianto, et la paura et l'ira;

sí vedrem chiaro poi come sovente
per le cose dubbiose altri s'avanza,
et come spesso indarno si sospira.

33
Già fiammeggiava l'amorosa stella
per l'orïente, et l'altra che Giunone
suol far gelosa nel septentrïone,
rotava i raggi suoi lucente et bella;

levata era a filar la vecchiarella,
discinta et scalza, et desto avea 'l carbone,
et gli amanti pungea quella stagione
che per usanza a lagrimar gli appella:

==>SEGUE


quando mia speme già condutta al verde
giunse nel cor, non per l'usata via,
che 'l sonno tenea chiusa, e 'l dolor molle;

quanto cangiata, oimè, da quel di pria!
Et parea dir: Perché tuo valor perde?
Veder quest'occhi anchor non ti si tolle.

34
Apollo, s'anchor vive il bel desio
che t'infiammava a le thesaliche onde,
et se non ài l'amate chiome bionde,
volgendo gli anni, già poste in oblio:

dal pigro gielo et dal tempo aspro et rio,
che dura quanto 'l tuo viso s'asconde,
difendi or l'onorata et sacra fronde,
ove tu prima, et poi fu' invescato io;

et per vertú de l'amorosa speme,
che ti sostenne ne la vita acerba,
di queste impressïon l'aere disgombra;

sí vedrem poi per meraviglia inseme
seder la donna nostra sopra l'erba,
et far de le sue braccia a se stessa ombra.

35
Solo et pensoso i piú deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l'arena stampi.

Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d'alegrezza spenti
di fuor si legge com'io dentro avampi:

sí ch'io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch'è celata altrui.

Ma pur sí aspre vie né sí selvagge
cercar non so ch'Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co llui.


Le vite son sí corte,
sí gravi i corpi et frali
degli uomini mortali,
che quando io mi ritrovo dal bel viso
cotanto esser diviso,
col desio non possendo mover l'ali,
poco m'avanza del conforto usato,
né so quant'io mi viva in questo stato.

Ogni loco m'atrista ov'io non veggio
quei begli occhi soavi
che portaron le chiavi
de' miei dolci pensier', mentre a Dio piacque;
et perché 'l duro exilio piú m'aggravi,
s'io dormo o vado o seggio,
altro già mai non cheggio,
et ciò ch'i' vidi dopo lor mi spiacque.
Quante montagne et acque,
quanto mar, quanti fiumi
m'ascondon que' duo lumi,
che quasi un bel sereno a mezzo 'l die
fer le tenebre mie,
a ciò che 'l rimembrar piú mi consumi,
et quanto era mia vita allor gioiosa
m'insegni la presente aspra et noiosa!

Lasso, se ragionando si rinfresca
quel' ardente desio
che nacque il giorno ch'io
lassai di me la miglior parte a dietro,
et s'Amor se ne va per lungo oblio,
chi mi conduce a l'ésca,
onde 'l mio dolor cresca?
Et perché pria tacendo non m'impetro?
Certo cristallo o vetro
non mostrò mai di fore
nascosto altro colore,
che l'alma sconsolata assai non mostri
piú chiari i pensier' nostri,
et la fera dolcezza ch'è nel core,
per gli occhi che di sempre pianger vaghi
cercan dí et nocte pur chi glien'appaghi.

Novo piacer che ne gli umani ingegni
spesse volte si trova,
d'amar qual cosa nova

==>SEGUE
piú folta schiera di sospiri accoglia!
Et io son un di quei che 'l pianger giova;
et par ben ch'io m'ingegni
che di lagrime pregni
sien gli occhi miei sí come 'l cor di doglia;
et perché a cciò m'invoglia
ragionar de' begli occhi,
né cosa è che mi tocchi
o sentir mi si faccia cosí a dentro,
corro spesso, et rïentro,
colà donde piú largo il duol trabocchi,
et sien col cor punite ambe le luci,
ch'a la strada d'Amor mi furon duci.

