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FRANCESCO PETRARCA


CANZONIERE
(Rerum Vulgarium Fragmenta)

Parte III
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
FRANCESCO PETRARCA

sul CANZONIERE
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Da Wikipedia
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FRANCESCO PETRARCA  - CANZONIERE - Parte III









































FINE
Parte terza
Il Canzoniere, o meno comunemente conosciuto col titolo originale in latino Francisci Petrarchae laureati poetae Rerum vulgarium fragmenta ("Frammenti di componimenti in volgare di Francesco Petrarca, poeta coronato d'alloro"), è la storia, attraverso la poesia, della vita interiore di Petrarca.

- MANOSCRITTI
Esistono quattro principali testimoni: il manoscritto Vaticano Latino 3196, il cosiddetto "Codice degli abbozzi" in quanto contenente versioni non definitive e ricche di correzioni, ed il 3195, definitivo, composto tra il 1366 e il 1374 (anno di morte del Petrarca), con alcune poesie mancanti rispetto al 3196. Entrambi i manoscritti possono essere catalogati come idiografi/autografi, in quanto scritti in parte dalla mano di Petrarca, in parte da quella dello scriba suo discepolo Giovanni Malpaghini (cfr. a tal proposito Vat. Lat. 3195, c.62r in cui sono riscontrabili le due grafie: Malpaghini per C.317 - 318, Petrarca per C.319 - 320). La mano del Malpaghini è fondamentale in quanto darà vita alla "redazione Giovanni" (Gv), considerabile come strato evolutivo intermedio essenziale per comprendere l'evolversi dell'opera.
Ad essi vanno collegati i testimoni più autorevoli della tradizione, che attestano, prima della conclusione del lavoro nella versione definitiva affidata al Vaticano latino 3195, il passaggio attraverso forme, raccolte, e alcune "edizioni" principali consegnate ai seguenti manoscritti: il codice Chigi L V 176, il Laurenziano XLI 17, il Queriniano D II 21, ma soprattutto per stabilire la forma pre-definitiva al Laurenziano XLI 10 e al Parigino italiano 551.
La vastità delle testimonianze manoscritte del Canzoniere ha comportato un'oggettiva difficoltà nella definizione del testo critico. L’originale del Canzoniere (Vat. lat. 3195) è stato riprodotto diplomaticamente da Ettore Modigliani. Di esso ha procurato il testo critico Giuseppe Savoca ( Francesco Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, Firenze, Olschki, 2008.).

- LE STAMPE
La prima edizione a stampa del Canzoniere, insieme ai Trionfi, si ebbe nel 1470 a Venezia presso il tipografo tedesco Vindelino da Spira. Di questa editio princeps sopravvivono presso biblioteche italiane, europee e americane, meno di trenta esemplari.
Nelle decine di altre stampe del Petrarca volgare fatte in tutta Italia nell'ultimo trentennio del Quattrocento si distingue per il suo notevole valore filologico quella del 1472, approntata dall'editore padovano Bartolomeo Valdezocco (Bortolamio Valdezoco). Questa edizione (nonostante gli errori di lettura e trascrizione) si rivela condotta direttamente sull'originale vaticano (o su un esemplare per la tipografia derivato dall’originale). Rispetto alla editio princeps, la Valdezoco, seguendo abbastanza attentamente il manoscritto originale, introduce una punteggiatura limitata a tre segni: «.»,«:», «?».
Recenti ricerche hanno consentito di accertare che la parola canzoniere è presente, con specifico riferimento ai Rerum vulgarium fragmenta, «già in documenti precedenti al 1484».
Fondamentale, per la costituzione della vulgata petrarchesca, è stata l'edizione uscita a Venezia dalla tipografia di Aldo Manuzio nel 1501, la cosiddetta "Aldina". L'edizione veniva presentata dall'editore come fondata sull'originale del poeta, ma in realtà essa riproduceva una copia manoscritta del Canzoniere approntata da Pietro Bembo, e pervenutaci come codice Vat. lat. 3197, che non deriva direttamente dall'originale. Le cose volgari di messer Francesco Petrarcha del 1501 (basate sul 3197) furono poi, con variazioni, ripubblicate da Aldo nel 1514 come Il Petrarcha.
Editore di grande scrupolo e rigore filologico fu certamente nel '600 monsignor Federico Ubaldini che, senza apporvi nemmeno il proprio nome, pubblicò nel 1642 a Roma, in una forma diplomatica tuttora esemplare, Le Rime di M. Francesco Petrarca estratte da un suo originale (le carte del Vat. lat. 3195).
Tra le edizioni successive da citare è quella curata dall'abate Antonio Marsand (Le Rime del Petrarca, 2 voll., Padova, Tipografia del Seminario, 1819-1820), più che per il valore filologico, per essere l'edizione a cui si rifà esplicitamente Giacomo Leopardi, seguendola in ogni cosa, «eccetto solamente nella punteggiatura». Una citazione chiarifica l’intelligenza filologica di Leopardi, quando si riferisce alla canzone CXXIX, v. 63:

In questo volume ci siamo discostati una volta dalla edizione del professore Marsand, e ciò è nell'infrascritto passo…
«Poscia fra me pian piano: // Che sai tu lasso? forse in quella parte // Or di tua lontananza si sospira: // Ed in questo pensier l’alma respira.»

"Che sai tu lasso?" è la lettura corretta. Ma le tre edizioni seguite dal Marsand, in cambio di "che sai", riportano "che fai", lezione priva di significato. Leopardi apportò dunque la modifica solo per gusto poetico, senza aver mai avuto la possibilità di leggere l'originale petrarchesco.
Dopo Leopardi, una svolta decisiva nella filologia petrarchesca si ebbe nel 1886, quando venne riconosciuto, dal De Nolhac e dal Pakscher, nel codice Vat. lat. 3195 l'originale del Canzoniere. Dieci anni dopo (1896) usciva a Firenze l'edizione di Canzoniere e Trionfi dovuta a Giovanni Mestica. Nel 1899 anche Giosuè Carducci e Severino Ferrari pubblicavano le sole rime del Canzoniere.
Qualche anno dopo, nella ricorrenza del sesto centenario della nascita di Petrarca, Giuseppe Salvo Cozzo, giudicando una sciocca pretesa quella di pensare di «rimodernare l'ortografia», pubblicava un'edizione del Canzoniere basata sull'originale, e che si proponeva di «conservare al testo la sua fisonomia», collazionando anche le principali varianti tra l'originale e le edizioni del Mestica e di Carducci-Ferrari.
Porta la data editoriale del 1904, ma in realtà uscì nel maggio del 1905, la trascrizione diplomatica dell'originale che la Società Filologica Romana aveva affidato a Ettore Modigliani. Questa edizione (pregevole, ma non priva di numerosi errori e di sviste, specie per quanto riguarda l’interpunzione) è tuttora un autentico contributo per la conoscenza dell'originale, ma ha finito, sulla base dell’erroneo presupposto che esso fosse un documento perfettamente aderente al testo trascritto, per esimere gran parte dei filologi e degli editori dallo studio diretto del codice vaticano. A questo distacco dall'originale ha concorso (anche se in misura minore) la riproduzione fototipica dell'originale curata per la Biblioteca Vaticana da monsignor Marco Vattasso nel 1905. Da citare anche le edizioni di Chiòrboli (1924 e 1930).
Il testo di maggiore risonanza nell'editoria del Canzoniere nel secondo Novecento è, senza dubbio, quello approntato da Contini per le edizioni Tallone nel 1949 (ripubblicato per Einaudi nel 1964). Il testo di Contini tanto nella prima quanto nelle successive edizioni dipende totalmente dall’edizione diplomatica di Modigliani, dalla quale gli derivano direttamente numerosi errori di lettura e di trascrizione.
Gli editori e gli autorevoli commentatori post-continiani (da Ponte a Dotti, da Fenzi e Santagata a Bettarini, ecc.) hanno tutti accettato il testo di Contini, talvolta correggendone sviste ed errori di stampa, e anche variandone in qualche luogo l’interpunzione, ma senza contestarne mai le soluzioni di base. Nel 2008 Giuseppe Savoca ha pubblicato un'edizione critica basata sull’originale. Questa edizione riconduce la punteggiatura al sistema "punto, virgola, punto interrogativo", apportando modifiche (rispetto all'edizione Contini e successive) a 3685 versi (dei 7785 che compongono il Canzoniere), a 1542 parole (delle oltre 57.000 del corpus), per un totale di oltre 8000 interventi. Savoca cataloga inoltre le 8472 varianti rispetto ai testimoni più accreditati: il Codice degli abbozzi (Vat. lat. 3196), il Chigiano (L V 176), il Laurenziano (XLI 17), e il Queriniano (D II 21)

- IL TESTO
La raccolta comprende 366 (365, come i giorni dell'anno, più uno introduttivo: "Voi ch'ascoltate") componimenti: 317 sonetti (86.5%), 29 canzoni (8%), 9 sestine(2.5%), 7 ballate (2%) e 4 madrigali (1%). Non raccoglie tutti i componimenti poetici del Petrarca, ma solo quelli che il poeta scelse con grande cura; altre rime (extravagantes) andarono perdute o furono incluse in altri manoscritti. La maggior parte delle rime del Canzoniere è d'argomento amoroso, una trentina sono di argomento morale, religioso o politico.
Sono celebri le canzoni Italia mia e Spirto gentil nelle quali il concetto di Patria si identifica con la bellezza della terra natale, sognata libera dalle lotte fratricide e dalle milizie mercenarie. Fra le canzoni più celebri ricordiamo anche Chiare, fresche e dolci acque e tra i sonetti Solo et pensoso i piú deserti campi.
La raccolta è stata divisa dagli editori in due parti: rime "in vita" (I-CCLXIII) e rime "in morte" (CCLXIV-CCCLXVI) di Madonna Laura. In realtà il Petrarca compose il Canzoniere dopo il 1348, includendovi rime già composte sia per Laura, sia per altre donne (ed attribuendo queste ultime a Laura), stendendo altre rime che finse di aver scritto quando l'amata era ancora in vita ed aggiungendone altre ancora, in modo da rappresentare Laura come l'unico puro amore terreno.

