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FRANCESCO PETRARCA


CANZONIERE
(Rerum Vulgarium Fragmenta)

Parte IV
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
FRANCESCO PETRARCA

sul CANZONIERE
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Da Wikipedia
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FRANCESCO PETRARCA  - CANZONIERE - Parte IV









































FINE
Parte quarta
Il Canzoniere, o meno comunemente conosciuto col titolo originale in latino Francisci Petrarchae laureati poetae Rerum vulgarium fragmenta ("Frammenti di componimenti in volgare di Francesco Petrarca, poeta coronato d'alloro"), è la storia, attraverso la poesia, della vita interiore di Petrarca.

- MANOSCRITTI
Esistono quattro principali testimoni: il manoscritto Vaticano Latino 3196, il cosiddetto "Codice degli abbozzi" in quanto contenente versioni non definitive e ricche di correzioni, ed il 3195, definitivo, composto tra il 1366 e il 1374 (anno di morte del Petrarca), con alcune poesie mancanti rispetto al 3196. Entrambi i manoscritti possono essere catalogati come idiografi/autografi, in quanto scritti in parte dalla mano di Petrarca, in parte da quella dello scriba suo discepolo Giovanni Malpaghini (cfr. a tal proposito Vat. Lat. 3195, c.62r in cui sono riscontrabili le due grafie: Malpaghini per C.317 - 318, Petrarca per C.319 - 320). La mano del Malpaghini è fondamentale in quanto darà vita alla "redazione Giovanni" (Gv), considerabile come strato evolutivo intermedio essenziale per comprendere l'evolversi dell'opera.
Ad essi vanno collegati i testimoni più autorevoli della tradizione, che attestano, prima della conclusione del lavoro nella versione definitiva affidata al Vaticano latino 3195, il passaggio attraverso forme, raccolte, e alcune "edizioni" principali consegnate ai seguenti manoscritti: il codice Chigi L V 176, il Laurenziano XLI 17, il Queriniano D II 21, ma soprattutto per stabilire la forma pre-definitiva al Laurenziano XLI 10 e al Parigino italiano 551.
La vastità delle testimonianze manoscritte del Canzoniere ha comportato un'oggettiva difficoltà nella definizione del testo critico. L’originale del Canzoniere (Vat. lat. 3195) è stato riprodotto diplomaticamente da Ettore Modigliani. Di esso ha procurato il testo critico Giuseppe Savoca ( Francesco Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, Firenze, Olschki, 2008.).

- LE STAMPE
La prima edizione a stampa del Canzoniere, insieme ai Trionfi, si ebbe nel 1470 a Venezia presso il tipografo tedesco Vindelino da Spira. Di questa editio princeps sopravvivono presso biblioteche italiane, europee e americane, meno di trenta esemplari.
Nelle decine di altre stampe del Petrarca volgare fatte in tutta Italia nell'ultimo trentennio del Quattrocento si distingue per il suo notevole valore filologico quella del 1472, approntata dall'editore padovano Bartolomeo Valdezocco (Bortolamio Valdezoco). Questa edizione (nonostante gli errori di lettura e trascrizione) si rivela condotta direttamente sull'originale vaticano (o su un esemplare per la tipografia derivato dall’originale). Rispetto alla editio princeps, la Valdezoco, seguendo abbastanza attentamente il manoscritto originale, introduce una punteggiatura limitata a tre segni: «.»,«:», «?».
Recenti ricerche hanno consentito di accertare che la parola canzoniere è presente, con specifico riferimento ai Rerum vulgarium fragmenta, «già in documenti precedenti al 1484».
Fondamentale, per la costituzione della vulgata petrarchesca, è stata l'edizione uscita a Venezia dalla tipografia di Aldo Manuzio nel 1501, la cosiddetta "Aldina". L'edizione veniva presentata dall'editore come fondata sull'originale del poeta, ma in realtà essa riproduceva una copia manoscritta del Canzoniere approntata da Pietro Bembo, e pervenutaci come codice Vat. lat. 3197, che non deriva direttamente dall'originale. Le cose volgari di messer Francesco Petrarcha del 1501 (basate sul 3197) furono poi, con variazioni, ripubblicate da Aldo nel 1514 come Il Petrarcha.
Editore di grande scrupolo e rigore filologico fu certamente nel '600 monsignor Federico Ubaldini che, senza apporvi nemmeno il proprio nome, pubblicò nel 1642 a Roma, in una forma diplomatica tuttora esemplare, Le Rime di M. Francesco Petrarca estratte da un suo originale (le carte del Vat. lat. 3195).
Tra le edizioni successive da citare è quella curata dall'abate Antonio Marsand (Le Rime del Petrarca, 2 voll., Padova, Tipografia del Seminario, 1819-1820), più che per il valore filologico, per essere l'edizione a cui si rifà esplicitamente Giacomo Leopardi, seguendola in ogni cosa, «eccetto solamente nella punteggiatura». Una citazione chiarifica l’intelligenza filologica di Leopardi, quando si riferisce alla canzone CXXIX, v. 63:

In questo volume ci siamo discostati una volta dalla edizione del professore Marsand, e ciò è nell'infrascritto passo…
«Poscia fra me pian piano: // Che sai tu lasso? forse in quella parte // Or di tua lontananza si sospira: // Ed in questo pensier l’alma respira.»

"Che sai tu lasso?" è la lettura corretta. Ma le tre edizioni seguite dal Marsand, in cambio di "che sai", riportano "che fai", lezione priva di significato. Leopardi apportò dunque la modifica solo per gusto poetico, senza aver mai avuto la possibilità di leggere l'originale petrarchesco.
Dopo Leopardi, una svolta decisiva nella filologia petrarchesca si ebbe nel 1886, quando venne riconosciuto, dal De Nolhac e dal Pakscher, nel codice Vat. lat. 3195 l'originale del Canzoniere. Dieci anni dopo (1896) usciva a Firenze l'edizione di Canzoniere e Trionfi dovuta a Giovanni Mestica. Nel 1899 anche Giosuè Carducci e Severino Ferrari pubblicavano le sole rime del Canzoniere.
Qualche anno dopo, nella ricorrenza del sesto centenario della nascita di Petrarca, Giuseppe Salvo Cozzo, giudicando una sciocca pretesa quella di pensare di «rimodernare l'ortografia», pubblicava un'edizione del Canzoniere basata sull'originale, e che si proponeva di «conservare al testo la sua fisonomia», collazionando anche le principali varianti tra l'originale e le edizioni del Mestica e di Carducci-Ferrari.
Porta la data editoriale del 1904, ma in realtà uscì nel maggio del 1905, la trascrizione diplomatica dell'originale che la Società Filologica Romana aveva affidato a Ettore Modigliani. Questa edizione (pregevole, ma non priva di numerosi errori e di sviste, specie per quanto riguarda l’interpunzione) è tuttora un autentico contributo per la conoscenza dell'originale, ma ha finito, sulla base dell’erroneo presupposto che esso fosse un documento perfettamente aderente al testo trascritto, per esimere gran parte dei filologi e degli editori dallo studio diretto del codice vaticano. A questo distacco dall'originale ha concorso (anche se in misura minore) la riproduzione fototipica dell'originale curata per la Biblioteca Vaticana da monsignor Marco Vattasso nel 1905. Da citare anche le edizioni di Chiòrboli (1924 e 1930).
Il testo di maggiore risonanza nell'editoria del Canzoniere nel secondo Novecento è, senza dubbio, quello approntato da Contini per le edizioni Tallone nel 1949 (ripubblicato per Einaudi nel 1964). Il testo di Contini tanto nella prima quanto nelle successive edizioni dipende totalmente dall’edizione diplomatica di Modigliani, dalla quale gli derivano direttamente numerosi errori di lettura e di trascrizione.
Gli editori e gli autorevoli commentatori post-continiani (da Ponte a Dotti, da Fenzi e Santagata a Bettarini, ecc.) hanno tutti accettato il testo di Contini, talvolta correggendone sviste ed errori di stampa, e anche variandone in qualche luogo l’interpunzione, ma senza contestarne mai le soluzioni di base. Nel 2008 Giuseppe Savoca ha pubblicato un'edizione critica basata sull’originale. Questa edizione riconduce la punteggiatura al sistema "punto, virgola, punto interrogativo", apportando modifiche (rispetto all'edizione Contini e successive) a 3685 versi (dei 7785 che compongono il Canzoniere), a 1542 parole (delle oltre 57.000 del corpus), per un totale di oltre 8000 interventi. Savoca cataloga inoltre le 8472 varianti rispetto ai testimoni più accreditati: il Codice degli abbozzi (Vat. lat. 3196), il Chigiano (L V 176), il Laurenziano (XLI 17), e il Queriniano (D II 21)

- IL TESTO
La raccolta comprende 366 (365, come i giorni dell'anno, più uno introduttivo: "Voi ch'ascoltate") componimenti: 317 sonetti (86.5%), 29 canzoni (8%), 9 sestine(2.5%), 7 ballate (2%) e 4 madrigali (1%). Non raccoglie tutti i componimenti poetici del Petrarca, ma solo quelli che il poeta scelse con grande cura; altre rime (extravagantes) andarono perdute o furono incluse in altri manoscritti. La maggior parte delle rime del Canzoniere è d'argomento amoroso, una trentina sono di argomento morale, religioso o politico.
Sono celebri le canzoni Italia mia e Spirto gentil nelle quali il concetto di Patria si identifica con la bellezza della terra natale, sognata libera dalle lotte fratricide e dalle milizie mercenarie. Fra le canzoni più celebri ricordiamo anche Chiare, fresche e dolci acque e tra i sonetti Solo et pensoso i piú deserti campi.
La raccolta è stata divisa dagli editori in due parti: rime "in vita" (I-CCLXIII) e rime "in morte" (CCLXIV-CCCLXVI) di Madonna Laura. In realtà il Petrarca compose il Canzoniere dopo il 1348, includendovi rime già composte sia per Laura, sia per altre donne (ed attribuendo queste ultime a Laura), stendendo altre rime che finse di aver scritto quando l'amata era ancora in vita ed aggiungendone altre ancora, in modo da rappresentare Laura come l'unico puro amore terreno.