Le treccie d'òr che devrien fare il sole
d'invidia molta ir pieno,
e 'l bel guardo sereno,
ove i raggi d'Amor sí caldi sono
che mi fanno anzi tempo venir meno,
et l'accorte parole,
rade nel mondo o sole,
che mi fer già di sé cortese dono,
mi son tolte; et perdono
piú lieve ogni altra offesa,
che l'essermi contesa
quella benigna angelica salute
che 'l mio cor a vertute
destar solea con una voglia accesa:
tal ch'io non penso udir cosa già mai
che mi conforte ad altro ch'a trar guai.

Et per pianger anchor con piú diletto,
le man' bianche sottili
et le braccia gentili,
et gli atti suoi soavemente alteri,
e i dolci sdegni alteramente humili,
e 'l bel giovenil petto,
torre d'alto intellecto,
mi celan questi luoghi alpestri et feri;
et non so s'io mi speri
vederla anzi ch'io mora:
però ch'ad ora ad ora
s'erge la speme, et poi non sa star ferma,
ma ricadendo afferma
di mai non veder lei che 'l ciel honora,
ov'alberga Honestade et Cortesia,
et dov'io prego che 'l mio albergo sia.

==>SEGUE




Canzon, s'al dolce loco
la donna nostra vedi,
credo ben che tu credi
ch'ella ti porgerà la bella mano,
ond'io son sí lontano.
Non la toccar; ma reverente ai piedi
le di' ch'io sarò là tosto ch'io possa,
o spirto ignudo od uom di carne et d'ossa.

38
Orso, e' non furon mai fiumi né stagni,
né mare, ov'ogni rivo si disgombra,
né di muro o di poggio o di ramo ombra,
né nebbia che 'l ciel copra e 'l mondo bagni,

né altro impedimento, ond'io mi lagni,
qualunque piú l'umana vista ingombra,
quanto d'un vel che due begli occhi adombra,
et par che dica: Or ti consuma et piagni.

Et quel lor inchinar ch'ogni mia gioia
spegne o per humiltate o per argoglio,
cagion sarà che 'nanzi tempo i' moia.

Et d'una bianca mano ancho mi doglio,
ch'è stata sempre accorta a farmi noia,
et contra gli occhi miei s'è fatta scoglio.

39
Io temo sí de' begli occhi l'assalto
ne' quali Amore et la mia morte alberga,
ch'i' fuggo lor come fanciul la verga,
et gran tempo è ch'i' presi il primier salto.

Da ora inanzi faticoso od alto
loco non fia, dove 'l voler non s'erga
per no scontrar chî miei sensi disperga
lassando come suol me freddo smalto.

Dunque s'a veder voi tardo mi volsi
per non ravvicinarmi a chi mi strugge,
fallir forse non fu di scusa indegno.

Piú dico, che 'l tornare a quel ch'uom fugge,
e 'l cor che di paura tanta sciolsi,
fur de la mia fede non leggier pegno.




40
S'Amore o Morte non dà qualche stroppio
a la tela novella ch'ora ordisco,
et s'io mi svolvo dal tenace visco,
mentre che l'un coll'altro vero accoppio,

i' farò forse un mio lavor sí doppio
tra lo stil de' moderni e 'l sermon prisco,
che, paventosamente a dirlo ardisco,
infin a Roma n'udirai lo scoppio.

Ma però che mi mancha a fornir l'opra
alquanto de le fila benedette
ch'avanzaro a quel mio dilecto padre,

perché tien' verso me le man' sí strette,
contra tua usanza? I' prego che tu l'opra,
e vedrai rïuscir cose leggiadre.
41
Quando dal proprio sito si rimove
l'arbor ch'amò già Phebo in corpo humano,
sospira et suda a l'opera Vulcano,
per rinfrescar l'aspre saette a Giove:

il qual or tona, or nevicha et or piove,
senza honorar piú Cesare che Giano;
la terra piange, e 'l sol ci sta lontano,
che la sua cara amica ved'altrove.

Allor riprende ardir Saturno et Marte,
crudeli stelle, et Orïone armato
spezza a' tristi nocchier' governi et sarte;

Eolo a Neptuno et a Giunon turbato
fa sentire, et a noi, come si parte
il bel viso dagli angeli aspectato.

