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FRANCESCO PETRARCA



TRIONFI



Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
FRANCESCO PETRARCA

sui TRIONFI
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Da www.bibliotecaitaliana.it
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FRANCESCO PETRARCA  - TRIONFI
FINE
I Trionfi (latinamente intitolati Triumphi) sono un poema narrativo-allegorico in terzine diviso in sei parti.

Nel Trionfo di Amore (Triumphus Cupidinis) il narratore ha una visione di Amore nella foggia di un condottiero vittorioso dell'antica Roma, con una folla di amanti celebri disposti intorno al carro trionfale; inizia poi ad ascoltare gli ammaestramenti di un personaggio innominato, ma appare Laura, della quale si innamora: così si aggrega al corteo, che giunge all'isola di Cipro.

Nel Trionfo della Pudicizia (Triumphus Pudicitie) Amore cerca di sottomettere anche Laura, ma ne viene sconfitto; quindi ella va a Roma per offrire le sue spoglie al tempio della Pudicizia, guidando un corteo di donne caste.

Nel Trionfo della Morte (Triumphus Mortis) si fa avanti la Morte ad annunciare a Laura la sua prossima fine, che ha luogo in concomitanza con le stragi provocate dalla peste del 1348; la notte successiva Laura appare in sogno al narratore, lo esorta a non temere la morte e lo assicura di averlo sempre amato.

Nel Trionfo della Fama (Triumphus Fame) la Fama conduce con se un corteo di personaggi celebri per le azioni (divisi in romani, stranieri e moderni, in modo analogo ai Rerum memorandarum libri) o per le opere di ingegno, ai quali è assicurata la sopravvivenza oltre la morte.

Nel Trionfo del Tempo (Triumphus Temporis) il Sole si indigna di non riuscire a spegnere la fama degli uomini e accelera il suo corso, per sommergere ogni cosa nell'oblio.

Nel Trionfo dell'Eternità (Triumphus Eternitatis) il narratore si chiede che cosa dunque rimane e si rende conto che bisogna affidarsi a Dio, l'unico in grado di assicurare stabilità: nel vagheggiato mondo ultraterreno anche Laura riavrà la sua bellezza, coronando le aspirazioni dell'intera umanità.

I Trionfi rappresentano il più ambizioso tentativo di avvicinare il modello della Commedia dantesca mai compiuto da Petrarca: da essa riprendono il metro della terzina a rime incatenate (una scelta non scontata per l'epoca), la struttura generale della visione e del viaggio nonchè alcuni personaggi peculiari (Paolo e Francesca, Piccarda Donati). Tuttavia l'inabilità petrarchesca a gestire le convenzioni di un poema narrativo si misura dall'incertezza con cui viene delineato il personaggio della guida (che vorrebbe emulare il Virgilio dantesco, ma resta una presenza evanescente), dalla vaghezza delle coordinate spazio-temporali e più in generale dalla convivenza irrisolta fra gli elementi di autobiografia personale e di storia universale. Alle prese con un genere a lui poco congeniale, Petrarca si rifugia nel terreno che gli ? pi? noto: le enumerazioni erudite (specialmente nel primo, secondo e quarto trionfo) e le effusioni liriche (specialmente nel terzo); per approdare infine alle potenti fantasie cosmologiche degli ultimi due trionfi.
I Trionfi furono iniziati probabilmente verso la metà degli anni Cinquanta e conobbero una lunga stesura: le testimonianze datate vanno dal 1357 al 1374. Ciononostante non ricevettero l'ultima mano e non furono divulgati, neanche parzialmente, durante la vita di Petrarca. Poco dopo la sua morte, prima Giovanni Boccaccio e poi Giovanni Dondi chiesero notizie della loro sorte rispettivamente a Francescuolo da Brossano e a Lombardo della Seta, che erano rimasti custodi delle carte petrarchesche e che dovettero curare la prima diffusione del poema.

- Analisi:

Il poemetto si presenta come il percorso ideale e universale dell’uomo dal peccato alla redenzione, tema tipico dei testi poetici allegorico-didascalici medievali, come il Roman de la Rose, e la Commedia di Dante, che diventa per Petrarca un vero e proprio termine di confronto. Il poema dantesco si presenta sia come modello formale indiretto (con la scelta da parte di Petrarca di adottare lo schema metrico della terzina, sia come modello concettuale per il viaggio allegorico-morale intrapreso.

Al tempo stesso, i Triumphi si collocano bene nel percorso letterario di Petrarca, sviluppando alcuni temi fondamentali della poetica del Canzoniere: la spiritualizzazione della passione per Laura (che culminerà nella canzone alla Vergine), l’attenzione narcisistica per la propria intimità, la ricorrente riflessione sulla morte (come in Movesi il vecchierel canuto e bianco).

I Trionfi - la cui successione in sei momenti successivi è assai meccanica e rigida - sono incompiuti, sia per il lungo lavoro correttorio sia per le difficoltà a gestire la struttura del poema rispetto alla dimensione più agile dei componimenti lirici del Canzoniere.

- Il termine “trionfo” si rifà alla tradizione romana di celebrare un condottiero vittorioso con un corteo fino al Campidoglio, seguito dalle sue truppe e dai prigionieri di guerra.


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PETRARCA E IL TEMA DELL’AMORE

(Tratto da: Il tema d’amore nella poesia antica e medievale - Rielaborazione materiali prof.ssa Zandonadi)

Il tema più presente nel Canzoniere è l'amore per Laura, ma si potrebbe anche intendere come il desiderio di gloria del poeta poiché il nome Laura si può intendere anche come “l'aura”, cioè la gloria, perché il termine fa riferimento al ramo di lauro, la pianta di Apollo simbolo della poesia, con cui nell'antichità vengono incoronati i più grandi poeti.
A differenza del Dolce Stil novo, in cui il tema delle poesie è il sentimento, lo stato d'animo del poeta, in Petrarca il tema centrale è il conflitto interiore del poeta, il suo sentirsi attratto sia dagli aspetti materiali della vita (amore e gloria) sia da ciò che è mistero, elevazione in Dio.
Così, al contrario della Beatrice di Dante, Laura – la donna amata da Petrarca - non è la donnaangelo, veicolo tra il poeta e Dio, ma è una nobilissima creatura terrena (in "Erano i capei d'oro a l'aura sparsi" viene addirittura descritta da vecchia), e pertanto il poeta percepisce che l'amore verso di lei allontani dalla fede in Dio; per questo vive il sentimento d'amore come colpa, come "errore giovanile" (vedi “Voi ch'ascoltate” verso 4)
La figura di Laura non è descritta dettagliatamente, ma è semplicemente tratteggiata utilizzando le immagini della bellezza provenienti dallo stilnovismo ("bionda", "occhi luminosi come un lago", "capelli d'oro", "viso di perla", "voce soave").
Nella poesia: "Chiare fresche e dolci acque" Petrarca dice che la donna "pare", cioè appare, non è quindi reale o descritta in modo realistico. A differenza di Beatrice, Laura non provoca nell'amante modificazioni e scelte radicali; Petrarca non concepisce Laura come una cosa che può elevarlo a Dio, ma anzi è una cosa che attira i suoi
sensi, riuscendo così a legarlo alla materia, al suo desiderio irrealizzabile di possedere l'oggetto dell'amore.
Per questo l’io interiore di Petrarca si trova diviso tra il desiderio carnale di amare Laura e il voler compiere una vita virtuosa nella fede (tema del DISSIDIO INTERIORE, sempre presente nelle opere di Petrarca)
Da questa situazione nasce la necessità di fare poesia.
- Per Dante la poesia nasce dall'incontro con Beatrice
- Per Petrarca il bisogno di scrivere poesia nasce invece dall'interno del poeta, dall'esigenza di ritrovare un equilibrio nell'io diviso tra l'essere attratto da una causa effimera, come può essere l'amore carnale, e la volontà di vivere una vita virtuosa nella fede.
Nel Canzoniere, le poesie "in morte" di Laura (dal numero 267 al 366) sono testi eccezionali, in cui il pentimento e l'aspirazione alla salvezza si intrecciano con la visione della donna che riappare in vesti diverse. Altre poesie sono rivolte all'analisi interiore, alla ricerca di una pace assoluta che ponga fine per sempre ai turbamenti e alle contraddizioni che il poeta ha vissuto. Laura si è trasformata sempre più in un’immagine che conforta e guida il poeta all’esame di sé e alla salvezza.

Il Canzoniere è un'opera in volgare composta da 366 poesie:

- 317 sonetti
- 29 canzoni
- 9 sestine
- 7 ballate
- 4 madrigali

Protagonista è il Petrarca stesso, non il tema dell'AMORE che pure è molto presente in tutte le variabili:

- Passione
- Tormento per la ritrosia di Laura
- Dolore per la morte di Laura
- Ricusazione l’errore giovanile

TEMI:

1. AMORE (ma v. sopra)
2. ANGOSCIA DELLA SOLITUDINE, ma anche RICERCA DELLA SOLITUDINE come fonte di quiete
3. PAURA DI PERDERSI NELLA CONFUSIONE TRA REALTÀ E IMMAGINAZIONE
4. PREGHIERA
5. LAURA: NON È DESCRITTA FISICAMENTE come personaggio realistico, è ridotta a singoli elementi: capelli – occhi – labbra - seno
- È VIVA solo nel SENTIMENTO di Petrarca, nella FANTASIA
- È FIGURA REALE ma LONTANA, IRRAGGIUNGIBILE
- È simbolo di FELICITA' TERRENA COMPLETA, VITA BELLA, desiderata ma irraggiungibile

La MORTE DI LAURA è occasione di aumento dell'INCERTEZZA in Petrarca = OGNI SOGNO TERRENO E’ DUNQUE INUTILE. Petrarca si rivolge a Dio con più ansia.

La MORTE DI LAURA è occasione di aumento dell?INCERTEZZA in Petrarca = OGNI SOGNO TERRENO E’DUNQUE INUTILE. Petrarca si rivolge a Dio con più ansia.

Petrarca tende a dare alla storia con Laura valore universale = è una condizione comune a tutti gli uomini.
L'AMORE E' DESIDERIO, MA LA FEDE RELISIOSA di Petrarca gli fa scegliere di NON SODDISFARLO - prova però costante senso di colpa per aver provato la passione La donna amata è ESALTATA per la sua SPIRITUALITA' ma non perde i CARATTERI FISICI - ma questo fa nascere senso di colpa: la donna allontana dalla spiritualità.

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TRIUMPHUS CUPIDINIS
[ TRIONFO DELL'AMORE ]

I
        Al tempo che rinova i mie' sospiri
    per la dolce memoria di quel giorno
    che fu principio a sí lunghi martiri,
        già il Sole al Toro l'uno e l'altro corno
    scaldava, e la fanciulla di Titone
    correa gelata al suo usato soggiorno.
        Amor, gli sdegni e 'l pianto e la stagione
    ricondotto m'aveano al chiuso loco
    ov' ogni fascio il cor lasso ripone.
        Ivi fra l'erbe, già del pianger fioco,
    vinto dal sonno, vidi una gran luce
    e dentro, assai dolor con breve gioco,
        vidi un vittorioso e sommo duce
    pur com' un di color che 'n Campidoglio
    triunfal carro a gran gloria conduce.
        I' che gioir di tal vista non soglio
    per lo secol noioso in ch' i' mi trovo,
    voto d'ogni valor, pien d'ogn' orgoglio,
        l' abito in vista sí leggiadro e novo
    mirai, alzando gli occhi gravi e stanchi,
    ch' altro diletto che 'nparar non provo:
        quattro destrier vie piú che neve bianchi;
    sovr' un carro di foco un garzon crudo
    con arco in man e con saette a' fianchi;
        nulla temea, però non maglia o scudo,
    ma sugli omeri avea sol due grand' ali
    di color mille, tutto l' altro ignudo;
        d'intorno innumerabili mortali,
    parte presi in battaglia e parte occisi,
    parte feriti di pungenti strali.
        Vago d' udir novelle oltra mi misi
    tanto ch' io fui in esser di quegli uno
    che per sua man di vita eran divisi.
        Allor mi strinsi a rimirar s' alcuno
    riconoscessi ne la folta schiera
    del re sempre di lagrime digiuno.
        Nessun vi riconobbi, e s' alcun v' era
    di mia notizia, avea cangiata vista
    per morte o per prigion crudele e fera.
       