- POETICA
L'amore non corrisposto per Laura, incontrata l'unica volta - a detta del poeta - il 6 aprile 1327, è il fulcro della vita spirituale del Petrarca; il poeta credeva infatti che, sulla base dei propri studi sui classici, tutto divenisse spontaneamente letteratura. Da tale sostrato letterario ha origine la grande poesia petrarchesca. Con Petrarca la letteratura diventa maestra di vita e nasce la prima lezione dell'umanesimo. In Petrarca si avverte la ricerca della serenità. Lo sconforto, il dolore, la volontà di pentimento, divengono speranza; il pianto per la morte della donna amata si placa nell'immagine di Laura che scende consolatrice dal cielo.
Nella poesia del Petrarca la descrizione dei sentimenti trova riscontro o contrapposizione nel paesaggio. Il Petrarca perfezionò le forme della tradizione lirica medievale, dai provenzali prese il metro (la sestina) e ne rielaborò i modi poetici. Anche la raffigurazione della donna amata si inquadra nella tematica provenzale: Laura è la donna a cui il poeta rende omaggio e costituisce il fulcro ideale intorno al quale si dispone la vita sentimentale del poeta. Presa a modello di virtù e di bellezza non ha nulla di sovrumano; anzi, matura negli anni attraverso il Canzoniere. La sua figura, i suoi tratti umani, i begli occhi, le trecce bionde, il dolce riso, sono ispirati a personaggi reali. L'immagine di Laura è probabilmente quella di una cantatrice attiva in Veneto nella seconda metà del XIV secolo.
La seconda parte del Canzoniere si chiude con la canzone Alla Vergine, nella quale il poeta implora perdono ed esprime un intenso desiderio di superare ogni conflitto, di trovare finalmente la pace. E "pace" è appunto l'ultima, emblematica parola della canzone, la parola che chiude e suggella il libro.
Il Canzoniere si divide fra "rime in vita" e "rime in morte" di Laura.
Si tratta di un'autobiografia spirituale del poeta, come le Confessioni di sant'Agostino, scrittore e teologo che fu modello spirituale e religioso per Petrarca. "Tutta la lirica del Petrarca è un sommesso colloquio del poeta con la propria anima". La sua poesia ha un carattere psicologico, senza toni realistici o narrativi. Il tema dominante è il "dissidio interiore" che il poeta prova tra l'attrazione verso i piaceri terreni e l'amore per Laura, e la tensione spirituale verso Dio. Dall'idea di amore-peccato del primo sonetto ("in sul mio primo giovenile errore") il poeta giunge alla conclusione del Canzoniere con la canzone alla Vergine ("Vergine bella che di sol vestita"): è una palinodia religiosa che chiude l'opera secondo una parabola spirituale ascendente tipicamente medievale. "Il Canzoniere si conclude con un testo di ispirazione religiosa e tono sublime, una delle canzoni più complesse dell’intera raccolta dal punto di vista metrico e retorico. La collocazione della poesia non rispecchia l’ordine reale di composizione, ma risponde all’esigenza di concludere in maniera esemplare la vicenda del poeta con il rifiuto delle tentazioni terrene e dell’amore per Laura”. A questo proposito il critico Gianfranco Contini ha definito il Canzoniere una "storia sacra di un amore profano". Sempre Contini, ha osservato come nell'ambito del Canzoniere, il nome di Laura venga "sillabato" in ogni maniera: " aura", "lauro", "l'auro". Frequenti sono i riferimenti biblici e spesso il verso petrarchesco ricalca passi della Bibbia come nel sonetto LXXXI (Io son sì stanco) dove ad esempio il verso "O voi che travagliate, ecco 'l camino"  riprende il Vangelo di Matteo (XI,28) e la terzina finale ("Qual grazia, qual amore o qual destino/ mi darà penne in guisa di colomba/ ch'io mi riposi e levimi da terra?") riprende il salmo LIV,7. Petrarca si sente smarrito tra realtà e sogno (Di pensier in pensier, di monte in monte), immerso nell'angosciosa solitudine (O cameretta che già fosti un porto), ricercatore di un isolamento dal mondo (Solo et pensoso), aspiratore ad una dimensione spirituale che però è difficile da conquistare (Padre del ciel, Movesi il vecchierel). Egli riconosce, già alla fine del primo sonetto, che frutto del suo seguire le vanità terrene sono la vergogna, il pentimento e il riconoscere che "quanto piace al mondo è breve sogno", riecheggiando così il biblico "vanitas vanitatum" ("vanità delle vanità") dell'Ecclesiaste (Qoelet 2). Certi componimenti hanno il carattere di splendide preghiere, come i sonetti Padre del ciel (LXII), Tennemi Amor (CCCLXVI), Io vo piangendo (CCCLXV), la canzone alla Vergine (CCCLXVI). La canzone Chiare fresche e dolci acque (CXXVI) mostra un'anima tra l'angoscia della realtà e la dolce malinconia del sogno. Come in questa canzone e nel sonetto O cameretta che già fosti porto (CCXXXIV), la valle piena dei suoi lamenti e l'aria calda dei suoi sospiri ed il dolce sentiero (CCCI), l'usignolo (CCCXI), i dolci colli (CCCXX) ed il vago augelletto (CCCLIII) non rappresentano una natura esteriore ma creature di un mondo interiorizzato, vagheggiato nell'immaginazione, confidenti delle pene recondite del poeta che spesso si rifugia in un clima di sogno e di immaginazione. Nella seconda parte del Canzoniere vi sono sonetti notevoli e belli (CCLXXIX, CCLXXXII, CCLXXXV, CCCII) e la Canzone Quando il soave mio fido conforto in cui Laura, donna di vaga bellezza e trasfigurata spiritualmente, lo consola "nelle sue notti dolenti" e "sospira dolcemente e si adira" nel vederlo immerso nelle passioni terrene.
Il critico Umberto Bosco sottolinea che "l'amore è il mezzo di cui Petrarca si serve per concretare liricamente la complessità dei suoi sentimenti", un amore che trapassa dal sogno all'elegia in cui Laura è "una figura evanescente". Il poeta esprime la dolcezza del gaudio in sé ma anche un presagio di dissolvimento e di morte. La caducità è un altro motivo dominante nel Canzoniere ed in altre opere petrarchesche, dal "conoscere chiaramente che quanto piace al mondo è breve sogno" (sonetto proemiale del Canzoniere) al lamento di Magone morente nel poemetto l' Africa, e Laura "è il fantasma poetico nel quale liricamente si concreta, soprattutto, appunto, il senso dell'irrimediabile caducità". Quanto poi all'interiore dissidio del poeta, Bosco osserva che esso "non consiste dunque propriamente nel conflitto umano-divino, ma nel conflitto tra la religione e la ragione da una parte, che gli impongono la concezione di un Dio che comprenda tutto ma in cui tutto si annulli, e l'incoercibile forza del sogno dall'altra, che lo trascina a concepire un Dio riposo degli affanni e garante dell'eternità degli affetti umani".
Altri temi presenti nel Canzoniere sono la condanna della corruzione della curia papale ad Avignone (Fiamma dal ciel su le tue trecce piova, CXXXVI) e l' esaltazione delle virtù italiche nelle canzoni Spirto gentil e Italia mia. Nella prima Roma è portata ad esempio e modello di civiltà per i corrotti contemporanei, nella seconda i reggenti le Signorie italiane sono invitati a chiamare a raccolta il popolo, erede delle virtù romane ("Latin sangue gentil") contro i soldati mercenari germanici discendenti dai barbari sconfitti dai Romani ("Vertù contra furore/prenderà l'arme e fia il combatter corto: /ché l'antico valore/ ne l'italici cor non è ancor morto").

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194
L'aura gentil, che rasserena i poggi
destando i fior' per questo ombroso bosco,
al soave suo spirto riconosco,
per cui conven che 'n pena e 'n fama poggi.

Per ritrovar ove 'l cor lasso appoggi,
fuggo dal mi' natio dolce aere tosco;
per far lume al penser torbido et fosco,
cerco 'l mio sole et spero vederlo oggi.

Nel qual provo dolcezze tante et tali
ch'Amor per forza a lui mi riconduce;
poi sí m'abbaglia che 'l fuggir m'è tardo.

I' chiedrei a scampar, non arme, anzi ali;
ma perir mi dà 'l ciel per questa luce,
ché da lunge mi struggo et da presso ardo.

195
Di dí in dí vo cangiando il viso e 'l pelo,
né però smorso i dolce inescati hami,
né sbranco i verdi et invescati rami
de l'arbor che né sol cura né gielo.

Senz'acqua il mare et senza stelle il cielo
fia inanzi ch'io non sempre tema et brami
la sua bell'ombra, et ch'i' non odi et ami
l'alta piaga amorosa, che mal celo.

Non spero del mio affanno aver mai posa,
infin ch'i' mi disosso et snervo et spolpo,
o la nemica mia pietà n'avesse.

Esser pò in prima ogni impossibil cosa,
ch'altri che morte, od ella, sani 'l colpo
ch'Amor co' suoi belli occhi al cor m'impresse.

196
L'aura serena che fra verdi fronde
mormorando a ferir nel volto viemme,
fammi risovenir quand'Amor diemme
le prime piaghe, sí dolci profonde;

e 'l bel viso veder, ch'altri m'asconde,
che sdegno o gelosia celato tiemme;
et le chiome or avolte in perle e 'n gemme,
allora sciolte, et sovra òr terso bionde:

==>SEGUE



le quali ella spargea sí dolcemente,
et raccogliea con sí leggiadri modi,
che ripensando ancor trema la mente;

torsele il tempo poi in piú saldi nodi,
et strinse 'l cor d'un laccio sí possente,
che Morte sola fia ch'indi lo snodi.