42
Ma poi che 'l dolce riso humile et piano
piú non asconde sue bellezze nove,
le braccia a la fucina indarno move
l'antiquissimo fabbro ciciliano,

ch'a Giove tolte son l'arme di mano
temprate in Mongibello a tutte prove,
et sua sorella par che si rinove
nel bel guardo d'Apollo a mano a mano.

Del lito occidental si move un fiato,
che fa securo il navigar senza arte,
et desta i fior' tra l'erba in ciascun prato.

Stelle noiose fuggon d'ogni parte,
disperse dal bel viso inamorato,
per cui lagrime molte son già sparte.

43
Il figliuol di Latona avea già nove
volte guardato dal balcon sovrano,
per quella ch'alcun tempo mosse invano
i suoi sospiri, et or gli altrui commove.

Poi che cercando stanco non seppe ove
s'albergasse, da presso o di lontano,
mostrossi a noi qual huom per doglia insano,
che molto amata cosa non ritrove.

==>SEGUE




Et cosí tristo standosi in disparte,
tornar non vide il viso, che laudato
sarà s'io vivo in piú di mille carte;

et pietà lui medesmo avea cangiato,
sí che' begli occhi lagrimavan parte:
però l'aere ritenne il primo stato.

44
Que'che 'n Tesaglia ebbe le man' sí pronte
a farla del civil sangue vermiglia,
pianse morto il marito di sua figlia,
raffigurato a le fatezze conte;

e 'l pastor ch'a Golia ruppe la fronte,
pianse la ribellante sua famiglia,
et sopra 'l buon Saúl cangiò le ciglia,
ond'assai può dolersi il fiero monte.

Ma voi che mai pietà non discolora,
et ch'avete gli schermi sempre accorti
contra l'arco d'Amor che 'ndarno tira,

mi vedete straziare a mille morti:
né lagrima però discese anchora
da' be' vostr'occhi, ma disdegno et ira.

45
Il mio adversario in cui veder solete
gli occhi vostri ch'Amore e 'l ciel honora,
colle non sue bellezze v'innamora
piú che 'n guisa mortal soavi et liete.

Per consiglio di lui, donna, m'avete
scacciato del mio dolce albergo fora:
misero exilio, avegna ch'i' non fôra
d'abitar degno ove voi sola siete.

Ma s'io v'era con saldi chiovi fisso,
non devea specchio farvi per mio danno,
a voi stessa piacendo, aspra et superba.

Certo, se vi rimembra di Narcisso,
questo et quel corso ad un termino vanno,
benché di sí bel fior sia indegna l'erba.


Forse sí come 'l Nil d'alto caggendo
col gran suono i vicin' d'intorno assorda,
e 'l sole abbaglia chi ben fiso 'l guarda,

cosí 'l desio che seco non s'accorda,
ne lo sfrenato obiecto vien perdendo,
et per troppo spronar la fuga è tarda.

49
Perch'io t'abbia guardato di menzogna
a mio podere et honorato assai,
ingrata lingua, già però non m'ài
renduto honor, ma facto ira et vergogna:

ché quando piú 'l tuo aiuto mi bisogna
per dimandar mercede, allor ti stai
sempre piú fredda, et se parole fai,
son imperfecte, et quasi d'uom che sogna.

Lagrime triste, et voi tutte le notti
m'accompagnate, ov'io vorrei star solo,
poi fuggite dinanzi a la mia pace;

et voi sí pronti a darmi angoscia et duolo,
sospiri, allor traete lenti et rotti:
sola la vista mia del cor non tace.

50
Ne la stagion che 'l ciel rapido inchina
verso occidente, et che 'l dí nostro vola
a gente che di là forse l'aspetta,
veggendosi in lontan paese sola,
la stancha vecchiarella pellegrina
raddoppia i passi, et piú et piú s'affretta;
et poi cosí soletta
al fin di sua giornata
talora è consolata
d'alcun breve riposo, ov'ella oblia
la noia e 'l mal de la passata via.
Ma, lasso, ogni dolor che 'l dí m'adduce
cresce qualor s'invia
per partirsi da noi l'eterna luce.