==>SEGUE

Un' ombra alquanto men che l'altre trista
    mi venne incontra e mi chiamò per nome,
    dicendo: « Or questo per amar s' acquista! »
        Ond'io meravigliando dissi: « Or, come
    conosci me, ch' io te non riconosca? »
    Ed ei: « Questo m' aven per l' aspre some
        de' legami ch' io porto, e l' aer fosca
    contende agli occhi tuoi; ma vero amico
    ti son, e teco nacqui in terra tosca ».
        Le sue parole e 'l ragionare antico
    scoverson quel che 'l viso mi celava;
    e cosí n' assidemmo in loco aprico.
        E' cominciò: « Gran tempo è ch' io pensava
    vederti qui fra noi, ché da' primi anni
    tal presagio di te tua vita dava ».
        « E' fu ben ver, ma gli amorosi affanni
    mi spaventâr sí ch' io lasciai la 'mpresa;
    ma squarciati ne porto il petto e' panni ».
        Cosí diss'io; ed e', quando ebbe intesa
    la mia risposta, sorridendo disse:
    « Oh figliuol mio, qual per te fiamma è accesa! »
        Io no l'intesi allor; ma or sí fisse
    sue parole mi trovo entro la testa,
    che mai piú saldo in marmo non si scrisse;
        e per la nova età, ch' ardita e presta
    fa la mente e la lingua, il demandai:
    « Dimmi, per cortesia, che gente è questa? »
        « Di qui a poco tempo tel saprai
    per te stesso » rispose « e sarai d' elli,
    tal per te nodo fassi, e tu no 'l sai;
        e prima cangerai volto e capelli
    che 'l nodo di ch' io parlo si discioglia
    dal collo e da' tuo' piedi anco rebelli.
        Ma per empier la tua giovenil voglia
    dirò di noi, e 'n prima del maggiore
    che cosí vita e libertà ne spoglia.
        Questi è colui che 'l mondo chiama Amore:
    amaro come vedi, e vedrai meglio
    quando fia tuo, com' è nostro signore;
        giovencel mansueto, e fiero veglio:
    ben sa chi 'l prova e fíate cosa piana
    anzi mill' anni; in fin ad or ti sveglio.
        Ei nacque d' ozio e di lascivia umana,
    nudrito di penser' dolci soavi,
   
==>SEGUE

fatto signor e dio da gente vana.
        Qual è morto da lui, qual con piú gravi
    leggi mena sua vita aspra ed acerba
    sotto mille catene e mille chiavi.
        Quel che 'n sí signorile e sí superba
    vista vien primo è Cesar, che 'n Egitto
    Cleopatra legò tra' fiori e l'erba.
        Or di lui si triunfa: ed è ben dritto,
    s' e' vinse il mondo, ed altri à vinto lui,
    che del suo vincitor sia gloria il vitto.
        L'altro è suo figlio, e pure amò costui,
    piú giustamente: egli è Cesare Augusto,
    che Livia sua, pregando, tolse altrui.
        Neron è il terzo, dispietato e 'ngiusto;
    vedilo andar pien d' ira e di disdegno:
    femina il vinse, e par tanto robusto.
        Vedi 'l buon Marco d'ogni laude degno,
    pien di filosofia la lingua e 'l petto,
    ma pur Faustina il fa qui star a segno.
        Que' duo pien di paura e di sospetto,
    l' un è Dionisio e l' altr' è Alessandro:
    ma quel di suo temer à degno effetto.
        L'altro è colui che pianse sotto Antandro
    la morte di Creusa, e 'l suo amor tolse
    a que' che 'l suo figliuol tolse ad Evandro.
        Udito ài ragionar d'un che non volse
    consentir al furor de la matrigna
    e da' suoi preghi per fuggir si sciolse,
        ma quella intenzion casta e benigna
    l'occise, sí l'amore in odio torse
    Fedra, amante terribile e maligna:
        ed ella ne morio, vendetta forse
    d'Ippolito e di Teseo e d'Adrianna,
    ch' a morte, tu 'l sai bene, amando corse;
        tal biasma altrui che se stesso condanna,
    ché, chi prende diletto di far frode,
    non si de' lamentar s' altri lo 'nganna.
        Vedi 'l famoso, con sua tanta lode,
    preso menar tra due sorelle morte:
    l'una di lui ed ei de l' altra gode!
        Colui ch' è seco è quel possente e forte
    Ercole, ch' Amor prese, e l'altro è Achille,
    ch' ebbe in suo amar assai dogliose sorte.
        Quello è Demofoon e quella è Fille;
   
==>SEGUE


quell' è Giasone e quell' altra è Medea,
    ch' Amor e lui seguío per tante ville;
        e quanto al padre ed al fratel piú rea,
    tanto al suo amante è piú turbata e fella,
    ché del suo amor piú degna esser credea.
        Isifile vien poi, e duolsi anch' ella
    del barbarico amor, che 'l suo l'à tolto.
    Poi ven colei ch' à 'l titol d' esser bella.
        Seco è 'l pastor che male il suo bel volto
    mirò sí fiso, ond'uscir gran tempeste,
    e funne il mondo sottosopra vòlto.
        Odi poi lamentar fra l'altre meste
    Enone di París, e Menelao
    d'Elena, ed Ermion chiamare Oreste,
        e Laodamia il suo Protesilao,
    ed Argia Polinice, assai piú fida
    che l' avara mogliera d'Anfiarao!
        Odi 'l pianto e i sospiri, odi le strida
    de le misere accese, che li spirti
    rendero a lui che 'n tal modo gli guida.
        Non poria mai di tutti il nome dirti
    che non uomini pur, ma dèi gran parte
    empion del bosco e degli ombrosi mirti.
        Vedi Venere bella e con lei Marte,
    cinto di ferri i piè, le braccia e 'l collo,
    e Plutone e Proserpina in disparte.
        Vedi Iunon gelosa, e 'l biondo Apollo
    che solea disprezzar l' etate e l' arco
    che gli diede in Tesaglia poi tal crollo!
        Che debb' io dire? In un passo men varco:
    tutti son qui in prigion gli dèi di Varro,
    e di lacciuoli innumerabil carco
        ven catenato Giove innanzi al carro ».

II
        Stanco già di mirar, non sazio ancora,
    or quinci or quindi mi volgea guardando
    cose ch' a ricordarle è breve l'ora.
        Giva 'l cor di pensiero in pensier, quando
    tutto a sé il trasser due che a mano a mano
    passavan dolcemente lagrimando.
        Mossemi il lor leggiadro abito e strano
    e 'l parlar pellegrin, che m'era oscuro,
    ma l'interprete mio mel facea piano.
       
==>SEGUE

Padre m'era in onore, in amor figlio,
    fratel negli anni; onde obedir convenne,
    ma col cor tristo e con turbato ciglio.
        Cosí questa mia cara a morte venne;
    ché, vedendosi giunta in forza altrui,
    morir in prima che servir sostenne;
        ed io del dolor mio ministro fui,
    ché 'l pregator e i preghi eran sí ardenti
    ch' offesi me per non offender lui,
        e mandâle 'l velen con sí dolenti
    pensier' com' io so bene, ed ella il crede
    e tu, se tanto o quanto d'amor senti.
        Pianto fu 'l mio di tanta sposa erede:
    lei, ed ogni mio bene, ogni speranza
    perder elessi per non perder fede.
        Ma cerca omai se trovi in questa danza
    notabil cosa, perché 'l tempo è leve
    e piú de l'opra che del giorno avanza ».
        Pien di pietate, e ripensando il breve
    spazio al gran foco di duo tali amanti,
    pareami al sol aver un cor di neve;
        quand'io udi' dir su, nel passar avanti:
    « Costui certo per sé già non mi spiace,
    ma ferma son d'odiarli tutti quanti ».
        « Pon' » diss'io « il core, o Sofonisba, in pace,
    che Cartagine tua per le man nostre
    tre volte cadde, ed a la terza giace ».
        Ed ella: « Altro vogl'io che tu mi mostre;
    s'Affrica pianse, Italia non ne rise:
    dimandatene pur l'istorie vostre ».
        A tanto il nostro e suo amico si mise
    sorridendo con lei nella gran calca,
    e fur da lor le mie luci divise.
        Come uom che per terren dubio cavalca,
    che va restando ad ogni passo e guarda,
    e 'l pensier de l'andar molto difalca,
        cosí l'andata mia dubiosa e tarda
    facean gli amanti; di che ancor m'aggrada
    saver quanto ciascun, e 'n qual foco arda.
        I' vidi ir a man manca un fuor di strada,
    a guisa di chi brami e trovi cosa
    onde poi vergognoso e lieto vada:
        donar altrui la sua diletta sposa...
    o sommo amore e nova cortesia!
    tal ch'ella stessa lieta e vergognosa

==>SEGUE

Poi che seppi chi eran, piú securo
    m'accostai a lor, ché l'un spirito amico
    al nostro nome, l'altro era empio e duro.
        Fecimi al primo: « O Massinissa antico,
    per lo tuo Scipione e per costei »
    cominciai « non t'incresca quel ch' i' dico ».
        Mirommi, e disse: « Volentier saprei
    chi tu se' innanzi, da poi che sí bene
    hai spiato ambeduo gli affetti miei ».
        « L'esser mio » gli risposi « non sostene
    tanto conoscitor, ché cosí lunge
    di poca fiamma gran luce non vène;
        ma tua fama real per tutto aggiunge,
    e tal che mai non ti vedrà, né vide,
    con bel nodo d'amor teco congiunge.
        Or dimmi, se colui in pace vi guide, »
    e mostrai 'l duca lor, « che coppia è questa
    che mi par delle cose rade e fide? »
        « La lingua tua, al mio nome sí presta,
    prova » diss' ei « che 'l sappi per te stesso,
    ma dirò per sfogar l'anima mesta.
        Avend'io in quel sommo uom tutto 'l cor messo,
    tanto ch'a Lelio ne do vanto a pena,
    ovunque fur sue insegne, e fui lor presso.
        A lui Fortuna fu sempre serena,
    ma non già quanto degno era 'l valore,
    del qual, piú d'altro mai, l'alma ebbe piena.
        Poi che l'arme romane a grande onore
    per l'estremo occidente furo sparse,
    ivi n'aggiunse e ne congiunse Amore;
        né mai piú dolce fiamma in duo cori arse,
    né farà, credo. O me! ma poche notti
    fur a tanti desir' sí brevi e scarse,
        indarno a marital giogo condotti,
    ché del nostro furor scuse non false,
    e i legittimi nodi furon rotti.
        Quel che sol piú che tutto 'l mondo valse
    ne dipartí con sue sante parole,
    ché di nostri sospir nulla gli calse;
        e ben che fosse onde mi dolse e dole,
    pur vidi in lui chiara virtute accesa,
    ché 'n tutto è orbo chi non vede il sole.
        Gran giustizia agli amanti è grave offesa;
    però di tanto amico un tal consiglio
    fu quasi un scoglio a l'amorosa impresa.
       
==>SEGUE
parea del cambio! E givansi per via
    parlando insieme de' lor dolci affetti
    e sospirando il regno di Soria.
        Trassimi a que' tre spirti, che ristretti
    eran già per seguire altro camino,
    e dissi al primo: « I' prego che t'aspetti ».
        Ed egli, al suon del ragionar latino,
    turbato in vista, si rattenne un poco;
    e poi, del mio voler quasi indivino,
        disse: « Io Seleuco son, questi è Antiòco
    mio figlio, che gran guerra ebbe con voi;
    ma ragion contra forza non à loco.
        Questa, mia in prima, sua donna fu poi,
    ché per scamparlo d'amorosa morte
    gliel diedi, e 'l don fu lecito tra noi.
        Stratonica è 'l suo nome, e nostra sorte,
    come vedi, indivisa; e per tal segno
    si vede il nostro amor tenace e forte:
        ch' è contenta costei lasciar me e 'l regno,
    io il mio diletto, e questi la sua vita,
    per far, vie piú che sé, l'un l'altro degno;
        e se non fosse la discreta aita
    del fisico gentil, che ben s'accorse,
    l'età sua in sul fiorir era finita.
        Tacendo, amando, quasi a morte corse;
    e l'amar forza, e 'l tacer fu virtute,
    la mia, vera pietà, ch'a lui soccorse ».
        Cosí disse; e, come uom che voler mute,
    col fin de le parole i passi volse,
    ch' a pena gli potei render salute.
        Poi che dagli occhi miei l'ombra si tolse,
    rimasi grave e sospirando andai,
    ché 'l mio cor dal suo dir non si disciolse,
        infin che mi fu detto: « Troppo stai
    in un penser a le cose diverse;
    e 'l tempo ch' è brevissimo, ben sai ».
        Non menò tanti armati in Grecia Serse
    quanti ivi erano amanti ignudi e presi,
    tal che l'occhio la vista non sofferse:
        varii di lingue, e varii di paesi,
    tanto che di mille un non seppi il nome,
    e fanno istoria quei pochi ch' i' 'ntesi.
        Perseo era l'uno, e volli saper come
    Andromeda gli piacque in Etiopia,
    vergine bruna i begli occhi e le chiome;
       
==>SEGUE
ivi il vano amador che la sua propia
    bellezza desiando fu distrutto,
    povero sol per troppo averne copia,
        ché divenne un bel fior senz' alcun frutto;
    e quella che, lui amando, ignuda voce
    fecesi, e 'l corpo un duro sasso asciutto.
        Ivi quell'altro al suo mal sí veloce,
    Ifi, ch'amando altrui in odio s'ebbe,
    con piú altri dannati a simil croce:
        gente cui per amar viver increbbe,
    ove raffigurai alcun de' moderni
    ch'a nominar perduta opra sarebbe:
        que' duo che fece Amor compagni eterni,
    Alcione e Ceice, in riva al mare
    far i lor nidi a' piú soavi verni;
        lungo costor pensoso Esaco stare
    cercando Esperia, or sopra un sasso assiso,
    ed or sott'acqua ed or alto volare.
        E vidi la crudel figlia di Niso
    fuggir volando, e correr Atalanta,
    da tre palle d'or vinta, e d'un bel viso;
        e seco Ipomenes che, fra cotanta
    turba d'amanti miseri cursori,
    sol di vittoria si rallegra e vanta.
        Fra questi fabulosi e vani amori
    vidi Aci e Galatea, che 'n grembo gli era,
    e Polifemo farne gran romori;
        Glauco ondeggiar per entro quella schiera
    senza colei cui sola par che pregi,
    nomando un' altr' amante acerba e fera;
        Canente e Pico, un già de' nostri regi,
    or vago augello, e chi di stato il mosse
    lasciògli il nome e 'l real manto e i fregi.
        Vidi 'l pianto d'Egeria; e 'n vece d'osse
    Scilla indurarse in petra aspra ed alpestra,
    che del mar ciciliano infamia fosse;
        e quella che la penna da man destra,
    come dogliosa e desperata scriva,
    e 'l ferro ignudo tien da la sinestra;
        Pigmalion con la sua donna viva;
    e mille che Castalia ed Aganippe
    udir cantar per la sua verde riva;
        e d'un pomo beffata al fin Cidippe.