- POETICA
L'amore non corrisposto per Laura, incontrata l'unica volta - a detta del poeta - il 6 aprile 1327, è il fulcro della vita spirituale del Petrarca; il poeta credeva infatti che, sulla base dei propri studi sui classici, tutto divenisse spontaneamente letteratura. Da tale sostrato letterario ha origine la grande poesia petrarchesca. Con Petrarca la letteratura diventa maestra di vita e nasce la prima lezione dell'umanesimo. In Petrarca si avverte la ricerca della serenità. Lo sconforto, il dolore, la volontà di pentimento, divengono speranza; il pianto per la morte della donna amata si placa nell'immagine di Laura che scende consolatrice dal cielo.
Nella poesia del Petrarca la descrizione dei sentimenti trova riscontro o contrapposizione nel paesaggio. Il Petrarca perfezionò le forme della tradizione lirica medievale, dai provenzali prese il metro (la sestina) e ne rielaborò i modi poetici. Anche la raffigurazione della donna amata si inquadra nella tematica provenzale: Laura è la donna a cui il poeta rende omaggio e costituisce il fulcro ideale intorno al quale si dispone la vita sentimentale del poeta. Presa a modello di virtù e di bellezza non ha nulla di sovrumano; anzi, matura negli anni attraverso il Canzoniere. La sua figura, i suoi tratti umani, i begli occhi, le trecce bionde, il dolce riso, sono ispirati a personaggi reali. L'immagine di Laura è probabilmente quella di una cantatrice attiva in Veneto nella seconda metà del XIV secolo.
La seconda parte del Canzoniere si chiude con la canzone Alla Vergine, nella quale il poeta implora perdono ed esprime un intenso desiderio di superare ogni conflitto, di trovare finalmente la pace. E "pace" è appunto l'ultima, emblematica parola della canzone, la parola che chiude e suggella il libro.
Il Canzoniere si divide fra "rime in vita" e "rime in morte" di Laura.
Si tratta di un'autobiografia spirituale del poeta, come le Confessioni di sant'Agostino, scrittore e teologo che fu modello spirituale e religioso per Petrarca. "Tutta la lirica del Petrarca è un sommesso colloquio del poeta con la propria anima". La sua poesia ha un carattere psicologico, senza toni realistici o narrativi. Il tema dominante è il "dissidio interiore" che il poeta prova tra l'attrazione verso i piaceri terreni e l'amore per Laura, e la tensione spirituale verso Dio. Dall'idea di amore-peccato del primo sonetto ("in sul mio primo giovenile errore") il poeta giunge alla conclusione del Canzoniere con la canzone alla Vergine ("Vergine bella che di sol vestita"): è una palinodia religiosa che chiude l'opera secondo una parabola spirituale ascendente tipicamente medievale. "Il Canzoniere si conclude con un testo di ispirazione religiosa e tono sublime, una delle canzoni più complesse dell’intera raccolta dal punto di vista metrico e retorico. La collocazione della poesia non rispecchia l’ordine reale di composizione, ma risponde all’esigenza di concludere in maniera esemplare la vicenda del poeta con il rifiuto delle tentazioni terrene e dell’amore per Laura”. A questo proposito il critico Gianfranco Contini ha definito il Canzoniere una "storia sacra di un amore profano". Sempre Contini, ha osservato come nell'ambito del Canzoniere, il nome di Laura venga "sillabato" in ogni maniera: " aura", "lauro", "l'auro". Frequenti sono i riferimenti biblici e spesso il verso petrarchesco ricalca passi della Bibbia come nel sonetto LXXXI (Io son sì stanco) dove ad esempio il verso "O voi che travagliate, ecco 'l camino"  riprende il Vangelo di Matteo (XI,28) e la terzina finale ("Qual grazia, qual amore o qual destino/ mi darà penne in guisa di colomba/ ch'io mi riposi e levimi da terra?") riprende il salmo LIV,7. Petrarca si sente smarrito tra realtà e sogno (Di pensier in pensier, di monte in monte), immerso nell'angosciosa solitudine (O cameretta che già fosti un porto), ricercatore di un isolamento dal mondo (Solo et pensoso), aspiratore ad una dimensione spirituale che però è difficile da conquistare (Padre del ciel, Movesi il vecchierel). Egli riconosce, già alla fine del primo sonetto, che frutto del suo seguire le vanità terrene sono la vergogna, il pentimento e il riconoscere che "quanto piace al mondo è breve sogno", riecheggiando così il biblico "vanitas vanitatum" ("vanità delle vanità") dell'Ecclesiaste (Qoelet 2). Certi componimenti hanno il carattere di splendide preghiere, come i sonetti Padre del ciel (LXII), Tennemi Amor (CCCLXVI), Io vo piangendo (CCCLXV), la canzone alla Vergine (CCCLXVI). La canzone Chiare fresche e dolci acque (CXXVI) mostra un'anima tra l'angoscia della realtà e la dolce malinconia del sogno. Come in questa canzone e nel sonetto O cameretta che già fosti porto (CCXXXIV), la valle piena dei suoi lamenti e l'aria calda dei suoi sospiri ed il dolce sentiero (CCCI), l'usignolo (CCCXI), i dolci colli (CCCXX) ed il vago augelletto (CCCLIII) non rappresentano una natura esteriore ma creature di un mondo interiorizzato, vagheggiato nell'immaginazione, confidenti delle pene recondite del poeta che spesso si rifugia in un clima di sogno e di immaginazione. Nella seconda parte del Canzoniere vi sono sonetti notevoli e belli (CCLXXIX, CCLXXXII, CCLXXXV, CCCII) e la Canzone Quando il soave mio fido conforto in cui Laura, donna di vaga bellezza e trasfigurata spiritualmente, lo consola "nelle sue notti dolenti" e "sospira dolcemente e si adira" nel vederlo immerso nelle passioni terrene.
Il critico Umberto Bosco sottolinea che "l'amore è il mezzo di cui Petrarca si serve per concretare liricamente la complessità dei suoi sentimenti", un amore che trapassa dal sogno all'elegia in cui Laura è "una figura evanescente". Il poeta esprime la dolcezza del gaudio in sé ma anche un presagio di dissolvimento e di morte. La caducità è un altro motivo dominante nel Canzoniere ed in altre opere petrarchesche, dal "conoscere chiaramente che quanto piace al mondo è breve sogno" (sonetto proemiale del Canzoniere) al lamento di Magone morente nel poemetto l' Africa, e Laura "è il fantasma poetico nel quale liricamente si concreta, soprattutto, appunto, il senso dell'irrimediabile caducità". Quanto poi all'interiore dissidio del poeta, Bosco osserva che esso "non consiste dunque propriamente nel conflitto umano-divino, ma nel conflitto tra la religione e la ragione da una parte, che gli impongono la concezione di un Dio che comprenda tutto ma in cui tutto si annulli, e l'incoercibile forza del sogno dall'altra, che lo trascina a concepire un Dio riposo degli affanni e garante dell'eternità degli affetti umani".
Altri temi presenti nel Canzoniere sono la condanna della corruzione della curia papale ad Avignone (Fiamma dal ciel su le tue trecce piova, CXXXVI) e l' esaltazione delle virtù italiche nelle canzoni Spirto gentil e Italia mia. Nella prima Roma è portata ad esempio e modello di civiltà per i corrotti contemporanei, nella seconda i reggenti le Signorie italiane sono invitati a chiamare a raccolta il popolo, erede delle virtù romane ("Latin sangue gentil") contro i soldati mercenari germanici discendenti dai barbari sconfitti dai Romani ("Vertù contra furore/prenderà l'arme e fia il combatter corto: /ché l'antico valore/ ne l'italici cor non è ancor morto").

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126
Chiare, fresche et dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo ove piacque
(con sospir' mi rimembra)
a lei di fare al bel fiancho colonna;
herba et fior' che la gonna
leggiadra ricoverse
co l'angelico seno;
aere sacro, sereno,
ove Amor co' begli occhi il cor m'aperse:
date udïenza insieme
a le dolenti mie parole extreme.

S'egli è pur mio destino
e 'l cielo in ciò s'adopra,
ch'Amor quest'occhi lagrimando chiuda,
qualche gratia il meschino
corpo fra voi ricopra,
et torni l'alma al proprio albergo ignuda.
La morte fia men cruda
se questa spene porto
a quel dubbioso passo:
ché lo spirito lasso
non poria mai in piú riposato porto
né in piú tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata et l'ossa.

Tempo verrà anchor forse
ch'a l'usato soggiorno
torni la fera bella et mansüeta,
et là 'v'ella mi scorse
nel benedetto giorno,
volga la vista disïosa et lieta,
cercandomi; et, o pieta!,
già terra in fra le pietre
vedendo, Amor l'inspiri
in guisa che sospiri
sí dolcemente che mercé m'impetre,
et faccia forza al cielo,
asciugandosi gli occhi col bel velo.

==>SEGUE



Da' be' rami scendea
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior' sovra 'l suo grembo;
et ella si sedea
humile in tanta gloria,
coverta già de l'amoroso nembo.
Qual fior cadea sul lembo,
qual su le treccie bionde,
ch'oro forbito et perle
eran quel dí a vederle;
qual si posava in terra, et qual su l'onde;
qual con un vago errore
girando parea dir: - Qui regna Amore. -

Quante volte diss'io
allor pien di spavento:
Costei per fermo nacque in paradiso.
Cosí carco d'oblio
il divin portamento
e 'l volto e le parole e 'l dolce riso
m'aveano, et sí diviso
da l'imagine vera,
ch'i' dicea sospirando:
Qui come venn'io, o quando?;
credendo d'esser in ciel, non là dov'era.
Da indi in qua mi piace
questa herba sí, ch'altrove non ò pace.

Se tu avessi ornamenti quant'ài voglia,
poresti arditamente
uscir del boscho, et gir in fra la gente.