Come 'l sol volge le 'nfiammate rote
per dar luogo a la notte, onde discende
dagli altissimi monti maggior l'ombra,

==>SEGUE
l'avaro zappador l'arme riprende,
et con parole et con alpestri note
ogni gravezza del suo petto sgombra;
et poi la mensa ingombra
di povere vivande,
simili a quelle ghiande,
le qua' fuggendo tutto 'l mondo honora.
Ma chi vuol si rallegri ad ora ad ora,
ch'i' pur non ebbi anchor, non dirò lieta,
ma riposata un'hora,
né per volger di ciel né di pianeta.

Quando vede 'l pastor calare i raggi
del gran pianeta al nido ov'egli alberga,
e 'nbrunir le contrade d'orïente,
drizzasi in piedi, et co l'usata verga,
lassando l'erba et le fontane e i faggi,
move la schiera sua soavemente;
poi lontan da la gente
o casetta o spelunca
di verdi frondi ingiuncha:
ivi senza pensier' s'adagia et dorme.
Ahi crudo Amor, ma tu allor piú mi 'nforme
a seguir d'una fera che mi strugge,
la voce e i passi et l'orme,
et lei non stringi che s'appiatta et fugge.

E i naviganti in qualche chiusa valle
gettan le membra, poi che 'l sol s'asconde,
sul duro legno, et sotto a l'aspre gonne.
Ma io, perché s'attuffi in mezzo l'onde,
et lasci Hispagna dietro a le sue spalle,
et Granata et Marroccho et le Colonne,
et gli uomini et le donne
e 'l mondo et gli animali
aquetino i lor mali,
fine non pongo al mio obstinato affanno;
et duolmi ch'ogni giorno arroge al danno,
ch'i' son già pur crescendo in questa voglia
ben presso al decim'anno,
né poss'indovinar chi me ne scioglia.

Et perché un poco nel parlar mi sfogo,
veggio la sera i buoi tornare sciolti
da le campagne et da' solcati colli:
i miei sospiri a me perché non tolti
==>SEGUE


quando che sia? perché no 'l grave giogo?
perché dí et notte gli occhi miei son molli?
Misero me, che volli
quando primier sí fiso
gli tenni nel bel viso
per iscolpirlo imaginando in parte
onde mai né per forza né per arte
mosso sarà, fin ch'i' sia dato in preda
a chi tutto diparte!
Né so ben ancho che di lei mi creda.

Canzon, se l'esser meco
dal matino a la sera
t'à fatto di mia schiera,
tu non vorrai mostrarti in ciascun loco;
et d'altrui loda curerai sí poco,
ch'assai ti fia pensar di poggio in poggio
come m'à concio 'l foco
di questa viva petra, ov'io m'appoggio.
51
Poco era ad appressarsi agli occhi miei
la luce che da lunge gli abbarbaglia,
che, come vide lei cangiar Thesaglia,
cosí cangiato ogni mia forma avrei.

Et s'io non posso transformarmi in lei
piú ch'i' mi sia (non ch'a mercé mi vaglia),
di qual petra piú rigida si 'ntaglia
pensoso ne la vista oggi sarei,

o di diamante, o d'un bel marmo biancho,
per la paura forse, o d'un dïaspro,
pregiato poi dal vulgo avaro et scioccho;

et sarei fuor del grave giogo et aspro,
per cui i' ò invidia di quel vecchio stancho
che fa con le sue spalle ombra a Marroccho.

52
Non al suo amante piú Dïana piacque,
quando per tal ventura tutta ignuda
la vide in mezzo de le gelide acque,

ch'a me la pastorella alpestra et cruda
posta a bagnar un leggiadretto velo,
ch'a l'aura il vago et biondo capel chiuda,

tal che mi fece, or quand'egli arde 'l cielo,
tutto tremar d'un amoroso gielo.

53
Spirto gentil, che quelle membra reggi
dentro le qua' peregrinando alberga
un signor valoroso, accorto et saggio,
poi che se' giunto a l'onorata verga
colla qual Roma et i suoi erranti correggi,
et la richiami al suo antiquo vïaggio,
io parlo a te, però ch'altrove un raggio
non veggio di vertú, ch'al mondo è spenta,
né trovo chi di mal far si vergogni.
Che s'aspetti non so, né che s'agogni,
Italia, che suoi guai non par che senta:
vecchia, otïosa et lenta,
dormirà sempre, et non fia chi la svegli?
Le man' l'avess'io avolto entro' capegli.

