CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS
Untitled




FRANCESCO PETRARCA


CANZONIERE
(Rerum Vulgarium Fragmenta)

Parte II
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
FRANCESCO PETRARCA

sul CANZONIERE
_________

Da Wikipedia
__________________
FRANCESCO PETRARCA  - CANZONIERE - Parte II









































FINE
Parte seconda
Il Canzoniere, o meno comunemente conosciuto col titolo originale in latino Francisci Petrarchae laureati poetae Rerum vulgarium fragmenta ("Frammenti di componimenti in volgare di Francesco Petrarca, poeta coronato d'alloro"), è la storia, attraverso la poesia, della vita interiore di Petrarca.

- MANOSCRITTI
Esistono quattro principali testimoni: il manoscritto Vaticano Latino 3196, il cosiddetto "Codice degli abbozzi" in quanto contenente versioni non definitive e ricche di correzioni, ed il 3195, definitivo, composto tra il 1366 e il 1374 (anno di morte del Petrarca), con alcune poesie mancanti rispetto al 3196. Entrambi i manoscritti possono essere catalogati come idiografi/autografi, in quanto scritti in parte dalla mano di Petrarca, in parte da quella dello scriba suo discepolo Giovanni Malpaghini (cfr. a tal proposito Vat. Lat. 3195, c.62r in cui sono riscontrabili le due grafie: Malpaghini per C.317 - 318, Petrarca per C.319 - 320). La mano del Malpaghini è fondamentale in quanto darà vita alla "redazione Giovanni" (Gv), considerabile come strato evolutivo intermedio essenziale per comprendere l'evolversi dell'opera.
Ad essi vanno collegati i testimoni più autorevoli della tradizione, che attestano, prima della conclusione del lavoro nella versione definitiva affidata al Vaticano latino 3195, il passaggio attraverso forme, raccolte, e alcune "edizioni" principali consegnate ai seguenti manoscritti: il codice Chigi L V 176, il Laurenziano XLI 17, il Queriniano D II 21, ma soprattutto per stabilire la forma pre-definitiva al Laurenziano XLI 10 e al Parigino italiano 551.
La vastità delle testimonianze manoscritte del Canzoniere ha comportato un'oggettiva difficoltà nella definizione del testo critico. L’originale del Canzoniere (Vat. lat. 3195) è stato riprodotto diplomaticamente da Ettore Modigliani. Di esso ha procurato il testo critico Giuseppe Savoca ( Francesco Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, Firenze, Olschki, 2008.).

- LE STAMPE
La prima edizione a stampa del Canzoniere, insieme ai Trionfi, si ebbe nel 1470 a Venezia presso il tipografo tedesco Vindelino da Spira. Di questa editio princeps sopravvivono presso biblioteche italiane, europee e americane, meno di trenta esemplari.
Nelle decine di altre stampe del Petrarca volgare fatte in tutta Italia nell'ultimo trentennio del Quattrocento si distingue per il suo notevole valore filologico quella del 1472, approntata dall'editore padovano Bartolomeo Valdezocco (Bortolamio Valdezoco). Questa edizione (nonostante gli errori di lettura e trascrizione) si rivela condotta direttamente sull'originale vaticano (o su un esemplare per la tipografia derivato dall’originale). Rispetto alla editio princeps, la Valdezoco, seguendo abbastanza attentamente il manoscritto originale, introduce una punteggiatura limitata a tre segni: «.»,«:», «?».
Recenti ricerche hanno consentito di accertare che la parola canzoniere è presente, con specifico riferimento ai Rerum vulgarium fragmenta, «già in documenti precedenti al 1484».
Fondamentale, per la costituzione della vulgata petrarchesca, è stata l'edizione uscita a Venezia dalla tipografia di Aldo Manuzio nel 1501, la cosiddetta "Aldina". L'edizione veniva presentata dall'editore come fondata sull'originale del poeta, ma in realtà essa riproduceva una copia manoscritta del Canzoniere approntata da Pietro Bembo, e pervenutaci come codice Vat. lat. 3197, che non deriva direttamente dall'originale. Le cose volgari di messer Francesco Petrarcha del 1501 (basate sul 3197) furono poi, con variazioni, ripubblicate da Aldo nel 1514 come Il Petrarcha.
Editore di grande scrupolo e rigore filologico fu certamente nel '600 monsignor Federico Ubaldini che, senza apporvi nemmeno il proprio nome, pubblicò nel 1642 a Roma, in una forma diplomatica tuttora esemplare, Le Rime di M. Francesco Petrarca estratte da un suo originale (le carte del Vat. lat. 3195).
Tra le edizioni successive da citare è quella curata dall'abate Antonio Marsand (Le Rime del Petrarca, 2 voll., Padova, Tipografia del Seminario, 1819-1820), più che per il valore filologico, per essere l'edizione a cui si rifà esplicitamente Giacomo Leopardi, seguendola in ogni cosa, «eccetto solamente nella punteggiatura». Una citazione chiarifica l’intelligenza filologica di Leopardi, quando si riferisce alla canzone CXXIX, v. 63:

In questo volume ci siamo discostati una volta dalla edizione del professore Marsand, e ciò è nell'infrascritto passo…
«Poscia fra me pian piano: // Che sai tu lasso? forse in quella parte // Or di tua lontananza si sospira: // Ed in questo pensier l’alma respira.»

"Che sai tu lasso?" è la lettura corretta. Ma le tre edizioni seguite dal Marsand, in cambio di "che sai", riportano "che fai", lezione priva di significato. Leopardi apportò dunque la modifica solo per gusto poetico, senza aver mai avuto la possibilità di leggere l'originale petrarchesco.
Dopo Leopardi, una svolta decisiva nella filologia petrarchesca si ebbe nel 1886, quando venne riconosciuto, dal De Nolhac e dal Pakscher, nel codice Vat. lat. 3195 l'originale del Canzoniere. Dieci anni dopo (1896) usciva a Firenze l'edizione di Canzoniere e Trionfi dovuta a Giovanni Mestica. Nel 1899 anche Giosuè Carducci e Severino Ferrari pubblicavano le sole rime del Canzoniere.
Qualche anno dopo, nella ricorrenza del sesto centenario della nascita di Petrarca, Giuseppe Salvo Cozzo, giudicando una sciocca pretesa quella di pensare di «rimodernare l'ortografia», pubblicava un'edizione del Canzoniere basata sull'originale, e che si proponeva di «conservare al testo la sua fisonomia», collazionando anche le principali varianti tra l'originale e le edizioni del Mestica e di Carducci-Ferrari.
Porta la data editoriale del 1904, ma in realtà uscì nel maggio del 1905, la trascrizione diplomatica dell'originale che la Società Filologica Romana aveva affidato a Ettore Modigliani. Questa edizione (pregevole, ma non priva di numerosi errori e di sviste, specie per quanto riguarda l’interpunzione) è tuttora un autentico contributo per la conoscenza dell'originale, ma ha finito, sulla base dell’erroneo presupposto che esso fosse un documento perfettamente aderente al testo trascritto, per esimere gran parte dei filologi e degli editori dallo studio diretto del codice vaticano. A questo distacco dall'originale ha concorso (anche se in misura minore) la riproduzione fototipica dell'originale curata per la Biblioteca Vaticana da monsignor Marco Vattasso nel 1905. Da citare anche le edizioni di Chiòrboli (1924 e 1930).
Il testo di maggiore risonanza nell'editoria del Canzoniere nel secondo Novecento è, senza dubbio, quello approntato da Contini per le edizioni Tallone nel 1949 (ripubblicato per Einaudi nel 1964). Il testo di Contini tanto nella prima quanto nelle successive edizioni dipende totalmente dall’edizione diplomatica di Modigliani, dalla quale gli derivano direttamente numerosi errori di lettura e di trascrizione.
Gli editori e gli autorevoli commentatori post-continiani (da Ponte a Dotti, da Fenzi e Santagata a Bettarini, ecc.) hanno tutti accettato il testo di Contini, talvolta correggendone sviste ed errori di stampa, e anche variandone in qualche luogo l’interpunzione, ma senza contestarne mai le soluzioni di base. Nel 2008 Giuseppe Savoca ha pubblicato un'edizione critica basata sull’originale. Questa edizione riconduce la punteggiatura al sistema "punto, virgola, punto interrogativo", apportando modifiche (rispetto all'edizione Contini e successive) a 3685 versi (dei 7785 che compongono il Canzoniere), a 1542 parole (delle oltre 57.000 del corpus), per un totale di oltre 8000 interventi. Savoca cataloga inoltre le 8472 varianti rispetto ai testimoni più accreditati: il Codice degli abbozzi (Vat. lat. 3196), il Chigiano (L V 176), il Laurenziano (XLI 17), e il Queriniano (D II 21)

- IL TESTO
La raccolta comprende 366 (365, come i giorni dell'anno, più uno introduttivo: "Voi ch'ascoltate") componimenti: 317 sonetti (86.5%), 29 canzoni (8%), 9 sestine(2.5%), 7 ballate (2%) e 4 madrigali (1%). Non raccoglie tutti i componimenti poetici del Petrarca, ma solo quelli che il poeta scelse con grande cura; altre rime (extravagantes) andarono perdute o furono incluse in altri manoscritti. La maggior parte delle rime del Canzoniere è d'argomento amoroso, una trentina sono di argomento morale, religioso o politico.
Sono celebri le canzoni Italia mia e Spirto gentil nelle quali il concetto di Patria si identifica con la bellezza della terra natale, sognata libera dalle lotte fratricide e dalle milizie mercenarie. Fra le canzoni più celebri ricordiamo anche Chiare, fresche e dolci acque e tra i sonetti Solo et pensoso i piú deserti campi.
La raccolta è stata divisa dagli editori in due parti: rime "in vita" (I-CCLXIII) e rime "in morte" (CCLXIV-CCCLXVI) di Madonna Laura. In realtà il Petrarca compose il Canzoniere dopo il 1348, includendovi rime già composte sia per Laura, sia per altre donne (ed attribuendo queste ultime a Laura), stendendo altre rime che finse di aver scritto quando l'amata era ancora in vita ed aggiungendone altre ancora, in modo da rappresentare Laura come l'unico puro amore terreno.