197
L'aura celeste che 'n quel verde lauro
spira, ov'Amor ferí nel fianco Apollo,
et a me pose un dolce giogo al collo,
tal che mia libertà tardi restauro,

pò quello in me che nel gran vecchio mauro
Medusa quando in selce transformollo;
né posso dal bel nodo omai dar crollo,
là 've il sol perde, non pur l'ambra, o l'auro:

dico le chiome bionde, e 'l crespo laccio,
che sí soavemente lega et stringe
l'alma che d'umiltate e non d'altr'armo.

L'ombra sua sola fa 'l mio cor un ghiaccio,
et di bianca paura il viso tinge;
ma li occhi ànno vertú di farne un marmo.

198
L'aura soave al sole spiega et vibra
l'auro ch'Amor di sua man fila et tesse
là da' begli occhi, et de le chiome stesse
lega 'l cor lasso, e i lievi spirti cribra.

Non ò medolla in osso, o sangue in fibra,
ch'i' non senta tremar, pur ch'i' m'apresse
dove è chi morte et vita inseme, spesse
volte, in frale bilancia appende et libra,

vedendo ardere i lumi ond'io m'accendo,
et folgorare i nodi ond'io son preso,
or su l'omero dextro et or sul manco.

I' nol posso ridir, ché nol comprendo:
da ta' due luci è l'intellecto offeso,
et di tanta dolcezza oppresso et stanco.



199
O bella man, che mi destringi 'l core,
e 'n poco spatio la mia vita chiudi;
man ov'ogni arte et tutti i lor studi
poser Natura e 'l Ciel per farsi honore;

di cinque perle orïental' colore,
et sol ne le mie piaghe acerbi et crudi,
diti schietti soavi, a tempo ignudi
consente or voi, per arricchirme, Amore.

Candido leggiadretto et caro guanto,
che copria netto avorio et fresche rose,
chi vide al mondo mai sí dolci spoglie?

Cosí avess'io del bel velo altrettanto!
O incostantia de l'umane cose!
Pur questo è furto, et vien chi me ne spoglie.

200
Non pur quell'una bella ignuda mano,
che con grave mio danno si riveste,
ma l'altra et le duo braccia accorte et preste
son a stringere il cor timido et piano.

Lacci Amor mille, et nesun tende invano,
fra quelle vaghe nove forme honeste
ch'adornan sí l'alto habito celeste,
ch'agiunger nol pò stil né 'ngegno humano:

li occhi sereni et le stellanti ciglia,
la bella bocca angelica, di perle
piena et di rose et di dolci parole,

che fanno altrui tremar di meraviglia,
et la fronte, et le chiome, ch'a vederle
di state, a mezzo dí, vincono il sole.

201
Mia ventura et Amor m'avean sí adorno
d'un bello aurato et serico trapunto,
ch'al sommo del mio ben quasi era aggiunto,
pensando meco: A chi fu quest'intorno?

Né mi riede a la mente mai quel giorno
che mi fe' ricco et povero in un punto,
ch'i' non sia d'ira et di dolor compunto,
pien di vergogna et d'amoroso scorno,

==>SEGUE


che la mia nobil preda non piú stretta
tenni al bisogno, et non fui piú costante
contra lo sforzo sol d'una angioletta;

o, fugendo, ale non giunsi a le piante,
per far almen di quella man vendetta
che de li occhi mi trahe lagrime tante.

202
D'un bel chiaro polito et vivo ghiaccio
move la fiamma che m'incende et strugge,
et sí le vène e 'l cor m'asciuga et sugge
che 'nvisibilmente i' mi disfaccio.

Morte, già per ferire alzato 'l braccio,
come irato ciel tona o leon rugge,
va perseguendo mia vita che fugge;
et io, pien di paura, tremo et taccio.

Ben poria anchor Pietà con Amor mista,
per sostegno di me, doppia colonna
porsi fra l'alma stancha e 'l mortal colpo;

ma io nol credo, né 'l conosco in vista
di quella dolce mia nemica et donna:
né di ciò lei, ma mia ventura incolpo.

203
Lasso, ch'i' ardo, et altri non me 'l crede;
sí crede ogni uom, se non sola colei
che sovr'ogni altra, et ch'i' sola, vorrei:
ella non par che 'l creda, et sí sel vede.

Infinita bellezza et poca fede,
non vedete voi 'l cor nelli occhi mei?
Se non fusse mia stella, i' pur devrei
al fonte di pietà trovar mercede.

Quest'arder mio, di che vi cal sí poco,
e i vostri honori, in mie rime diffusi,
ne porian infiammar fors'anchor mille:

ch'i' veggio nel penser, dolce mio foco,
fredda una lingua et duo belli occhi chiusi
rimaner, dopo noi, pien' di faville.





S'i' 'l dissi, Amor l'aurate sue quadrella
spenda in me tutte, et l'impiombate in lei;
s'i' 'l dissi, cielo et terra, uomini et dèi
mi sian contrari, et essa ognor piú fella;
s'i' 'l dissi, chi con sua cieca facella
dritto a morte m'invia,
pur come suol si stia,
né mai piú dolce o pia
ver' me si mostri, in atto od in favella.

S'i' 'l dissi mai, di quel ch'i' men vorrei
piena trovi quest'aspra et breve via;
s'i' 'l dissi, il fero ardor che mi desvia
cresca in me quanto il fier ghiaccio in costei;
s'i' 'l dissi, unqua non veggian li occhi mei
sol chiaro, o sua sorella,
né donna né donzella,
ma terribil procella,
qual Pharaone in perseguir li hebrei.

S'i' 'l dissi, coi sospir', quant'io mai fei,
sia Pietà per me morta, et Cortesia;
s'i' 'l dissi, il dir s'innaspri, che s'udia
sí dolce allor che vinto mi rendei;
s'i' 'l dissi, io spiaccia a quella ch'i'torrei
sol, chiuso in fosca cella,
dal dí che la mamella
lasciai, finché si svella
da me l'alma, adorar: forse e 'l farei.

Ma s'io nol dissi, chi sí dolce apria
meo cor a speme ne l'età novella,
regg 'anchor questa stanca navicella
col governo di sua pietà natia,
né diventi altra, ma pur qual solia
quando piú non potei,
che me stesso perdei
(né piú perder devrei).
Mal fa chi tanta fe' sí tosto oblia.

I'nol dissi già mai, né dir poria
per oro o per cittadi o per castella.
Vinca 'l ver dunque, et si rimanga in sella,
et vinta a terra caggia la bugia.

==>SEGUE

204
Anima, che diverse cose tante
vedi, odi et leggi et parli et scrivi et pensi;
occhi miei vaghi, et tu, fra li altri sensi,
che scorgi al cor l'alte parole sante:

per quanto non vorreste o poscia od ante
esser giunti al camin che sí mal tiensi,
per non trovarvi i duo bei lumi accensi,
né l'orme impresse de l'amate piante?

Or con sí chiara luce, et con tai segni,
errar non dêsi in quel breve vïaggio,
che ne pò far d'etterno albergo degni.

Sfòrzati al cielo, o mio stancho coraggio,
per la nebbia entro de' suoi dolci sdegni,
seguendo i passi honesti e 'l divo raggio.

205
Dolci ire, dolci sdegni et dolci paci,
dolce mal, dolce affanno et dolce peso,
dolce parlare, et dolcemente inteso,
or di dolce òra, or pien di dolci faci:

alma, non ti lagnar, ma soffra et taci,
et tempra il dolce amaro, che n'à offeso,
col dolce honor che d'amar quella ài preso
a cui io dissi: Tu sola mi piaci.

Forse anchor fia chi sospirando dica,
tinto di dolce invidia: Assai sostenne
per bellissimo amor quest'al suo tempo.

Altri: O fortuna agli occhi miei nemica,
perché non la vid'io? perché non venne
ella piú tardi, over io piú per tempo?

206
S'i' 'l dissi mai, ch'i' vegna in odio a quella
del cui amor vivo, et senza 'l qual morrei;
s'i' 'l dissi, che miei dí sian pochi et rei,
et di vil signoria l'anima ancella;
s'i' 'l dissi, contra me s'arme ogni stella,
et dal mio lato sia
Paura et Gelosia,
et la nemica mia
piú feroce ver 'me sempre et piú bella.

==>SEGUE


Tu sai in me il tutto, Amor: s'ella ne spia,
dinne quel che dir dêi.
I' beato direi,
tre volte et quattro et sei,
chi, devendo languir, si morí pria.

Per Rachel ò servito, et non per Lia;
né con altra saprei
viver, et sosterrei,
quando 'l ciel ne rappella,
girmen con ella in sul carro de Helia.

207
Ben mi credea passar mio tempo omai
come passato avea quest'anni a dietro,
senz'altro studio et senza novi ingegni:
or poi che da madonna i' non impetro
l'usata aita, a che condutto m'ài,
tu 'l vedi, Amor, che tal arte m'insegni.
Non so s'i' me ne sdegni,
che 'n questa età mi fai divenir ladro
del bel lume leggiadro,
senza 'l qual non vivrei in tanti affanni.
Cosí avess'io i primi anni
preso lo stil ch'or prender mi bisogna,
ché 'n giovenil fallir è men vergogna.

Li occhi soavi ond'io soglio aver vita,
de le divine lor alte bellezze
fûrmi in sul cominciar tanto cortesi,
che 'n guisa d'uom cui non proprie ricchezze,
ma celato di for soccorso aita,
vissimi, che né lor né altri offesi.
Or, bench'a me ne pesi,
divento ingiurïoso et importuno:
ché 'l poverel digiuno
vèn ad atto talor che 'n miglior stato
avria in altrui biasmato.
Se le man' di Pietà Invidia m'à chiuse,
fame amorosa, e 'l non poter, mi scuse.

Ch'i' ò cercate già vie piú di mille
per provar senza lor se mortal cosa
mi potesse tener in vita un giorno.

==>SEGUE


L'anima, poi ch'altrove non à posa,
corre pur a l'angeliche faville;
et io, che son di cera, al foco torno;
et pongo mente intorno
ove si fa men guardia a quel ch'i' bramo;
et come augel in ramo,
ove men teme, ivi piú tosto è colto,
cosí dal suo bel volto
l'involo or uno et or un altro sguardo;
et di ciò inseme mi nutrico et ardo.