==>SEGUE


Non spero che già mai dal pigro sonno
mova la testa per chiamar ch'uom faccia,
sí gravemente è oppressa et di tal soma;
ma non senza destino a le tue braccia,
che scuoter forte et sollevarla ponno,
è or commesso il nostro capo Roma.
Pon' man in quella venerabil chioma
securamente, et ne le treccie sparte,
sí che la neghittosa esca del fango.
I' che dí et notte del suo strazio piango,
di mia speranza ò in te la maggior parte:
che se 'l popol di Marte
devesse al proprio honore alzar mai gli occhi,
parmi pur ch'a' tuoi dí la gratia tocchi.

L'antiche mura ch'anchor teme et ama
et trema 'l mondo, quando si rimembra
del tempo andato e 'n dietro si rivolve,
e i sassi dove fur chiuse le membra
di ta' che non saranno senza fama,
se l'universo pria non si dissolve,
et tutto quel ch'una ruina involve,
per te spera saldar ogni suo vitio.
O grandi Scipïoni, o fedel Bruto,
quanto v'aggrada, s'egli è anchor venuto
romor là giú del ben locato officio!
Come cre' che Fabritio
si faccia lieto, udendo la novella!
Et dice: Roma mia sarà anchor bella.

Et se cosa di qua nel ciel si cura,
l'anime che lassú son citadine,
et ànno i corpi abandonati in terra,
del lungo odio civil ti pregan fine,
per cui la gente ben non s'assecura,
onde 'l camin a' lor tecti si serra:
che fur già sí devoti, et ora in guerra
quasi spelunca di ladron' son fatti,
tal ch'a' buon' solamente uscio si chiude,
et tra gli altari et tra le statue ignude
ogni impresa crudel par che se tratti.
Deh quanto diversi atti!
Né senza squille s'incommincia assalto,
che per Dio ringraciar fur poste in alto.

==>SEGUE


Le donne lagrimose, e 'l vulgo inerme
de la tenera etate, e i vecchi stanchi
ch'ànno sé in odio et la soverchia vita,
e i neri fraticelli e i bigi e i bianchi,
coll'altre schiere travagliate e 'nferme,
gridan: O signor nostro, aita, aita.
Et la povera gente sbigottita
ti scopre le sue piaghe a mille a mille,
ch'Anibale, non ch'altri, farian pio.
Et se ben guardi a la magion di Dio
ch'arde oggi tutta, assai poche faville
spegnendo, fien tranquille
le voglie, che si mostran sí 'nfiammate,
onde fien l'opre tue nel ciel laudate.

Orsi, lupi, leoni, aquile et serpi
ad una gran marmorea colomna
fanno noia sovente, et a sé danno.
Di costor piange quella gentil donna
che t'à chiamato a ciò che di lei sterpi
le male piante, che fiorir non sanno.
Passato è già piú che 'l millesimo anno
che 'n lei mancâr quell'anime leggiadre
che locata l'avean là dov'ell'era.
Ahi nova gente oltra misura altera,
irreverente a tanta et a tal madre!
Tu marito, tu padre:
ogni soccorso di tua man s'attende,
ché 'l maggior padre ad altr'opera intende.

Rade volte adiven ch'a l'alte imprese
fortuna ingiurïosa non contrasti,
ch'agli animosi fatti mal s'accorda.
Ora sgombrando 'l passo onde tu intrasti,
famisi perdonar molt'altre offese,
ch'almen qui da se stessa si discorda:
però che, quanto 'l mondo si ricorda,
ad huom mortal non fu aperta la via
per farsi, come a te, di fama eterno,
che puoi drizzar, s'i' non falso discerno,
in stato la piú nobil monarchia.
Quanta gloria ti fia
dir: Gli altri l'aitâr giovene et forte;
questi in vecchiezza la scampò da morte.

==>SEGUE


Sopra 'l monte Tarpeio, canzon, vedrai
un cavalier, ch'Italia tutta honora,
pensoso piú d'altrui che di se stesso.
Digli: Un che non ti vide anchor da presso,
se non come per fama huom s'innamora,
dice che Roma ognora
con gli occhi di dolor bagnati et molli
ti chier mercé da tutti sette i colli.