- POETICA
L'amore non corrisposto per Laura, incontrata l'unica volta - a detta del poeta - il 6 aprile 1327, è il fulcro della vita spirituale del Petrarca; il poeta credeva infatti che, sulla base dei propri studi sui classici, tutto divenisse spontaneamente letteratura. Da tale sostrato letterario ha origine la grande poesia petrarchesca. Con Petrarca la letteratura diventa maestra di vita e nasce la prima lezione dell'umanesimo. In Petrarca si avverte la ricerca della serenità. Lo sconforto, il dolore, la volontà di pentimento, divengono speranza; il pianto per la morte della donna amata si placa nell'immagine di Laura che scende consolatrice dal cielo.
Nella poesia del Petrarca la descrizione dei sentimenti trova riscontro o contrapposizione nel paesaggio. Il Petrarca perfezionò le forme della tradizione lirica medievale, dai provenzali prese il metro (la sestina) e ne rielaborò i modi poetici. Anche la raffigurazione della donna amata si inquadra nella tematica provenzale: Laura è la donna a cui il poeta rende omaggio e costituisce il fulcro ideale intorno al quale si dispone la vita sentimentale del poeta. Presa a modello di virtù e di bellezza non ha nulla di sovrumano; anzi, matura negli anni attraverso il Canzoniere. La sua figura, i suoi tratti umani, i begli occhi, le trecce bionde, il dolce riso, sono ispirati a personaggi reali. L'immagine di Laura è probabilmente quella di una cantatrice attiva in Veneto nella seconda metà del XIV secolo.
La seconda parte del Canzoniere si chiude con la canzone Alla Vergine, nella quale il poeta implora perdono ed esprime un intenso desiderio di superare ogni conflitto, di trovare finalmente la pace. E "pace" è appunto l'ultima, emblematica parola della canzone, la parola che chiude e suggella il libro.
Il Canzoniere si divide fra "rime in vita" e "rime in morte" di Laura.
Si tratta di un'autobiografia spirituale del poeta, come le Confessioni di sant'Agostino, scrittore e teologo che fu modello spirituale e religioso per Petrarca. "Tutta la lirica del Petrarca è un sommesso colloquio del poeta con la propria anima". La sua poesia ha un carattere psicologico, senza toni realistici o narrativi. Il tema dominante è il "dissidio interiore" che il poeta prova tra l'attrazione verso i piaceri terreni e l'amore per Laura, e la tensione spirituale verso Dio. Dall'idea di amore-peccato del primo sonetto ("in sul mio primo giovenile errore") il poeta giunge alla conclusione del Canzoniere con la canzone alla Vergine ("Vergine bella che di sol vestita"): è una palinodia religiosa che chiude l'opera secondo una parabola spirituale ascendente tipicamente medievale. "Il Canzoniere si conclude con un testo di ispirazione religiosa e tono sublime, una delle canzoni più complesse dell’intera raccolta dal punto di vista metrico e retorico. La collocazione della poesia non rispecchia l’ordine reale di composizione, ma risponde all’esigenza di concludere in maniera esemplare la vicenda del poeta con il rifiuto delle tentazioni terrene e dell’amore per Laura”. A questo proposito il critico Gianfranco Contini ha definito il Canzoniere una "storia sacra di un amore profano". Sempre Contini, ha osservato come nell'ambito del Canzoniere, il nome di Laura venga "sillabato" in ogni maniera: " aura", "lauro", "l'auro". Frequenti sono i riferimenti biblici e spesso il verso petrarchesco ricalca passi della Bibbia come nel sonetto LXXXI (Io son sì stanco) dove ad esempio il verso "O voi che travagliate, ecco 'l camino"  riprende il Vangelo di Matteo (XI,28) e la terzina finale ("Qual grazia, qual amore o qual destino/ mi darà penne in guisa di colomba/ ch'io mi riposi e levimi da terra?") riprende il salmo LIV,7. Petrarca si sente smarrito tra realtà e sogno (Di pensier in pensier, di monte in monte), immerso nell'angosciosa solitudine (O cameretta che già fosti un porto), ricercatore di un isolamento dal mondo (Solo et pensoso), aspiratore ad una dimensione spirituale che però è difficile da conquistare (Padre del ciel, Movesi il vecchierel). Egli riconosce, già alla fine del primo sonetto, che frutto del suo seguire le vanità terrene sono la vergogna, il pentimento e il riconoscere che "quanto piace al mondo è breve sogno", riecheggiando così il biblico "vanitas vanitatum" ("vanità delle vanità") dell'Ecclesiaste (Qoelet 2). Certi componimenti hanno il carattere di splendide preghiere, come i sonetti Padre del ciel (LXII), Tennemi Amor (CCCLXVI), Io vo piangendo (CCCLXV), la canzone alla Vergine (CCCLXVI). La canzone Chiare fresche e dolci acque (CXXVI) mostra un'anima tra l'angoscia della realtà e la dolce malinconia del sogno. Come in questa canzone e nel sonetto O cameretta che già fosti porto (CCXXXIV), la valle piena dei suoi lamenti e l'aria calda dei suoi sospiri ed il dolce sentiero (CCCI), l'usignolo (CCCXI), i dolci colli (CCCXX) ed il vago augelletto (CCCLIII) non rappresentano una natura esteriore ma creature di un mondo interiorizzato, vagheggiato nell'immaginazione, confidenti delle pene recondite del poeta che spesso si rifugia in un clima di sogno e di immaginazione. Nella seconda parte del Canzoniere vi sono sonetti notevoli e belli (CCLXXIX, CCLXXXII, CCLXXXV, CCCII) e la Canzone Quando il soave mio fido conforto in cui Laura, donna di vaga bellezza e trasfigurata spiritualmente, lo consola "nelle sue notti dolenti" e "sospira dolcemente e si adira" nel vederlo immerso nelle passioni terrene.
Il critico Umberto Bosco sottolinea che "l'amore è il mezzo di cui Petrarca si serve per concretare liricamente la complessità dei suoi sentimenti", un amore che trapassa dal sogno all'elegia in cui Laura è "una figura evanescente". Il poeta esprime la dolcezza del gaudio in sé ma anche un presagio di dissolvimento e di morte. La caducità è un altro motivo dominante nel Canzoniere ed in altre opere petrarchesche, dal "conoscere chiaramente che quanto piace al mondo è breve sogno" (sonetto proemiale del Canzoniere) al lamento di Magone morente nel poemetto l' Africa, e Laura "è il fantasma poetico nel quale liricamente si concreta, soprattutto, appunto, il senso dell'irrimediabile caducità". Quanto poi all'interiore dissidio del poeta, Bosco osserva che esso "non consiste dunque propriamente nel conflitto umano-divino, ma nel conflitto tra la religione e la ragione da una parte, che gli impongono la concezione di un Dio che comprenda tutto ma in cui tutto si annulli, e l'incoercibile forza del sogno dall'altra, che lo trascina a concepire un Dio riposo degli affanni e garante dell'eternità degli affetti umani".
Altri temi presenti nel Canzoniere sono la condanna della corruzione della curia papale ad Avignone (Fiamma dal ciel su le tue trecce piova, CXXXVI) e l' esaltazione delle virtù italiche nelle canzoni Spirto gentil e Italia mia. Nella prima Roma è portata ad esempio e modello di civiltà per i corrotti contemporanei, nella seconda i reggenti le Signorie italiane sono invitati a chiamare a raccolta il popolo, erede delle virtù romane ("Latin sangue gentil") contro i soldati mercenari germanici discendenti dai barbari sconfitti dai Romani ("Vertù contra furore/prenderà l'arme e fia il combatter corto: /ché l'antico valore/ ne l'italici cor non è ancor morto").