127
In quella parte dove Amor mi sprona
conven ch'io volga le dogliose rime,
che son seguaci de la mente afflicta.
Quai fien ultime, lasso, et qua' fien prime?
Collui che del mio mal meco ragiona
mi lascia in dubbio, sí confuso ditta.
Ma pur quanto l'istoria trovo scripta
in mezzo 'l cor (che sí spesso rincorro)
co la sua propria man de' miei martiri,
dirò, perché i sospiri
parlando àn triegua, et al dolor soccorro.

==>SEGUE


Dico che, perch'io miri
mille cose diverse attento et fiso,
sol una donna veggio, e 'l suo bel viso.

Poi che la dispietata mia ventura
m'à dilungato dal maggior mio bene,
noiosa, inexorabile et superba,
Amor col rimembrar sol mi mantene:
onde s'io veggio in giovenil figura
incominciarsi il mondo a vestir d'erba,
parmi vedere in quella etate acerba
la bella giovenetta, ch'ora è donna;
poi che sormonta riscaldando il sole,
parmi qual esser sòle,
fiamma d'amor che 'n cor alto s'endonna;
ma quando il dí si dole
di lui che passo passo a dietro torni,
veggio lei giunta a' suoi perfecti giorni.

In ramo fronde, over vïole in terra,
mirando a la stagion che 'l freddo perde,
et le stelle miglior' acquistan forza,
ne gli occhi ò pur le vïolette e 'l verde
di ch'era nel principio de mia guerra
Amor armato, sí ch'anchor mi sforza,
et quella dolce leggiadretta scorza
che ricopria le pargolette membra
dove oggi alberga l'anima gentile
ch'ogni altro piacer vile
sembiar mi fa: sí forte mi rimembra
del portamento humile
ch'allor fioriva, et poi crebbe anzi agli anni,
cagion sola et riposo de' miei affanni.

Qualor tenera neve per li colli
dal sol percossa veggio di lontano,
come 'l sol neve, mi governa Amore,
pensando nel bel viso piú che humano
che pò da lunge gli occhi miei far molli,
ma da presso gli abbaglia, et vince il core:
ove fra 'l biancho et l'aurëo colore,
sempre si mostra quel che mai non vide
occhio mortal, ch'io creda, altro che 'l mio;
et del caldo desio,
che, quando sospirando ella sorride,

==>SEGUE




m'infiamma sí che oblio
nïente aprezza, ma diventa eterno,
né state il cangia, né lo spegne il verno.

Non vidi mai dopo nocturna pioggia
gir per l'aere sereno stelle erranti,
et fiammeggiar fra la rugiada e 'l gielo,
ch'i' non avesse i begli occhi davanti
ove la stancha mia vita s'appoggia,
quali io gli vidi a l'ombra di un bel velo;
et sí come di lor bellezze il cielo
splendea quel dí, così bagnati anchora
li veggio sfavillare, ond'io sempre ardo.
Se 'l sol levarsi sguardo,
sento il lume apparir che m'innamora;
se tramontarsi al tardo,
parmel veder quando si volge altrove
lassando tenebroso onde si move.

Se mai candide rose con vermiglie
in vasel d'oro vider gli occhi miei
allor allor da vergine man colte,
veder pensaro il viso di colei
ch'avanza tutte l'altre meraviglie
con tre belle excellentie in lui raccolte:
le bionde treccie sopra 'l collo sciolte,
ov'ogni lacte perderia sua prova,
e le guancie ch'adorna un dolce foco.
Ma pur che l'òra un poco
fior' bianchi et gialli per le piaggie mova,
torna a la mente il loco
e 'l primo dí ch'i' vidi a l'aura sparsi
i capei d'oro, ond'io sí súbito arsi,

Ad una ad una annoverar le stelle,
e 'n picciol vetro chiuder tutte l'acque,
forse credea, quando in sí poca carta
novo penser di ricontar mi nacque
in quante parti il fior de l'altre belle,
stando in se stessa, à la sua luce sparta
a ciò che mai da lei non mi diparta:
né farò io; et se pur talor fuggo,
in cielo e'n terra m'ha rachiuso i passi,
perch'agli occhi miei lassi

==>SEGUE



O diluvio raccolto
di che deserti strani
per inondar i nostri dolci campi!
Se da le proprie mani
questo n'avene, or chi fia che ne scampi?

Ben provide Natura al nostro stato,
quando de l'Alpi schermo
pose fra noi et la tedesca rabbia;
ma 'l desir cieco, e 'ncontr'al suo ben fermo,
s'è poi tanto ingegnato,
ch'al corpo sano à procurato scabbia.
Or dentro ad una gabbia
fiere selvagge et mansüete gregge
s'annidan sí che sempre il miglior geme:
et è questo del seme,
per piú dolor, del popol senza legge,
al qual, come si legge,
Mario aperse sí 'l fianco,
che memoria de l'opra ancho non langue,
quando assetato et stanco
non piú bevve del fiume acqua che sangue.

Cesare taccio che per ogni piaggia
fece l'erbe sanguigne
di lor vene, ove 'l nostro ferro mise.
Or par, non so per che stelle maligne,
che 'l cielo in odio n'aggia:
vostra mercé, cui tanto si commise.
Vostre voglie divise
guastan del mondo la piú bella parte.
Qual colpa, qual giudicio o qual destino
fastidire il vicino
povero, et le fortune afflicte et sparte
perseguire, e 'n disparte
cercar gente et gradire,
che sparga 'l sangue et venda l'alma a prezzo?
Io parlo per ver dire,
non per odio d'altrui, né per disprezzo.

Né v'accorgete anchor per tante prove
del bavarico inganno
ch'alzando il dito colla morte scherza?

==>SEGUE



sempre è presente, ond'io tutto mi struggo.
Et cosí meco stassi,
ch'altra non veggio mai, né veder bramo,
né 'l nome d'altra né sospir' miei chiamo.

Ben sai, canzon, che quant'io parlo è nulla
al celato amoroso mio pensero,
che dí et nocte ne la mente porto,
solo per cui conforto
in cosí lunga guerra ancho non pèro:
ché ben m'avria già morto
la lontananza del mio cor piangendo,
ma quinci da la morte indugio prendo.

128
Italia mia, benché 'l parlar sia indarno
a le piaghe mortali
che nel bel corpo tuo sí spesse veggio,
piacemi almen che ' miei sospir' sian quali
spera 'l Tevero et l'Arno,
e 'l Po, dove doglioso et grave or seggio.
Rettor del cielo, io cheggio
che la pietà che Ti condusse in terra
Ti volga al Tuo dilecto almo paese.
Vedi, Segnor cortese,
di che lievi cagion' che crudel guerra;
e i cor', che 'ndura et serra
Marte superbo et fero,
apri Tu, Padre, e 'ntenerisci et snoda;
ivi fa che 'l Tuo vero,
qual io mi sia, per la mia lingua s'oda.

Voi cui Fortuna à posto in mano il freno
de le belle contrade,
di che nulla pietà par che vi stringa,
che fan qui tante pellegrine spade?
perché 'l verde terreno
del barbarico sangue si depinga?
Vano error vi lusinga:
poco vedete, et parvi veder molto,
ché 'n cor venale amor cercate o fede.
Qual piú gente possede,
colui è piú da' suoi nemici avolto.

==>SEGUE


Peggio è lo strazio, al mio parer, che 'l danno;
ma 'l vostro sangue piove
piú largamente, ch'altr'ira vi sferza.
Da la matina a terza
di voi pensate, et vederete come
tien caro altrui che tien sé cosí vile.
Latin sangue gentile,
sgombra da te queste dannose some;
non far idolo un nome
vano senza soggetto:
ché 'l furor de lassú, gente ritrosa,
vincerne d'intellecto,
peccato è nostro, et non natural cosa.

Non è questo 'l terren ch'i' toccai pria?
Non è questo il mio nido
ove nudrito fui sí dolcemente?
Non è questa la patria in ch'io mi fido,
madre benigna et pia,
che copre l'un et l'altro mio parente?
Perdio, questo la mente
talor vi mova, et con pietà guardate
le lagrime del popol doloroso,
che sol da voi riposo
dopo Dio spera; et pur che voi mostriate
segno alcun di pietate,
vertú contra furore
prenderà l'arme, et fia 'l combatter corto:
ché l'antiquo valore
ne gli italici cor' non è anchor morto.

Signor', mirate come 'l tempo vola,
et sí come la vita
fugge, et la morte n'è sovra le spalle.
Voi siete or qui; pensate a la partita:
ché l'alma ignuda et sola
conven ch'arrive a quel dubbioso calle.
Al passar questa valle
piacciavi porre giú l'odio et lo sdegno,
vènti contrari a la vita serena;
et quel che 'n altrui pena
tempo si spende, in qualche acto piú degno
o di mano o d'ingegno,

==>SEGUE


in qualche bella lode,
in qualche honesto studio si converta:
cosí qua giú si gode,
et la strada del ciel si trova aperta.

Canzone, io t'ammonisco
che tua ragion cortesemente dica,
perché fra gente altera ir ti convene,
et le voglie son piene
già de l'usanza pessima et antica,
del ver sempre nemica.
Proverai tua ventura
fra' magnanimi pochi a chi 'l ben piace.
Di' lor: - Chi m'assicura?
I' vo gridando: Pace, pace, pace. -

129
Di pensier in pensier, di monte in monte
mi guida Amor, ch'ogni segnato calle
provo contrario a la tranquilla vita.
Se 'n solitaria piaggia, o rivo, o fonte,
se 'nfra duo poggi siede ombrosa valle,
ivi s'acqueta l'alma sbigottita;
et come Amor l'envita,
or ride, or piange, or teme, or s'assecura;
e 'l volto che lei segue ov'ella il mena
si turba et rasserena,
et in un esser picciol tempo dura;
onde a la vista huom di tal vita experto
diria: Questo arde, et di suo stato è incerto.