Di mia morte mi pasco, et vivo in fiamme:
stranio cibo, et mirabil salamandra;
ma miracol non è, da tal si vòle.
Felice agnello a la penosa mandra
mi giacqui un tempo; or a l'extremo famme
et Fortuna et Amor pur come sòle:
cosí rose et vïole
à primavera, e 'l verno à neve et ghiaccio.
Però, s'i' mi procaccio
quinci et quindi alimenti al viver curto,
se vòl dir che sia furto,
sí ricca donna deve esser contenta,
s'altri vive del suo, ch'ella nol senta.

Chi nol sa di ch'io vivo, et vissi sempre,
dal dí che 'n prima que' belli occhi vidi,
che mi fecer cangiar vita et costume?
Per cercar terra et mar da tutti lidi,
chi pò saver tutte l'umane tempre?
L'un vive, ecco, d'odor, là sul gran fiume;
io qui di foco et lume
queto i frali et famelici miei spirti.
Amor, et vo' ben dirti,
disconvensi a signor l'esser sí parco.
Tu ài li strali et l'arco:
fa' di tua man, non pur bramand'io mora,
ch'un bel morir tutta la vita honora.

Chiusa fiamma è piú ardente; et se pur cresce,
in alcun modo piú non pò celarsi:
Amor, i' 'l so, che 'l provo a le tue mani.
Vedesti ben, quando sí tacito arsi;
or de' miei gridi a me medesmo incresce,


==>SEGUE




che vo noiando et proximi et lontani.
O mondo, o penser' vani;
o mia forte ventura a che m'adduce!
O di che vaga luce
al cor mi nacque la tenace speme,
onde l'annoda et preme
quella che con tua forza al fin mi mena!
La colpa è vostra, et mio 'l danno et la pena.

Cosí di ben amar porto tormento,
et del peccato altrui cheggio perdono:
anzi del mio, che devea torcer li occhi
dal troppo lume, et di sirene al suono
chiuder li orecchi; et anchor non me 'n pento,
che di dolce veleno il cor trabocchi.
Aspett'io pur che scocchi
l'ultimo colpo chi mi diede 'l primo;
et fia, s'i' dritto extimo,
un modo di pietate occider tosto,
non essendo ei disposto
a far altro di me che quel che soglia:
ché ben muor chi morendo esce di doglia.

Canzon mia, fermo in campo
starò, ch'elli è disnor morir fuggendo;
et me stesso reprendo
di tai lamenti; sí dolce è mia sorte,
pianto, sospiri et morte.
Servo d'Amor, che queste rime leggi,
ben non à 'l mondo, che 'l mio mal pareggi.


208
Rapido fiume che d'alpestra vena
rodendo intorno, onde 'l tuo nome prendi,
notte et dí meco disïoso scendi
ov'Amor me, te sol Natura mena,

vattene innanzi: il tuo corso non frena
né stanchezza né sonno; et pria che rendi
suo dritto al mar, fiso u' si mostri attendi
l'erba piú verde, et l'aria piú serena.

Ivi è quel nostro vivo et dolce sole,
ch'addorna e 'nfiora la tua riva manca:
forse (o che spero?) e 'l mio tardar le dole.

Basciale 'l piede, o la man bella et bianca;
dille, e 'l basciar sie 'nvece di parole:
Lo spirto è pronto, ma la carne è stanca.

209
I dolci colli ov'io lasciai me stesso,
partendo onde partir già mai non posso,
mi vanno innanzi, et èmmi ognor adosso
quel caro peso ch'Amor m'à commesso.

Meco di me mi meraviglio spesso,
ch'i' pur vo sempre, et non son anchor mosso
dal bel giogo piú volte indarno scosso,
ma com piú me n'allungo, et piú m'appresso.

Et qual cervo ferito di saetta,
col ferro avelenato dentr'al fianco,
fugge, et piú duolsi quanto piú s'affretta,

tal io, con quello stral dal lato manco,
che mi consuma, et parte mi diletta,
di duol mi struggo, et di fuggir mi stanco.

210
Non da l'hispano Hibero a l'indo Ydaspe
ricercando del mar ogni pendice,
né dal lito vermiglio a l'onde caspe,
né 'n ciel né 'n terra è piú d'una fenice.

Qual dextro corvo o qual mancha cornice
canti 'l mio fato, o qual Parca l'innaspe?
che sol trovo Pietà sorda com'aspe,
misero, onde sperava esser felice.

==>SEGUE


Ch'i' non vo' dir di lei: ma chi la scorge,
tutto 'l cor di dolcezza et d'amor gli empie,
tanto n'à seco, et tant'altrui ne porge;

et per far mie dolcezze amare et empie,
o s'infinge o non cura, o non s'accorge,
del fiorir queste inanzi tempo tempie.

211
Voglia mi sprona, Amor mi guida et scorge,
Piacer mi tira, Usanza mi trasporta,
Speranza mi lusinga et riconforta
et la man destra al cor già stanco porge;

e 'l misero la prende, et non s'accorge
di nostra cieca et disleale scorta:
regnano i sensi, et la ragion è morta;
de l'un vago desio l'altro risorge.

Vertute, Honor, Bellezza, atto gentile,
dolci parole ai be' rami m'àn giunto
ove soavemente il cor s'invesca.

Mille trecento ventisette, a punto
su l'ora prima, il dí sesto d'aprile,
nel laberinto intrai, né veggio ond'esca.

212
Beato in sogno et di languir contento,
d'abbracciar l'ombre et seguir l'aura estiva,
nuoto per mar che non à fondo o riva,
solco onde, e 'n rena fondo, et scrivo in vento;

e 'l sol vagheggio, sí ch'elli à già spento
col suo splendor la mia vertú visiva,
et una cerva errante et fugitiva
caccio con un bue zoppo e 'nfermo et lento.

Cieco et stanco ad ogni altro ch'al mio danno
il qual dí et notte palpitando cerco,
sol Amor et madonna, et Morte, chiamo.

Cosí venti anni, grave et lungo affanno,
pur lagrime et sospiri et dolor merco:
in tale stella presi l'èsca et l'amo.




213
Grazie ch'a pochi il ciel largo destina:
rara vertú, non già d'umana gente,
sotto biondi capei canuta mente,
e 'n humil donna alta beltà divina;

leggiadria singulare et pellegrina,
e 'l cantar che ne l'anima si sente,
l'andar celeste, e 'l vago spirto ardente,
ch'ogni dur rompe et ogni altezza inchina;

e que' belli occhi che i cor' fanno smalti,
possenti a rischiarar abisso et notti,
et tôrre l'alme a' corpi, et darle altrui;

col dir pien d'intellecti dolci et alti,
co i sospiri soave-mente rotti:
da questi magi transformato fui.

214
Anzi tre dí creata era alma in parte
da por sua cura in cose altere et nove,
et dispregiar di quel ch'a molti è 'n pregio.
Quest'anchor dubbia del fatal suo corso,
sola pensando, pargoletta et sciolta,
intrò di primavera in un bel bosco.

Era un tenero fior nato in quel bosco
il giorno avanti, et la radice in parte
ch'appressar nol poteva anima sciolta:
ché v'eran di lacciuo' forme sí nove,
et tal piacer precipitava al corso,
che perder libertate ivi era in pregio.

Caro, dolce, alto et faticoso pregio,
che ratto mi volgesti al verde bosco
usato di svïarne a mezzo 'l corso!
Et ò cerco poi 'l mondo a parte a parte,
se versi o petre o suco d'erbe nove
mi rendesser un dí la mente sciolta.

Ma, lasso, or veggio che la carne sciolta
fia di quel nodo ond'è 'l suo maggior pregio
prima che medicine, antiche o nove,
saldin le piaghe ch'i' presi in quel bosco,
folto di spine, ond'i' ò ben tal parte,
che zoppo n'esco, e 'ntra'vi a sí gran corso.

   ==>SEGUE





Pien di lacci et di stecchi un duro corso
aggio a fornire, ove leggera et sciolta
pianta avrebbe uopo, et sana d'ogni parte.
Ma Tu, Signor, ch'ài di pietate il pregio,
porgimi la man dextra in questo bosco:
vinca 'l Tuo sol le mie tenebre nove.

Guarda 'l mio stato, a le vaghezze nove
che 'nterrompendo di mia vita il corso
m'àn fatto habitador d'ombroso bosco;
rendimi, s'esser pò, libera et sciolta
l'errante mia consorte; et fia Tuo 'l pregio,
s'anchor Teco la trovo in miglior parte.

Or ecco in parte le question' mie nove:
s'alcun pregio in me vive, o 'n tutto è corso,
o l'alma sciolta, o ritenuta al bosco.

215
In nobil sangue vita humile et queta
et in alto intellecto un puro core,
frutto senile in sul giovenil fiore
e 'n aspetto pensoso anima lieta

raccolto à 'n questa donna il suo pianeta,
anzi 'l re de le stelle; e 'l vero honore,
le degne lode, e 'l gran pregio, e 'l valore,
ch'è da stanchar ogni divin poeta.

Amor s'è in lei con Honestate aggiunto,
con beltà naturale habito adorno,
et un atto che parla con silentio,

et non so che nelli occhi, che 'n un punto
pò far chiara la notte, oscuro il giorno,
e l' mèl amaro, et addolcir l'assentio.

216
Tutto 'l dí piango; et poi la notte, quando
prendon riposo i miseri mortali,
trovomi in pianto, et raddoppiansi i mali:
cosí spendo 'l mio tempo lagrimando.

In tristo humor vo li occhi comsumando,
e 'l cor in doglia; et son fra li animali
l'ultimo, sí che li amorosi strali
mi tengon ad ogni or di pace in bando.

   ==>SEGUE


Lasso, che pur da l'un a l'altro sole,
et da l'una ombra a l'altra, ò già 'l piú corso
di questa morte, che si chiama vita.