_____________________________
61
Benedetto sia 'l giorno, et 'l mese, et l'anno,
et la stagione, e 'l tempo, et l'ora, e 'l punto,
e 'l bel paese, e 'l loco ov'io fui giunto
da'duo begli occhi che legato m'ànno;

et benedetto il primo dolce affanno
ch'i' ebbi ad esser con Amor congiunto,
et l'arco, et le saette ond'i' fui punto,
et le piaghe che 'nfin al cor mi vanno.

Benedette le voci tante ch'io
chiamando il nome de mia donna ò sparte,
e i sospiri, et le lagrime, e 'l desio;

et benedette sian tutte le carte
ov'io fama l'acquisto, e 'l pensier mio,
ch'è sol di lei, sí ch'altra non v'à parte.

62
Padre del ciel, dopo i perduti giorni,
dopo le notti vaneggiando spese,
con quel fero desio ch'al cor s'accese,
mirando gli atti per mio mal sí adorni,

piacciati omai col Tuo lume ch'io torni
ad altra vita et a piú belle imprese,
sí ch'avendo le reti indarno tese,
il mio duro adversario se ne scorni.

Or volge, Signor mio, l'undecimo anno
ch'i' fui sommesso al dispietato giogo
che sopra i piú soggetti è piú feroce.

Miserere del mio non degno affanno;
reduci i pensier' vaghi a miglior luogo;
ramenta lor come oggi fusti in croce.

63
Volgendo gli occhi al mio novo colore
che fa di morte rimembrar la gente,
pietà vi mosse; onde, benignamente
salutando, teneste in vita il core.

La fraile vita, ch'ancor meco alberga,
fu de' begli occhi vostri aperto dono,
et de la voce angelica soave.
Da lor conosco l'esser ov'io sono:

==>SEGUE



ché, come suol pigro animal per verga,
cosí destaro in me l'anima grave.
Del mio cor, donna, l'una et l'altra chiave

avete in mano; et di ciò son contento,
presto di navigare a ciascun vento,
ch'ogni cosa da voi m'è dolce honore.

64
Se voi poteste per turbati segni,
per chinar gli occhi, o per piegar la testa,
o per esser piú d'altra al fuggir presta,
torcendo 'l viso a' preghi honesti et degni,

uscir già mai, over per altri ingegni,
del petto ove dal primo lauro innesta
Amor piú rami, i' direi ben che questa
fosse giusta cagione a' vostri sdegni:

ché gentil pianta in arido terreno
par che si disconvenga, et però lieta
naturalmente quindi si diparte;

ma poi vostro destino a voi pur vieta
l'esser altrove, provedete almeno
di non star sempre in odïosa parte.

65
Lasso, che mal accorto fui da prima
nel giorno ch'a ferir mi venne Amore,
ch'a passo a passo è poi fatto signore
de la mia vita, et posto in su la cima.

Io non credea per forza di sua lima
che punto di fermezza o di valore
mancasse mai ne l'indurato core;
ma cosí va, chi sopra 'l ver s'estima.

Da ora inanzi ogni difesa è tarda,
altra che di provar s'assai o poco
questi preghi mortali Amore sguarda.

Non prego già, né puote aver piú loco,
che mesuratamente il mio cor arda,
ma che sua parte abbia costei del foco.


66
L'aere gravato, et l'importuna nebbia
compressa intorno da rabbiosi vènti
tosto conven che si converta in pioggia;
et già son quasi di cristallo i fiumi,
e 'n vece de l'erbetta per le valli
non se ved'altro che pruine et ghiaccio.

Et io nel cor via piú freddo che ghiaccio
ò di gravi pensier' tal una nebbia,
qual si leva talor di queste valli,
serrate incontra agli amorosi vènti,
et circundate di stagnanti fiumi,
quando cade dal ciel piú lenta pioggia.

In picciol tempo passa ogni gran pioggia,
e 'l caldo fa sparir le nevi e 'l ghiaccio,
di che vanno superbi in vista i fiumi;
né mai nascose il ciel sí folta nebbia
che sopragiunta dal furor d'i vènti
non fugisse dai poggi et da le valli.

Ma, lasso, a me non val fiorir de valli,
anzi piango al sereno et a la pioggia
et a' gelati et a' soavi vènti:
ch'allor fia un dí madonna senza 'l ghiaccio
dentro, et di for senza l'usata nebbia,
ch'i' vedrò secco il mare, e' laghi, e i fiumi.

Mentre ch'al mar descenderanno i fiumi
et le fiere ameranno ombrose valli,
fia dinanzi a' begli occhi quella nebbia
che fa nascer d'i miei continua pioggia,
et nel bel petto l'indurato ghiaccio
che trâ del mio sí dolorosi vènti.

Ben debbo io perdonare a tutti vènti,
per amor d'un che 'n mezzo di duo fiumi
mi chiuse tra 'l bel verde e 'l dolce ghiaccio,
tal ch'i' depinsi poi per mille valli
l'ombra ov'io fui, ché né calor né pioggia
né suon curava di spezzata nebbia.

Ma non fuggío già mai nebbia per vènti,
come quel dí, né mai fiumi per pioggia,
né ghiaccio quando 'l sole apre le valli.


67
Del mar Tirreno a la sinistra riva,
dove rotte dal vento piangon l'onde,
súbito vidi quella altera fronde
di cui conven che 'n tante carte scriva.

Amor, che dentro a l'anima bolliva,
per rimembranza de le treccie bionde
mi spinse, onde in un rio che l'erba asconde
caddi, non già come persona viva.

Solo ov'io era tra boschetti et colli
vergogna ebbi di me, ch'al cor gentile
basta ben tanto, et altro spron non volli.

Piacemi almen d'aver cangiato stile
da gli occhi a' pie', se del lor esser molli
gli altri asciugasse un piú cortese aprile.

68
L'aspetto sacro de la terra vostra
mi fa del mal passato tragger guai,
gridando: Sta' su, misero, che fai?;
et la via de salir al ciel mi mostra.

Ma con questo pensier un altro giostra,
et dice a me: Perché fuggendo vai?
se ti rimembra, il tempo passa omai
di tornar a veder la donna nostra.

I' che 'l suo ragionar intendo, allora
m'agghiaccio dentro, in guisa d'uom ch'ascolta
novella che di súbito l'accora.

Poi torna il primo, et questo dà la volta:
qual vincerà, non so; ma 'nfino ad ora
combattuto ànno, et non pur una volta.

69
Ben sapeva io che natural consiglio,
Amor, contra di te già mai non valse,
tanti lacciuol', tante impromesse false,
tanto provato avea 'l tuo fiero artiglio.

Ma novamente, ond'io mi meraviglio
(diròl, come persona a cui ne calse,
e che 'l notai là sopra l'acque salse,
tra la riva toscana et l'Elba et Giglio),

==>SEGUE

Che parlo? o dove sono? e chi m'inganna,
altri ch'io stesso e 'l desïar soverchio?
Già s'i'trascorro il ciel di cerchio in cerchio,
nessun pianeta a pianger mi condanna.
Se mortal velo il mio veder appanna,
che colpa è de le stelle,
o de le cose belle?
Meco si sta chi dí et notte m'affanna,
poi che del suo piacer mi fe' gir grave
la dolce vista e 'l bel guardo soave.

Tutte le cose, di che 'l mondo è adorno
uscïr buone de man del mastro eterno;
ma me, che cosí adentro non discerno,
abbaglia il bel che mi si mostra intorno;
et s'al vero splendor già mai ritorno,
l'occhio non po' star fermo,
cosí l'à fatto infermo
pur la sua propria colpa, et non quel giorno
ch'i' volsi inver' l'angelica beltade
nel dolce tempo de la prima etade.



i' fuggia le tue mani, et per camino,
agitandom'i vènti e 'l ciel et l'onde,
m'andava sconosciuto et pellegrino:

quando ecco i tuoi ministri, i' non so donde,
per darmi a diveder ch'al suo destino
mal chi contrasta, et mal chi si nasconde.

70
Lasso me, ch'i' non so in qual parte pieghi
la speme, ch'è tradita omai più volte:
che se non è chi con pietà m'ascolte,
perché sparger al ciel sí spessi preghi?
Ma s'egli aven ch'anchor non mi si nieghi
finir anzi 'l mio fine
queste voci meschine,
non gravi al mio signor perch'io il ripreghi
di dir libero un dí tra l'erba e i fiori:
Drez et rayson es qu'ieu ciant e 'm demori.

Ragione è ben ch'alcuna volta io canti,
però ch'ò sospirato sí gran tempo
che mai non incomincio assai per tempo
per adequar col riso i dolor' tanti.
Et s'io potesse far ch'agli occhi santi
porgesse alcun dilecto
qualche dolce mio detto,
o me beato sopra gli altri amanti!
Ma piú quand'io dirò senza mentire:
Donna mi priegha, per ch'io voglio dire.