Per alti monti et per selve aspre trovo
qualche riposo: ogni habitato loco
è nemico mortal degli occhi miei.
A ciascun passo nasce un penser novo
de la mia donna, che sovente in gioco
gira 'l tormento ch'i' porto per lei;
et a pena vorrei
cangiar questo mio viver dolce amaro,
ch'i' dico: Forse anchor ti serva Amore
ad un tempo migliore;
forse, a te stesso vile, altrui se' caro.
Et in questa trapasso sospirando:
Or porrebbe esser vero? or come? or quando?

==>SEGUE




Ove porge ombra un pino alto od un colle
talor m'arresto, et pur nel primo sasso
disegno co la mente il suo bel viso.
Poi ch'a me torno, trovo il petto molle
de la pietate; et alor dico: Ahi, lasso,
dove se' giunto! et onde se' diviso!
Ma mentre tener fiso
posso al primo pensier la mente vaga,
et mirar lei, et oblïar me stesso,
sento Amor sí da presso,
che del suo proprio error l'alma s'appaga:
in tante parti et sí bella la veggio,
che se l'error durasse, altro non cheggio.

I' l'ò piú volte (or chi fia che mi 'l creda?)
ne l'acqua chiara et sopra l'erba verde
veduto viva, et nel tronchon d'un faggio
e 'n bianca nube, sí fatta che Leda
avria ben detto che sua figlia perde,
come stella che 'l sol copre col raggio;
et quanto in piú selvaggio
loco mi trovo e 'n piú deserto lido,
tanto piú bella il mio pensier l'adombra.
Poi quando il vero sgombra
quel dolce error, pur lí medesmo assido
me freddo, pietra morta in pietra viva,
in guisa d'uom che pensi et pianga et scriva.

Ove d'altra montagna ombra non tocchi,
verso 'l maggiore e 'l piú expedito giogo
tirar mi suol un desiderio intenso;
indi i miei danni a misurar con gli occhi
comincio, e 'ntanto lagrimando sfogo
di dolorosa nebbia il cor condenso,
alor ch'i' miro et penso,
quanta aria dal bel viso mi diparte
che sempre m'è sí presso et sí lontano.
Poscia fra me pian piano:
Che sai tu, lasso! forse in quella parte
or di tua lontananza si sospira.
Et in questo penser l'alma respira.

Canzone, oltra quell'alpe
là dove il ciel è piú sereno et lieto

==>SEGUE


mi rivedrai sovr'un ruscel corrente,
ove l'aura si sente
d'un fresco et odorifero laureto.
Ivi è 'l mio cor, et quella che 'l m'invola;
qui veder pôi l'imagine mia sola.


130
Poi che 'l camin m'è chiuso di Mercede,
per desperata via son dilungato
da gli occhi ov'era, i' non so per qual fato,
riposto il guidardon d'ogni mia fede.

Pasco 'l cor di sospir', ch'altro non chiede,
e di lagrime vivo a pianger nato:
né di ciò duolmi, perché in tale stato
è dolce il pianto piú ch'altri non crede.

Et sol ad una imagine m'attegno,
che fe' non Zeusi, o Prasitele, o Fidia,
ma miglior mastro, et di piú alto ingegno.

Qual Scithia m'assicura, o qual Numidia,
s'anchor non satia del mio exsilio indegno,
cosí nascosto mi ritrova Invidia?

131
Io canterei d'amor sí novamente
ch'al duro fiancho il dí mille sospiri
trarrei per forza, et mille alti desiri
raccenderei ne la gelata mente;

e 'l bel viso vedrei cangiar sovente,
et bagnar gli occhi, et piú pietosi giri
far, come suol chi de gli altrui martiri
et del suo error quando non val si pente;

et le rose vermiglie in fra le neve
mover da l'òra, et discovrir l'avorio
che fa di marmo chi da presso 'l guarda;

e tutto quel per che nel viver breve
non rincresco a me stesso, anzi mi glorio
d'esser servato a la stagion piú tarda.

132
S'amor non è, che dunque è quel ch'io sento?
Ma s'egli è amor, perdio, che cosa et quale?
Se bona, onde l'effecto aspro mortale?
Se ria, onde sí dolce ogni tormento?

S'a mia voglia ardo, onde 'l pianto e lamento?
S'a mal mio grado, il lamentar che vale?
O viva morte, o dilectoso male,
come puoi tanto in me, s'io no 'l consento?

   ==>SEGUE


Et s'io 'l consento, a gran torto mi doglio.
Fra sí contrari vènti in frale barca
mi trovo in alto mar senza governo,

sí lieve di saver, d'error sí carca
ch'i' medesmo non so quel ch'io mi voglio,
et tremo a mezza state, ardendo il verno.

133
Amor m'à posto come segno a strale,
come al sol neve, come cera al foco,
et come nebbia al vento; et son già roco,
donna, mercé chiamando, et voi non cale.

Da gli occhi vostri uscío 'l colpo mortale,
contra cui non mi val tempo né loco;
da voi sola procede, et parvi un gioco,
il sole e 'l foco e 'l vento ond'io son tale.

I pensier' son saette, e 'l viso un sole,
e 'l desir foco; e 'nseme con quest'arme
mi punge Amor, m'abbaglia et mi distrugge;

et l'angelico canto et le parole,
col dolce spirto ond'io non posso aitarme,
son l'aura inanzi a cui mia vita fugge.

134
Pace non trovo, et non ò da far guerra;
e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio;
et volo sopra 'l cielo, et giaccio in terra;
et nulla stringo, et tutto 'l mondo abbraccio.

Tal m'à in pregion, che non m'apre né serra,
né per suo mi riten né scioglie il laccio;
et non m'ancide Amore, et non mi sferra,
né mi vuol vivo, né mi trae d'impaccio.

Veggio senza occhi, et non ò lingua et grido;
et bramo di perir, et cheggio aita;
et ò in odio me stesso, et amo altrui.

Pascomi di dolor, piangendo rido;
egualmente mi spiace morte et vita:
in questo stato son, donna, per voi.


135
Qual piú diversa et nova
cosa fu mai in qual che stranio clima,
quella, se ben s'estima,
piú mi rasembra: a tal son giunto, Amore.
Là onde il dí vèn fore,
vola un augel che sol senza consorte
di volontaria morte
rinasce, et tutto a viver si rinova.
Cosí sol si ritrova
lo mio voler, et cosí in su la cima
de' suoi alti pensieri al sol si volve,
et cosí si risolve,
et cosí torna al suo stato di prima:
arde, et more, et riprende i nervi suoi,
et vive poi con la fenice a prova.

Una petra è sí ardita
là per l'indico mar, che da natura
tragge a sé il ferro e 'l fura
dal legno, in guisa che ' navigi affonde.
Questo prov'io fra l'onde
d'amaro pianto, ché quel bello scoglio
à col suo duro argoglio
condutta ove affondar conven mia vita:
cosí l'alm'à sfornita
(furando 'l cor che fu già cosa dura,
et me tenne un, ch'or son diviso et sparso)
un sasso a trar piú scarso
carne che ferro. O cruda mia ventura,
che 'n carne essendo, veggio trarmi a riva
ad una viva dolce calamita!

Né l'extremo occidente
una fera è soave et queta tanto
che nulla piú, ma pianto
et doglia et morte dentro agli occhi porta:
molto convene accorta
esser qual vista mai ver' lei si giri;
pur che gli occhi non miri,
l'altro puossi veder securamente.
Ma io incauto, dolente,
corro sempre al mio male, et so ben quanto
n'ò sofferto, et n'aspetto; ma l'engordo
voler ch'è cieco et sordo
   
   ==>SEGUE




sí mi trasporta, che 'l bel viso santo
et gli occhi vaghi fien cagion ch'io pèra,
di questa fera angelica innocente.

Surge nel mezzo giorno
una fontana, e tien nome dal sole,
che per natura sòle
bollir le notti, e 'n sul giorno esser fredda;
e tanto si raffredda
quanto 'l sol monta, et quanto è piú da presso.
Cosí aven a me stesso,
che son fonte di lagrime et soggiorno:
quando 'l bel lume adorno
ch'è 'l mio sol s'allontana, et triste et sole
son le mie luci, et notte oscura è loro,
ardo allor; ma se l'oro
e i rai veggio apparir del vivo sole,
tutto dentro et di for sento cangiarme,
et ghiaccio farme, cosí freddo torno.

Un'altra fonte à Epiro,
di cui si scrive ch'essendo fredda ella,
ogni spenta facella
accende, et spegne qual trovasse accesa.
L'anima mia, ch'offesa
anchor non era d'amoroso foco,
appressandosi un poco
a quella fredda, ch'io sempre sospiro,
arse tutta: et martiro
simil già mai né sol vide, né stella,
ch'un cor di marmo a pietà mosso avrebbe;
poi che 'nfiammata l'ebbe,
rispensela vertú gelata et bella.
Cosí piú volte à 'l cor racceso et spento:
i' 'l so che 'l sento, et spesso me 'nadiro.

Fuor tutti nostri lidi,
ne l'isole famose di Fortuna,
due fonti à: chi de l'una
bee, mor ridendo; et chi de l'altra, scampa.
Simil fortuna stampa
mia vita, che morir poria ridendo,
del gran piacer ch'io prendo,
se nol temprassen dolorosi stridi.
Amor, ch'anchor mi guidi
pur a l'ombra di fama occulta et bruna,

   ==>SEGUE
tacerem questa fonte, ch'ognor piena,
ma con piú larga vena
veggiam, quando col Tauro il sol s'aduna:
cosí gli occhi miei piangon d'ogni tempo,
ma piú nel tempo che madonna vidi.

Chi spïasse, canzone
quel ch'i' fo, tu pôi dir: Sotto un gran sasso
in una chiusa valle, ond'esce Sorga,
si sta; né chi lo scorga
v'è, se no Amor, che mai nol lascia un passo,
et l'imagine d'una che lo strugge,
ché per sé fugge tutt'altre persone.