Piú l'altrui fallo che 'l mi' mal mi dole:
ché Pietà viva, e 'l mio fido soccorso,
vèdem' arder nel foco, et non m'aita.

217
Già desïai con sí giusta querela
e 'n sí fervide rime farmi udire,
ch'un foco di pietà fessi sentire
al duro cor ch'a mezza state gela;

et l'empia nube, che 'l rafredda et vela,
rompesse a l'aura del mi' ardente dire;
o fessi quell'altrui in odio venire,
che ' belli, onde mi strugge, occhi mi cela.

Or non odio per lei, per me pietate
cerco: ché quel non vo', questo non posso
(tal fu mia stella, et tal mia cruda sorte);

ma canto la divina sua beltate,
ché, quand'i' sia di questa carne scosso,
sappia 'l mondo che dolce è la mia morte.

218
Tra quantunque leggiadre donne et belle
giunga costei ch'al mondo non à pare,
col suo bel viso suol dell'altre fare
quel che fa 'l dí de le minori stelle.

Amor par ch'a l'orecchie mi favelle,
dicendo: Quanto questa in terra appare,
fia 'l viver bello; et poi 'l vedrem turbare,
perir vertuti, e 'l mio regno con elle.

Come Natura al ciel la luna e 'l sole,
a l'aere i vènti, a la terra herbe et fronde,
a l'uomo et l'intellecto et le parole,

et al mar ritollesse i pesci et l'onde:
tanto et piú fien le cose oscure et sole,
se Morte li occhi suoi chiude et asconde.





219
Il cantar novo e 'l pianger delli augelli
in sul dí fanno retentir le valli,
e 'l mormorar de' liquidi cristalli
giú per lucidi, freschi rivi et snelli.

Quella ch'à neve il vòlto, oro i capelli,
nel cui amor non fur mai inganni né falli,
destami al suon delli amorosi balli,
pettinando al suo vecchio i bianchi velli.

Cosí mi sveglio a salutar l'aurora,
e 'l sol ch'è seco, et piú l'altro ond'io fui
ne' primi anni abagliato, et son anchora.

I' gli ò veduti alcun giorno ambedui
levarsi inseme, e 'n un punto e 'n un' hora
quel far le stelle, et questi sparir lui.

220
Onde tolse Amor l'oro, et di qual vena,
per far due trecce bionde? e 'n quali spine
colse le rose, e 'n qual piaggia le brine
tenere et fresche, et die' lor polso et lena?

onde le perle, in ch'ei frange et affrena
dolci parole, honeste et pellegrine?
onde tante bellezze, et sí divine,
di quella fronte, piú che 'l ciel serena?

Da quali angeli mosse, et di qual spera,
quel celeste cantar che mi disface
sí che m'avanza omai da disfar poco?

Di qual sol nacque l'alma luce altera
di que' belli occhi ond'io ò guerra et pace,
che mi cuocono il cor in ghiaccio e 'n fuoco?

221
Qual mio destìn, qual forza o qual inganno,
mi riconduce disarmato al campo,
là 've sempre son vinto? e s'io ne scampo,
meraviglia n'avrò; s'i' moro, il danno.

Danno non già, ma pro; sí dolci stanno
nel mio cor le faville e 'l chiaro lampo
che l'abbaglia et lo strugge, e 'n ch'io m'avampo,
et son già ardendo nel vigesimo anno.

==>SEGUE
   


Sento i messi di Morte, ove apparire
veggio i belli occhi, et folgorar da lunge;
poi, s'avèn ch'appressando a me li gire,

Amor con tal dolcezza m'unge et punge,
ch'i' nol so ripensar, nonché ridire:
ché né 'ngegno né lingua al vero agiunge.

222
- Liete et pensose, accompagnate et sole,
donne che ragionando ite per via,
ove è la vita, ove la morte mia?
perché non è con voi, com'ella sòle?

- Liete siam per memoria di quel sole;
dogliose per sua dolce compagnia,
la qual ne toglie Invidia et Gelosia,
che d'altrui ben, quasi suo mal, si dole.

- Chi pon freno a li amanti, o dà lor legge?
- Nesun a l'alma; al corpo Ira et Asprezza:
questo or in lei, tal or si prova in noi.

Ma spesso ne la fronte il cor si legge:
sí vedemmo oscurar l'alta bellezza,
et tutti rugiadosi li occhi suoi.

223
Quando 'l sol bagna in mar l'aurato carro,
et l'aere nostro et la mia mente imbruna,
col cielo et co le stelle et co la luna
un'angosciosa et dura notte innarro.

Poi, lasso, a tal che non m'ascolta narro
tutte le mie fatiche, ad una ad una,
et col mondo et con mia cieca fortuna,
con Amor con Madonna et meco garro.

Il sonno è 'n bando, et del riposo è nulla;
ma sospiri et lamenti infin a l'alba,
et lagrime che l'alma a li occhi invia.

Vien poi l'aurora, et l'aura fosca inalba,
me no: ma 'l sol che 'l cor m'arde et trastulla,
quel pò solo adolcir la doglia mia.




224
S'una fede amorosa, un cor non finto,
un languir dolce, un desïar cortese;
s'oneste voglie in gentil foco accese,
un lungo error in cieco laberinto;

se ne la fronte ogni penser depinto,
od in voci interrotte a pena intese,
or da paura, or da vergogna offese;
s'un pallor di vïola et d'amor tinto;

s'aver altrui piú caro che se stesso;
se sospirare et lagrimar mai sempre,
pascendosi di duol, d'ira et d'affanno,

s'arder da lunge et agghiacciar da presso
son le cagion ch'amando i' mi distempre,
vostro, donna, 'l peccato, et mio fia 'l danno.

225
Dodici donne honestamente lasse,
anzi dodici stelle, e 'n mezzo un sole,
vidi in una barchetta allegre et sole,
qual non so s'altra mai onde solcasse.

Simil non credo che Iason portasse
al vello onde oggi ogni uom vestir si vòle,
né 'l pastor di ch'anchor Troia si dole;
de' qua' duo tal romor al mondo fasse.

Poi le vidi in un carro trïumfale,
Laurëa mia con suoi santi atti schifi
sedersi in parte, et cantar dolcemente.

Non cose humane, o visïon mortale:
felice Autumedon, felice Tiphi,
che conduceste sí leggiadra gente!

226
Passer mai solitario in alcun tetto
non fu quant'io, né fera in alcun bosco,
ch'i' non veggio 'l bel viso, et non conosco
altro sol, né quest'occhi ànn'altro obiecto.

Lagrimar sempre è 'l mio sommo diletto,
il rider doglia, il cibo assentio et tòsco,
la notte affanno, e 'l ciel seren m'è fosco,
et duro campo di battaglia il letto.

    ==>SEGUE




Il sonno è veramente, qual uom dice,
parente de la morte, e 'l cor sottragge
a quel dolce penser che 'n vita il tene.

Solo al mondo paese almo, felice,
verdi rive fiorite, ombrose piagge,
voi possedete, et io piango, il mio bene.

227
Aura che quelle chiome bionde et crespe
cercondi et movi, et se' mossa da loro,
soavemente, et spargi quel dolce oro,
et poi 'l raccogli, e 'n bei nodi il rincrespe,

tu stai nelli occhi ond'amorose vespe
mi pungon sí, che 'nfin qua il sento et ploro,
et vacillando cerco il mio thesoro,
come animal che spesso adombre e 'ncespe:

ch'or me 'l par ritrovar, et or m'accorgo
ch'i' ne son lunge, or mi sollievo or caggio,
ch'or quel ch'i' bramo, or quel ch'è vero scorgo.

Aër felice, col bel vivo raggio
rimanti; et tu corrente et chiaro gorgo,
ché non poss'io cangiar teco vïaggio?

228
Amor co la man dextra il lato manco
m'aperse, e piantòvi entro in mezzo 'l core
un lauro verde, sí che di colore
ogni smeraldo avria ben vinto et stanco.

Vomer di pena, con sospir' del fianco,
e 'l piover giú dalli occhi un dolce humore
l'addornâr sì, ch'al ciel n'andò l'odore,
qual non so già se d'altre frondi unquanco.

Fama, Honor et Vertute et Leggiadria,
casta bellezza in habito celeste
son le radici de la nobil pianta.

Tal la mi trovo al petto, ove ch'i' sia,
felice incarco; et con preghiere honeste
l'adoro e 'nchino come cosa santa.


229
Cantai, or piango, et non men di dolcezza
del pianger prendo che del canto presi,
ch'a la cagion, non a l'effetto, intesi
son i miei sensi vaghi pur d'altezza.

Indi et mansüetudine et durezza
et atti feri, et humili et cortesi,
porto egualmente, né me gravan pesi,
né l'arme mie punta di sdegni spezza.

Tengan dunque ver' me l'usato stile
Amor, madonna, il mondo et mia fortuna,
ch'i'non penso esser mai se non felice.

Viva o mora o languisca, un piú gentile
stato del mio non è sotto la luna,
sí dolce è del mio amaro la radice.

230
I' piansi, or canto, ché 'l celeste lume
quel vivo sole alli occhi miei non cela,
nel qual honesto Amor chiaro revela
sua dolce forza et suo santo costume;

onde e' suol trar di lagrime tal fiume,
per accorciar del mio viver la tela,
che non pur ponte o guado o remi o vela,
ma scampar non potienmi ale né piume.

Sí profondo era et di sí larga vena
il pianger mio et sí lunge la riva,
ch'i' v'aggiungeva col penser a pena.

Non lauro o palma, ma tranquilla oliva
Pietà mi manda, e 'l tempo rasserena,
e 'l pianto asciuga, et vuol anchor ch'i' viva.

231
I' mi vivea di mia sorte contento,
senza lagrime et senza invidia alcuna,
che, s'altro amante à piú destra fortuna,
mille piacer' non vaglion un tormento.

Or quei belli occhi ond'io mai non mi pento
de le mie pene, et men non ne voglio una,
tal nebbia copre, sí gravosa et bruna,
che 'l sol de la mia vita à quasi spento.