Vaghi pensier' che cosí passo passo
scorto m'avete a ragionar tant'alto,
vedete che madonna à 'l cor di smalto,
sí forte ch'io per me dentro nol passo.
Ella non degna di mirar sí basso
che di nostre parole
curi, ché 'l ciel non vòle,
al qual pur contrastando i' son già lasso:
onde, come nel cor m'induro e n'aspro,
così nel mio parlar voglio esser aspro.

==>SEGUE
71
Perché la vita è breve,
et l'ingegno paventa a l'alta impresa,
né di lui né di lei molto mi fido;
ma spero che sia intesa
là dov'io bramo, et là dove esser deve,
la doglia mia la qual tacendo i' grido.
Occhi leggiadri dove Amor fa nido,
a voi rivolgo il mio debile stile,
pigro da sé, ma 'l gran piacer lo sprona;
et chi di voi ragiona
tien dal soggetto un habito gentile,
che con l'ale amorose
levando il parte d'ogni pensier vile.
Con queste alzato vengo a dir or cose
ch'ò portate nel cor gran tempo ascose.

Non perch'io non m'aveggia
quanto mia laude è 'ngiurïosa a voi:
ma contrastar non posso al gran desio,
lo quale è 'n me da poi
ch'i' vidi quel che pensier non pareggia,
non che l'avagli altrui parlar o mio.
Principio del mio dolce stato rio,
altri che voi so ben che non m'intende.
Quando agli ardenti rai neve divegno,
vostro gentile sdegno
forse ch'allor mia indignitate offende.
Oh, se questa temenza
non temprasse l'arsura che m'incende,
beato venir men! ché 'n lor presenza
m'è più caro il morir che 'l viver senza.

Dunque ch'i' non mi sfaccia,
sí frale obgetto a sí possente foco,
non è proprio valor che me ne scampi;
ma la paura un poco,
che 'l sangue vago per le vene agghiaccia,
risalda 'l cor, perché piú tempo avampi.
O poggi, o valli, o fiumi, o selve, o campi,
o testimon' de la mia grave vita,
quante volte m'udiste chiamar morte!
Ahi dolorosa sorte
lo star mi strugge, e 'l fuggir non m'aita.

==>SEGUE

Ma se maggior paura
non m'affrenasse, via corta et spedita
trarrebbe a fin questa aspra pena et dura;
et la colpa è di tal che non à cura.

Dolor, perché mi meni
fuor di camin a dir quel ch'i' non voglio?
Sostien ch'io vada ove 'l piacer mi spigne.
Già di voi non mi doglio,
occhi sopra 'l mortal corso sereni,
né di lui ch'a tal nodo mi distrigne.
Vedete ben quanti color' depigne
Amor sovente in mezzo del mio volto,
et potrete pensar qual dentro fammi,
là 've dí et notte stammi
adosso, col poder ch'à in voi raccolto,
luci beate et liete
se non che 'l veder voi stesse v'è tolto;
ma quante volte a me vi rivolgete,
conoscete in altrui quel che voi siete.

S'a voi fosse sí nota
la divina incredibile bellezza
di ch'io ragiono, come a chi la mira,
misurata allegrezza
non avria 'l cor: però forse è remota
dal vigor natural che v'apre et gira.
Felice l'alma che per voi sospira,
lumi del ciel, per li quali io ringratio
la vita che per altro non m'è a grado!
Oimè, perché sí rado
mi date quel dond'io mai non son satio?
Perché non piú sovente
mirate qual Amor di me fa stracio?
E perché mi spogliate immantanente
del ben ch'ad ora ad or l'anima sente?

Dico ch'ad ora ad ora,
vostra mercede, i' sento in mezzo l'alma
una dolcezza inusitata et nova,
la qual ogni altra salma
di noiosi pensier' disgombra allora,
sí che di mille un sol vi si ritrova:
quel tanto a me, non piú, del viver giova.

==>SEGUE


Et se questo mio ben durasse alquanto,
nullo stato aguagliarse al mio porrebbe;
ma forse altrui farrebbe
invido, et me superbo l'onor tanto:
però, lasso, convensi
che l'extremo del riso assaglia il pianto,
e 'nterrompendo quelli spirti accensi
a me ritorni, et di me stesso pensi.

L'amoroso pensero
ch'alberga dentro, in voi mi si discopre
tal che mi trâ del cor ogni altra gioia;
onde parole et opre
escon di me sí fatte allor ch'i' spero
farmi immortal, perché la carne moia.
Fugge al vostro apparire angoscia et noia,
et nel vostro partir tornano insieme.
Ma perché la memoria innamorata
chiude lor poi l'entrata,
di là non vanno da le parti extreme;
onde s'alcun bel frutto
nasce di me, da voi vien prima il seme:
io per me son quasi un terreno asciutto,
cólto da voi, e 'l pregio è vostro in tutto.

Canzon, tu non m'acqueti, anzi m'infiammi
a dir di quel ch'a me stesso m'invola:
però sia certa de non esser sola.

72
Gentil mia donna, i' veggio
nel mover de' vostr'occhi un dolce lume
che mi mostra la via ch'al ciel conduce;
et per lungo costume,
dentro là dove sol con Amor seggio,
quasi visibilmente il cor traluce.
Questa è la vista ch'a ben far m'induce,
et che mi scorge al glorïoso fine;
questa sola dal vulgo m'allontana:
né già mai lingua humana
contar poria quel che le due divine
luci sentir mi fanno,
e quando 'l verno sparge le pruine,
et quando poi ringiovenisce l'anno
qual era al tempo del mio primo affanno.

==>SEGUE
Io penso: se là suso,
onde 'l motor eterno de le stelle
degnò mostrar del suo lavoro in terra,
son l'altr'opre sí belle,
aprasi la pregione, ov'io son chiuso,
et che 'l camino a tal vita mi serra.
Poi mi rivolgo a la mia usata guerra,
ringratiando Natura e 'l dí ch'io nacqui
che reservato m'ànno a tanto bene,
et lei ch'a tanta spene
alzò il mio cor: ché 'nsin allor io giacqui
a me noioso et grave,
da quel dí inanzi a me medesmo piacqui,
empiendo d'un pensier alto et soave
quel core ond'ànno i begli occhi la chiave.

Né mai stato gioioso
Amor o la volubile Fortuna
dieder a chi piú fur nel mondo amici,
ch'i' nol cangiassi ad una
rivolta d'occhi, ond'ogni mio riposo
vien come ogni arbor vien da sue radici.
Vaghe faville, angeliche, beatrici
de la mia vita, ove 'l piacer s'accende
che dolcemente mi consuma et strugge:
come sparisce et fugge
ogni altro lume dove'l vostro splende,
cosí de lo mio core,
quando tanta dolcezza in lui discende,
ogni altra cosa, ogni penser va fore,
et solo ivi con voi rimanse Amore.

Quanta dolcezza unquancho
fu in cor d'aventurosi amanti, accolta
tutta in un loco, a quel ch'i' sento è nulla,
quando voi alcuna volta
soavemente tra 'l bel nero e 'l biancho
volgete il lume in cui Amor si trastulla;
et credo da le fasce et da la culla
al mio imperfecto, a la Fortuna adversa
questo rimedio provedesse il cielo.
Torto mi face il velo
et la man che sí spesso s'atraversa
fra 'l mio sommo dilecto
et gli occhi, onde dí et notte si rinversa
il gran desio per isfogare il petto,
che forma tien dal varïato aspetto.
  ==>SEGUE
Perch'io veggio, et mi spiace,
che natural mia dote a me non vale
né mi fa degno d'un sí caro sguardo,
sforzomi d'esser tale
qual a l'alta speranza si conface,
et al foco gentil ond'io tutt'ardo.
S'al ben veloce, et al contrario tardo,
dispregiator di quanto 'l mondo brama
per solicito studio posso farme,
porrebbe forse aitarme
nel benigno iudicio una tal fama:
Certo il fin de' miei pianti,
che non altronde il cor doglioso chiama,
vèn da' begli occhi alfin dolce tremanti,
ultima speme de' cortesi amanti.

Canzon, l'una sorella è poco inanzi,
et l'altra sento in quel medesmo albergo
apparechiarsi; ond'io piú carta vergo.

73
Poi che per mio destino
a dir mi sforza quell'accesa voglia
che m'à sforzato a sospirar mai sempre,
Amor, ch'a ciò m'invoglia,
sia la mia scorta, e 'nsignimi 'l camino,
et col desio le mie rime contempre:
ma non in guisa che lo cor si stempre
di soverchia dolcezza, com'io temo,
per quel ch'i' sento ov'occhio altrui non giugne;
ché 'l dir m'infiamma et pugne,
né per mi' 'ngegno, ond'io pavento et tremo,
sí come talor sòle,
trovo 'l gran foco de la mente scemo,
anzi mi struggo al suon de le parole,
pur com'io fusse un huom di ghiaccio al sole.