136
Fiamma dal ciel su le tue treccie piova,
malvagia, che dal fiume et da le ghiande
per l'altrui impoverir se' ricca et grande,
poi che di mal oprar tanto ti giova;

nido di tradimenti, in cui si cova
quanto mal per lo mondo oggi si spande,
de vin serva, di lecti et di vivande,
in cui Luxuria fa l'ultima prova.

Per le camere tue fanciulle et vecchi
vanno trescando, et Belzebub in mezzo
co' mantici et col foco et co li specchi.

Già non fustú nudrita in piume al rezzo,
ma nuda al vento, et scalza fra gli stecchi:
or vivi sí ch'a Dio ne venga il lezzo.

137
L'avara Babilonia à colmo il sacco
d'ira di Dio, e di vitii empii et rei,
tanto che scoppia, ed à fatti suoi dèi
non Giove et Palla, ma Venere et Bacco.

Aspectando ragion mi struggo et fiacco;
ma pur novo soldan veggio per lei,
lo qual farà, non già quand'io vorrei,
sol una sede, et quella fia in Baldacco.

Gl'idoli suoi sarranno in terra sparsi,
et le torre superbe, al ciel nemiche,
e i suoi torrer' di for come dentro arsi.

Anime belle et di virtute amiche
terranno il mondo; et poi vedrem lui farsi
aurëo tutto, et pien de l'opre antiche.

138
Fontana di dolore, albergo d'ira,
scola d'errori, et templo d'eresia,
già Roma, or Babilonia falsa et ria,
per cui tanto si piange et si sospira;

o fucina d'inganni, o pregion dira,
ove 'l ben more, e 'l mal si nutre et cria,
di vivi inferno, un gran miracol fia
se Cristo teco alfine non s'adira.

==>SEGUE
   


Fondata in casta et humil povertate,
contra' tuoi fondatori alzi le corna,
putta sfacciata: et dove ài posto spene?

Ne gli adúlteri tuoi? ne le mal nate
richezze tante? Or Constantin non torna;
ma tolga il mondo tristo che 'l sostene.

139
Quanto piú disïose l'ali spando
verso di voi, o dolce schiera amica,
tanto Fortuna con piú visco intrica
il mio volare, et gir mi face errando.

Il cor che mal suo grado a torno mando,
è con voi sempre in quella valle aprica,
ove 'l mar nostro piú la terra implica;
l'altrier da lui partimmi lagrimando.

I' da man manca, e' tenne il camin dritto;
i' tratto a forza, et e' d'Amore scorto;
egli in Ierusalem, et io in Egipto.

Ma sofferenza è nel dolor conforto;
ché per lungo uso, già fra noi prescripto,
il nostro esser insieme è raro et corto.

140
Amor, che nel penser mio vive et regna
e 'l suo seggio maggior nel mio cor tene,
talor armato ne la fronte vène,
ivi si loca, et ivi pon sua insegna.

Quella ch'amare et sofferir ne 'nsegna
e vòl che 'l gran desio, l'accesa spene,
ragion, vergogna et reverenza affrene,
di nostro ardir fra se stessa si sdegna.

Onde Amor paventoso fugge al core,
lasciando ogni sua impresa, et piange, et trema;
ivi s'asconde, et non appar piú fore.

Che poss'io far, temendo il mio signore,
se non star seco infin a l'ora extrema?
Ché bel fin fa chi ben amando more.


141
Come talora al caldo tempo sòle
semplicetta farfalla al lume avezza
volar negli occhi altrui per sua vaghezza,
onde aven ch'ella more, altri si dole:

cosí sempre io corro al fatal mio sole
degli occhi onde mi vèn tanta dolcezza
che 'l fren de la ragion Amor non prezza,
e chi discerne è vinto da chi vòle.

E veggio ben quant'elli a schivo m'ànno,
e so ch'i' ne morrò veracemente,
ché mia vertú non pò contra l'affanno;

ma sí m'abbaglia Amor soavemente,
ch'i' piango l'altrui noia, et no 'l mio danno;
et cieca al suo morir l'alma consente.

142
A la dolce ombra de le belle frondi
corsi fuggendo un dispietato lume
che'nfin qua giú m'ardea dal terzo cielo;
et disgombrava già di neve i poggi
l'aura amorosa che rinova il tempo,
et fiorian per le piagge l'erbe e i rami.

Non vide il mondo sí leggiadri rami,
né mosse il vento mai sí verdi frondi
come a me si mostrâr quel primo tempo:
tal che, temendo de l'ardente lume,
non volsi al mio refugio ombra di poggi,
ma de la pianta piú gradita in cielo.

Un lauro mi difese allor dal cielo,
onde piú volte vago de' bei rami
da po' son gito per selve et per poggi;
né già mai ritrovai tronco né frondi
tanto honorate dal supremo lume
che non mutasser qualitate a tempo.

Però piú fermo ognor di tempo in tempo,
seguendo ove chiamar m'udia dal cielo
e scorto d'un soave et chiaro lume,
tornai sempre devoto ai primi rami
et quando a terra son sparte le frondi
et quando il sol fa verdeggiar i poggi.

    ==>SEGUE



Selve, sassi, campagne, fiumi et poggi,
quanto è creato, vince et cangia il tempo:
ond'io cheggio perdono a queste frondi,
se rivolgendo poi molt'anni il cielo
fuggir disposi gl' invescati rami
tosto ch'incominciai di veder lume.

Tanto mi piacque prima il dolce lume
ch'i' passai con diletto assai gran poggi
per poter appressar gli amati rami:
ora la vita breve e 'l loco e 'l tempo
mostranmi altro sentier di gire al cielo
et di far frutto, non pur fior' et frondi.

Altr'amor, altre frondi et altro lume,
altro salir al ciel per altri poggi
cerco, ché n'é ben tempo, et altri rami.

143
Quand'io v'odo parlar sí dolcemente
com'Amor proprio a' suoi seguaci instilla,
l'acceso mio desir tutto sfavilla,
tal che 'nfiammar devria l'anime spente.

Trovo la bella donna allor presente,
ovunque mi fu mai dolce o tranquilla
ne l'habito ch'al suon non d'altra squilla
ma' di sospir' mi fa destar sovente.

Le chiome a l'aura sparse, et lei conversa
indietro veggio; et cosí bella riede
nel cor, come colei che tien la chiave.

Ma 'l soverchio piacer, che s'atraversa
a la mia lingua, qual dentro ella siede
di mostrarla in palese ardir non ave.

144
Né così bello il sol già mai levarsi
quando 'l ciel fosse piú de nebbia scarco,
né dopo pioggia vidi 'l celeste arco
per l'aere in color' tanti varïarsi,

in quanti fiammeggiando trasformarsi,
nel dí ch'io presi l'amoroso incarco,
quel viso al quale, et son nel mio dir parco,
nulla cosa mortal pote aguagliarsi.

    ==>SEGUE

I' vidi Amor che ' begli occhi volgea
soave sí, ch'ogni altra vista oscura
da indi in qua m'incominciò apparere.

Sennuccio, i' 'l vidi, et l'arco che tendea,
tal che mia vita poi non fu secura,
et è sí vaga ancor del rivedere.

145
Ponmi ove 'l sole occide i fiori et l'erba,
o dove vince lui il ghiaccio et la neve;
ponmi ov'è 'l carro suo temprato et leve,
et ov'è chi ce 'l rende, o chi ce 'l serba;

ponmi in humil fortuna, od in superba,
al dolce aere sereno, al fosco et greve;
ponmi a la notte, al dí lungo ed al breve,
a la matura etate od a l'acerba;

ponmi in cielo, od in terra, od in abisso,
in alto poggio, in valle ima et palustre,
libero spirto, od a' suoi membri affisso;

ponmi con fama oscura, o con ilustre:
sarò qual fui, vivrò com'io son visso,
continüando il mio sospir trilustre.


146
O d'ardente vertute ornata et calda
alma gentil chui tante carte vergo;
o sol già d'onestate intero albergo,
torre in alto valor fondata et salda;

o fiamma, o rose sparse in dolce falda
di viva neve, in ch'io mi specchio e tergo;
o piacer onde l'ali al bel viso ergo,
che luce sovra quanti il sol ne scalda:

del vostro nome, se mie rime intese
fossin sí lunge, avrei pien Tyle et Battro,
la Tana e 'l Nilo, Athlante, Olimpo et Calpe.

Poi che portar nol posso in tutte et quattro
parti del mondo, udrallo il bel paese
ch'Appennin parte, e 'l mar circonda et l'Alpe.

147
Quando 'l voler che con duo sproni ardenti,
et con un duro fren, mi mena et regge
trapassa ad or ad or l'usata legge
per far in parte i miei spirti contenti,

trova chi le paure et gli ardimenti
del cor profondo ne la fronte legge,
et vede Amor che sue imprese corregge
folgorar ne' turbati occhi pungenti.

Onde, come collui che 'l colpo teme
di Giove irato, si ritragge indietro:
ché gran temenza gran desire affrena.

Ma freddo foco et paventosa speme
de l'alma che traluce come un vetro
talor sua dolce vista rasserena.

148
Non Tesin, Po, Varo, Adige et Tebro,
Eufrate, Tigre, Nilo, Hermo, Indo et Gange,
Tana, Histro, Alpheo, Garona, e 'l mar che frange,
Rodano, Hibero, Ren, Sena, Albia, Era, Hebro;

non edra, abete, pin, faggio, o genebro,
poria 'l foco allentar che 'l cor tristo ange,
quant'un bel rio ch'ad ognor meco piange,
co l'arboscel che 'n rime orno et celebro.

==>SEGUE


Questo un soccorso trovo tra gli assalti
d'Amore, ove conven ch'armato viva
la vita che trapassa a sí gran salti.

Cosí cresca il bel lauro in fresca riva,
et chi 'l piantò pensier' leggiadri et alti
ne la dolce ombra al suon de l'acque scriva.

149
Di tempo in tempo mi si fa men dura
l'angelica figura e 'l dolce riso,
et l'aria del bel viso
e degli occhi leggiadri meno oscura.