III
        Era sí pieno il cor di meraviglie,
    ch' i' stava come l'uom che non pò dire,
    e tace, e guarda pur ch' altri 'l consiglie,
        quando l'amico mio: « Che fai? che mire?
    che pensi? » disse « non sai tu ben ch' io
    son della turba, e mi convien seguire? »
        « Frate, » risposi « e tu sai l' esser mio,
    e l' amor del saper che m'à sí acceso
    che l'opra è ritardata dal desio ».
        Ed egli: « I' t' avea già, tacendo, inteso:
    tu vuoi udir chi son quest' altri ancora.
    I' tel dirò, se 'l dir non è conteso.
        Vedi quel grande il quale ogni uomo onora:
    egli è Pompeo, ed à Cornelia seco,
    che del vil Tolomeo si lagna e plora.
        L'altro piú di lontan, quel è 'l gran Greco,
    né vede Egisto e l'empia Clitemestra:
    or puoi veder Amor s' egli è ben cieco!
        Altra fede, altro amor: vedi Ipermestra,
    vedi Piramo e Tisbe inseme a l'ombra,
    Leandro in mare ed Ero a la fenestra.
        Quel sí pensoso è Ulisse, affabile ombra,
    che la casta mogliera aspetta e prega,
    ma Circe, amando, gliel ritene e 'ngombra.
        L'altro è 'l figliuol d'Amilcare, e no 'l piega
    in cotant' anni Italia tutta e Roma:
    vil feminella in Puglia il prende e lega.
        Quella che 'l suo signor con breve coma
    va seguitando, in Ponto fu reina:
    come in atto servil se stessa doma!
        L'altra è Porzia, che 'l ferro e 'l foco affina,
    quell' altra è Giulia, e duolsi del marito
    ch' a la seconda fiamma piú s'inchina.
        Volgi in qua gli occhi al gran padre schernito,
    che non si muta, e d'aver non gli 'ncresce
    sette e sett'anni per Rachel servito:
        vivace amor che negli affanni cresce!
    Vedi 'l padre di questo, e vedi l' avo,
    come di sua magion sol con Sara esce.
        Poi vedi come Amor crudele e pravo
    vince Davit e sforzalo a far l' opra
    onde poi pianga in loco oscuro e cavo.
        Simile nebbia par ch' oscuri e copra
   
==>SEGUE
del piú saggio figliuol la chiara fama
    e 'l parta in tutto dal Signor di sopra.
        Dell'altro, che 'n un punto ama e disama,
    vedi Tamar ch' al suo frate Absalone
    disdegnosa e dolente si richiama.
        Poco dinanzi a lei vedi Sansone,
    vie piú forte che saggio, che per ciance
    in grembo a la nemica il capo pone.
        Vedi qui ben fra quante spade e lance
    Amor, e 'l sonno, ed una vedovetta
    con bel parlar, con sue polite guance,
        vince Oloferne; e lei tornar soletta,
    con una ancilla e con l' orribil teschio,
    Dio ringraziando, a mezza notte, in fretta.
        Vedi Sichem e 'l suo sangue, ch' è meschio
    de la circoncisione e de la morte,
    e 'l padre colto e 'l popolo ad un veschio:
        questo gli à fatto il subito amar forte!
    Vedi Assuero il suo amor in qual modo
    va medicando, a ciò che 'n pace il porte:
        da l' un si scioglie, e lega a l' altro nodo;
    cotal à questa malizia remedio
    come d' asse si trae chiodo con chiodo.
        Vuo' veder in un cor diletto e tedio,
    dolce ed amaro? or mira il fero Erode:
    amore e crudeltà gli àn posto assedio.
        Vedi com' arde in prima, e poi si rode,
    tardi pentito di sua feritate,
    Marianne chiamando, che non l' ode.
        Vedi tre belle donne innamorate:
    Procri, Artemisia, con Deidamia;
    ed altrettante ardite e scelerate,
        Semiramís, Biblí e Mirra ria,
    come ciascuna par che si vergogni
    de la sua non concessa e torta via!
        Ecco quei che le carte empion di sogni,
    Lancilotto, Tristano e gli altri erranti,
    ove conven che 'l vulgo errante agogni.
        Vedi Ginevra, Isolda, e l' altre amanti,
    e la coppia d' Arimino che 'nseme
    vanno facendo dolorosi pianti ».
        Cosí parlava, ed io, come chi teme
    futuro male e trema anzi la tromba,
    sentendo già dov' altri anco no 'l preme,
        avea color d'uom tratto d'una tomba,
  
==>SEGUE
quand' una giovenetta ebbi dallato,
    pura assai piú che candida colomba.
        Ella mi prese; ed io, ch' avrei giurato
    difendermi d' un uom coverto d'arme,
    con parole e con cenni fui legato;
        e come ricordar di vero parme,
    l'amico mio piú presso mi si fece,
    e, con un riso, per piú doglia darme,
        dissemi entro l'orecchia: « Ormai ti lece
    per te stesso parlar con chi ti piace,
    ché tutti siam macchiati d' una pece ».
        Io era un di color cui piú dispiace
    de l' altrui ben che del suo mal, vedendo
    chi m' avea preso, in libertate e 'n pace;
        e, come tardi dopo 'l danno intendo,
    di sue bellezze mia morte facea,
    d'amor, di gelosia, d'invidia ardendo.
        Gli occhi dal suo bel viso non torcea,
    come uom ch' è infermo e di tal cosa ingordo
    ch' è dolce al gusto, a la salute è rea.
        Ad ogni altro piacer cieco era e sordo,
    seguendo lei per sí dubbiosi passi
    ch' i' tremo ancor, qualor me ne ricordo.
        Da quel tempo ebbi gli occhi umidi e bassi
    e 'l cor pensoso, e solitario albergo
    fonti, fiumi, montagne, boschi e sassi;
        da indi in qua cotante carte aspergo
    di penseri, e di lagrime, e di 'nchiostro,
    tante ne squarcio, e n' apparecchio, e vergo;
        da indi in qua so che si fa nel chiostro
    d'Amor, e che si teme, e che si spera,
    e, chi sa lègger, ne la fronte il mostro;
        e veggio andar quella leggiadra fera
    non curando di me né di mie pene,
    di sue vertuti e di mie spoglie altera.
        Da l' altra parte, s' io discerno bene,
    questo signor, che tutto 'l mondo sforza,
    teme di lei, ond' io son fuor di spene,
        ch' a mia difesa non ò ardir né forza,
    e quello, in ch' io sperava, lei lusinga,
    che me e gli altri crudelmente scorza.
        Costei non è chi tanto o quanto stringa,
    cosí selvaggia e rebellante suole
    da le 'nsegne d'Amore andar solinga:
        e veramente è fra le stelle un sole;
   
   ==>SEGUE
un singular suo proprio portamento,
    suo riso, suoi disdegni e sue parole;
        le chiome accolte in oro o sparse al vento,
    gli occhi, ch' accesi d' un celeste lume
    m'infiamman sí ch' i' son d' arder contento.
        Chi poria 'l mansueto alto costume
    aguagliar mai, parlando, e la vertute,
    ov' è 'l mio stil quasi al mar picciol fiume?
        Nove cose, e già mai piú non vedute,
    né da veder già mai piú d' una volta,
    ove tutte le lingue sarien mute!
        Cosí preso mi trovo, ed ella è sciolta;
    io prego giorno e notte, o stella iniqua!
    ed ella a pena di mille uno ascolta.
        Dura legge d'Amor! ma benché obliqua,
    servar convensi, però ch' ella aggiunge
    di cielo in terra, universale, antiqua.
        Or so come da sé 'l cor si disgiunge
    e come sa far pace, guerra e tregua,
    e coprir suo dolor, quand' altri il punge;
        e so come in un punto si dilegua
    e poi si sparge per le guance il sangue,
    se paura o vergogna aven che 'l segua;
        so come sta tra' fiori ascoso l' angue,
    come sempre tra due si vegghia e dorme,
    come senza languir si more e langue;
        so de la mia nemica cercar l'orme
    e temer di trovarla, e so in qual guisa
    l'amante ne l'amato si trasforme;
        so fra lunghi sospiri e brevi risa
    stato, voglia, color cangiare spesso,
    viver stando dal cor l' alma divisa;
        so mille volte il dí ingannar me stesso,
    so, seguendo 'l mio foco ovunque e' fugge,
    arder da lunge ed agghiacciar da presso.
        So come Amor sovra la mente rugge
    e come ogni ragione indi discaccia;
    e so in quante maniere il cor si strugge.
        So di che poco canape s' allaccia
    un' anima gentil, quand'ella è sola
    e non v'è chi per lei difesa faccia;
        so come Amor saetta e come vola
    e so com' or minaccia ed or percote,
    come ruba per forza e come invola,
        e come sono instabili sue rote,
  
==>SEGUE


le mani armate, e gli occhi avolti in fasce,
    sue promesse di fé come son vote,
        come nell' ossa il suo foco si pasce,
    e ne le vene vive occulta piaga,
    onde morte e palese incendio nasce,
        ché poco dolce molto amaro appaga.

IV
        Poscia che mia fortuna in forza altrui
    m'ebbe sospinto, e tutti incisi i nervi
    di libertate, ov' alcun tempo fui,
        io, ch' era piú salvatico che i cervi,
    ratto domesticato fui con tutti
    i miei infelici e miseri conservi;
        e le fatiche lor vidi, e i lor frutti,
    per che torti sentieri e con qual arte
    all'amorosa greggia eran condutti.
        Mentre io volgeva gli occhi in ogni parte
    s' i' ne vedessi alcun di chiara fama
    o per antiche o per moderne carte,
        vidi colui che sola Euridice ama,
    lei segue all'inferno, e, per lei morto,
    con la lingua già fredda anco la chiama.
        Alceo conobbi, a dir d'Amor sí scorto,
    Pindaro, Anacreonte, che rimesse
    à le sue muse sol d'Amore in porto.
        Virgilio vidi; e parmi ch' egli avesse
    compagni d' alto ingegno e da trastullo,
    di quei che volentier già 'l mondo lesse:
        l'uno era Ovidio, e l' altro era Catullo,
    l' altro Properzio, che d'amor cantaro
    fervidamente, e l'altro era Tibullo.
        Una giovene Greca a paro a paro
    co i nobili poeti iva cantando,
    ed avea un suo stil soave e raro.
        Cosí, or quinci or quindi rimirando,
    vidi gente ir per una verde piaggia
    pur d' amor volgarmente ragionando:
        ecco Dante e Beatrice, ecco Selvaggia,
    ecco Cin da Pistoia, Guitton d'Arezzo,
    che di non esser primo par ch'ira aggia;
        ecco i duo Guidi che già fur in prezzo,
    Onesto Bolognese, e i Ciciliani,
    che fur già primi e quivi eran da sezzo;
           
   ==>SEGUE




Sennuccio e Franceschin, che fur sí umani
    come ogni uom vide; e poi v' era un drappello
    di portamenti e di volgari strani:
        fra tutti il primo Arnaldo Daniello,
    gran maestro d' amor, ch' a la sua terra
    ancor fa onor col suo dir strano e bello.
        Eranvi quei ch'Amor sí leve afferra:
    l'un Piero e l' altro, e 'l men famoso Arnaldo,
    e quei che fur conquisi con piú guerra:
        i' dico l' uno e l' altro Raimbaldo
    che cantò pur Beatrice e Monferrato,
    e 'l vecchio Pier d'Alvernia con Giraldo;
        Folco, que' ch' a Marsilia il nome à dato
    ed a Genova tolto, ed a l' estremo
    cangiò per miglior patria abito e stato;
        Giaufrè Rudel, ch' usò la vela e 'l remo
    a cercar la sua morte, e quel Guillielmo
    che per cantare à 'l fior de' suoi dí scemo;
        Amerigo, Bernardo, Ugo e Gauselmo,
    e molti altri ne vidi, a cui la lingua
    lancia e spada fu sempre e targia ed elmo.
        E, poi conven che 'l mio dolor distingua,
    volsimi a' nostri, e vidi 'l bon Tomasso,
    ch' ornò Bologna ed or Messina impingua.
        O fugace dolcezza! o viver lasso!
    Chi mi ti tolse sí tosto d'inanzi,
    senza 'l qual non sapea mover un passo?
        dove se' or, che meco eri pur dianzi?
    Ben è 'l viver mortal, che sí n' agrada,
    sogno d' infermi e fola di romanzi!
        Poco era fuor de la comune strada,
    quando Socrate e Lelio vidi in prima:
    con lor piú lunga via conven ch' io vada.
        O qual coppia d' amici! che né 'n rima
    poria, né 'n prosa ornar assai né 'n versi,
    se, come dee, virtù nuda s'estima.
        Con questi duo cercai monti diversi,
    andando tutti tre sempre ad un giogo;
    a questi le mie piaghe tutte apersi;
        da costor non mi pò tempo né luogo
    divider mai, sí come io spero e bramo,
    in fino al cener del funereo rogo;
        con costor colsi 'l glorioso ramo
    onde forse anzi tempo ornai le tempie
    in memoria di quella ch' io tanto amo.
       