Nel cominciar credia
trovar parlando al mio ardente desire
qualche breve riposo et qualche triegua.
Questa speranza ardire
mi porse a ragionar quel ch'i'sentia:
or m'abbandona al tempo, et si dilegua.
Ma pur conven che l'alta impresa segua
continüando l'amorose note,
    
   ==>SEGUE
sí possente è 'l voler che mi trasporta;
et la ragione è morta,
che tenea 'l freno, et contrastar nol pote.
Mostrimi almen ch'io dica
Amor in guisa che, se mai percote
gli orecchi de la dolce mia nemica,
non mia, ma di pietà la faccia amica.

Dico: se 'n quella etate
ch'al vero honor fur gli animi sí accesi,
l'industria d'alquanti huomini s'avolse
per diversi paesi,
poggi et onde passando, et l'onorate
cose cercando, e 'l più bel fior ne colse,
poi che Dio et Natura et Amor volse
locar compitamente ogni virtute
in quei be' lumi, ond'io gioioso vivo,
questo et quell'altro rivo
non conven ch'i' trapasse, et terra mute.
A ·llor sempre ricorro
come a fontana d'ogni mia salute,
et quando a morte disïando corro,
sol di lor vista al mio stato soccorro.

Come a forza di vènti
stanco nocchier di notte alza la testa
a' duo lumi ch'a sempre il nostro polo,
cosí ne la tempesta
ch'i' sostengo d'Amor, gli occhi lucenti
sono il mio segno e 'l mio conforto solo.
Lasso, ma troppo è piú quel ch'io ne 'nvolo
or quinci or quindi, come Amor m'informa,
che quel che vèn da gratïoso dono;
et quel poco ch'i' sono
mi fa di lor una perpetua norma.
Poi ch'io li vidi in prima,
senza lor a ben far non mossi un'orma:
cosí gli ò di me posti in su la cima,
che 'l mio valor per sé falso s'estima.

I' non poria già mai
imaginar, nonché narrar gli effecti,
che nel mio cor gli occhi soavi fanno:
tutti gli altri diletti
di questa vita ò per minori assai,
   
   ==>SEGUE
et tutte altre bellezze indietro vanno.
Pace tranquilla senza alcuno affanno:
simile a quella ch'è nel ciel eterna,
move da lor inamorato riso.
Cosí vedess'io fiso
come Amor dolcemente gli governa,
sol un giorno da presso
senza volger già mai rota superna,
né pensasse d'altrui né di me stesso,
e 'l batter gli occhi miei non fosse spesso.

Lasso, che disïando
vo quel ch'esser non puote in alcun modo,
et vivo del desir fuor di speranza:
solamente quel nodo
ch'Amor cerconda a la mia lingua quando
l'umana vista il troppo lume avanza,
fosse disciolto, i' prenderei baldanza
di dir parole in quel punto sí nove
che farian lagrimar chi le 'ntendesse;
ma le ferite impresse
volgon per forza il cor piagato altrove,
ond'io divento smorto,
e 'l sangue si nasconde, i' non so dove,
né rimango qual era; et sonmi accorto
che questo è 'l colpo di che Amor m'à morto.

Canzone, i' sento già stancar la penna
del lungo et del dolce ragionar co ·llei,
ma non di parlar meco i pensier' mei.

74
Io son già stanco di pensar sí come
i miei pensier' in voi stanchi non sono,
et come vita anchor non abbandono
per fuggir de' sospir' sí gravi some;

et come a dir del viso et de le chiome
et de' begli occhi, ond'io sempre ragiono,
non è mancata omai la lingua e 'l suono
dí et notte chiamando il vostro nome;

et che' pie' non son fiaccati et lassi
a seguir l'orme vostre in ogni parte
perdendo inutilmente tanti passi;

et onde vien l'enchiostro, onde le carte
ch'i' vo empiendo di voi: se 'n ciò fallassi,
colpa d'Amor, non già defecto d'arte.




75
I begli occhi ond'i' fui percosso in guisa
ch'e' medesmi porian saldar la piaga,
et non già vertú d'erbe, o d'arte maga,
o di pietra dal mar nostro divisa,

m'ànno la via sí d'altro amor precisa,
ch'un sol dolce penser l'anima appaga;
et se la lingua di seguirlo è vaga,
la scorta pò, non ella, esser derisa.

Questi son que' begli occhi che l'imprese
del mio signor victorïose fanno
in ogni parte, et piú sovra 'l mio fianco;

questi son que' begli occhi che mi stanno
sempre nel cor colle faville accese,
per ch'io di lor parlando non mi stanco.

76
Amor con sue promesse lusingando
mi ricondusse a la prigione antica,
et die' le chiavi a quella mia nemica
ch'anchor me di me stesso tene in bando.

Non me n'avidi, lasso, se non quando
fui in lor forza; et or con gran fatica
(chi 'l crederà perché giurando i' 'l dica?)
in libertà ritorno sospirando.

Et come vero pregioniero afflicto
de le catene mie gran parte porto,
e 'l cor ne gli occhi et ne la fronte ò scritto.

Quando sarai del mio colore accorto,
dirai: S'i' guardo et giudico ben dritto,
questi avea poco andare ad esser morto.

77
Per mirar Policleto a prova fiso
con gli altri ch'ebber fama di quell'arte
mill'anni, non vedrian la minor parte
de la beltà che m'ave il cor conquiso.

Ma certo il mio Simon fu in paradiso
(onde questa gentil donna si parte),
ivi la vide, et la ritrasse in carte
per far fede qua giú del suo bel viso.

   ==>SEGUE
L'opra fu ben di quelle che nel cielo
si ponno imaginar, non qui tra noi,
ove le membra fanno a l'alma velo.

Cortesia fe'; né la potea far poi
che fu disceso a provar caldo et gielo,
et del mortal sentiron gli occhi suoi.

78
Quando giunse a Simon l'alto concetto
ch'a mio nome gli pose in man lo stile,
s'avesse dato a l'opera gentile
colla figura voce ed intellecto,

di sospir' molti mi sgombrava il petto,
che ciò ch'altri à piú caro, a me fan vile:
però che 'n vista ella si mostra humile
promettendomi pace ne l'aspetto.

Ma poi ch'i' vengo a ragionar co llei,
benignamente assai par che m'ascolte,
se risponder savesse a' detti miei.

Pigmalïon, quanto lodar ti dêi
de l'imagine tua, se mille volte
n'avesti quel ch'i' sol una vorrei.

79
S'al principio risponde il fine e 'l mezzo
del quartodecimo anno ch'io sospiro,
piú non mi pò scampar l'aura né 'l rezzo,
sí crescer sento 'l mio ardente desiro.

Amor, con cui pensier mai non amezzo,
sotto 'l cui giogo già mai non respiro,
tal mi governa, ch'i' non son già mezzo,
per gli occhi ch'al mio mal sí spesso giro.

Cosí mancando vo di giorno in giorno,
sí chiusamente, ch'i' sol me n'accorgo
et quella che guardando il cor mi strugge.

A pena infin a qui l'anima scorgo,
né so quanto fia meco il suo soggiorno,
ché la morte s'appressa, e 'l viver fugge.




80
Chi è fermato di menar sua vita
su per l'onde fallaci et per gli scogli
scevro da morte con un picciol legno,
non pò molto lontan esser dal fine:
però sarrebbe da ritrarsi in porto
mentre al governo anchor crede la vela.

L'aura soave a cui governo et vela
commisi entrando a l'amorosa vita
et sperando venire a miglior porto,
poi mi condusse in piú di mille scogli;
et le cagion' del mio doglioso fine
non pur d'intorno avea, ma dentro al legno.

Chiuso gran tempo in questo cieco legno
errai, senza levar occhio a la vela
ch'anzi al mio dí mi trasportava al fine;
poi piacque a lui che mi produsse in vita
chiamarme tanto indietro da li scogli
ch'almen da lunge m'apparisse il porto.

Come lume di notte in alcun porto
vide mai d'alto mar nave né legno
se non gliel tolse o tempestate o scogli,
cosí di su da la gomfiata vela
vid'io le 'nsegne di quell'altra vita,
et allor sospirai verso 'l mio fine.

Non perch'io sia securo anchor del fine:
ché volendo col giorno esser a porto
è gran vïaggio in cosí poca vita;
poi temo, ché mi veggio in fraile legno,
et piú che non vorrei piena la vela
del vento che mi pinse in questi scogli.

S'io esca vivo de' dubbiosi scogli,
et arrive il mio exilio ad un bel fine,
ch'i' sarei vago di voltar la vela,
et l'anchore gittar in qualche porto!
Se non ch'i' ardo come acceso legno,
sí m'è duro a lassar l'usata vita.

Signor de la mia fine et de la vita,
prima ch'i' fiacchi il legno tra gli scogli
drizza a buon porto l'affannata vela.
   
81
Io son sí stanco sotto 'l fascio antico
de le mie colpe et de l'usanza ria
ch'i' temo forte di mancar tra via,
et di cader in man del mio nemico.