==>SEGUE




O Natura, pietosa et fera madre,
onde tal possa et sí contrarie voglie
di far cose et disfar tanto leggiadre?

D'un vivo fonte ogni poder s'accoglie:
ma Tu come 'l consenti, o sommo Padre,
che del Tuo caro dono altri ne spoglie?

232
Vincitore Alexandro l'ira vinse,
et fe' 'l minore in parte che Philippo:
che li val se Pyrgotile et Lysippo
l'intagliâr solo et Appelle il depinse?

L'ira Tydëo a tal rabbia sospinse,
che, morendo ei, si róse Menalippo;
l'ira cieco del tutto, non pur lippo,
fatto avea Silla: a l'ultimo l'extinse.

Sa 'l Valentinïan, ch'a simil pena
ira conduce: et sa 'l quei che ne more,
Aiace in molti, et poi in se stesso, forte.

Ira è breve furore, et chi nol frena,
è furor lungo, che 'l suo possessore
spesso a vergogna, et talor mena a morte.

233
Qual ventura mi fu, quando da l'uno
de' duo i piú belli occhi che mai furo,
mirandol di dolor turbato et scuro,
mosse vertú che fe' 'l mio infermo et bruno!

Send'io tornato a solver il digiuno
di veder lei che sola al mondo curo,
fummi il Ciel et Amor men che mai duro,
se tutte altre mie gratie inseme aduno:

ché dal dextr'occhio, anzi dal dextro sole,
de la mia donna al mio dextr'occhio venne
il mal che mi diletta, et non mi dole;

et pur com'intellecto avesse et penne,
passò quasi una stella che 'n ciel vole;
et Natura et Pietate il corso tenne.


234
O cameretta che già fosti un porto
a le gravi tempeste mie diürne,
fonte se' or di lagrime nocturne,
che 'l dí celate per vergogna porto.

O letticciuol che requie eri et conforto
in tanti affanni, di che dogliose urne
ti bagna Amor, con quelle mani eburne,
solo ver 'me crudeli a sí gran torto!

Né pur il mio secreto e 'l mio riposo
fuggo, ma piú me stesso e 'l mio pensero,
che, seguendol, talor levommi a volo;

e 'l vulgo a me nemico et odïoso
(ch 'l pensò mai?) per mio refugio chero:
tal paura ò di ritrovarmi solo.

235
Lasso, Amor mi trasporta ov'io non voglio,
et ben m'accorgo che 'l dever si varcha,
onde, a chi nel mio cor siede monarcha,
sono importuno assai piú ch'i' non soglio;

né mai saggio nocchier guardò da scoglio
nave di merci precïose carcha,
quant'io sempre la debile mia barcha
da le percosse del suo duro orgoglio.

Ma lagrimosa pioggia et fieri vènti
d'infiniti sospiri or l'ànno spinta,
ch'è nel mio mare horribil notte et verno,

ov'altrui noie, a sé doglie et tormenti
porta, et non altro, già da l'onde vinta,
disarmata di vele et di governo.

236
Amor, io fallo, et veggio il mio fallire,
ma fo sí com'uom ch'arde e 'l foco à 'n seno,
ché 'l duol pur cresce, et la ragion vèn meno
et è già quasi vinta dal martire.

Solea frenare il mio caldo desire,
per non turbare il bel viso sereno:
non posso piú; di man m'ài tolto il freno,
et l'alma desperando à preso ardire.

==>SEGUE




Però s'oltra suo stile ella s'aventa,
tu 'l fai, che sí l'accendi, et sí la sproni,
ch'ogni aspra via per sua salute tenta;

et piú 'l fanno i celesti et rari doni
ch'à in sé madonna: or fa' almen ch'ella il senta,
et le mie colpe a se stessa perdoni.



238
Real natura, angelico intelletto,
chiara alma, pronta vista, occhio cerviero,
providentia veloce, alto pensero,
et veramente degno di quel petto:

sendo di donne un bel numero eletto
per adornar il dí festo et altero,
súbito scorse il buon giudicio intero
fra tanti, et sí bei, volti il piú perfetto.

L'altre maggior' di tempo o di fortuna
trarsi in disparte comandò con mano,
et caramente accolse a sé quell'una.

Li occhi et la fronte con sembiante humano
basciolle sí che rallegrò ciascuna:
me empié d'invidia l'atto dolce et strano.

239
Là ver' l'aurora, che sí dolce l'aura
al tempo novo suol movere i fiori,
et li augelletti incominciar lor versi,
sí dolcemente i pensier' dentro a l'alma
mover mi sento a chi li à tutti in forza,
che ritornar convenmi a le mie note.

Temprar potess'io in sí soavi note
i miei sospiri ch'addolcissen Laura,
faccendo a lei ragion ch'a me fa forza!
Ma pria fia 'l verno la stagion de' fiori,
ch'amor fiorisca in quella nobil alma,
che non curò già mai rime né versi.

Quante lagrime, lasso, et quanti versi
ò già sparti al mio tempo, e 'n quante note
ò riprovato humilïar quell'alma!
Ella si sta com'aspr'alpe a l'aura
dolce, la qual ben move frondi et fiori,
ma nulla pò se 'ncontra maggior forza.

Homini et dèi solea vincer per forza
Amor, come si legge in prose e 'n versi:
et io 'l provai in sul primo aprir de' fiori.
Ora né 'l mio signor né le sue note
né 'l pianger mio né i preghi pòn far Laura
trarre o di vita o di martir quest'alma.

==>SEGUE




A l'ultimo bisogno, o misera alma,
accampa ogni tuo ingegno, ogni tua forza,
mentre fra noi di vita alberga l'aura.
Nulla al mondo è che non possano i versi;
et li aspidi incantar sanno in lor note,
nonché 'l gielo adornar con novi fiori.

Ridon or per le piagge herbette et fiori:
esser non pò che quella angelica alma
non senta il suon de l'amorose note.
Se nostra ria fortuna è di piú forza,
lagrimando et cantando i nostri versi
et col bue zoppo andrem cacciando l'aura.

In rete accolgo l'aura, e 'n ghiaccio i fiori,
e 'n versi tento sorda et rigida alma,
che né forza d'Amor prezza né note.

240
I' ò pregato Amor, e 'l ne riprego,
che mi scusi appo voi, dolce mia pena,
amaro mio dilecto, se con piena
fede dal dritto mio sentier mi piego.

I' nol posso negar, donna, et nol nego,
che la ragion, ch'ogni bona alma affrena,
non sia dal voler vinta; ond'ei mi mena
talor in parte ov'io per forza il sego.

Voi, con quel cor, che di sí chiaro ingegno,
di sí alta vertute il cielo alluma,
quanto mai piovve da benigna stella,

devete dir, pietosa et senza sdegno:
Che pò questi altro? il mio volto il consuma:
ei perché ingordo, et io perché sí bella?



241
L'alto signor dinanzi a cui non vale
nasconder né fuggir, né far difesa,
di bel piacer m'avea la mente accesa
con un ardente et amoroso strale;

et benché 'l primo colpo aspro et mortale
fossi da sé, per avanzar sua impresa
una saetta di pietate à presa,
et quinci et quindi il cor punge et assale.

L'una piaga arde, et versa foco et fiamma;
lagrime l'altra che 'l dolor distilla,
per li occhi mei, del vostro stato rio:

né per duo fonti sol una favilla
rallenta de l'incendio che m'infiamma,
anzi per la pietà, cresce 'l desio.

242
- Mira quel colle, o stanco mio cor vago:
ivi lasciammo ier lei, ch'alcun tempo ebbe
qualche cura di noi, et le ne 'ncrebbe,
or vorria trar de li occhi nostri un lago.

Torna tu in là, ch'io d'esser sol m'appago;
tenta se forse anchor tempo sarebbe
da scemar nostro duol, che 'nfin qui crebbe,
o del mio mal participe et presago.

- Or tu ch'ài posto te stesso in oblio
et parli al cor pur come e' fusse or teco,
miser, et pien di pensier' vani et sciocchi!

ch'al dipartir dal tuo sommo desio
tu te n'andasti, e' si rimase seco,
et si nascose dentro a' suoi belli occhi.

243
Fresco, ombroso, fiorito et verde colle,
ov'or pensando et or cantando siede,
et fa qui de' celesti spirti fede,
quella ch'a tutto 'l mondo fama tolle:

il mio cor che per lei lasciar mi volle
(et fe' gran senno, et piú se mai non riede)
va or contando ove da quel bel piede
segnata è l'erba, et da quest'occhi è molle.

==>SEGUE


Seco si stringe, et dice a ciascun passo:
Deh fusse or qui quel miser pur un poco,
ch'è già di pianger et di viver lasso!

Ella sel ride, et non è pari il gioco:
tu paradiso, i' senza cor un sasso,
o sacro, aventuroso et dolce loco.

244
Il mal mi preme, et mi spaventa il peggio,
al qual veggio sí larga et piana via,
ch'i' son intrato in simil frenesia,
et con duro penser teco vaneggio;

né so se guerra o pace a Dio mi cheggio,
ché 'l danno è grave, et la vergogna è ria.
Ma perché piú languir? di noi pur fia
quel ch'ordinato è già nel sommo seggio.

Bench'i' non sia di quel grand'onor degno
che tu mi fai, ché te n'inganna Amore,
che spesso occhio ben san fa veder torto,

pur d'alzar l'alma a quel celeste regno
è il mio consiglio, et di spronare il core:
perché 'l camin è lungo, e 'l tempo è corto.

245
Due rose fresche, et colte in paradiso
l'altrier, nascendo il dí primo di maggio,
bel dono, et d'un amante antiquo et saggio,
tra duo minori egualmente diviso

con sí dolce parlar et con un riso
da far innamorare un huom selvaggio,
di sfavillante et amoroso raggio
et l'un et l'altro fe' cangiare il viso.

- Non vede un simil par d'amanti il sole -
dicea, ridendo et sospirando inseme;
et stringendo ambedue, volgeasi a torno.