   ==>SEGUE
Ma pur di lei che 'l cor di pensier' m' empie,
    non potei coglier mai ramo né foglia,
    sí fur le sue radici acerbe ed empie;
        onde, benché talor doler mi soglia
    come uom ch' è offeso, quel che con questi occhi
    vidi, m' è fren che mai piú non mi doglia:
        materia di coturni, e non di socchi,
    veder preso colui ch' è fatto deo
    da tardi ingegni, rintuzzati e sciocchi!
        Ma prima vo' seguir che di noi feo,
    e poi dirò quel che d'altrui sostenne:
    opra non mia: d' Omero o ver d' Orfeo.
        Seguimmo il suon delle purpuree penne
    de' volanti corsier per mille fosse,
    fin che nel regno di sua madre venne;
        né rallentate le catene o scosse,
    ma straccati per selve e per montagne,
    tal che nesun sapea in qual mondo fosse.
        Giace oltra, ove l' Egeo sospira e piagne
    un'isoletta delicata e molle
    piú d' altra che 'l sol scalde o che 'l mar bagne;
        nel mezzo è un ombroso e chiuso colle
    con sí soavi odor, con sí dolci acque,
    ch' ogni maschio pensier de l' alma tolle.
        Quest' è la terra che cotanto piacque
    a Venere e 'n quel tempo a lei fu sagra
    che 'l ver nascoso e sconosciuto giacque;
        ed anco è di valor sí nuda e magra,
    tanto riten del suo primo esser vile,
    che par dolce a' cattivi, ed a i buoni agra.
        Or quivi triunfò il signor gentile
    di noi e de gli altri tutti ch' ad un laccio
    presi avea dal mar d'India a quel di Tile:
        pensieri in grembo e vanitadi in braccio,
    diletti fuggitivi e ferma noia,
    rose di verno, a mezza state il ghiaccio,
        dubbia speme davanti e breve gioia,
    penitenzia e dolor dopo le spalle;
    sallo il regno di Roma e quel di Troia.
        E rimbombava tutta quella valle
    d'acque e d'augelli, ed eran le sue rive
    bianche, verdi, vermiglie, perse e gialle;
        rivi correnti di fontane vive
    al caldo tempo su per l' erba fresca,
    e l' ombra spessa, e l' aure dolci estive;
       
==>SEGUE



poi, quand' è 'l verno e l' aer si rinfresca,
    tepidi soli e giuochi e cibi ed ozio
    lento, che i semplicetti cori invesca.
        Era ne la stagion che l'equinozio
    fa vincitore il giorno, e Progne riede
    con la sorella al suo dolce negozio;
        o di nostre fortune instabil fede!
    In quel loco e 'n quel tempo ed in quell'ora
    che piú largo tributo agli occhi chiede,
        triunfar volse que' che 'l vulgo adora.
    E vidi a qual servaggio, ed a qual morte,
    a quale strazio va chi s' innamora.
        Errori e sogni ed imagini smorte
    eran d' intorno a l' arco triunfale
    e false opinioni in su le porte,
        e lubrico sperar su per le scale
    e dannoso guadagno ed util danno
    e gradi ove piú scende chi piú sale;
        stanco riposo e riposato affanno,
    chiaro disnore e gloria oscura e nigra,
    perfida lealtate e fido inganno,
        sollicito furor e ragion pigra;
    carcer ove si ven per strade aperte
    onde per strette a gran pena si migra;
        ratte scese a l' entrare, a l'uscir erte;
    dentro confusion turbida e mischia
    di certe doglie e d' allegrezze incerte.
        Non bollí mai Vulcan, Lipari od Ischia,
    Stromboli o Mongibello in tanta rabbia:
    poco ama sé chi 'n tal gioco s' arrischia.
        In cosí tenebrosa e stretta gabbia
    rinchiusi fummo, ove le penne usate
    mutai per tempo e la mia prima labbia;
        e 'ntanto, pur sognando libertate,
    l' alma, che 'l gran disio fea pronta e leve,
    consolai col veder le cose andate.
        Rimirando, er' io fatto al sol di neve,
    tanti spirti e sí chiari in carcer tetro,
    quasi lunga pittura in tempo breve,
        che 'l piè va inanzi e l'occhio torna a dietro.


TRIUMPHUS PUDICITIE
[ TRIONFO DELLA PUDICIZIA ]

        Quando ad un giogo ed in un tempo quivi
    domita l'alterezza degli dei
    e de gli uomini vidi al mondo divi,
        i' presi esempio de' lor stati rei,
    facendo mio profetto l' altrui male
    in consolar i casi e i dolor' mei;
        ché s' io veggio d'un arco e d' uno strale
    Febo percosso e 'l giovene d'Abido,
    l'un detto deo, l'altro uom puro mortale,
        e veggio ad un lacciuol Giunone e Dido,
    ch' amor pio del suo sposo a morte spinse,
    non quel d'Enea com' è 'l publico grido,
        non mi debb'io doler s' altri mi vinse
    giovene, incauto, disarmato e solo.
    E se la mia nemica Amor non strinse,
        non è ancor giusta assai cagion di duolo
    ché in abito il rividi ch' io ne piansi,
    sí tolte gli eran l' ali e 'l gire a volo.
        Non con altro romor di petto dansi
    duo leon feri, o duo folgori ardenti
    che cielo e terra e mar dar loco fansi,
        ch' i' vidi Amor con tutti suoi argomenti
    mover contra colei di ch' io ragiono,
    e lei presta assai piú che fiamme o venti.
        Non fan sí grande e sí terribil sòno
    Etna qualor da Encelado è piú scossa,
    Scilla e Cariddi quando irate sono,
        che via maggiore in su la prima mossa
    non fosse del dubbioso e grave assalto,
    ch' i' non cre' che ridir sappia né possa.
        Ciascun per sé si ritraeva in alto
    per veder meglio, e l'orror de l' impresa
    i cori e gli occhi avea fatti di smalto.
        Quel vincitor che primo era a l' offesa,
    da man dritta lo stral, da l' altra l' arco,
    e la corda a l'orecchia avea già stesa.
        Non corse mai sí levemente al varco
    d' una fugace cerva un leopardo
    libero in selva o di catene scarco,
        che non fosse stato ivi lento e tardo,
    tanto Amor pronto venne a lei ferire
   
    ==>SEGUE


ch' al volto à le faville ond'io tutto ardo.
        Combattea in me co la pietà il desire,
    che dolce m' era sí fatta compagna,
    duro a vederla in tal modo perire.
        Ma vertù, che da' buon non si scompagna,
    mostrò a quel punto ben come a gran torto
    chi abbandona lei d' altrui si lagna;
        ché già mai schermidor non fu sí accorto
    a schifar colpo, né nocchier sí presto
    a volger nave dagli scogli in porto,
        come uno schermo intrepido ed onesto
    subito ricoverse quel bel viso
    dal colpo, a chi l'attende, agro e funesto.
        Io era al fin co gli occhi e col cor fiso,
    sperando la vittoria ond' esser sòle,
    e di non esser piú da lei diviso.
        Come chi smisuratamente vole,
    ch' à scritte, inanzi ch' a parlar cominci,
    ne gli occhi e ne la fronte le parole,
        volea dir io: « Signor mio, se tu vinci,
    legami con costei, s' io ne son degno,
    né temer che già mai mi scioglia quinci! »,
        quand'io 'l vidi pien d'ira e di disdegno
    sí grave ch' a ridirlo sarien vinti
    tutti i maggior, non che 'l mio basso ingegno;
        ché già in fredda onestate erano estinti
    i dorati suoi strali, accesi in fiamma
    d'amorosa beltate e 'n piacer tinti.
        Non ebbe mai di vero valor dramma
    Camilla e l' altre andar use in battaglia
    con la sinistra sola intera mamma,
        non fu sí ardente Cesare in Farsaglia
    contra 'l genero suo, com' ella fue
    contra colui ch' ogni lorica smaglia.
        Armate eran con lei tutte le sue
    chiare Virtuti, o gloriosa schiera!
    e teneansi per mano a due a due:
        Onestate e Vergogna a la fronte era,
    nobile par de le vertú divine
    che fan costei sopra le donne altèra;
        Senno e Modestia a l' altre due confine,
    Abito con Diletto in mezzo 'l core,
    Perseveranza e Gloria in su la fine;
        Bella Accoglienza, Accorgimento fore,
    Cortesia intorno intorno e Puritate,
  
    ==>SEGUE
Timor d'infamia e Desio sol d' onore;
        Penser' canuti in giovenile etate,
    e (la concordia ch' è sí rara al mondo)
    v'era con Castità somma Beltate.
        Tal venia contr'Amore, e 'n sí secondo
    favor del cielo e de le ben nate alme,
    che de la vista e' non sofferse il pondo.
        Mille e mille famose e care salme
    tôrre gli vidi, e scuotergli di mano
    mille vittoriose e chiare palme.
        Non fu il cader di subito sí strano
    dopo tante vittorie ad Aniballe,
    vinto alla fin dal giovene Romano;
        non giacque sí smarrito ne la valle
    di Terebinto quel gran Filisteo
    a cui tutto Israel dava le spalle,
        al primo sasso del garzon ebreo;
    né Ciro in Scizia, ove la vedova orba
    la gran vendetta e memorabil feo.
        Com' uom ch' è sano e 'n un momento ammorba,
    che sbigottisce e duolsi, o colto in atto
    che vergogna con man dagli occhi forba,
        cotale era egli, e tanto a peggior patto,
    che paura e dolor, vergogna ed ira
    eran nel volto suo tutte ad un tratto.
        Non freme cosí 'l mar quando s' adira,
    non Inarime allor che Tifeo piagne,
    né Mongibel s' Encelado sospira.
        Passo qui cose gloriose e magne
    ch' io vidi e dir non oso; a la mia donna
    vengo ed all' altre sue minor compagne.
        Ell' avea in dosso, il dí, candida gonna,
    lo scudo in man che mal vide Medusa.
    D' un bel diaspro er' ivi una colonna,
        a la qual d' una in mezzo Lete infusa
    catena di diamante e di topazio,
    che s' usò fra le donne, oggi non s' usa,
        legarlo vidi e farne quello strazio
    che bastò ben a mille altre vendette;
    ed io per me ne fui contento e sazio.
        I' non poria le sacre e benedette
    vergini, ch' ivi fur, chiudere in rima,
    non Calliope e Clio con l' altre sette;
        ma d' alquante dirò che 'n su la cima
    son di vera onestate; in fra le quali
   
==>SEGUE

Lucrezia da man destra era la prima,
        l'altra Penelopè: queste gli strali
    avean spezzato e la faretra a lato
    a quel protervo, e spennachiato l' ali.
        Verginia apresso e 'l fero padre armato
    di disdegno e di ferro e di pietate,
    ch' a sua figlia ed a Roma cangiò stato,
        l' una e l' altra ponendo in libertate;
    poi le Tedesche che con aspra morte
    servaron lor barbarica onestate;
        Iudith ebrea, la saggia, casta e forte,
    e quella Greca che saltò nel mare
    per morir netta e fuggir dura sorte.
        Con queste e con certe altre anime chiare
    triunfar vidi di colui che pria
    veduto avea del mondo triunfare.
        Fra l' altre la vestal vergine pia
    che baldanzosamente corse al Tibro
    e, per purgarsi d' ogni fama ria,
        portò del fiume al tempio acqua col cribro;
    poi vidi Ersilia con le sue Sabine,
    schiera che del suo nome empie ogni libro;
        poi vidi, fra le donne pellegrine,
    quella che per lo suo diletto e fido
    sposo, non per Enea, volse ire al fine:
        taccia 'l vulgo ignorante! io dico Dido,
    cui studio d' onestate a morte spinse,
    non vano amor, com è 'l publico grido.
        Al fin vidi una che si chiuse e strinse
    sovra Arno per servarsi, e non le valse,
    ché forza altrui il suo bel penser vinse.
        Era il triunfo dove l' onde salse
    percoton Baia, ch' al tepido verno
    giunse, e a man destra in terra ferma salse.
        Indi, fra monte Barbaro ed Averno,
    l'antichissimo albergo di Sibilla
    lassando, se n' ândar dritto a Literno.
        In cosí angusta e solitaria villa
    era il grand' uom che d' Affrica s' appella,
    perché prima col ferro al vivo aprilla.
        Qui de l'ostile onor l' alta novella,
    non scemato co gli occhi, a tutti piacque,
    e la piú casta v'era la piú bella;
        né 'l triunfo non suo seguire spiacque
    a lui che, se credenza non è vana,
   
==>SEGUE
sol per triunfi e per imperii nacque.
        Cosí giugnemmo a la città sovrana,
    nel tempio pria che dedicò Sulpizia
    per spegner ne la mente fiamma insana;
        passammo al tempio poi di Pudicizia
    ch' accende in cor gentil oneste voglie,
    non di gente plebeia, ma di patrizia.
        Ivi spiegò le gloriose spoglie
    la bella vincitrice, ivi depose
    le sue vittoriose e sacre foglie;
        e 'l giovene Toscan che non ascose
    le belle piaghe che 'l fer non sospetto,
    del comune nemico in guardia pose
        con parecchi altri (e fummi il nome detto
    d' alcun di lor, come mia scorta seppe),
    ch' avean fatto ad Amor chiaro disdetto:
        fra gli altri vidi Ipolito e Ioseppe.




TRIUMPHUS MORTIS
[ TRIONFO DELLA MORTE ]

I
        Quella leggiadra e gloriosa donna
    ch'è oggi ignudo spirto e poca terra
    e fu già di valor alta colonna,
        tornava con onor da la sua guerra,
    allegra, avendo vinto il gran nemico,
    che con suo' ingegni tutto il mondo atterra,
        non con altr' arme che col cor pudico
    e d' un bel viso e de' pensieri schivi,
    d' un parlar saggio e d' onestate amico.
        Era miracol novo a veder ivi
    rotte l' arme d' Amore, arco e saette,
    e tal morti da lui, tal presi e vivi.
        La bella donna e le compagne elette
    tornando da la nobile vittoria
    in un bel drappelletto ivan ristrette;
        poche eran, perché rara è vera gloria,
    ma ciascuna per sé parea ben degna
    di poema chiarissimo e d' istoria;
        era la lor vittoriosa insegna
    in campo verde un candido ermellino,
    ch' oro fino e topazi al collo tegna;
        non uman veramente, ma divino
    lor andar era, e lor sante parole:
    beato s' è qual nasce a tal destino!
        Stelle chiare pareano, in mezzo un sole
    che tutte ornava e non togliea lor vista,
    di rose incoronate e di viole.
        E come gentil cor onore acquista,
    cosí venía quella brigata allegra,
    quando vidi un' insegna oscura e trista;
        ed una donna involta in veste negra,
    con un furor qual io non so se mai
    al tempo de' giganti fusse a Flegra,
        si mosse e disse: « O tu, donna, che vai
    di gioventute e di bellezze altera,
    e di tua vita il termine non sai,
        io son colei che sí importuna e fera
    chiamata son da voi, e sorda e cieca
    gente, a cui si fa notte inanzi sera;
        io ò condutto al fin la gente greca
   
==>SEGUE


per la pietà di quell' alma gentile,
    chi 'l vide, il sa; tu 'l pensa che l' ascolte.
        L'ora prima era, il dí sesto d'aprile,
    che già mi strinse, ed or, lasso, mi sciolse:
    come Fortuna va cangiando stile!
        Nessun di servitú già mai si dolse
    né di morte quant' io di libertate
    e de la vita, ch'altri non mi tolse.
        Debito al mondo e debito a l' etate
    cacciar me innanzi, ch' ero giunto in prima,
    né a lui tôrre ancor sua dignitate!
        Or qual fusse 'l dolor qui non si stima,
    ch'a pena oso pensarne, non ch' io sia
    ardito di parlarne in versi o 'n rima.
        « Virtù mort' é, bellezza e leggiadria! »
    le belle donne intorno al casto letto
    triste diceano « omai di noi che fia?
        chi vedrà mai in donna atto perfetto?
    chi udirà il parlar di saver pieno
    e 'l canto pien d' angelico diletto? »
        Lo spirto, per partir di quel bel seno
    con tutte sue virtuti in sé romito,
    fatto era in quella parte il ciel sereno.
        Nesun de gli avversarii fu sí ardito
    ch' apparisse già mai con vista oscura
    fin che Morte il suo assalto ebbe fornito.
        Poi che, deposto il pianto e la paura,
    pur al bel volto era ciascuna intenta,
    per desperazion fatta sicura,
        non come fiamma che per forza è spenta,
    ma che per se medesma si consume,
    se n'andò in pace l'anima contenta,
        a guisa d'un soave e chiaro lume
    cui nutrimento a poco a poco manca,
    tenendo al fine il suo caro costume.
        Pallida no, ma piú che neve bianca
    che senza venti in un bel colle fiocchi,
    parea posar come persona stanca:
        quasi un dolce dormir ne' suo' belli occhi,
    sendo lo spirto già da lei diviso,
    era quel che morir chiaman gli sciocchi:
        morte bella parea nel suo bel viso.