Ben venne a dilivrarmi un grande amico
per somma et ineffabil cortesia;
poi volò fuor de la veduta mia,
sí ch'a mirarlo indarno m'affatico.

Ma la sua voce anchor qua giú rimbomba:
O voi che travagliate, ecco 'l camino;
venite a me, se 'l passo altri non serra.

Qual gratia, qual amore, o qual destino
mi darà penne in guisa di colomba,
ch'i' mi riposi, et levimi da terra?

82
Io non fu' d'amar voi lassato unquancho,
madonna, né sarò mentre ch'io viva;
ma d'odiar me medesmo giunto a riva,
et del continuo lagrimar so' stancho;

et voglio anzi un sepolcro bello et biancho,
che 'l vostro nome a mio danno si scriva
in alcun marmo, ove di spirto priva
sia la mia carne, che pò star seco ancho.

Però, s'un cor pien d'amorosa fede
può contentarve senza farne stracio,
piacciavi omai di questo aver mercede.

Se 'n altro modo cerca d'esser sacio,
vostro sdegno erra, et non fia quel che crede:
di che Amor et me stesso assai ringracio.

83
Se bianche non son prima ambe le tempie
ch'a poco a poco par che 'l tempo mischi,
securo non sarò, bench'io m'arrischi
talor ov'Amor l'arco tira et empie.

Non temo già che piú mi strazi o scempie,
né mi ritenga perch'anchor m'invischi,
né m'apra il cor perché di fuor l'incischi
con sue saette velenose et empie.

    ==>SEGUE


Lagrime omai da gli occhi uscir non ponno,
ma di gire infin là sanno il vïaggio,
sí ch'a pena fia mai ch'i' 'l passo chiuda.

Ben mi pò riscaldare il fiero raggio,
non sí ch'i' arda; et può turbarmi il sonno,
ma romper no, l'imagine aspra et cruda.

84
- Occhi piangete: accompagnate il core
che di vostro fallir morte sostene.
- Cosí sempre facciamo; et ne convene
lamentar piú l'altrui, che 'l nostro errore.

- Già prima ebbe per voi l'entrata Amore,
là onde anchor come in suo albergo vène.
- Noi gli aprimmo la via per quella spene
che mosse d'entro da colui che more.

- Non son, come a voi par, le ragion' pari:
ché pur voi foste ne la prima vista
del vostro et del suo mal cotanto avari.

- Or questo è quel che piú ch'altro n'atrista,
che' perfetti giudicii son sí rari,
et d'altrui colpa altrui biasmo s'acquista.

85
Io amai sempre, et amo forte anchora,
et son per amar piú di giorno in giorno
quel dolce loco, ove piangendo torno
spesse fïate, quando Amor m'accora.

Et son fermo d'amare il tempo et l'ora
ch'ogni vil cura mi levâr d'intorno;
et più colei, lo cui bel viso adorno
di ben far co' suoi exempli m'innamora.

Ma chi pensò veder mai tutti insieme
per assalirmi il core, or quindi or quinci,
questi dolci nemici, ch'i' tant'amo?

Amor, con quanto sforzo oggi mi vinci!
Et se non ch'al desio cresce la speme,
i' cadrei morto, ove più viver bramo.


86
Io avrò sempre in odio la fenestra
onde Amor m'aventò già mille strali,
perch'alquanti di lor non fur mortali:
ch'è bel morir, mentre la vita è dextra.

Ma 'l sovrastar ne la pregion terrestra
cagion m'è, lasso, d'infiniti mali;
et piú mi duol che fien meco immortali,
poi che l'alma dal cor non si scapestra.

Misera, che devrebbe esser accorta
per lunga experïentia omai che 'l tempo
non è chi 'ndietro volga, o chi l'affreni.

Piú volte l'ò con ta' parole scorta:
Vattene, trista, ché non va per tempo
chi dopo lassa i suoi dí piú sereni.

87
Sí tosto come aven che l'arco scocchi,
buon sagittario di lontan discerne
qual colpo è da sprezzare, et qual d'averne
fede ch'al destinato segno tocchi:

similmente il colpo de' vostr'occhi,
donna, sentiste a le mie parti interne
dritto passare, onde conven ch'eterne
lagrime per la piaga il cor trabocchi.

Et certo son che voi diceste allora:
Misero amante, a che vaghezza il mena?
Ecco lo strale onde Amor vòl che mora.

Ora veggendo come 'l duol m'affrena,
quel che mi fanno i miei nemici anchora
non è per morte, ma per piú mia pena.

88
Poi che mia speme è lunga a venir troppo,
et de la vita il trappassar sí corto,
vorreimi a miglior tempo esser accorto,
per fuggir dietro piú che di galoppo;

et fuggo anchor cosí debile et zoppo
da l'un de' lati, ove 'l desio m'à storto:
securo omai, ma pur nel viso porto
segni ch'i'ò presi a l'amoroso intoppo.

    ==>SEGUE


Ond'io consiglio: Voi che siete in via,
volgete i passi; et voi ch'Amore avampa,
non v'indugiate su l'extremo ardore;

ché perch'io viva de mille un no scampa;
era ben forte la nemica mia,
et lei vid'io ferita in mezzo 'l core.

89
Fuggendo la pregione ove Amor m'ebbe
molt'anni a far di me quel ch'a lui parve,
donne mie, lungo fôra a ricontarve
quanto la nova libertà m'increbbe.

Diceami il cor che per sé non saprebbe
viver un giorno; et poi tra via m'apparve
quel traditore in sí mentite larve
che piú saggio di me inganato avrebbe.

Onde piú volte sospirando indietro
dissi: Ohimè, il giogo et le catene e i ceppi
eran piú dolci che l'andare sciolto.

Misero me, che tardo il mio mal seppi;
et con quanta faticha oggi mi spetro
de l'errore, ov'io stesso m'era involto!

90
Erano i capei d'oro a l'aura sparsi
che 'n mille dolci nodi gli avolgea,
e 'l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi, ch'or ne son sí scarsi;

e 'l viso di pietosi color' farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
i' che l'ésca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di súbito arsi?

Non era l'andar suo cosa mortale,
ma d'angelica forma; et le parole
sonavan altro, che pur voce humana.

Uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch'i' vidi: et se non fosse or tale,
piagha per allentar d'arco non sana.


91
La bella donna che cotanto amavi
subitamente s'è da noi partita,
et per quel ch'io ne speri al ciel salita,
sí furon gli atti suoi dolci soavi.

Tempo è da ricovrare ambo le chiavi
del tuo cor, ch'ella possedeva in vita,
et seguir lei per via dritta expedita:
peso terren non sia piú che t'aggravi.

Poi che se' sgombro de la maggior salma,
l'altre puoi giuso agevolmente porre,
sallendo quasi un pellegrino scarco.

Ben vedi omai sí come a morte corre
ogni cosa creata, et quanto all'alma
bisogna ir lieve al periglioso varco.

92
Piangete, donne, et con voi pianga Amore;
piangete, amanti, per ciascun paese,
poi ch'è morto collui che tutto intese
in farvi, mentre visse, al mondo honore.

Io per me prego il mio acerbo dolore,
non sian da lui le lagrime contese,
et mi sia di sospir' tanto cortese,
quanto bisogna a disfogare il core.

Piangan le rime anchor, piangano i versi,
perché 'l nostro amoroso messer Cino
novellamente s'è da noi partito.

Pianga Pistoia, e i citadin perversi
che perduto ànno sí dolce vicino;
et rallegresi il cielo, ov'ello è gito.

93
Più volte Amor m'avea già detto: Scrivi,
scrivi quel che vedesti in lettre d'oro,
sí come i miei seguaci discoloro,
e 'n un momento gli fo morti et vivi.

Un tempo fu che 'n te stesso 'l sentivi,
volgare exemplo a l'amoroso choro;
poi di man mi ti tolse altro lavoro;
ma già ti raggiuns'io mentre fuggivi.

==>SEGUE


E se' begli occhi, ond'io me ti mostrai
et là dov'era il mio dolce ridutto
quando ti ruppi al cor tanta durezza,

mi rendon l'arco ch'ogni cosa spezza,
forse non avrai sempre il viso asciutto:
ch'i' mi pasco di lagrime, et tu 'l sai.

94
Quando giugne per gli occhi al cor profondo
l'imagin donna, ogni altra indi si parte,
et le vertú che l'anima comparte
lascian le membra, quasi immobil pondo.

Et del primo miracolo il secondo
nasce talor, che la scacciata parte
da se stessa fuggendo arriva in parte
che fa vendetta e 'l suo exilio giocondo.

Quinci in duo volti un color morto appare,
perché 'l vigor che vivi gli mostrava
da nessun lato è piú là dove stava.

Et di questo in quel dí mi ricordava,
ch'i' vidi duo amanti trasformare,
et far qual io mi soglio in vista fare.

95
Cosí potess'io ben chiuder in versi
i miei pensier', come nel cor gli chiudo,
ch'animo al mondo non fu mai sí crudo
ch'i' non facessi per pietà dolersi.