54
Perch'al viso d'Amor portava insegna,
mosse una pellegrina il mio cor vano,
ch'ogni altra mi parea d'onor men degna.

Et lei seguendo su per l'erbe verdi,
udí' dir alta voce di lontano:
Ahi, quanti passi per la selva perdi!

Allor mi strinsi a l'ombra d'un bel faggio,
tutto pensoso; et rimirando intorno,
vidi assai periglioso il mio vïaggio;

et tornai indietro quasi a mezzo 'l giorno.

55
Quel foco ch'i' pensai che fosse spento
dal freddo tempo et da l'età men fresca,
fiamma et martir ne l'anima rinfresca.

Non fur mai tutte spente, a quel ch'i' veggio,
ma ricoperte alquanto le faville,
et temo no 'l secondo error sia peggio.
Per lagrime ch'i' spargo a mille a mille
conven che 'l duol per gli occhi si distille
dal cor, ch'à seco le faville et l'ésca:
non pur qual fu, ma pare a me che cresca.

Qual foco non avrian già spento et morto
l'onde che gli occhi tristi versan sempre?
Amor, avegna mi sia tardi accorto,
vòl che tra duo contrari mi distempre;
et tende lacci in sí diverse tempre,
che quand'ò piú speranza che 'l cor n'esca,
allor piú nel bel viso mi rinvesca.


56
Se col cieco desir che 'l cor distrugge
contando l'ore no m'inganno io stesso,
ora mentre ch'io parlo il tempo fugge
ch'a me fu inseme et a mercé promesso.

Qual ombra è sí crudel che 'l seme adugge,
ch'al disïato frutto era sí presso?
et dentro dal mio ovil qual fera rugge?
tra la spiga et la man qual muro è messo?

Lasso, nol so; ma sí conosco io bene
che per far piú dogliosa la mia vita
amor m'addusse in sí gioiosa spene.

Et or di quel ch'i' ò lecto mi sovene,
che 'nanzi al dí de l'ultima partita
huom beato chiamar non si convene.

57
Mie venture al venir son tarde et pigre,
la speme incerta, e 'l desir monta et cresce,
onde e 'l lassare et l'aspectar m'incresce;
et poi al partir son piú levi che tigre.

Lasso, le nevi fien tepide et nigre,
e 'l mar senz'onda, et per l'alpe ogni pesce,
et corcherassi il sol là oltre ond'esce
d'un medesimo fonte Eufrate et Tigre,

prima ch'i' trovi in ciò pace né triegua,
o Amore o madonna altr'uso impari,
che m'ànno congiurato a torto incontra.

Et s'i' ò alcun dolce, è dopo tanti amari,
che per disdegno il gusto si dilegua:
altro mai di lor gratie non m'incontra.

58
La guancia che fu già piangendo stancha
riposate su l'un, signor mio caro,
et siate ormai di voi stesso piú avaro
a quel crudel che ' suoi seguaci imbiancha.

Coll'altro richiudete da man mancha
la strada a' messi suoi ch'indi passaro,
mostrandovi un d'agosto et di genaro,
perch'a la lunga via tempo ne mancha.

==>SEGUE


46
L'oro et le perle e i fior' vermigli e i bianchi,
che 'l verno devria far languidi et secchi,
son per me acerbi et velenosi stecchi,
ch'io provo per lo petto et per li fianchi.

Però i dí miei fien lagrimosi et manchi,
ché gran duol rade volte aven che 'nvecchi:
ma piú ne colpo i micidiali specchi,
che 'n vagheggiar voi stessa avete stanchi.

Questi poser silentio al signor mio,
che per me vi pregava, ond'ei si tacque,
veggendo in voi finir vostro desio;

questi fuor fabbricati sopra l'acque
d'abisso, et tinti ne l'eterno oblio,
onde 'l principio de mia morte nacque.