II
        La notte che seguí l'orribil caso
    che spense il sole, anzi 'l ripose in cielo,
    di ch' io son qui come uom cieco rimaso,
        spargea per l' aere il dolce estivo gelo,
    che con la bianca amica di Titone
    suol da' sogni confusi tôrre il velo,
        quando donna sembiante a la stagione,
    di gemme orientali incoronata,
    mosse ver' me da mille altre corone,
        e quella man già tanto desiata
    a me, parlando e sospirando, porse,
    onde eterna dolcezza al cor m' è nata:
        « Riconosci colei che 'n prima torse
    i passi tuoi dal publico viaggio? »
    Come 'l cor giovenil di lei s'accorse,
        cosí, pensosa, in atto umile e saggio,
    s'assise e seder femmi in una riva
    la qual ombrava un bel lauro ed un faggio.
        « Come non conosco io l'alma mia diva? »
    risposi in guisa d' uom che parla e plora,
    « Dimmi pur, prego, s' tu se' morta o viva! ».
        « Viva son io, e tu se' morto ancora, »
    diss'ella « e sarai sempre, in fin che giunga
    per levarti di terra l' ultima ora.
        Ma 'l tempo è breve e nostra voglia è lunga;
    però t' avisa, e 'l tuo dir stringi e frena
    anzi che 'l giorno, già vicin, n' agiunga ».
        Ed io: « Al fin di questa altra serena
    ch' à nome vita, che per prova il sai,
    deh, dimmi se 'l morir è sí gran pena ».
        Rispose: « Mentre al vulgo dietro vai
    ed a la opinion sua cieca e dura,
    esser felice non puoi tu già mai.
        La morte è fin d' una pregione oscura
    all' anime gentili; all' altre è noia,
    ch' ànno posto nel fango ogni lor cura.
        Ed ora il morir mio, che sí t' annoia,
    ti farebbe allegrar, se tu sentissi
    la millesima parte di mia gioia ».
        Cosí parlava, e gli occhi avea al ciel fissi
    devotamente; poi mosse in silenzio
    quelle labbra rosate, in fin ch' i' dissi:
        « Silla, Mario, Neron, Gaio e Mezenzio,
 
==>SEGUE





  fianchi, stomachi, e febri ardenti fanno
    parer la morte amara piú ch' assenzio ».
        « Negar » disse « non posso che l' affanno,
    che va inanzi al morir, non doglia forte,
    e piú la tema de l' etterno danno;
        ma pur che l' alma in Dio si riconforte
    e 'l cor, che 'n se medesmo forse è lasso,
    che altro ch' un sospir breve è la morte?
        Io aveva già vicin l' ultimo passo,
    la carne inferma, e l' anima ancor pronta,
    quando udi' dir in un son tristo e basso:
        "O misero colui che' giorni conta,
    e pargli l' un mille anni! Indarno vive,
    ché seco in terra mai non si raffronta,
        e cerca il mare e tutte le sue rive,
    e sempre un stil, ovunqu' e' fusse, tenne;
    sol di lei pensa, o di lei parla o scrive!"
        Allora in quella parte onde 'l suon venne
    gli occhi languidi volgo e veggio quella
    che ambo noi, me sospinse e te ritenne.
        Riconobbila al volto e a la favella
    che spesso à già 'l mio cor racconsolato,
    or grave e saggia, allor onesta e bella.
        E quand' io fui nel mio piú bello stato,
    ne l' età mia piú verde, a te piú cara,
    ch' a dire ed a pensare a molti à dato,
        mi fu la vita poco men ch' amara
    a rispetto di quella mansueta
    e dolce morte ch' a' mortali è rara;
        ché 'n tutto quel mio passo er' io piú lieta
    che qual d' essilio al dolce albergo riede,
    se non che mi stringea di te sol pieta ».
        « Deh madonna », diss' io « per quella fede
    che vi fu, credo, al tempo manifesta,
    or piú nel volto di chi tutto vede,
        creovi Amor pensier mai nella testa
    d'aver pietà del mio lungo martire,
    non lasciando vostra alta impresa onesta?
        che' vostri dolci sdegni e le dolci ire,
    le dolci paci ne' belli occhi scritte,
    tenner molti anni in dubbio il mio desire ».
        A pena ebb' io queste parole ditte
    ch' io vidi lampeggiar quel dolce riso
    ch' un sol fu già di mie vertuti afflitte.
        Poi disse sospirando: « Mai diviso
   
==>SEGUE
da te non fu 'l mio cor, né già mai fia;
    ma temprai la tua fiamma col mio viso,
        perché a salvar te e me null'altra via
    era, e la nostra giovenetta fama;
    né per ferza è però madre men pia.
        Quante volte diss'io meco: "Questi ama,
    anzi arde; or si conven ch'a ciò provveggia,
    e mal pò provveder chi teme o brama:
        quel di fuor miri, e quel dentro non veggia".
    Questo fu quel che ti rivolse e strinse
    spesso, come caval fren, che vaneggia.
        Piú di mille fiate ira dipinse
    il volto mio, ch'Amor ardeva il core,
    ma voglia in me ragion già mai non vinse.
        Poi, se vinto ti vidi dal dolore,
    drizzai in te gli occhi allor soavemente,
    salvando la tua vita e 'l nostro onore.
        E se fu passion troppo possente,
    e la fronte e la voce a salutarti
    mossi, ed or timorosa ed or dolente.
        Questi fur teco miei ingegni e mie arti:
    or benigne accoglienze ed ora sdegni;
    tu 'l sai che n'ài cantato in molte parti;
        ch' i' vidi gli occhi tuoi talor sí pregni
    di lagrime ch' i' dissi: "Questi è corso,
    chi non l'aita, sí 'l conosco ai segni."
        Allor providi d' onesto soccorso;
    talor ti vidi tali sproni al fianco
    ch' i' dissi: "Qui conven piú duro morso".
        Cosí, caldo, vermiglio, freddo e bianco,
    or tristo, or lieto, infin qui t'ó condutto
    salvo, ond' io mi rallegro, benché stanco ».
        Ed io: « Madonna, assai fora gran frutto
    questo d' ogni mia fé, pur ch' i' 'l credessi »
    dissi tremando e non col viso asciutto.
        « Di poca fede! Or io, se no 'l sapessi,
    se non fosse ben ver, perché 'l direi? »
    rispose, e 'n vista parve s'accendessi.
        « S' al mondo tu piacesti agli occhi miei,
    questo mi taccio; pur quel dolce nodo
    mi piacque assai che 'ntorno al cor avei;
        e piacemi il bel nome, se vero odo,
    che lunge e presso col tuo dir m' acquisti;
    né mai in tuo amor richiesi altro che 'l modo.
        Quel mancò solo; e mentre in atti tristi
   
==>SEGUE




volei mostrarmi quel ch' i' vedea sempre,
    il tuo cor chiuso a tutto 'l mondo apristi.
        Quinci il mio gelo, onde ancor ti distempre;
    ché concordia era tal dell'altre cose
    qual giunge Amor, pur ch'onestate il tempre.
        Fur quasi eguali in noi fiamme amorose,
    almen poi ch' i' m' avidi del tuo foco;
    ma l' un le palesò, l' altro l' ascose.
        Tu eri di mercé chiamar già roco,
    quando tacea, perché vergogna e tema
    facean molto desir parer sí poco.
        Non è minor il duol perché altri il prema,
    né maggior per andarsi lamentando;
    per ficzion non cresce il ver né scema.
        Ma non si ruppe almen ogni vel, quando
    soli, i tuo' detti, te presente, accolsi,
    « Dir piú non osa il nostro amor » cantando?
        Teco era 'l core, a me gli occhi raccolsi;
    di ciò come d' iniqua parte duolti,
    se 'l meglio e 'l piú ti diedi, e 'l men ti tolsi!
        Né pensi che, perché ti fossin tolti
    ben mille volte, e piú di mille e mille
    renduti e con pietate a te fur volti!
        E state foran lor luci tranquille
    sempre ver' te, se non ch'ebbi temenza
    delle pericolose tue faville.
        Piú ti vo' dir per non lasciarti senza
    una conclusion che a te fia grata,
    forse, d' udire in su questa partenza:
        in tutte l' altre cose assai beata,
    in una sola a me stessa dispiacqui,
    che 'n troppo umil terren mi trovai nata;
        duolmi ancor veramente ch' i' non nacqui
    almen piú presso al tuo fiorito nido:
    ma assai fu bel paese ond'io ti piacqui;
        ché potea 'l cor, del qual sol io mi fido,
    volgersi altrove, a te essendo ignota,
    ond' io fora men chiara e di men grido ».
        « Questo non, » rispos' io « perché la rota
    terza del ciel m' alzava a tanto amore,
    ovunque fusse, stabile ed immota! »
        « Or cosí sia » diss' ella; « i' n' ebbi onore
    ch' ancor mi segue; ma per tuo diletto
    tu non t' accorgi del fuggir de l' ore.
        Vedi l' Aurora de l' aurato letto
  
==>SEGUE




TRIUMPHUS FAME
[ TRIONFO DELLA FAMA ]

I
        Da poi che Morte triunfò nel volto
    che di me stesso triunfar solea,
    e fu del nostro mondo il suo sol tolto,
        partissi quella dispietata e rea,
    pallida in vista, orribile e superba,
    che 'l lume di beltate spento avea;
        quando, mirando intorno su per l' erba,
    vidi da l' altra parte giugner quella
    che trae l' uom del sepolcro e 'n vita il serba.
        Quale in sul giorno un' amorosa stella
    suol venir d' oriente innanzi al sole
    che s' accompagna volentier con ella,
        cotal venía; ed oh! di quali scole
    verrà 'l maestro che discriva a pieno
    quel ch' io vo' dir in semplici parole?
        Era d'intorno il ciel tanto sereno
    che per tutto 'l desir ch' ardea nel core
    l'occhio mio non potea non venir meno;
        scolpito per le fronti era il valore
    de l'onorata gente, dov' io scorsi
    molti di quei che legar vidi Amore.
        Da man destra, ove gli occhi in prima porsi,
    la bella donna avea Cesare e Scipio,
    ma qual piú presso, a gran pena m' accorsi:
        l'un di Vertute, e non d'Amor mancipio,
    l'altro d' entrambi; e poi mi fu mostrata,
    dopo sí glorioso e bel principio
        gente di ferro e di valore armata:
    sí come in Campidoglio al tempo antico
    talora o per Via Sacra o per Via Lata
        venian tutti in quell' ordine ch' i' dico,
    e leggeasi a ciascuno intorno al ciglio
    il nome al mondo piú di gloria amico.
        Io era intento al nobile pispiglio,
    a i volti, a gli atti; ed ecco i primi due,
    l'un seguiva il nipote e l' altro il figlio,
        che sol, senza alcun pari, al mondo fue;
    e quei che volser a' nemici armati
    chiudere il passo co le membra sue,
        duo padri, da tre figli accompagnati,
   
==>SEGUE


l'un giva inanzi e due venian dopo,
    e l' ultimo era il primo fra' laudati.
        Poi fiammeggiava a guisa d' un piropo
    colui che col consiglio e co la mano
    a tutta Italia giunse al maggior uopo:
        di Claudio dico, che notturno e piano,
    come il Metauro vide, a purgar venne
    di ria semenza il buon campo romano;
        egli ebbe occhi a vedere, a volar penne;
    ed un gran vecchio il secondava a presso,
    che con arte Anibàle a bada tenne.
        Duo altri Fabii e duo Caton con esso,
    duo Pauli, duo Bruti e duo Marcelli,
    un Regol ch' amò altrui più che se stesso;
        un Curio ed un Fabrizio assai piú belli
    con la lor povertà che Mida o Crasso
    con l'oro onde a virtù furon rebelli;
        Cincinnato e Serran, che solo un passo
    senza costor non vanno, e 'l gran Camillo,
    di viver prima che di ben far lasso,
        perch' a sí alto grado il ciel sortillo
    che sua virtute chiara il ricondusse
    ond' altrui cieca rabbia dipartillo.
        Poi quel Torquato che 'l figliuol percusse
    e viver orbo per amor sofferse
    de la milizia, perché orba non fusse;
        l'un Decio e l'altro che col petto aperse
    le schiere de' nemici: o fiero voto,
    che 'l padre e 'l figlio ad una morte offerse!
        Curzio venia con lor, non men devoto,
    che di sé e de l' arme empié lo speco
    in mezzo il Foro orribilmente voto.
        Mummio, Levino, Attilio; ed era seco
    Tito Flamminio, che con forza vinse,
    ma vie piú con pietate, il popol greco.
        Eravi quei che 'l re di Siria cinse
    d'un magnanimo cerchio, e co la fronte
    e co la lingua a sua voglia lo strinse;
        e quel ch' armato, sol, difese un monte
    onde poi fu sospinto, e quel che solo
    contra tutta Toscana tenne un ponte;
        e chi a grande opra nel nemico stuolo
    mosse la mano indarno, e poscia l' arse,
    sí seco irato che non sentí il duolo;
        e chi 'n mar prima vincitor apparse
   