Ma voi, occhi beati, ond'io soffersi
quel colpo, ove non valse elmo né scudo,
di for et dentro mi vedete ignudo,
benché 'n lamenti il duol non si riversi.

Poi che vostro vedere in me risplende,
come raggio di sol traluce in vetro,
basti dunque il desio senza ch'io dica.

Lasso, non a Maria, non nocque a Pietro
la fede, ch'a me sol tanto è nemica;
et so ch'altri che voi nessun m'intende.


96
Io son de l'aspectar omai sí vinto,
et de la lunga guerra de' sospiri,
ch'i' aggio in odio la speme e i desiri,
ed ogni laccio ond'è 'l mio core avinto.

Ma 'l bel viso leggiadro che depinto
porto nel petto, et veggio ove ch'io miri,
mi sforza; onde ne' primi empii martiri
pur son contra mia voglia risospinto.

Allor errai quando l'antica strada
di libertà mi fu precisa et tolta,
ché mal si segue ciò ch'agli occhi agrada;

allor corse al suo mal libera et sciolta:
ora a posta d'altrui conven che vada
l'anima che peccò sol una volta.

97
Ahi bella libertà, come tu m'ài,
partendoti da me, mostrato quale
era 'l mio stato, quando il primo strale
fece la piagha ond'io non guerrò mai!

Gli occhi invaghiro allor sí de' lor guai,
che 'l fren de la ragione ivi non vale,
perch'ànno a schifo ogni opera mortale:
lasso, cosí da prima gli avezzai!

Né mi lece ascoltar chi non ragiona
de la mia morte; et solo del suo nome
vo empiendo l'aere, che sí dolce sona.

Amor in altra parte non mi sprona,
né i pie' sanno altra via, né le man' come
lodar si possa in carte altra persona.

98
Orso, al vostro destrier si pò ben porre
un fren, che di suo corso indietro il volga;
ma 'l cor chi legherà, che non si sciolga,
se brama honore, e 'l suo contrario abhorre?

Non sospirate: a lui non si pò tôrre
suo pregio, perch'a voi l'andar si tolga;
ché, come fama publica divolga,
egli è già là, ché null'altro il precorre.

==>SEGUE


101
Lasso, ben so che dolorose prede
di noi fa quella ch'a nullo huom perdona,
et che rapidamente n'abandona
il mondo, et picciol tempo ne tien fede;

veggio a molto languir poca mercede,
et già l'ultimo dí nel cor mi tuona:
per tutto questo Amor non mi spregiona,
che l'usato tributo agli occhi chiede.

So come i dí, come i momenti et l'ore,
ne portan gli anni; et non ricevo inganno,
ma forza assai maggior che d'arti maghe.

La voglia et la ragion combattuto ànno
sette et sette anni; et vincerà il migliore,
s'anime son qua giú del ben presaghe.

102
Cesare, poi che 'l traditor d'Egitto
li fece il don de l'onorata testa,
celando l'allegrezza manifesta,
pianse per gli occhi fuor sí come è scritto;

et Hanibàl, quando a l'imperio afflitto
vide farsi Fortuna sí molesta,
rise fra gente lagrimosa et mesta
per isfogare il suo acerbo despitto.

Et cosí aven che l'animo ciascuna
sua passïon sotto 'l contrario manto
ricopre co la vista or chiara or bruna:

però, s'alcuna volta io rido o canto,
facciol, perch'i' non ò se non quest'una
via da celare il mio angoscioso pianto.

103
Vinse Hanibàl, et non seppe usar poi
ben la vittorïosa sua ventura:
però, signor mio caro, aggiate cura,
che similmente non avegna a voi.

L'orsa, rabbiosa per gli orsacchi suoi,
che trovaron di maggio aspra pastura,
rode sé dentro, e i denti et l'unghie endura
per vendicar suoi danni sopra noi.

==>SEGUE


Mentre 'l novo dolor dunque l'accora,
non riponete l'onorata spada,
anzi seguite là dove vi chiama

vostra fortuna dritto per la strada
che vi può dar, dopo la morte anchora
mille et mille anni, al mondo honor et fama.

104
L'aspectata vertù, che 'n voi fioriva
quando Amor cominciò darvi bataglia,
produce or frutto, che quel fiore aguaglia,
et che mia speme fa venire a riva.

Però mi dice il cor ch'io in carte scriva
cosa, onde 'l vostro nome in pregio saglia,
ché 'n nulla parte sí saldo s'intaglia
per far di marmo una persona viva.

Credete voi che Cesare o Marcello
o Paolo od Affrican fossin cotali
per incude già mai né per martello?

Pandolfo mio, quest'opere son frali
a ·llungo andar, ma 'l nostro studio è quello
che fa per fama gli uomini immortali.

105
Mai non vo' piú cantar com'io soleva,
ch'altri no m'intendeva, ond'ebbi scorno;
et puossi in bel soggiorno esser molesto.
Il sempre sospirar nulla releva;
già su per l'Alpi neva d'ogn' 'ntorno;
et è già presso al giorno: ond'io son desto.
Un acto dolce honesto è gentil cosa;
et in donna amorosa anchor m'aggrada,
che 'n vista vada altera et disdegnosa,
non superba et ritrosa:
Amor regge suo imperio senza spada.
Chi smarrita à la strada, torni indietro;
chi non à albergo, posisi in sul verde;
chi non à l'auro, o 'l perde,
spenga la sete sua con un bel vetro.

I'die' in guarda a san Pietro; or non piú, no:
intendami chi pò, ch'i' m'intend'io.

==>SEGUE




Grave soma è un mal fio a mantenerlo:
quando posso mi spetro, et sol mi sto.
Fetonte odo che 'n Po cadde, et morío;
et già di là dal rio passato è 'l merlo:
deh, venite a vederlo. Or i' non voglio:
non è gioco uno scoglio in mezzo l'onde,
e 'ntra le fronde il visco. Assai mi doglio
quando un soverchio orgoglio
molte vertuti in bella donna asconde.
Alcun è che risponde a chi nol chiama;
altri, chi 'il prega, si delegua et fugge;
altri al ghiaccio si strugge;
altri dí et notte la sua morte brama.

Proverbio «ama chi t'ama» è fatto antico.
I' so ben quel ch'io dico: or lass'andare,
ché conven ch'altri impare a le sue spese.
Un' humil donna grama un dolce amico.
Mal si conosce il fico. A me pur pare
senno a non cominciar tropp'alte imprese;
et per ogni paese è bona stanza.
L'infinita speranza occide altrui;
et anch'io fui alcuna volta in danza.
Quel poco che m'avanza
fia chi nol schifi, s'i' 'l vo' dare a lui.
I' mi fido in Colui che 'l mondo regge,
et che' seguaci Suoi nel boscho alberga,
che con pietosa verga
mi meni a passo omai tra le Sue gregge.

Forse ch'ogni uom che legge non s'intende;
et la rete tal tende che non piglia;
et chi troppo assotiglia si scavezza.
Non fia zoppa la legge ov'altri attende.
Per bene star si scende molte miglia.
Tal par gran meraviglia, et poi si sprezza.
Una chiusa bellezza è piú soave.
Benedetta la chiave che s'avvolse
al cor, et sciolse l'alma, et scossa l'ave
di catena sí grave,
e 'nfiniti sospir' del mio sen tolse!
Là dove piú mi dolse, altri si dole,
et dolendo adolcisse il mio dolore:
ond'io ringratio Amore
che piú nol sento, et è non men che suole.

==>SEGUE
In silentio parole accorte et sagge,
e 'l suon che mi sottragge ogni altra cura,
et la pregione oscura ov'è 'l bel lume;
le nocturne vïole per le piagge,
et le le fere selvagge entr'a le mura,
et la dolce paura, e 'l bel costume,
et di duo fonti un fiume in pace vòlto
dov'io bramo, et raccolto ove che sia:
Amor et Gelosia m'ànno il cor tolto,
e i segni del bel volto
che mi conducon per piú piana via
a la speranza mia, al fin degli affanni.
O riposto mio bene, et quel che segue,
or pace or guerra or triegue,
mai non m'abbandonate in questi panni.

De' passati miei danni piango et rido,
perché molto mi fido in quel ch'i' odo.
Del presente mi godo, et meglio aspetto,
et vo contando gli anni, et taccio et grido.
E 'n bel ramo m'annido, et in tal modo
ch'i' ne ringratio et lodo il gran disdetto
che l'indurato affecto alfine à vinto,
et ne l'alma depinto «I sare' udito,
et mostratone a dito», et ànne extinto
(tanto inanzi son pinto,
ch'i' 'l pur dirò) «Non fostú tant'ardito»:
chi m'à 'l fianco ferito, et chi 'l risalda,
per cui nel cor via piú che 'n carta scrivo;
chi mi fa morto et vivo,
chi 'n un punto m'agghiaccia et mi riscalda.