47
Io sentia dentr'al cor già venir meno
gli spirti che da voi ricevon vita;
et perché natural-mente s'aita
contra la morte ogni animal terreno,

largai 'l desio, ch'i teng'or molto a freno,
et misil per la via quasi smarrita:
però che dí et notte indi m'invita,
et io contra sua voglia altronde 'l meno.

Et mi condusse, vergognoso et tardo,
a riveder gli occhi leggiadri, ond'io
per non esser lor grave assai mi guardo.

Vivrommi un tempo omai, ch'al viver mio
tanta virtute à sol un vostro sguardo;
et poi morrò, s'io non credo al desio.

48
Se mai foco per foco non si spense,
né fiume fu già mai secco per pioggia,
ma sempre l'un per l'altro simil poggia,
et spesso l'un contrario l'altro accense,

Amor, tu che' pensier' nostri dispense,
al qual un'alma in duo corpi s'appoggia,
perché fai in lei con disusata foggia
men per molto voler le voglie intense?

==>SEGUE
E col terzo bevete un suco d'erba
che purghe ogni pensier che 'l cor afflige,
dolce a la fine, et nel principio acerba.

Me riponete ove 'l piacer si serba,
tal ch'i' non tema del nocchier di Stige,
se la preghiera mia non è superba.

59
Perché quel che mi trasse ad amar prima,
altrui colpa mi toglia,
del mio fermo voler già non mi svoglia.

Tra le chiome de l'òr nascose il laccio,
al qual mi strinse, Amore;
et da' begli occhi mosse il freddo ghiaccio,
che mi passò nel core,
con la vertú d'un súbito splendore,
che d'ogni altra sua voglia
sol rimembrando anchor l'anima spoglia.

Tolta m'è poi di que' biondi capelli,
lasso, la dolce vista;
e 'l volger de' duo lumi honesti et belli
col suo fuggir m'atrista;
ma perché ben morendo honor s'acquista,
per morte né per doglia
non vo' che da tal nodo Amor mi scioglia.

60
L'arbor gentil che forte amai molt'anni,
mentre i bei rami non m'ebber a sdegno
fiorir faceva il mio debile ingegno
a la sua ombra, et crescer negli affanni.

Poi che, securo me di tali inganni,
fece di dolce sé spietato legno,
i' rivolsi i pensier' tutti ad un segno,
che parlan sempre de' lor tristi danni.

Che porà dir chi per amor sospira,
s'altra speranza le mie rime nove
gli avessir data, et per costei la perde?

Né poeta ne colga mai, né Giove
la privilegi, et al Sol venga in ira,
tal che si secchi ogni sua foglia verde.
36
S'io credesse per morte essere scarco
del pensiero amoroso che m'atterra,
colle mie mani avrei già posto in terra
queste mie membra noiose, et quello incarco;

ma perch'io temo che sarrebbe un varco
di pianto in pianto, et d'una in altra guerra,
di qua dal passo anchor che mi si serra
mezzo rimango, lasso, et mezzo il varco.

Tempo ben fôra omai d'avere spinto
l'ultimo stral la dispietata corda
ne l'altrui sangue già bagnato et tinto;

et io ne prego Amore, et quella sorda
che mi lassò de' suoi color' depinto,
et di chiamarmi a sé non le ricorda.

37
Sí è debile il filo a cui s'attene
la gravosa mia vita
che, s'altri non l'aita,
ella fia tosto di suo corso a riva;
però che dopo l'empia dipartita
che dal dolce mio bene
feci, sol una spene
è stato infin a qui cagion ch'io viva,
dicendo: Perché priva
sia de l'amata vista,
mantienti, anima trista;
che sai s'a miglior tempo ancho ritorni
et a piú lieti giorni,
o se 'l perduto ben mai si racquista?
Questa speranza mi sostenne un tempo:
or vien mancando, et troppo in lei m'attempo.

Il tempo passa, et l'ore son sí pronte
a fornire il vïaggio,
ch'assai spacio non aggio
pur a pensar com'io corro a la morte:
a pena spunta in orïente un raggio
di sol, ch'a l'altro monte
de l'adverso orizonte
giunto il vedrai per vie lunghe et distorte.

==>SEGUE
Manoscritto dell'inizio del Canzoniere dove comincia la poesia
Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono
Bibliotheca chalcographica, 1669