Cosí partia le rose et le parole,
onde 'l cor lasso anchor s'allegra et teme:
o felice eloquentia, o lieto giorno!






246
L'aura che 'l verde lauro et l'aureo crine
soavemente sospirando move,
fa con sue viste leggiadrette et nove
l'anime da' lor corpi pellegrine.

Candida rosa nata in dure spine,
quando fia chi sua pari al mondo trove,
gloria di nostra etate? O vivo Giove,
manda, prego, il mio in prima che 'l suo fine:

sí ch'io non veggia il gran publico danno,
e 'l mondo remaner senza 'l suo sole,
né li occhi miei, che luce altra non ànno;

né l'alma, che pensar d'altro non vòle,
né l'orecchie, ch'udir altro non sanno,
senza l'oneste sue dolci parole.

247
Parrà forse ad alcun che 'n lodar quella
ch'i' adoro in terra, errante sia 'l mio stile,
faccendo lei sovr'ogni altra gentile,
santa, saggia, leggiadra, honesta et bella.

A me par il contrario; et temo ch'ella
non abbia a schifo il mio dir troppo humile,
degna d'assai piú alto et piú sottile:
et chi nol crede, venga egli a vedella;

sí dirà ben: Quello ove questi aspira
è cosa da stancare Athene, Arpino,
Mantova et Smirna, et l'una et l'altra lira.

Lingua mortale al suo stato divino
giunger non pote: Amor la spinge et tira,
non per electïon, ma per destino.

248
Chi vuol veder quantunque pò Natura
e 'l Ciel tra noi, venga a mirar costei,
ch'è sola un sol, non pur a li occhi mei,
ma al mondo cieco, che vertú non cura;

et venga tosto, perché Morte fura
prima i migliori, et lascia star i rei:
questa aspettata al regno delli dèi
cosa bella mortal passa, et non dura.

==>SEGUE




251
O misera et horribil visïone!
È dunque ver che 'nnanzi tempo spenta
sia l'alma luce che suol far contenta
mia vita in pene et in speranze bone?

Ma come è che sí gran romor non sone
per altri messi, et per lei stessa il senta?
Or già Dio et Natura nol consenta,
et falsa sia mia trista opinïone.

A me pur giova di sperare anchora
la dolce vista del bel viso adorno,
che me mantene, e 'l secol nostro honora.

Se per salir a l'eterno soggiorno
uscita è pur del bel' albergo fora,
prego non tardi il mio ultimo giorno.

252
In dubbio di mio stato, or piango or canto,
et temo et spero; et in sospiri e 'n rime
sfogo il mio incarco: Amor tutte sue lime
usa sopra 'l mio core, afflicto tanto.

Or fia già mai che quel bel viso santo
renda a quest'occhi le lor luci prime
(lasso, non so che di me stesso estime)?
o li condanni a sempiterno pianto;

et per prender il ciel, debito a lui,
non curi che si sia di loro in terra,
di ch'egli è il sole, et non veggiono altrui?

In tal paura e 'n sí perpetua guerra
vivo ch'i' non son piú quel che già fui,
qual chi per via dubbiosa teme et erra.

253
O dolci sguardi, o parolette accorte,
or fia mai il dí ch'i' vi riveggia et oda?
O chiome bionde di che 'l cor m'annoda
Amor, et cosí preso il mena a morte;

o bel viso a me dato in dura sorte,
di ch'io sempre pur pianga, et mai non goda:
o chiuso inganno et amorosa froda,
darmi un piacer che sol pena m'apporte!

==>SEGUE




Et se talor da' belli occhi soavi,
ove mia vita e 'l mio pensero alberga,
forse mi vèn qualche dolcezza honesta,

súbito, a ciò ch'ogni mio ben disperga
et m'allontane, or fa cavalli or navi
Fortuna, ch'al mio mal sempre è sí presta.

254
I'pur ascolto, et non odo novella
de la dolce et amata mia nemica,
né so ch'i' me ne pensi o ch'i' mi dica,
sí 'l cor tema et speranza mi puntella.

Nocque ad alcuna già l'esser sí bella;
questa piú d'altra è bella et piú pudica:
forse vuol Dio tal di vertute amica
tôrre a la terra, e 'n ciel farne una stella;

anzi un sole: et se questo è, la mia vita,
i miei corti riposi e i lunghi affanni
son giunti al fine. O dura dipartita,

perché lontan m'ài fatto da' miei danni?
La mia favola breve è già compita,
et fornito il mio tempo a mezzo gli anni.

255
La sera desïare, odiar l'aurora
soglion questi tranquilli et lieti amanti;
a me doppia la sera et doglia et pianti,
la matina è per me piú felice hora:

ché spesso in un momento apron allora
l'un sole et l'altro quasi duo levanti,
di beltade et di lume sí sembianti,
ch'anco il ciel de la terra s'innamora;

come già fece allor che' primi rami
verdeggîar, che nel cor radice m'ànno,
per cui sempre altrui piú che me stesso ami.

Cosí di me due contrarie hore fanno;
et chi m'acqueta è ben ragion ch'i' brami,
et tema et odî chi m'adduce affanno.






256
Far potess'io vendetta di colei
che guardando et parlando mi distrugge,
et per piú doglia poi s'asconde et fugge,
celando gli occhi a me sí dolci et rei.

Cosí li afflicti et stanchi spirti mei
a poco a poco consumando sugge,
e 'n sul cor quasi fiero leon rugge
la notte allor quand'io posar devrei.

L'alma, cui Morte del suo albergo caccia,
da me si parte, et di tal nodo sciolta,
vassene pur a lei che la minaccia.

Meravigliomi ben s'alcuna volta,
mentre le parla et piange et poi l'abbraccia,
non rompe il sonno suo, s'ella l'ascolta.

257
In quel bel viso ch'i' sospiro et bramo,
fermi eran gli occhi desïosi e 'ntensi,
quando Amor porse, quasi a dir «che pensi?»,
quella honorata man che second'amo.

Il cor, preso ivi come pesce a l'amo,
onde a ben far per vivo exempio viensi,
al ver non volse li occupati sensi,
o come novo augello al visco in ramo.

Ma la vista, privata del suo obiecto,
quasi sognando si facea far via,
senza la qual è 'l suo bene imperfecto.

L'alma tra l'una et l'altra gloria mia,
qual celeste non so novo dilecto
et qual strania dolcezza si sentia.

258
Vive faville uscian de' duo bei lumi
ver' me sí dolcemente folgorando,
et parte d'un cor saggio sospirando
d'alta eloquentia sí soavi fiumi,

che pur il rimembrar par mi consumi
qualor a quel dí torno, ripensando
come venieno i miei spirti mancando
al varïar de' suoi duri costumi.

==>SEGUE




L'alma, nudrita sempre in doglia e 'n pene
( quanto è 'l poder d'una prescritta usanza!),
contra 'l doppio piacer sí 'nferma fue,

ch'al gusto sol del disusato bene,
tremando or di paura or di speranza,
d'abandonarme fu spesso entra due.

259
Cercato ò sempre solitaria vita
(le rive il sanno, et le campagne e i boschi)
per fuggir questi ingegni sordi et loschi,
che la strada del cielo ànno smarrita;

et se mia voglia in ciò fusse compita,
fuor del dolce aere de' paesi toschi
anchor m'avria tra' suoi bei colli foschi
Sorga, ch'a pianger et cantar m'aita.

Ma mia fortuna, a me sempre nemica,
mi risospigne al loco ov'io mi sdegno
veder nel fango il bel tesoro mio.

A la man ond'io scrivo è fatta amica
a questa volta, et non è forse indegno:
Amor sel vide, et sa 'l madonna et io.

260
In tale stella duo belli occhi vidi,
tutti pien' d'onestate et di dolcezza,
che presso a quei d'Amor leggiadri nidi
il mio cor lasso ogni altra vista sprezza.

Non si pareggi a lei qual piú s'aprezza,
in qual ch'etade, in quai che strani lidi:
non chi recò con sua vaga bellezza
in Grecia affanni, in Troia ultimi stridi;

no la bella romana che col ferro
apre il suo casto et disdegnoso petto;
non Polixena, Ysiphile et Argia.

Questa excellentia è gloria, s'i' non erro,
grande a Natura, a me sommo diletto,
ma' che vèn tardo, et sùbito va via.

Gentileza di sangue, et l'altre care
cose tra noi, perle et robini et oro,
quasi vil soma egualmente dispregi.

L'alta beltà ch'al mondo non à pare
noia t'è, se non quanto il bel thesoro
di castità par ch'ella adorni et fregi.

264
I' vo pensando, et nel penser m'assale
una pietà sí forte di me stesso,
che mi conduce spesso
ad altro lagrimar ch'i' non soleva:
ché, vedendo ogni giorno il fin piú presso,
mille fïate ò chieste a Dio quell'ale
co le quai del mortale
carcer nostro intelletto al ciel si leva.
Ma infin a qui nïente mi releva
prego o sospiro o lagrimar ch'io faccia:
e cosí per ragion conven che sia,
ché chi, possendo star, cadde tra via,
degno è che mal suo grado a terra giaccia.
Quelle pietose braccia
in ch'io mi fido, veggio aperte anchora,
ma temenza m'accora
per gli altrui exempli, et del mio stato tremo,
ch'altri mi sprona, et son forse a l'extremo.

L'un penser parla co la mente, et dice:
- Che pur agogni? onde soccorso attendi?
Misera, non intendi
con quanto tuo disnore il tempo passa?
Prendi partito accortamente, prendi;
e del cor tuo divelli ogni radice
del piacer che felice
nol pò mai fare, et respirar nol lassa.
Se già è gran tempo fastidita et lassa
se' di quel falso dolce fugitivo
che 'l mondo traditor può dare altrui,
a che ripon' piú la speranza in lui,
che d'ogni pace et di fermezza è privo?
Mentre che 'l corpo è vivo,
ài tu 'l freno in bailia de' penser' tuoi:
deh stringilo or che pôi,
ché dubbioso è 'l tardar come tu sai,
e 'l cominciar non fia per tempo omai.