Che fanno meco omai questi sospiri
che nascean di dolore
et mostravan di fore
la mia angosciosa et desperata vita?
S'aven che 'l volto in quella parte giri
per acquetare il core,
parmi vedere Amore
mantener mia ragion, et darmi aita:
né però trovo anchor guerra finita,
né tranquillo ogni stato del cor mio,
ché piú m'arde 'l desio,
quanto piú la speranza m'assicura.

150
- Che fai alma? che pensi? avrem mai pace?
avrem mai tregua? od avrem guerra eterna? -
- Che fia di noi, non so; ma, in quel ch'io scerna,
a' suoi begli occhi il mal nostro non piace. -

- Che pro, se con quelli occhi ella ne face
di state un ghiaccio, un foco quando inverna? -
- Ella non, ma colui che gli governa. -
- Questo ch'è a noi, s'ella s'el vede, et tace? -

- Talor tace la lingua, e 'l cor si lagna
ad alta voce, e 'n vista asciutta et lieta,
piange dove mirando altri nol vede. -

- Per tutto ciò la mente non s'acqueta,
rompendo il duol che 'n lei s'accoglie et stagna,
ch'a gran speranza huom misero non crede.




151
Non d'atra et tempestosa onda marina
fuggío in porto già mai stanco nocchiero,
com'io dal fosco et torbido pensero
fuggo ove 'l gran desio mi sprona e 'nchina.

Né mortal vista mai luce divina
vinse, come la mia quel raggio altero
del bel dolce soave bianco et nero,
in che i suoi strali Amor dora et affina.

Cieco non già, ma pharetrato il veggo;
nudo, se non quanto vergogna il vela;
garzon con ali: non pinto, ma vivo.

Indi mi mostra quel ch'a molti cela,
ch'a parte a parte entro a' begli occhi leggo
quant'io parlo d'Amore, et quant'io scrivo.

152
Questa humil fera, un cor di tigre o d'orsa,
che 'n vista humana e 'n forma d'angel vène,
in riso e 'n pianto, fra paura et spene
mi rota sí ch'ogni mio stato inforsa.

Se 'n breve non m'accoglie o non mi smorsa,
ma pur come suol far tra due mi tene,
per quel ch'io sento al cor gir fra le vene
dolce veneno, Amor, mia vita è corsa.

Non pò piú la vertú fragile et stanca
tante varïetati omai soffrire,
che 'n un punto arde, agghiaccia, arrossa e 'nbianca.

Fuggendo spera i suoi dolor' finire,
come colei che d'ora in hora manca:
ché ben pò nulla chi non pò morire.

153
Ite, caldi sospiri, al freddo core,
rompete il ghiaccio che Pietà contende,
et se prego mortale al ciel s'intende,
morte o mercé sia fine al mio dolore.

Ite, dolci penser', parlando fore
di quello ove 'l bel guardo non s'estende:
se pur sua asprezza o mia stella n'offende,
sarem fuor di speranza et fuor d'errore.

==>SEGUE


156
I' vidi in terra angelici costumi
et celesti bellezze al mondo sole,
tal che di rimembrar mi giova et dole,
ché quant'io miro par sogni, ombre et fumi;

et vidi lagrimar que' duo bei lumi,
ch'àn fatto mille volte invidia al sole;
et udí' sospirando dir parole
che farian gire i monti et stare i fiumi.

Amor, Senno, Valor, Pietate, et Doglia
facean piangendo un piú dolce concento
d'ogni altro che nel mondo udir si soglia;

ed era il cielo a l'armonia sí intento
che non se vedea in ramo mover foglia,
tanta dolcezza avea pien l'aere e 'l vento.

157
Quel sempre acerbo et honorato giorno
mandò sí al cor l'imagine sua viva
che 'ngegno o stil non fia mai che 'l descriva,
ma spesso a lui co la memoria torno.

L'atto d'ogni gentil pietate adorno,
e 'l dolce amaro lamentar ch'i' udiva,
facean dubbiar, se mortal donna o diva
fosse che 'l ciel rasserenava intorno.

La testa òr fino, et calda neve il volto,
hebeno i cigli, et gli occhi eran due stelle,
onde Amor l'arco non tendeva in fallo;

perle et rose vermiglie, ove l'accolto
dolor formava ardenti voci et belle;
fiamma i sospir', le lagrime cristallo.

158
Ove ch'i' posi gli occhi lassi o giri
per quetar la vaghezza che gli spinge,
trovo chi bella donna ivi depinge
per far sempre mai verdi i miei desiri.

Con leggiadro dolor par ch'ella spiri
alta pietà che gentil core stringe:
oltra la vista, agli orecchi orna e 'nfinge
sue voci vive et suoi sancti sospiri.

==>SEGUE




Amor e 'l ver fur meco a dir che quelle
ch'i' vidi, eran bellezze al mondo sole,
mai non vedute piú sotto le stelle.

Né sí pietose et sí dolci parole
s'udiron mai, né lagrime sí belle
di sí belli occhi uscir vide mai 'l sole.

159
In qual parte del ciel, in quale ydea
era l'exempio, onde Natura tolse
quel bel viso leggiadro, in ch'ella volse
mostrar qua giú quanto lassú potea?

Qual nimpha in fonti, in selve mai qual dea,
chiome d'oro sí fino a l'aura sciolse?
quando un cor tante in sé vertuti accolse?
benché la somma è di mia morte rea.

Per divina bellezza indarno mira
chi gli occhi de costei già mai non vide
come soavemente ella gli gira;

non sa come Amor sana, et come ancide,
chi non sa come dolce ella sospira,
et come dolce parla, et dolce ride.

160
Amor et io sí pien' di meraviglia
come chi mai cosa incredibil vide,
miriam costei quand'ella parla o ride
che sol se stessa, et nulla altra, simiglia.

Dal bel seren de le tranquille ciglia
sfavillan sí le mie due stelle fide,
ch'altro lume non è ch'infiammi et guide
chi d'amar altamente si consiglia.

Qual miracolo è quel, quando tra l'erba
quasi un fior siede, over quand'ella preme
col suo candido seno un verde cespo!

Qual dolcezza è ne la stagione acerba
vederla ir sola co i pensier' suoi inseme,
tessendo un cerchio a l'oro terso et crespo!



161
O passi sparsi, o pensier' vaghi et pronti,
o tenace memoria, o fero ardore,
o possente desire, o debil core,
oi occhi miei, occhi non già, ma fonti!

O fronde, honor de le famose fronti,
o sola insegna al gemino valore!
O faticosa vita, o dolce errore,
che mi fate ir cercando piagge et monti!

O bel viso ove Amor inseme pose
gli sproni e 'l fren ond'el mi punge et volve,
come a lui piace, et calcitrar non vale!

O anime gentili et amorose,
s'alcuna à 'l mondo, et voi nude ombre et polve,
deh ristate a veder quale è 'l mio male.

162
Lieti fiori et felici, et ben nate herbe
che madonna pensando premer sòle;
piaggia ch'ascolti sue dolci parole,
et del bel piede alcun vestigio serbe;

schietti arboscelli et verdi frondi acerbe,
amorosette et pallide vïole;
ombrose selve, ove percote il sole
che vi fa co' suoi raggi alte et superbe;

o soave contrada, o puro fiume,
che bagni il suo bel viso et gli occhi chiari
et prendi qualità dal vivo lume;

quanto v'invidio gli atti honesti et cari!
Non fia in voi scoglio omai che per costume
d'arder co la mia fiamma non impari.

163
Amor, che vedi ogni pensero aperto
e i duri passi onde tu sol mi scorgi,
nel fondo del mio cor gli occhi tuoi porgi,
a te palese, a tutt'altri coverto.

Sai quel che per seguirte ò già sofferto:
et tu pur via di poggio in poggio sorgi,
di giorno in giorno, et di me non t'accorgi
che son sí stanco, e 'l sentier m'è troppo erto.

==>SEGUE


Ben veggio io di lontano il dolce lume
ove per aspre vie mi sproni et giri,
ma non ò come tu da volar piume.

Assai contenti lasci i miei desiri,
pur che ben desïando i' mi consume,
né le dispiaccia che per lei sospiri.

164
Or che 'l ciel et la terra e 'l vento tace
et le fere e gli augelli il sonno affrena,
Notte il carro stellato in giro mena
et nel suo letto il mar senz'onda giace,

vegghio, penso, ardo, piango; et chi mi sface
sempre m'è inanzi per mia dolce pena:
guerra è 'l mio stato, d'ira et di duol piena,
et sol di lei pensando ò qualche pace.

Cosí sol d'una chiara fonte viva
move 'l dolce et l'amaro ond'io mi pasco;
una man sola mi risana et punge;

e perché 'l mio martir non giunga a riva,
mille volte il dí moro et mille nasco,
tanto da la salute mia son lunge.

165
Come 'l candido pie' per l'erba fresca
i dolci passi honestamente move,
vertú che 'ntorno i fiori apra et rinove,
de le tenere piante sue par ch'esca.

Amor che solo i cor' leggiadri invesca
né degna di provar sua forza altrove,
da' begli occhi un piacer sí caldo piove
ch'i' non curo altro ben né bramo altr'ésca.

Et co l'andar et col soave sguardo
s'accordan le dolcissime parole,
et l'atto mansüeto, humile et tardo.

Di tai quattro faville, et non già sole,
nasce 'l gran foco, di ch'io vivo et ardo,
che son fatto un augel notturno al sole.




166
S'i' fussi stato fermo a la spelunca
là dove Apollo diventò profeta,
Fiorenza avria forse oggi il suo poeta,
non pur Verona et Mantoa et Arunca;

ma perché 'l mio terren piú non s'ingiunca
de l'humor di quel sasso, altro pianeta
conven ch'i' segua, et del mio campo mieta
lappole et stecchi co la falce adunca.

L'oliva è secca, et è rivolta altrove
l'acqua che di Parnaso si deriva,
per cui in alcun tempo ella fioriva.