==>SEGUE




contra Cartaginesi, e chi lor navi
    fra Cicilia e Sardigna ruppe e sparse.
        Appio conobbi agli occhi, e' suoi che gravi
    furon sempre e molesti a l' umil plebe;
    poi vidi un grande con atti soavi,
        e, se non che 'l suo lume all' estremo ebe,
    forse era 'l primo, e certo fu fra noi
    qual Bacco, Alcide, Epaminonda a Tebe;
        ma 'l peggio è viver troppo! e vidi poi
    quel che da l' esser suo destro e leggiero
    ebbe nome, e fu 'l fior de gli anni suoi;
        e quanto in arme fu crudo e severo,
    tanto quei che 'l seguiva era benigno,
    non so se miglior duce o cavalero.
        Poi venía que' che livido maligno
    tumor di sangue, bene oprando, oppresse,
    nobil Volumnio e d' alta laude digno;
        Cosso e Filon, Rutilio, e dalle spesse
    luci in disparte tre soli ir vedeva,
    rotti i membri e smagliate l' arme e fesse:
        Lucio Dentato e Marco Sergio e Sceva,
    que' tre folgori e tre scogli di guerra,
    ma l' un rio successor di fama leva;
        Mario poi, che Iugurta e' Cimbri atterra
    e 'l tedesco furore, e Fulvio Flacco
    ch'a l' ingrati troncar a bel studio erra,
        ed il piú nobil Fulvio, e solo un Gracco
    di quel gran nido garrulo inquieto
    che fe' 'l popol roman piú volte stracco,
        e quel che parve altrui beato e lieto,
    non dico fu, ché non chiaro si vede
    un chiuso cor profondo in suo secreto:
        Metello dico, e suo padre, e suo' rede,
    che già di Macedonia e de' Numidi
    e di Creta e di Spagna addusser prede.
        Poscia Vespasian col figlio vidi,
    il buono e bello, non già il bello e rio,
    e 'l buon Nerva, e Traian, principi fidi,
        Elio Adriano e 'l suo Antonin Pio,
    bella successione infino a Marco,
    ché bono a buono à natural desio.
        Mentre che, vago, oltre co gli occhi varco,
    vidi 'l gran fondatore e i regi cinque;
    l'altro era in terra di mal peso carco,
        come adiven a chi virtù relinque.



II
        Pien d' infinita e nobil meraviglia
    presa a mirar il buon popol di Marte,
    ch' al mondo non fu mai simil famiglia,
        giungea la vista con l' antiche carte
    ove son gli alti nomi e' sommi pregi,
    e sentiv' al mio dir mancar gran parte;
        ma disviârmi i pellegrini egregi,
    Anibal primo, e quel cantato in versi
    Achille che di fama ebbe gran fregi,
        i duo chiari Troiani e' duo gran Persi,
    Filippo e 'l figlio, che da Pella a gl' Indi
    correndo vinse paesi diversi.
        Vidi l' altro Alessandro non lunge indi
    non già correr cosí, ch' ebbe altro intoppo:
    quanto del vero onor, Fortuna, scindi!
        I tre Teban ch' i' dissi, in un bel groppo,
    ne l'altro, Aiace, Diomede e Ulisse
    che desiò del mondo veder troppo;
        Nestor che tanto seppe e tanto visse,
    Agamenon e Menelao, che 'n spose
    poco felici, al mondo fer gran risse;
        Leonida, ch' a' suoi lieto propose
    un duro prandio, una terribil cena,
    e 'n poca piazza fe' mirabil cose;
        ed Alcibiade, che sí spesso Atena
    come fu suo piacer volse e rivolse,
    con dolce lingua e con fronte serena;
        Milciade che 'l gran gioco a Grecia tolse,
    e 'l buon figliuol, che con pietà perfetta
    legò sé vivo, e 'l padre morto sciolse;
        Teseo, Temistoclès con questa setta,
    Aristidès che fu un greco Fabrizio:
    a tutti fu crudelmente interdetta
        la patria sepoltura; e l'altrui vizio
    illustra lor, ché nulla meglio scopre
    contrari due com' piccolo interstizio.
        Focion va con questi tre di sopre,
    che di sua terra fu scacciato morto:
    molto diverso il guidardon da l'opre!
        Com' io mi volsi, il buon Pirro ebbi scorto,
    e 'l buon re Massinissa, e gli era aviso,
    d' esser senza i Roman, ricever torto.
        Con lui, mirando quinci e quindi fiso,
    Iero siracusan conobbi e 'l crudo
   
==>SEGUE

Amilcare da lor molto diviso.
        Vidi, qual uscí già del foco, ignudo
    il re di Lidia, manifesto essempio
    che poco val contra Fortuna scudo.
        Vidi Siface pari a simil scempio;
    Brenno sotto cui cadde gente molta,
    e poi cadde ei sotto il delfico tempio.
        In abito diversa, in popol folta
    fu quella schiera; e mentre gli occhi alto ergo
    vidi una parte tutta in sé raccolta:
        e quel che volse a Dio far grande albergo
    per abitar fra gli uomini, era il primo;
    ma chi fe' l'opra gli venía da tergo:
        a lui fu destinato, onde da imo
    produsse al sommo l'edificio santo,
    non tal, dentro, architetto, com' io estimo.
        Poi quel ch' a Dio familiar fu tanto
    in grazia, a parlar seco a faccia a faccia,
    che nesun altro se ne può dar vanto;
        e quel che, come uno animal s'allaccia,
    co la lingua possente legò 'l sole
    per giugner de' nemici suoi la traccia:
        o fidanza gentil! chi Dio ben cole,
    quanto Dio à creato aver suggetto,
    e 'l ciel tener con semplici parole!
        Poi vidi il padre nostro, a cui fu detto
    ch'uscisse di sua terra e gisse al loco
    ch' a l' umana salute era già eletto;
        seco il figlio e 'l nipote, a cui fu il gioco
    fatto de le due spose, e 'l saggio e casto
    Ioseph dal padre lontanarsi un poco.
        Poi stendendo la vista quant' io basto
    colui vidi oltra il qual occhio non varca,
    la cui inobedienza à il mondo guasto.
        Di qua da lui, chi fece la grande arca
    e quei che cominciò poi la gran torre
    che fu sí di peccato e d' error carca;
        poi quel buon Iuda, a cui nessun pò torre
    le sue leggi paterne, invitto e franco
    com' uom che per giustizia a morte corre.
        Già era il mio desio presso che stanco
    quando mi fece una leggiadra vista
    piú vago di mirar ch' i' ne fossi anco;
        i' vidi alquante donne ad una lista,
    Antiope ed Orizia armata e bella,
  
==>SEGUE
Ipolita del figlio afflitta e trista,
        e Menalippe, e ciascuna sí snella
    che vincerle fu gloria al grande Alcide:
    e' l' una ebbe, e Teseo l' altra sorella;
        la vedova che sí secura vide
    morto 'l figliolo, e tal vendetta feo
    ch' uccise Ciro, ed or sua fama uccide,
        però che, udendo ancora il suo fin reo,
    par che di novo a sua gran colpa muoia,
    tanto quel dí del suo nome perdeo!
        Poi vidi quella che mal vide Troia;
    e fra queste una vergine latina
    ch' in Italia a' Troian fe' molta noia.
        Poi vidi la magnanima reina:
    ch' una treccia ravolta e l' altra sparsa
    corse a la babilonica rapina;
        poi Cleopatra, e l' un' e l' altra er' arsa
    d'indegno foco; e vidi in quella tresca
    Zenobia, del suo onor assai piú scarsa;
        bell' era, e nell' età fiorita e fresca:
    quanto in piú gioventute e 'n piú bellezza
    tanto par ch' onestà sua laude accresca.
        Nel cor femineo fu sí gran fermezza,
    che col bel viso e coll' armata coma
    fece temer chi per natura sprezza:
        io parlo de l' imperio alto di Roma,
    che con arme assalío, bench' a l' estremo
    fusse al nostro triunfo ricca soma.
        Fra' nomi che 'n dir breve ascondo e premo,
    non fia Iudith, la vedovetta ardita
    che fe' il folle amador del capo scemo?
        Ma Nino, ond' ogni istoria umana è ordita,
    dove lasc' io? e 'l suo gran successore,
    che superbia condusse a bestial vita?
        Belo dove riman, fonte d' errore
    non per sua colpa? Dove Zoroastro,
    che fu de l' arti magiche inventore?
        E chi de' nostri dogi, che 'n duro astro
    passâr l'Eufrate, fece 'l mal governo,
    a l' italiche doglie fero impiastro?
        Ov' è 'l gran Mitridate, quello eterno
    nemico de' Roman, che sí ramingo
    fuggí dinanzi a lor la state e 'l verno?
        Molte gran cose in picciol fascio stringo:
    ov' è un re Arturo, e tre Cesari Augusti:
   
==>SEGUE

un d' Affrica, un di Spagna, un Lottoringo?
        Cingean costui suo' dodici robusti,
    poi venia solo il buon duce Goffrido
    che fe' l' impresa santa e' passi giusti.
        Questo (di ch' io mi sdegno e 'ndarno grido)
    fece in Ierusalem colle sue mani
    il mal guardato e già negletto nido;
        gite superbi, o miseri Cristiani,
    consumando l'un l'altro, e non vi caglia
    che 'l sepolcro di Cristo è in man de' cani!
        Raro o nesun che 'n alta fama saglia
    vidi dopo costui, s' io non m'inganno,
    o per arte di pace o di battaglia.
        Pur, come uomini eletti ultimi vanno,
    vidi verso la fine il Saracino
    che fece a' nostri assai vergogna e danno;
        quel di Luria seguiva il Saladino;
    poi 'l duca di Lancastro, che pur dianzi
    era al regno de' Franchi aspro vicino.
        Miro, come uom che volentier s'avanzi,
    s' alcuno ivi vedessi qual egli era
    altrove a gli occhi miei veduto inanzi,
        e vidi duo che si partîr ier sera
    di questa nostra etate e del paese;
    costor chiudean quella onorata schiera:
        il buon re cicilian, che 'n alto intese
    e lunge vide, e fu veramente Argo;
    dall' altra parte il mio gran Colonnese,
        magnanimo, gentil, constante e largo.

III
        Io non sapea da tal vista levarme,
    quand' io udi': « Pon' mente a l'altro lato,
    ché s'acquista ben pregio altro che d' arme ».
        Volsimi da man manca; e vidi Plato
    che 'n quella schiera andò piú presso al segno
    al qual aggiunge cui dal Cielo è dato,
        Aristotele poi, pien d'alto ingegno,
    Pitagora che primo umilemente
    filosofia chiamò per nome degno,
        Socrate e Senofonte, e quello ardente
    vecchio a cui fur le Muse tanto amiche
    ch' Argo e Micena e Troia se ne sente;
        questo cantò gli errori e le fatiche
   
==>SEGUE




del figliuol di Laerte, e d'una diva,
    primo pintor delle memorie antiche.
        A man a man con lui cantando giva
    il Mantovan che di par seco giostra,
    ed uno al cui passar l' erba fioriva:
        questo è quel Marco Tullio in cui si mostra
    chiaro quanti eloquenzia à frutti e fiori;
    questi son gli occhi de la lingua nostra.
        Dopo venia Demostene che fori
    è di speranza omai del primo loco,
    non ben contento de' secondi onori;
        un gran folgor parea tutto di foco;
    Eschine il dica che 'l poteo sentire,
    quando presso al suo tuon parve già fioco.
        Io non posso per ordine ridire
    questo o quel dove mi vedessi o quando
    e qual andare inanzi e qual seguire,
        che, cose innumerabili pensando,
    e mirando la turba tale e tanta,
    l'occhio e 'l pensier m' andava disviando.
        Vidi Solon di cui fu l' util pianta
    che se mal colta è, mal frutto produce,
    co gli altri sei di che Grecia si vanta.
        Qui vid' io nostra gente aver per duce
    Varrone, il terzo gran lume romano,
    che, quando 'l miri piú, tanto piú luce;
        Crispo Salustio, e seco a mano a mano
    un che già l' ebbe a schifo e 'l vide torto:
    cioè 'l gran Tito Livio padovano.
        Mentr' io 'l mirava, subito ebbi scorto
    quel Plinio veronese suo vicino,
    a scriver molto, a morir poco accorto.
        Poi vidi il gran platonico Plotino,
    che credendosi in ozio viver salvo
    prevento fu dal suo fero destino,
        il qual seco venía dal materno alvo,
    e però providenzia ivi non valse;
    poi Crasso, Antonio, Ortensio, Galba e Calvo
        con Pollion che 'n tal superbia salse,
    che contra quel d' Arpino armâr le lingue
    cercando ambeduo fame indegne e false.
        Tuchidide vid' io, che ben distingue
    i tempi e 'luoghi e l' opere leggiadre
    e di che sangue qual campo s' impingue;
       
==>SEGUE
rimenar ai mortali il giorno, e 'l sole
    già fuor de l' oceano infin al petto.
        Questa vien per partirne, onde mi dole:
    s'a dir ài altro, studia d' esser breve
    e col tempo dispensa le parole ».
        « Quant'io soffersi mai, soave e leve »
    dissi « m' à fatto il parlar dolce e pio,
    ma 'l viver senza voi m' è duro e greve;
        però saper vorrei, madonna, s' io
    son per tardi seguirvi, o se per tempo ».
    Ella già mossa disse: « Al creder mio,
        tu starai in terra senza me gran tempo ».