==>SEGUE


Già sai tu ben quanta dolcezza porse
agli occhi tuoi la vista di colei
la qual ancho vorrei
ch'a nascer fosse per piú nostra pace.
Ben ti ricordi, et ricordar te 'n dêi,
de l'imagine sua quand'ella corse
al cor, là dove forse
non potea fiamma intrar per altrui face:
ella l'accese; et se l'ardor fallace
durò molt'anni in aspectando un giorno,
che per nostra salute unqua non vène,
or ti solleva a piú beata spene,
mirando 'l ciel che ti si volve intorno,
immortal et addorno:
ché dove, del mal suo qua giú sí lieta,
vostra vaghezza acqueta
un mover d'occhi, un ragionar, un canto,
quanto fia quel piacer, se questo è tanto? -

Da l'altra parte un pensier dolce et agro,
con faticosa et dilectevol salma
sedendosi entro l'alma,
preme 'l cor di desio, di speme il pasce;
che sol per fama glorïosa et alma
non sente quand'io agghiaccio, o quand'io flagro,
s'i' son pallido o magro;
et s'io l'occido piú forte rinasce.
Questo d'allor ch'i' m'addormiva in fasce
venuto è di dí in dí crescendo meco,
e temo ch'un sepolcro ambeduo chiuda.
Poi che fia l'alma de le membra ignuda,
non pò questo desio piú venir seco;
ma se 'l latino e 'l greco
parlan di me dopo la morte, è un vento:
ond'io, perché pavento
adunar sempre quel ch'un'ora sgombre,
vorre' 'l ver abbracciar, lassando l'ombre.

Ma quell'altro voler di ch'i'son pieno,
quanti press'a lui nascon par ch'adugge;
e parte il tempo fugge
che, scrivendo d'altrui, di me non calme;
e 'l lume de' begli occhi che mi strugge
soavemente al suo caldo sereno,
mi ritien con un freno
contra chui nullo ingegno o forza valme.

==>SEGUE




Che giova dunque perché tutta spalme
la mia barchetta, poi che 'nfra li scogli
è ritenuta anchor da ta' duo nodi?
Tu che dagli altri, che 'n diversi modi
legano 'l mondo, in tutto mi disciogli,
Signor mio, ché non togli
omai dal volto mio questa vergogna?
Ché 'n guisa d'uom che sogna,
aver la morte inanzi gli occhi parme;
et vorrei far difesa, et non ò l'arme.

Quel ch'i' fo veggio, et non m'inganna il vero
mal conosciuto, anzi mi sforza Amore,
che la strada d'onore
mai nol lassa seguir, chi troppo il crede;
et sento ad ora ad or venirmi al core
un leggiadro disdegno aspro et severo
ch'ogni occulto pensero
tira in mezzo la fronte, ov'altri 'l vede:
ché mortal cosa amar con tanta fede
quanta a Dio sol per debito convensi,
piú si disdice a chi piú pregio brama.
Et questo ad alta voce ancho richiama
la ragione svïata dietro ai sensi;
ma perch'ell'oda, et pensi
tornare, il mal costume oltre la spigne,
et agli occhi depigne
quella che sol per farmi morir nacque,
perch'a me troppo, et a se stessa, piacque.

Né so che spatio mi si desse il cielo
quando novellamente io venni in terra
a soffrir l'aspra guerra
che 'ncontra me medesmo seppi ordire;
né posso il giorno che la vita serra
antiveder per lo corporeo velo;
ma varïarsi il pelo
veggio, et dentro cangiarsi ogni desire.
Or ch'i' mi credo al tempo del partire
esser vicino, o non molto da lunge,
come chi 'l perder face accorto et saggio,
vo ripensando ov'io lassai 'l vïaggio
de la man destra, ch'a buon porto aggiunge:
et da l'un lato punge

==>SEGUE


Vedrà, s'arriva a tempo, ogni vertute,
ogni bellezza, ogni real costume
giunti in un corpo con mirabil' tempre:

allor dirà che mie rime son mute,
l'ingegno offeso dal soverchio lume;
ma se piú tarda, avrà da pianger sempre.

249
Qual paura ò, quando mi torna a mente
quel giorno ch'i' lasciai grave et pensosa
madonna, e 'l mio cor seco! et non è cosa
che sí volentier pensi, et sí sovente.

I' la riveggio starsi humilemente
tra belle donne, a guisa d'una rosa
tra minor' fior', né lieta né dogliosa,
come chi teme, et altro mal non sente.

Deposta avea l'usata leggiadria,
le perle et le ghirlande et i panni allegri,
e 'l riso e 'l canto e 'l parlar dolce humano.

Cosí in dubbio lasciai la vita mia:
or tristi auguri, et sogni et penser' negri
mi dànno assalto, et piaccia a Dio che 'nvano.

250
Solea lontana in sonno consolarme
con quella dolce angelica sua vista
madonna; or mi spaventa et mi contrista,
né di duol né di téma posso aitarme;

ché spesso nel suo vólto veder parme
vera pietà con grave dolor mista,
et udir cose onde 'l cor fede acquista
che di gioia et di speme si disarme.

«Non ti soven di quella ultima sera
- dice ella - ch'i' lasciai li occhi tuoi molli
et sforzata dal tempo me n'andai?

I' non tel potei dir, allor, né volli;
or tel dico per cosa experta et vera:
non sperar di vedermi in terra mai».




vergogna et duol che 'ndietro mi rivolve;
dall'altro non m'assolve
un piacer per usanza in me sí forte
ch'a patteggiar n'ardisce co la morte.

Canzon, qui sono, ed ò 'l cor via piú freddo
de la paura che gelata neve,
sentendomi perir senz'alcun dubbio:
ché pur deliberando ò vòlto al subbio
gran parte omai de la mia tela breve;
né mai peso fu greve
quanto quel ch'i' sostengo in tale stato:
ché co la morte a lato
cerco del viver mio novo consiglio,
et veggio 'l meglio, et al peggior m'appiglio.

265
Aspro core et selvaggio, et cruda voglia
in dolce, humile, angelica figura,
se l'impreso rigor gran tempo dura,
avran di me poco honorata spoglia;

ché quando nasce et mor fior, herba et foglia,
quando è 'l dí chiaro, et quando è notte oscura,
piango ad ognor: ben ò di mia ventura,
di madonna et d'Amore onde mi doglia.

Vivo sol di speranza, rimembrando
che poco humor già per continua prova
consumar vidi marmi et pietre salde.

Non è sí duro cor che, lagrimando,
pregando, amando, talor non si smova,
né sí freddo voler, che non si scalde.

237
Non à tanti animali il mar fra l'onde,
né lassú sopra 'l cerchio de la luna
vide mai tante stelle alcuna notte,
né tanti augelli albergan per li boschi,
né tant'erbe ebbe mai il campo né piaggia,
quant'à 'l io mio cor pensier' ciascuna sera.

Di dí in dí spero ormai l'ultima sera
che scevri in me dal vivo terren l'onde
et mi lasci dormire in qualche piaggia,
ché tanti affanni uom mai sotto la luna
non sofferse quant'io: sannolsi i boschi,
che sol vo ricercando giorno et notte.

Io non ebbi già mai tranquilla notte,
ma sospirando andai matino et sera,
poi ch'Amor femmi un cittadin de' boschi.
Ben fia, prima ch'i' posi, il mar senz'onde,
et la sua luce avrà 'l sol da la luna,
e i fior d'april morranno in ogni piaggia.

Consumando mi vo di piaggia in piaggia
el dí pensoso, poi piango la notte;
né stato ò mai, se non quanto la luna.
Ratto come imbrunir veggio la sera,
sospir' del petto, et de li occhi escono onde
da bagnar l'erbe, et da crollare i boschi.

Le città son nemiche, amici i boschi,
a'miei pensier', che per quest'alta piaggia
sfogando vo col mormorar de l'onde,
per lo dolce silentio de la notte:
tal ch'io aspetto tutto 'l dí la sera,
che 'l sol si parta et dia luogo a la luna.

Deh or foss'io col vago de la luna
adormentato in qua' che verdi boschi,
et questa ch'anzi vespro a me fa sera,
con essa et con Amor in quella piaggia
sola venisse a starsi ivi una notte;
e 'l dí si stesse e 'l sol sempre ne l'onde.

Sovra dure onde, al lume de la luna
canzon nata di notte in mezzo i boschi,
ricca piaggia vedrai deman da sera.




261
Qual donna attende a glorïosa fama
di senno, di valor, di cortesia,
miri fiso negli occhi a quella mia
nemica, che mia donna il mondo chiama.

Come s'acquista honor, come Dio s'ama,
come è giunta honestà con leggiadria,
ivi s'impara, et qual è dritta via
di gir al ciel, che lei aspetta et brama.

Ivi 'l parlar che nullo stile aguaglia,
e 'l bel tacere, et quei cari costumi,
che 'ngegno human non pò spiegar in carte;

l'infinita belleza ch'altrui abbaglia,
non vi s'impara: ché quei dolci lumi
s'acquistan per ventura et non per arte.

262
- Cara la vita, et dopo lei mi pare
vera honestà, che 'n bella donna sia.
- L'ordine volgi: e' non fûr, madre mia,
senza honestà mai cose belle o care;

et qual donna si lascia di suo honor privare,
né donna è piú né viva; et se qual pria
appare in vista, è tal vita aspra et ria
via piú che morte, et di piú pene amare.

Né di Lucretia mi meravigliai,
se non come a morir le bisognasse
ferro, et non le bastasse il dolor solo. -

Vengan quanti philosophi fur mai,
a dir di ciò: tutte lor vie fien basse;
et quest'una vedremo alzarsi a volo.

263
Arbor victorïosa trïumphale,
onor d'imperadori et di poeti,
quanti m'ài fatto dí dogliosi et lieti
in questa breve mia vita mortale!

vera donna, et a cui di nulla cale,
se non d'onor, che sovr'ogni altra mieti,
né d'Amor visco temi, o lacci o reti,
né 'ngano altrui contr'al tuo senno vale.

==>SEGUE