Cosí sventura over colpa mi priva
d'ogni buon fructo, se l'etterno Giove
de la sua gratia sopra me non piove.

167
Quando Amor i belli occhi a terra inchina
e i vaghi spirti in un sospiro accoglie
co le sue mani, et poi in voce gli scioglie,
chiara, soave, angelica, divina,

sento far del mio cor dolce rapina,
et sí dentro cangiar penseri et voglie,
ch'i' dico: Or fien di me l'ultime spoglie,
se 'l ciel sí honesta morte mi destina.

Ma 'l suon che di dolcezza i sensi lega
col gran desir d'udendo esser beata
l'anima al dipartir presta raffrena.

Cosí mi vivo, et cosí avolge et spiega
lo stame de la vita che m'è data,
questa sola fra noi del ciel sirena.

168
Amor mi manda quel dolce pensero
che secretario anticho è fra noi due,
et mi conforta, et dice che non fue
mai come or presto a quel ch'io bramo et spero.

Io, che talor menzogna et talor vero
ò ritrovato le parole sue,
non so s'i' 'l creda, et vivomi intra due,
né sí né no nel cor mi sona intero.

==>SEGUE




171
Giunto m'à Amor fra belle et crude braccia,
che m'ancidono a torto; et s'io mi doglio,
doppia 'l martir; onde pur, com'io soglio,
il meglio è ch'io mi mora amando, et taccia:

ché poria questa il Ren qualor piú agghiaccia
arder con gli occhi, et rompre ogni aspro scoglio;
et à sí egual a le bellezze orgoglio,
che di piacer altrui par che le spiaccia.

Nulla posso levar io per mi' 'ngegno
del bel diamante, ond'ell'à il cor sí duro;
l'altro è d'un marmo che si mova et spiri:

ned ella a me per tutto 'l suo disdegno
torrà già mai, né per sembiante oscuro,
le mie speranze, e i miei dolci sospiri.

172
O Invidia nimica di vertute,
ch'a' bei principii volentier contrasti,
per qual sentier cosí tacita intrasti
in quel bel petto, et con qual' arti il mute?

Da radice n'ài svelta mia salute:
troppo felice amante mi mostrasti
a quella che' miei preghi humili et casti
gradí alcun tempo, or par ch'odi et refute.

Né però che con atti acerbi et rei
del mio ben pianga, et del mio pianger rida,
poria cangiar sol un de' pensier' mei;

non, perché mille volte il dí m'ancida,
fia ch'io non l'ami, et ch'i' non speri in lei:
che s'ella mi spaventa, Amor m'affida.

173
Mirando 'l sol de' begli occhi sereno,
ove è chi spesso i miei depinge et bagna,
dal cor l'anima stanca si scompagna
per gir nel paradiso suo terreno.

Poi trovandol di dolce et d'amar pieno,
quant'al mondo si tesse, opra d'aragna
vede: onde seco et con Amor si lagna,
ch'à sí caldi gli spron', sí duro 'l freno.

==>SEGUE




Per questi extremi duo contrari et misti,
or con voglie gelate, or con accese
stassi cosí fra misera et felice;

ma pochi lieti, et molti penser' tristi,
e 'l piú si pente de l'ardite imprese:
tal frutto nasce di cotal radice.

174
Fera stella (se 'l cielo à forza in noi
quant'alcun crede) fu sotto ch'io nacqui,
et fera cuna, dove nato giacqui,
et fera terra, ove' pie' mossi poi;

et fera donna, che con gli occhi suoi,
et con l'arco a cui sol per segno piacqui,
fe' la piaga onde, Amor, teco non tacqui,
che con quell'arme risaldar la pôi.

Ma tu prendi a diletto i dolor' miei:
ella non già, perché non son piú duri,
e 'l colpo è di saetta, et non di spiedo.

Pur mi consola che languir per lei
meglio è, che gioir d'altra; et tu me 'l giuri
per l'orato tuo strale, et io tel credo.

175
Quando mi vène inanzi il tempo e 'l loco
ov'i' perdei me stesso, e 'l caro nodo
ond'Amor di sua man m'avinse in modo
che l'amar mi fe' dolce, e 'l pianger gioco,

solfo et ésca son tutto, e 'l cor un foco
da quei soavi spirti, i quai sempre odo,
acceso dentro sí, ch'ardendo godo,
et di ciò vivo, et d'altro mi cal poco.

Quel sol, che solo agli occhi miei resplende,
co i vaghi raggi anchor indi mi scalda
a vespro tal qual era oggi per tempo;

et cosí di lontan m'alluma e 'ncende,
che la memoria ad ognor fresca et salda
pur quel nodo mi mostra e 'l loco e 'l tempo.




176
Per mezz'i boschi inhospiti et selvaggi,
onde vanno a gran rischio uomini et arme,
vo securo io, ché non pò spaventarme
altri che 'l sol ch'à d'amor vivo i raggi;

et vo cantando (o penser' miei non saggi!)
lei che 'l ciel non poria lontana farme,
ch'i' l'ò negli occhi, et veder seco parme
donne et donzelle, et son abeti et faggi.

Parme d'udirla, udendo i rami et l'òre
et le frondi, et gli augei lagnarsi, et l'acque
mormorando fuggir per l'erba verde.

Raro un silentio, un solitario horrore
d'ombrosa selva mai tanto mi piacque:
se non che dal mio sol troppo si perde.

177
Mille piagge in un giorno et mille rivi
mostrato m'à per la famosa Ardenna
Amor, ch'a' suoi le piante e i cori impenna
per fargli al terzo ciel volando ir vivi.

Dolce m'è sol senz'arme esser stato ivi,
dove armato fier Marte, et non acenna,
quasi senza governo et senza antenna
legno in mar, pien di penser' gravi et schivi.

Pur giunto al fin de la giornata oscura,
rimembrando ond'io vegno, et con quai piume,
sento di troppo ardir nascer paura.

Ma 'l bel paese e 'l dilectoso fiume
con serena accoglienza rassecura
il cor già vòlto ov'abita il suo lume.

178
Amor mi sprona in un tempo et affrena,
assecura et spaventa, arde et agghiaccia,
gradisce et sdegna, a sé mi chiama et scaccia,
or mi tene in speranza et or in pena,

or alto or basso il meo cor lasso mena:
onde 'l vago desir perde la traccia
e 'l suo sommo piacer par che li spiaccia,
d'error sí novo la mia mente è piena.

==>SEGUE




Un amico penser le mostra il vado,
non d'acqua che per gli occhi si resolva,
da gir tosto ove spera esser contenta;

poi, quasi maggior forza indi la svolva,
conven ch'altra via segua, et mal suo grado
a la sua lunga, et mia, morte consenta.

179
Geri, quando talor meco s'adira
la mia dolce nemica, ch'è sí altèra,
un conforto m'è dato ch'i' non pèra,
solo per cui vertú l'alma respira.

Ovunque ella sdegnando li occhi gira
(che di luce privar mia vita spera?)
le mostro i miei pien' d'umiltà sí vera,
ch'a forza ogni suo sdegno indietro tira.

E ·cciò non fusse, andrei non altramente
a veder lei, che 'l volto di Medusa,
che facea marmo diventar la gente.

Cosí dunque fa' tu: ch'i' veggio exclusa
ogni altra aita, e 'l fuggir val nïente
dinanzi a l'ali che 'l signor nostro usa.

180
Po, ben puo' tu portartene la scorza
di me con tue possenti et rapide onde,
ma lo spirto ch'iv'entro si nasconde
non cura né di tua né d'altrui forza;

lo qual senz'alternar poggia con orza
dritto per l'aure suo desir seconde,
battendo l'ali verso l'aurea fronde,
l'acqua e 'l vento e la vela e i remi sforza.

Re degli altri, superbo altero fiume,
che 'ncontri 'l sol quando e' ne mena 'l giorno,
e 'n ponente abandoni un piú bel lume,

tu te ne vai col mio mortal sul corno;
l'altro coverto d'amorose piume
torna volando al suo dolce soggiorno.
181
Amor fra l'erbe una leggiadra rete
d'oro et di perle tese sott'un ramo
dell'arbor sempre verde ch'i' tant'amo,
benché n'abbia ombre piú triste che liete.

L'ésca fu 'l seme ch'egli sparge et miete,
dolce et acerbo, ch'i' pavento et bramo;
le note non fur mai, dal dí ch'Adamo
aperse gli occhi, sí soavi et quete.

E 'l chiaro lume che sparir fa 'l sole
folgorava d'intorno: e 'l fune avolto
era a la man ch'avorio et neve avanza.

Cosí caddi a la rete, et qui m'àn colto
gli atti vaghi et l'angeliche parole,
e 'l piacer e 'l desire et la speranza.

182
Amor, che 'ncende il cor d'ardente zelo,
di gelata paura il tèn constretto,
et qual sia piú, fa dubbio a l'intellecto,
la speranza o 'l temor, la fiamma o 'l gielo.

Trem'al piú caldo, ard'al piú freddo cielo,
sempre pien di desire et di sospetto,
pur come donna in un vestire schietto
celi un huom vivo, o sotto un picciol velo.

Di queste pene è mia propia la prima,
arder dí et notte; et quanto è 'l dolce male
né 'n penser cape, nonche 'n versi o 'n rima;

l'altra non già: ché 'l mio bel foco è tale
ch'ogni uom pareggia; et del suo lume in cima
chi volar pensa, indarno spiega l'ale.

183
Se 'l dolce sguardo di costei m'ancide,
et le soavi parolette accorte,
et s'Amor sopra me la fa sí forte
sol quando parla, over quando sorride,

lasso, che fia, se forse ella divide,
o per mia colpa o per malvagia sorte,
gli occhi suoi da Mercé, sí che di morte,
là dove or m'assicura, allor mi sfide?

==>SEGUE


Però s'i' tremo, et vo col cor gelato,
qualor veggio cangiata sua figura,
questo temer d'antiche prove è nato.

Femina è cosa mobil per natura:
ond'io so ben ch'un amoroso stato
in cor di donna picciol tempo dura.