Erodoto di greca istoria padre
    vidi, e dipinto il nobil geomètra
    di triangoli e tondi e forme quadre;
        e quel, che 'n ver' di noi divenne petra,
    Porfirio, che d'acuti silogismi
    empié la dialetica faretra
        facendo contra 'l vero arme i sofismi;
    e quel di Coo che fe' vie miglior l' opra,
    se bene intesi fusser gli aforismi.
        Apollo ed Esculapio gli son sopra,
    chiusi ch' a pena il viso gli comprende,
    sí par che i nomi il tempo limi e copra.
        Un di Pergamo il segue, ed in lui pende
    l'arte guasta fra noi, allor non vile,
    ma breve e scura; e' la dichiara e stende.
        Vidi Anassarco intrepido e virile,
    e Senocrate piú saldo ch' un sasso
    che nulla forza volse ad atto vile;
        vidi Archimede star col viso basso,
    e Democrito andar tutto pensoso,
    per suo voler di lume e d' oro casso;
        vidi Ippia, el vecchiarel che già fu oso
    dir « Io so tutto », e poi di nulla certo
    ma d' ogni cosa Archesilao dubbioso;
        vidi in suoi detti Eraclito coverto
    e Diogene cinico, in suo' fatti,
    assai piú che non vuol vergogna, aperto,
        e quel che lieto i suo' campi disfatti
    vide e deserti, d' altre merci carco,
    credendo averne invidiosi patti.
        Ivi era il curioso Dicearco;
    ed in suoi magisteri assai dispari
    Quintiliano e Seneca e Plutarco.
        Vidivi alquanti ch' àn turbati i mari
    con venti avversi e con ingegni vaghi,
    non per saver, ma per contender chiari,
        urtar come leoni, e come draghi
    colle code avinchiarsi: or che è questo,
    ch' ognun del suo saver par che s' appaghi?
        Carneade vidi in suo' studi sí desto
    che, parlando egli, il vero e 'l falso a pena
    si discernea, cosí nel dir fu presto;
        la lunga vita e la sua larga vena
    d'ingegno pose in accordar le parti
    che 'l furor litterato a guerra mena,
      
==>SEGUE
e la troiana, a l' ultimo i Romani,
    con la mia spada la qual punge e seca,
        e popoli altri, barbareschi e strani;
    e giugnendo quand' altri non m' aspetta
    ò interrotti infiniti penser' vani.
        Or a voi, quando il viver piú diletta,
    drizzo 'l mio corso inanzi che Fortuna
    nel vostro dolce qualche amaro metta ».
        « In costor non ài tu ragione alcuna
    ed in me poca: solo in questa spoglia »
    rispose quella che fu nel mondo una.
        « Altri so che n' avrà piú di me doglia,
    la cui salute dal mio viver pende;
    a me fia grazia che di qui mi scioglia ».
        Qual è chi 'n cosa nova gli occhi intende
    e vede ond' al principio non s' accorse,
    di ch' or si meraviglia e si riprende,
        tal si fe' quella fera, e poi che 'n forse
    fu stata un poco: « Ben le riconosco, »
    disse « e so quando 'l mio dente le morse ».
        Poi col ciglio men torbido e men fosco
    disse: « Tu che la bella schiera guidi,
    pur non sentisti mai del mio tosco;
        se del consiglio mio punto ti fidi,
    ché sforzar posso, egli è pur il migliore
    fuggir vecchiezza e suoi molti fastidi;
        i' son disposta a farti un tal onore
    qual altrui far non soglio, e che tu passi
    senza paura e senz' alcun dolore ».
        « Come piace al Signor che 'n cielo stassi
    ed indi regge e tempra l' universo,
    farai di me quel che de gli altri fassi ».
        Cosí rispose; ed ecco da traverso
    piena di morti tutta la campagna,
    che comprender no' l pò prosa né verso:
        da India, dal Cataio, Marrocco e Spagna
    e 'l mezzo avea già pieno e le pendici
    per molti tempi quella turba magna.
        Ivi eran quei che fur detti felici,
    pontefici, regnanti, imperadori:
    or sono ignudi, miseri e mendici.
        U' sono or le ricchezze? u' son gli onori
    e le gemme e gli scettri e le corone,
    e le mitre e li purpurei colori?
        Miser chi speme in cosa mortal pone
   
==>SEGUE


né 'l poteo far, che come crebber l' arti
    crebbe l'invidia, e col savere inseme
    ne' cori enfiati i suo' veneni à sparti.
        Contra 'l buon Siro, che l'umana speme
    alzò ponendo l' anima immortale,
    s' armò Epicuro, onde sua fama geme,
        ardito a dir ch' ella non fusse tale;
    cosí al lume fu fumoso e lippo
    co la brigata al suo maestro eguale:
        di Metrodoro parlo e d' Aristippo.
    Poi con gran subbio e con mirabil fuso
    vidi tela sottil tesser Crisippo.
        Anassimene, Antistene, più suso
    vidi Anassimandro, e poi Zenone
    mostrar la palma aperta e 'l pugno chiuso
        per dichiarar sua bella opinione.
(ma chi non ve la pone?), e, s' e' si trova
    a la fine ingannato, è ben ragione.
        O ciechi, el tanto affaticar che giova?
    Tutti tornate a la gran madre antica,
    e 'l vostro nome a pena si ritrova.
        Pur de le mill' è un' utile fatica,
    che non sian tutte vanità palesi?
    Chi intende a' vostri studii, sí mel dica.
        Che vale a soggiogar gli altrui paesi
    e tributarie far le genti strane
    co gli animi al suo danno sempre accesi?
        Dopo le 'mprese perigliose e vane
    e col sangue acquistar terre e tesoro,
    vie piú dolce si trova l' acqua e 'l pane
        e 'l legno e 'l vetro che le gemme e l' oro.
    Ma per non seguir piú sí lunga tema,
    tempo è ch' io torni al mio primo lavoro.
        I' dico che giunta era l' ora estrema
    di quella breve vita gloriosa
    e 'l dubbio passo di che il mondo trema.
        Era a vederla un' altra valorosa
    schiera di donne, non dal corpo sciolta,
    per saper s' esser pò Morte pietosa;
        quella bella compagna era ivi accolta
    pure a vedere e contemplare il fine
    che far convensi, e non piú d' una volta:
        tutte sue amiche, e tutte eran vicine.
    Allor di quella bionda testa svelse
    Morte co la sua mano un aureo crine;
        cosí del mondo il piú bel fiore scelse,
    non già per odio, ma per dimostrarsi
    piú chiaramente ne le cose eccelse.
        Quanti lamenti lagrimosi sparsi
    fur ivi, essendo que' belli occhi asciutti
    per ch' io lunga stagion cantai ed arsi!
        E fra tanti sospiri e tanti lutti
    tacita, e sola lieta, si sedea
    del suo ben viver già cogliendo i frutti.
        « Vattene in pace, o vera mortal Dea! »
    diceano; e tal fu ben, ma non le valse
    contra la Morte, in sua ragion sí rea.
        Che fia de l' altre, se questa arse ed alse
    in poche notti, e sí cangiò piú volte?
    O umane speranze cieche e false!
        Se la terra bagnâr lagrime molte
   
==>SEGUE
TRIUMPHUS TEMPORIS
[ TRIONFO DEL TEMPO ]

        De l' aureo albergo co l' aurora inanzi
    sí ratto usciva il Sol cinto di raggi
    che detto avresti: « E' si corcò pur dianzi ».
        Alzato un poco, come fanno i saggi
    guardossi intorno ed a se stesso disse:
    « Che pensi? omai conven che piú cura aggi.
        Ecco, s' un che famoso in terra visse,
    de la sua fama per morir non esce,
    che sarà de la legge che 'l Ciel fisse?
        E se fama mortal morendo cresce,
    che spegner si devea in breve, veggio
    nostra eccellenzia al fine; onde m' incresce.
        Che piú s' aspetta? e che puote esser peggio?
    che piú nel ciel ò io che 'n terra un uomo?
    a cui esser egual per grazia cheggio?
        Quattro cavài con quanto studio como,
    pasco nell'oceàno e sprono e sferzo,
    e pur la fama d' un mortal non domo!
        Ingiuria da corruccio e non da scherzo
    avenir questo a me, s' i' fossi in cielo
    non dirò primo, ma secondo o terzo!
        Or conven che s' accenda ogni mio zelo,
    sí ch' al mio volo l'ira adoppi i vanni,
    ch' io porto invidia agli uomini e no 'l celo,
        de' quali io veggio alcun dopo mille anni
    e mille e mille, piú chiari che 'n vita,
    ed io m' avanzo di perpetui affanni:
        tal son qual era anzi che stabilita
    fusse la terra, dí e notte rotando
    per la strada ritonda ch'è infinita ».
        Poi che questo ebbe detto, disdegnando
    riprese il corso, piú veloce assai
    che falcon d' alto a sua preda volando:
        piú, dico, né pensier poria già mai
    seguir suo volo, non che lingua o stile,
    tal che con gran paura il rimirai.
        Allor tenn' io il viver nostro a vile
    per la mirabil sua velocitate
    vie piú che inanzi no 'l tenea gentile,
        e parvemi terribil vanitate
    fermare in cose il cor che 'l Tempo preme,
    che, mentre piú le stringi, son passate.
       
==>SEGUE
Però chi di suo stato cura o teme,
    proveggia ben, mentr' è l' arbitrio intero,
    fondare in loco stabile sua speme,
        ché quant' io vidi il Tempo andar leggero
    dopo la guida sua che mai non posa,
    io no 'l dirò, perché poter non spero.
        I' vidi il ghiaccio, e lí stesso la rosa,
    quasi in un punto il gran freddo e 'l gran caldo,
    che, pur udendo, par mirabil cosa;
        ma chi ben mira col giudizio saldo,
    vedrà esser cosí; ché no 'l vidi io?
    di che contra me stesso or mi riscaldo.
        Segui' già le speranze e 'l van desio:
    or ò dinanzi agli occhi un chiaro specchio
    ov' io veggio me stesso e 'l fallir mio;
        e, quanto posso, al fine m' apparecchio,
    pensando al breve viver mio, nel quale
    stamani era un fanciullo ed or son vecchio.
        Che piú d' un giorno è la vita mortale?
    Nubil' e brev' e freddo e pien di noia,
    che pò bella parer, ma nulla vale.
        Qui l' umana speranza e qui la gioia,
    qui miseri mortali alzan la testa
    e nessun sa quanto si viva o moia.
        Veggio or la fuga del mio viver presta,
    anzi di tutti, e nel fuggir del sole
    la ruina del mondo manifesta.
        Or vi riconfortate in vostre fole,
    gioveni, e misurate il tempo largo!
    Ma piaga antiveduta assai men dole.
        Forse che 'ndarno mie parole spargo,
    ma io v' annunzio che voi sete offesi
    da un grave e mortifero letargo,
        ché volan l'ore e' giorni e gli anni e' mesi:
    inseme, con brevissimo intervallo,
    tutti avemo a cercar altri paesi.
        Non fate contra 'l vero al core un callo,
    come sete usi, anzi volgete gli occhi
    mentre emendar si pòte il vostro fallo;
        non aspettate che la morte scocchi,
    come fa la piú parte, ché per certo
    infinita è la schiera de gli sciocchi.
        Poi ch' i' ebbi veduto e veggio aperto
    il volar e 'l fuggir del gran pianeta,
    ond' i' ò danni ed inganni assai sofferto,
       
==>SEGUE
vidi una gente andarsen queta queta
    senza temer di Tempo o di sua rabbia,
    ché gli avea in guardia istorico o poeta.
        Di lor par che piú d' altri invidia s' abbia,
    ché per se stessi son levati a volo
    uscendo for della comune gabbia.
        Contra costor colui che splende solo
    s' apparecchiava con maggiore sforzo,
    e riprendeva un piú spedito volo;
        a' suoi corsier radoppiato era l'orzo;
    e la reina di ch' io sopra dissi
    d'alcun' de' suoi già volea far divorzo.
        Udi' dir, non so a chi, ma 'l detto scrissi:
    « In questi umani, a dir proprio, ligustri,
    di cieca oblivion che scuri abissi!
        Volgerà il sol non pure anni ma lustri
    e secoli, vittor d' ogni cerèbro,
    e vedrà i vaneggiar di questi illustri:
        quanti fur chiari tra Peneo ed Ebro
    che son venuti e verran tosto meno!
    quanti sul Xanto e quanti in val di Tebro!
        Un dubbio iberno instabile sereno
    è vostra fama, e poca nebbia il rompe,
    e 'l gran tempo a' gran nomi è gran veneno.
        Passan vostre grandezze e vostre pompe,
    passan le signorie, passano i regni:
    ogni cosa mortal Tempo interrompe,
        e ritolta a' men buon, non dà a' piú degni;
    e non pur quel di fuori il Tempo solve,
    ma le vostre eloquenzie e' vostri ingegni.
        Cosí fuggendo, il mondo seco volve,
    né mai si posa né s'arresta o torna,
    finché v' à ricondotti in poca polve.
        Or perché umana gloria à tante corna,
    non è mirabil cosa, s' a fiaccarle
    alquanto oltra l'usanza si soggiorna;
        ma, quantunque si pensi il vulgo o parle,
    se 'l viver vostro non fusse sí breve
    tosto vedresti in fumo ritornarle ».
        Udito questo, perché al ver si deve
    non contrastar, ma dar perfetta fede,
    vidi ogni nostra gloria, al sol, di neve,
        e vidi il Tempo rimenar tal prede
    de' nostri nomi ch' io gli ebbi per nulla,
    benché la gente ciò non sa né crede:
       
==>SEGUE
cieca, che sempre al vento si trastulla
    e pur di false opinion si pasce,
    lodando piú il morir vecchio che 'n culla.
        Quanti son già felici morti in fasce!
    Quanti miseri in ultima vecchiezza!
    Alcun dice: « Beato chi non nasce! »
        Ma per la turba, a' grandi errori avezza,
    dopo la lunga età sia il nome chiaro:
    che è questo però che sí s' apprezza?
        Tutto vince e ritoglie il Tempo avaro;
    chiamasi Fama, ed è morir secondo,
    né piú che contra 'l primo è alcun riparo;
        cosí 'l Tempo triunfa i nomi e 'l mondo!
TRIUMPHUS ETERNITATIS
[ TRIONFO DELL'ETERNITÀ ]