184
Amor, Natura, et la bella alma humile,
ov'ogn'alta vertute alberga et regna,
contra men son giurati: Amor s'ingegna
ch'i' mora a fatto, e 'n ciò segue suo stile;

Natura tèn costei d'un sí gentile
laccio, che nullo sforzo è che sostegna;
ella è sí schiva, ch'abitar non degna
piú ne la vita faticosa et vile.

Cosí lo spirto d'or in or vèn meno
a quelle belle care membra honeste
che specchio eran di vera leggiadria;

et s'a Morte Pietà non stringe 'l freno,
lasso, ben veggio in che stato son queste
vane speranze, ond'io viver solia.

185
Questa fenice de l'aurata piuma
al suo bel collo, candido, gentile,
forma senz'arte un sí caro monile,
ch'ogni cor addolcisce, e 'l mio consuma:

forma un diadema natural ch'alluma
l'aere d'intorno; e 'l tacito focile
d'Amor tragge indi un liquido sottile
foco che m'arde a la piú algente bruma.

Purpurea vesta d'un ceruleo lembo
sparso di rose i belli homeri vela:
novo habito, et bellezza unica et sola.

Fama ne l'odorato et ricco grembo
d'arabi monti lei ripone et cela,
che per lo nostro ciel sí altera vola.


186
Se Virgilio et Homero avessin visto
quel sole il qual vegg'io con gli occhi miei,
tutte lor forze in dar fama a costei
avrian posto, et l'un stil coll'altro misto:

di che sarebbe Enea turbato et tristo,
Achille, Ulixe et gli altri semidei,
et quel che resse anni cinquantasei
sí bene il mondo et quel ch'ancise Egisto.

Quel fior anticho di vertuti et d'arme
come sembiante stella ebbe con questo
novo fior d'onestate et di bellezze!

Ennio di quel cantò ruvido carme,
di quest'altro io: et oh pur non molesto
gli sia il mio ingegno, e 'l mio lodar non sprezze!

187
Giunto Alexandro a la famosa tomba
del fero Achille, sospirando disse:
O fortunato, che sí chiara tromba
trovasti, et chi di te sí alto scrisse!

Ma questa pura et candida colomba
a cui non so s'al mondo mai par visse,
nel mio stil frale assai poco rimbomba:
cosí son le sue sorti a ciascun fisse.

Ché d'Omero dignissima et d'Orpheo,
o del pastor ch'anchor Mantova honora,
ch'andassen sempre lei sola cantando,

stella difforme et fato sol qui reo
commise a tal che 'l suo bel nome adora,
ma forse scema sue lode parlando.

188
Almo Sol, quella fronde ch'io sola amo,
tu prima amasti, or sola al bel soggiorno
verdeggia, et senza par poi che l'addorno
suo male et nostro vide in prima Adamo.

Stiamo a mirarla: i' ti pur prego et chiamo,
o Sole; et tu pur fuggi, et fai d'intorno
ombrare i poggi, et te ne porti il giorno,
et fuggendo mi toi quel ch'i' piú bramo.

==>SEGUE






L'ombra che cade da quel' humil colle,
ove favilla il mio soave foco,
ove 'l gran lauro fu picciola verga,

crescendo mentr'io parlo, agli occhi tolle
la dolce vista del beato loco,
ove 'l mio cor co la sua donna alberga.

189
Passa la nave mia colma d'oblio
per aspro mare, a mezza notte il verno,
enfra Scilla et Caribdi; et al governo
siede 'l signore, anzi 'l nimico mio.

A ciascun remo un penser pronto et rio
che la tempesta e 'l fin par ch'abbi a scherno;
la vela rompe un vento humido eterno
di sospir', di speranze, et di desio.

Pioggia di lagrimar, nebbia di sdegni
bagna et rallenta le già stanche sarte,
che son d'error con ignorantia attorto.

Celansi i duo mei dolci usati segni;
morta fra l'onde è la ragion et l'arte,
tal ch'incomincio a desperar del porto.

190
Una candida cerva sopra l'erba
verde m'apparve, con duo corna d'oro,
fra due riviere, all'ombra d'un alloro,
levando 'l sole a la stagione acerba.

Era sua vista sí dolce superba,
ch'i' lasciai per seguirla ogni lavoro:
come l'avaro che 'n cercar tesoro
con diletto l'affanno disacerba.

«Nessun mi tocchi - al bel collo d'intorno
scritto avea di diamanti et di topazi - :
libera farmi al mio Cesare parve».

Et era 'l sol già vòlto al mezzo giorno,
gli occhi miei stanchi di mirar, non sazi,
quand'io caddi ne l'acqua, et ella sparve.


In questa passa 'l tempo, et ne lo specchio
mi veggio andar ver' la stagion contraria
a sua impromessa, et a la mia speranza.

Or sia che pò: già sol io non invecchio;
già per etate il mio desir non varia;
ben temo il viver breve che n'avanza.

169
Pien d'un vago penser che me desvia
da tutti gli altri, et fammi al mondo ir solo,
ad or ad ora a me stesso m'involo
pur lei cercando che fuggir devria;

et veggiola passar sí dolce et ria
che l'alma trema per levarsi a volo,
tal d'armati sospir' conduce stuolo
questa bella d'Amor nemica, et mia.

Ben s'i' non erro di pietate un raggio
scorgo fra 'l nubiloso, altero ciglio,
che 'n parte rasserena il cor doglioso:

allor raccolgo l'alma, et poi ch'i' aggio
di scovrirle il mio mal preso consiglio,
tanto gli ò a dir, che 'ncominciar non oso.

170
Piú volte già dal bel sembiante humano
ò preso ardir co le mie fide scorte
d'assalir con parole honeste accorte
la mia nemica in atto humile et piano.

Fanno poi gli occhi suoi mio penser vano
perch'ogni mia fortuna, ogni mia sorte,
mio ben, mio male, et mia vita, et mia morte,
quei che solo il pò far, l'à posto in mano.

Ond'io non poté' mai formar parola
ch'altro che da me stesso fosse intesa:
cosí m'ha fatto Amor tremante et fioco.

E veggi' or ben che caritate accesa
lega la lingua altrui, gli spirti invola:
chi pò dir com'egli arde, è 'n picciol foco.


191
Sí come eterna vita è veder Dio,
né piú si brama, né bramar piú lice,
cosí me, donna, il voi veder, felice
fa in questo breve et fraile viver mio.

Né voi stessa com'or bella vid'io
già mai, se vero al cor l'occhio ridice:
dolce del mio penser hora beatrice,
che vince ogni alta speme, ogni desio.

Et se non fusse il suo fuggir sí ratto,
piú non demanderei: che s'alcun vive
sol d'odore, e tal fama fede acquista,

alcun d'acqua o di foco, e 'l gusto e 'l tatto
acquetan cose d'ogni dolzor prive,
i' perché non de la vostra alma vista?

192
Stiamo, Amor, a veder la gloria nostra,
cose sopra natura altere et nove:
vedi ben quanta in lei dolcezza piove,
vedi lume che 'l cielo in terra mostra,

vedi quant'arte dora e 'mperla e 'nostra
l'abito electo, et mai non visto altrove,
che dolcemente i piedi et gli occhi move
per questa di bei colli ombrosa chiostra.

L'erbetta verde e i fior' di color' mille
sparsi sotto quel' elce antiqua et negra
pregan pur che 'l bel pe' li prema o tocchi;

e 'l ciel di vaghe et lucide faville
s'accende intorno, e 'n vista si rallegra
d'esser fatto seren da sí belli occhi.

193
Pasco la mente d'un sí nobil cibo,
ch'ambrosia et nectar non invidio a Giove,
ché, sol mirando, oblio ne l'alma piove
d'ogni altro dolce, et Lethe al fondo bibo.

Talor ch'odo dir cose, e 'n cor describo,
per che da sospirar sempre ritrove,
rapto per man d'Amor, né so ben dove,
doppia dolcezza in un volto delibo:

==>SEGUE


Dir se pò ben per voi, non forse a pieno,
che 'l nostro stato è inquïeto et fosco,
sí come 'l suo pacifico et sereno.

Gite securi omai, ch'Amor vèn vosco;
et ria fortuna pò ben venir meno,
s'ai segni del mio sol l'aere conosco.

154
Le stelle, il cielo et gli elementi a prova
tutte lor arti et ogni extrema cura
poser nel vivo lume, in cui Natura
si specchia, e 'l Sol ch'altrove par non trova.

L'opra è sí altera, sí leggiadra et nova
che mortal guardo in lei non s'assecura:
tanta negli occhi bei for di misura
par ch'Amore et dolcezza et gratia piova.

L'aere percosso da' lor dolci rai
s'infiamma d'onestate, et tal diventa,
che 'l dir nostro e 'l penser vince d'assai.

Basso desir non è ch'ivi si senta,
ma d'onor, di vertute: or quando mai
fu per somma beltà vil voglia spenta?

155
Non fur ma' Giove et Cesare sí mossi,
a folminar collui, questo a ferire,
che Pietà non avesse spente l'ire,
e lor de l'usate arme ambeduo scossi.

Piangea madonna, e 'l mio signor ch'i' fossi
volse a vederla, et i suoi lamenti a udire,
per colmarmi di doglia et di desire,
et ricercarmi le medolle et gli ossi.

Quel dolce pianto mi depinse Amore,
anzi scolpío, et que' detti soavi
mi scrisse entro un diamante in mezzo 'l core;

ove con salde ed ingegnose chiavi
ancor torna sovente a trarne fore
lagrime rare et sospir' lunghi et gravi.


Laura strappa il cuore a Petrarca, affresco tratto da un verso del Canzoniere conservato nella Casa di Francesco Petrarca


ché quella voce infin al ciel gradita
suona in parole sí leggiadre et care,
che pensar no 'l poria chi non l'à udita.

Allor insieme, in men d'un palmo, appare
visibilmente quanto in questa vita
arte, ingegno et Natura e 'l Ciel pò fare.