        Da poi che sotto 'l ciel cosa non vidi
    stabile e ferma, tutto sbigottito
    mi volsi al cor e dissi: « In che ti fidi? »
        Rispose: « Nel Signor, che mai fallito
    non à promessa a chi si fida in lui;
    ma ben veggio che 'l mondo m'à schernito,
        e sento quel ch' i' sono e quel ch' i' fui,
    e veggio andar, anzi volare, il tempo,
    e doler mi vorrei, né so di cui,
        ché la colpa è pur mia, che piú per tempo
    deve' aprir gli occhi, e non tardar al fine,
    ch' a dir il vero, omai troppo m' attempo.
        Ma tarde non fur mai grazie divine;
    in quelle spero che 'n me ancor faranno
    alte operazioni e pellegrine ».
        Cosí detto e risposto. Or, se non stanno
    queste cose che 'l ciel volge e governa,
    dopo molto voltar, che fine avranno?
        Questo pensava, e mentre piú s' interna
    la mente mia, veder mi parve un mondo
    novo, in etate immobile ed eterna,
        e 'l sole e tutto 'l ciel disfar a tondo
    con le sue stelle, ancor la terra e 'l mare,
    e rifarne un piú bello e piú giocondo.
        Qual meraviglia ebb' io quando ristare
    vidi in un punto quel che mai non stette,
    ma discorrendo suol tutto cangiare!
        E le tre parti sue vidi ristrette
    ad una sola, e quella una esser ferma
    sí che, come solea, piú non s' affrette;
        e quasi in terra d'erbe ignuda ed erma,
    né « fia » né « fu » né « mai » né « inanzi » o « 'ndietro »
    ch' umana vita fanno varia e 'nferma!
        Passa il penser sí come sole in vetro,
    anzi piú assai, però che nulla il tene;
    o qual grazia mi fia, se mai l'impetro,
        ch' i' veggia ivi presente il sommo bene,
    non alcun mal, che solo il tempo mesce
    e con lui si diparte e con lui vene!
        Non avrà albergo il sol Tauro né Pesce,
    per lo cui variar nostro lavoro
   
==>SEGUE
or nasce or more, ed or scema or cresce.
        Beat' i spirti che nel sommo coro
    si troveranno, o trovano, in tal grado
    che sia in memoria eterna il nome loro!
        O felice colui che trova il guado
    di questo alpestro e rapido torrente
    ch'à nome vita e a molti è sí a grado!
        Misera la volgare e cieca gente
    che pon qui sue speranze in cose tali
    che 'l tempo le ne porta sí repente!
        O veramente sordi, ignudi e frali,
    poveri d' argomenti e di consiglio,
    egri del tutto e miseri mortali!
        Quei che 'l mondo governa pur col ciglio,
    che conturba ed acqueta gli elementi,
    al cui saver non pur io non m' appiglio,
        ma li angeli ne son lieti e contenti
    di veder de le mille parti l'una,
    ed in ciò stanno desiosi e 'ntenti....
        O mente vaga, al fin sempre digiuna,
    a che tanti penseri? un' ora sgombra
    quanto in molt'anni a pena si raguna.
        Quel che l' anima nostra preme e 'ngombra:
    « dianzi, adesso, ier, diman, mattino e sera »
    tutti in un punto passeran com' ombra;
        non avrà loco « fu » « sarà » ned « era »,
    ma « è » solo, in presente, ed « ora » ed « oggi »
    e sola « eternità » raccolta e 'ntera;
        quasi spianati dietro e 'nanzi i poggi
    ch' occupavan la vista, non fia in cui
    vostro sperare e rimembrar s' appoggi;
        la qual varietà fa spesso altrui
    vaneggiar sí che 'l viver par un gioco,
    pensando pur: « Che sarò io? che fui? »
        Non sarà piú diviso a poco a poco,
    ma tutto inseme, e non piú state o verno,
    ma morto il tempo e variato il loco;
        e non avranno in man li anni il governo
    de le fame mortali; anzi chi fia
    chiaro una volta fia chiaro in eterno.
        O felici quelle anime che 'n via
    sono o seranno di venire al fine
    di ch' io ragiono, quandunque e' si sia!
        E tra l' altre leggiadre e pellegrine
    beatissima lei che Morte occise
   
==>SEGUE
assai di qua del natural confine!
        Parranno allor l'angeliche divise,
    e l' oneste parole, e i penser' casti
    che nel cor giovenil Natura mise.
        Tanti volti, che Morte e 'l Tempo à guasti,
    torneranno al suo piú fiorito stato,
    e vedrassi ove, Amor, tu mi legasti,
        ond' io a dito ne sarò mostrato:
    « Ecco chi pianse sempre, e nel suo pianto
    sovra 'l riso d' ogni altro fu beato! »
        E quella di ch' ancor piangendo canto
    avrà gran maraviglia di se stessa,
    vedendosi fra tutte dar il vanto.
        Quando ciò fia, no 'l so; se fu soppressa
    tanta credenza a' piú fidi compagni,
    a sí alto segreto chi s' appressa?
        Credo io che s'avicini, e de' guadagni
    veri e de' falsi si farà ragione,
    ché tutti fien allor opre d' aragni:
        vedrassi quanto in van cura si pone,
    e quanto indarno s' affatica e suda,
    come sono inganate le persone;
        nesun segreto fia chi copra o chiuda;
    fia ogni conscienza, o chiara o fosca,
    dinanzi a tutto 'l mondo aperta e nuda;
        e fia chi ragion giudichi e conosca.
    Ciascun poi vedrem prender suo viaggio
    come fiera scacciata che s' imbosca;
        e vedrassi quel poco di paraggio
    che vi fa ir superbi, e oro, e terreno,
    esservi stato danno, e non vantaggio;
        e 'n disparte, color che sotto 'l freno
    di modesta fortuna ebbero in uso,
    senz' ogni pompa, di godersi in seno.
        Questi triunfi, i cinque in terra giuso
    avem veduto ed a la fine il sesto,
    Dio permettente, vederem lassuso.
        E 'l Tempo, a disfar tutto cosí presto,
    e Morte, in sua ragion cotanto avara,
    morti inseme seranno e quella e questo.
        E quei che Fama meritaron chiara,
    che 'l Tempo spense, e i be' visi leggiadri
    che 'mpallidir fe' 'l Tempo e Morte amara,
        l'oblivion, gli aspetti oscuri ed adri,
    piú che mai bei tornando, lascieranno
   
==>SEGUE
a morte impetuosa, a' giorni ladri;
        ne l' età piú fiorita e verde avranno
    con immortal bellezza eterna fama.
    Ma innanzi a tutte ch' a rifar si vanno,
        è quella che piangendo il mondo chiama
    co la mia lingua e co la stanca penna;
    ma 'l ciel pur di vederla intera brama.
        A riva un fiume che nasce in Gebenna
    amor mi diè per lei sí lunga guerra
    che la memoria ancora il cor accenna.
        Felice sasso che 'l bel viso serra!
    ché, poi ch' avrà ripreso il suo bel velo,
    se fu beato chi la vide in terra,
        or che fia dunque a rivederla in cielo?
L'ascesa al monte Ventoso
Il 26 aprile del 1336 Petrarca, insieme al fratello e altri due compagni, scalarono il Monte Ventoso (monte della Provenza ). Molto più tardi egli scrisse una memoria del viaggio sotto forma di lettera all'amico Francesco Dionigi. A quei tempi non era usuale scalare montagne senza uno scopo pratico. (secondo alcuni egli sarebbe un alpinista, quanto meno uno dei precursori di questo sport.) In realtà, questa ascensione è tutta basata sull'allegoria. La data stessa è connotata da elementi allegorici.
L'ascensione al monte è ricca di elementi allegorici che si ritrovano a partire dalla data. La lettera è datata 26 aprile, mentre l'anno è possibile ricavarlo dal fatto che Petrarca scrive che sono passati dieci anni da quando ha lasciato Bologna (cosa che avvenne nel 1326). Questa data viene fatta cadere da Petrarca nel giorno di Venerdì santo e da ciò si può dedurre che l'autore abbia voluto far cadere questa esperienza in un giorno importante per ciascun cristiano: la morte di Gesù¹ Cristo.
Così come Cristo deve affrontare una salita sotto il peso della croce, allo stesso modo Petrarca deve affrontare una salita e la croce è rappresentata dal conflitto interiore a cui è sottoposto; l'uomo, prima ancora che il poeta, scisso dal desiderio di congiungersi fisicamente con Laura e il rispetto della morale cristiane (un tema che abbiamo già sottolineato in precedenza). A differenza del fratello Gherardo,(religioso) che salirà senza difficoltà, Petrarca sarà costretto continuamente a fermarsi. Ciò non è dovuto all'esser Gherardo un alpinista esperto, ma, in un contesto allegorico, all'esser lui, in quanto frate, estraneo "alla pesantezza" dei beni e lusinghe materiali. Le asperità del terreno rappresentano le difficoltà della vita e la cima del monte la salvezza. il Petrarca, ammirando il magnifico panorama dalla cima del monte, aprendo una pagina a caso di una minuscola copia delle Confessioni di Sant'Agostino che portava con se, lesse alcune parole che lo colpirono profondamente, facendogli capire la futilità delle cose umane. " gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti e gli enormi flutti del mare, le vaste correnti dei fiumi e il giro dell'Oceano e le rotazioni degli astri, e non si curano di se stessi". Parole che non cambiarono la sua vita,indicano solo un "dover essere" che non si raggiunge.(di nuovo contrasto tra cielo e terra,divino e terreno)
In Sintesi Petrarca non fu legato a una corte o città particolare nato in esilio, vissuto all'estero (Avignone), ospitato presso signori e città diverse (per la sua chiara fama), senza mettere radici da nessuna parte, libero da preoccupazioni economiche. Fa politica senza lasciarsi coinvolgere totalmente : compone canzoni con cui ammonisce città e signori, scrive lettere di esortazione e consiglio a papi, imperatori, a Cola di Rienzo, ai dogi veneziani.Per i suoi contemporanei era conosciuto come il grande erudito, capace di coordinare una vasta rete di letterati e scrittori italiani e stranieri. Le sue lettere (veri e propri saggi critici) venivano copiate e studiate. Prima di essere incoronato in Campidoglio (soprattutto per il poema Africa), chiese d'essere esaminato come abbiamo visto, con solennità dal re di Napoli, Roberto d'Angiò. il Petrarca non ebbe mai alcuna intenzione di rivolgersi al pubblico non intellettuale. Lo dimostra il fatto che le uniche due opere in volgare che scrisse furono il Canzoniere e i Trionfi. Tutte le altre (poema Africa, lettere, compilazioni dottrinali, trattati polemici, operette religiose e psicologiche) furono scritte in latino, e solo per queste opere egli era diventato famoso.
A differenza degli scrittori del '200, legati all'esperienza comunale, e quindi alle esigenze dei nuovi ceti borghesi di conoscere e di educarsi usando il volgare, il Petrarca vuole parlare a una casta internazionale di intellettuali, politici, funzionari, cioè alla forza dirigente dell'Impero, della Curia avignonese, delle Signorie nascenti.
Petrarca visse in un periodo in cui al declino delle vecchie istituzioni (Chiesa e Impero) si andava aggiungendo la crisi della prima società borghese, il Comune stava per essere sostituita dalle Signorie, in cui il potere era detenuto da singole famiglie (o da oligarchie). Il Petrarca accetta la fine dell'istituzione comunale e lo sviluppo delle Signorie, ma in questo senso: egli vorrebbe che le Signorie, liberatesi dall'ingerenza dell'Impero e della Chiesa, si alleassero tra loro per restaurare la Repubblica della Roma antica, vista non come "culla" dell'Impero e della Chiesa, ma in sè e per sè, cioè  come civiltà ricca di virtù, di eroismo, di forza morale (una civiltà alternativa a quella medievale). Il Petrarca, ammirando il mondo classico per quello che era, anticipava un atteggiamento tipico dell'Umanesimo. Ovviamente sono proposte irrealizzabili che però indicano un modo diverso di guardare il mondo antico e quello a lui contemporaneo.
Altri aspetti del suo pensiero politico: considerava l'istituzione dell'Impero adatta al mondo germanico, ritenuto primitivo e barbarico, ma non all'Italia. Nella canzone Italia mia esorta i principi e signori italiani a cacciare dal loro suolo le milizie mercenarie germaniche. Auspicava inoltre il ritorno della chiesa alla primitiva purezza evangelica (di qui la condanna del potere temporale dei papi e della corruzione avignonese. Egli era anche favorevole al ritorno della sede pontificia a Roma). Forte è nel Petrarca l'insoddisfazione artistica, ovvero la tendenza alla perfezione. Avendo un animo sensibile e inquieto, rivede di continuo le sue opere, a volte per tutta la vita. Molte di esse non sono neppure compiute. Questa insoddisfazione la si ritrova, a livello psicologico, nella sua opera autobiografica più significativa: Secretum. Nel 1336, salendo sul Monte Ventoso in Provenza, ebbe una specie di crisi mistica: comprese che l'amore per le cose terrene (Laura) e l'ambizione artistica (desiderio di gloria) lo allontanavano dalle cose essenziali, profonde, religiose. Nel libro Secretum egli s'immagina di parlare con S. Agostino, ammettendo la propria colpa: l'accidia (cioè lo scarso entusiasmo nella ricerca del bene), ma riconosce anche di non avere la forza per cambiare vita (come appunto s. Agostino o il fratello Gherardo, fattosi monaco).Laura quindi viene considerata come un oggetto di tentazione, che attrae (a partire dal 1327) e che respinge (a partire dal 1336).
Viene indicato anche come il primo intellettuale cosciente del proprio ruolo a cominciare dalla firma autografa delle opere.