106
Nova angeletta sovra l'ale accorta
scese dal cielo in su la fresca riva,
là 'nd'io passava sol per mio destino.

Poi che senza compagna et senza scorta
mi vide, un laccio che di seta ordiva
tese fra l'erba, ond'è verde il camino.

Allor fui preso; et non mi spiacque poi,
sí dolce lume uscia degli occhi suoi.

107
Non veggio ove scampar mi possa omai:
sí lunga guerra i begli occhi mi fanno,
ch'i' temo, lasso, no 'l soverchio affanno
distruga 'l cor che triegua non à mai.

Fuggir vorrei; ma gli amorosi rai,
che dí et notte ne la mente stanno,
risplendon sí, ch'al quintodecimo anno
m'abbaglian piú che 'l primo giorno assai;

et l'imagine lor son sí cosparte
che volver non mi posso, ov'io non veggia
o quella o simil indi accesa luce.

Solo d'un lauro tal selva verdeggia
che 'l mio adversario con mirabil arte
vago fra i rami ovunque vuol m'adduce.

108
Aventuroso piú d'altro terreno,
ov'Amor vidi già fermar le piante
ver' me volgendo quelle luci sante
che fanno intorno a sé l'aere sereno,

prima poria per tempo venir meno
un'imagine salda di diamante
che l'atto dolce non mi stia davante
del qual ò la memoria e 'l cor sí pieno:

né tante volte ti vedrò già mai
ch'i' non m'inchini a ricercar de l'orme
che 'l bel pie' fece in quel cortese giro.

Ma se 'n cor valoroso Amor non dorme,
prega, Sennuccio mio, quand 'l vedrai,
di qualche lagrimetta, o d'un sospiro.






I' mi riscossi; et ella oltra, parlando,
passò, che la parola i' non soffersi,
né 'l dolce sfavillar degli occhi suoi.

Or mi ritrovo pien di sí diversi
piaceri, in quel saluto ripensando,
che duol non sento, né sentí' ma' poi.

112
Sennuccio, i' vo' che sapi in qual manera
tractato sono, et qual vita è la mia:
ardomi et struggo anchor com'io solia;
l'aura mi volve, et son pur quel ch'i'm'era.

Qui tutta humile, et qui la vidi altera,
or aspra, or piana, or dispietata, or pia;
or vestirsi honestate, or leggiadria,
or mansüeta, or disdegnosa et fera.

Qui cantò dolcemente, et qui s'assise;
qui si rivolse, et qui rattenne il passo;
qui co' begli occhi mi trafisse il core;

qui disse una parola, et qui sorrise;
qui cangiò 'l viso. In questi pensier', lasso,
nocte et dí tiemmi il signor nostro Amore.

113
Qui dove mezzo son, Sennuccio mio,
(cosí ci foss'io intero, et voi contento),
venni fuggendo la tempesta e 'l vento
c'ànno súbito fatto il tempo rio.

Qui son securo: et vo' vi dir perch'io
non come soglio il folgorar pavento,
et perché mitigato, nonché spento,
né-micha trovo il mio ardente desio.

Tosto che giunto a l'amorosa reggia
vidi onde nacque l'aura dolce et pura
ch'acqueta l'aere, et mette i tuoni in bando,

Amor ne l'alma, ov'ella signoreggia,
raccese 'l foco, et spense la paura:
che farrei dunque gli occhi suoi guardando?


114
De l'empia Babilonia, ond'è fuggita
ogni vergogna, ond'ogni bene è fori,
albergo di dolor, madre d'errori,
son fuggito io per allungar la vita.

Qui mi sto solo; et come Amor m'invita,
or rime et versi, or colgo herbette et fiori,
seco parlando, et a tempi migliori
sempre pensando: et questo sol m'aita.

Né del vulgo mi cal, né di Fortuna,
né di me molto, né di cosa vile,
né dentro sento né di fuor gran caldo.

Sol due persone cheggio; et vorrei l'una
col cor ver' me pacificato humile,
l'altro col pie', sí come mai fu, saldo.

115
In mezzo di duo amanti honesta altera
vidi una donna, et quel signor co lei
che fra gli uomini regna et fra li dèi;
et da l'un lato il Sole, io da l'altro era.

Poi che s'accorse chiusa da la spera
de l'amico piú bello, agli occhi miei
tutta lieta si volse, et ben vorrei
che mai non fosse inver' di me piú fera.

Súbito in alleggrezza si converse
la gelosia che 'n su la prima vista
per sí alto adversario al cor mi nacque.

A lui la faccia lagrimosa et trista
un nuviletto intorno ricoverse:
cotanto l'esser vinto li dispiacque.

116
Pien di quella ineffabile dolcezza
che del bel viso trassen gli occhi miei
nel dí che volentier chiusi gli avrei
per non mirar già mai minor bellezza,

lassai quel ch'i' piú bramo; et ò sí avezza
la mente a contemplar sola costei,
ch'altro non vede, et ciò che non è lei
già per antica usanza odia et disprezza.

==>SEGUE




In una valle chiusa d'ogni 'ntorno,
ch'è refrigerio de' sospir' miei lassi,
giunsi sol com Amor, pensoso et tardo.

Ivi non donne, ma fontane et sassi,
et l'imagine trovo di quel giorno
che 'l pensier mio figura, ovunque io sguardo.

117
Se 'l sasso, ond'è piú chiusa questa valle,
di che 'l suo proprio nome si deriva,
tenesse vòlto per natura schiva
a Roma il viso et a Babel le spalle,

i miei sospiri piú benigno calle
avrian per gire ove lor spene è viva:
or vanno sparsi, et pur ciascuno arriva
là dov'io il mando, che sol un non falle.

Et son di là sí dolcemente accolti,
com'io m'accorgo, che nessun mai torna:
con tal diletto in quelle parti stanno.

Degli occhi è 'l duol, che, tosto che s'aggiorna,
per gran desio de' be' luoghi a lor tolti,
dànno a me pianto, et a' pie' lassi affanno.

118
Rimansi a dietro il sestodecimo anno
de' miei sospiri, et io trapasso inanzi
verso l'extremo; et parmi che pur dianzi
fosse 'l principio di cotanto affanno.

L'amar m'è dolce, et util il mio danno,
e 'l viver grave; et prego ch'egli avanzi
l'empia Fortuna, et temo no chiuda anzi
Morte i begli occhi che parlar mi fanno.

Or qui son, lasso, et voglio esser altrove;
et vorrei piú volere, et piú non voglio;
et per piú non poter fo quant'io posso;

e d'antichi desir' lagrime nove
provan com'io son pur quel ch'i' mi soglio,
né per mille rivolte anchor son mosso.


119
Una donna piú bella assai che 'l sole,
et piú lucente, et d'altrettanta etade,
con famosa beltade,
acerbo anchor mi trasse a la sua schiera.
Questa in penseri, in opre et in parole
(però ch'è de le cose al mondo rade),
questa per mille strade
sempre inanzi mi fu leggiadra altera.
Solo per lei tornai da quel ch'i' era,
poi ch'i' soffersi gli occhi suoi da presso;
per suo amor m'er'io messo
a faticosa impresa assai per tempo:
tal che, s'i'arrivo al disïato porto,
spero per lei gran tempo
viver, quand'altri mi terrà per morto.

Questa mia donna mi menò molt'anni
pien di vaghezza giovenile ardendo,
sí come ora io comprendo,
sol per aver di me piú certa prova,
mostrandomi pur l'ombra o 'l velo o' panni
talor di sé, ma 'l viso nascondendo;
et io, lasso, credendo
vederne assai, tutta l'età mia nova
passai contento, e 'l rimembrar mi giova,
poi ch'alquanto di lei veggi'or piú inanzi.
I'dico che pur dianzi
qual io non l'avea vista infin allora,
mi si scoverse: onde mi nacque un ghiaccio
nel core, et èvvi anchora,
et sarà sempre fin ch'i' le sia in braccio.

Ma non me 'l tolse la paura o 'l gielo
che pur tanta baldanza al mio cor diedi
ch'i' le mi strinsi a' piedi
per piú dolcezza trar de gli occhi suoi;
et ella, che remosso avea già il velo
dinanzi a' miei, mi disse: - Amico, or vedi
com'io son bella, et chiedi
quanto par si convenga agli anni tuoi. -
- Madonna - dissi - già gran tempo in voi
posi 'l mio amor, ch'i' sento or sí infiammato,
ond'a me in questo stato
altro voler o disvoler m'è tolto. -

==>SEGUE

Con voce allor di sí mirabil' tempre
rispose, et con un volto
che temer et sperar mi farà sempre:

- Rado fu al mondo fra cosí gran turba
ch'udendo ragionar del mio valore
non si sentisse al core
per breve tempo almen qualche favilla;
ma l'adversaria mia che 'l ben perturba
tosto la spegne, ond'ogni vertú more
et regna altro signore
che promette una vita piú tranquilla.
De la tua mente Amor, che prima aprilla,
mi dice cose veramente ond'io
veggio che 'l gran desio
pur d'onorato fin ti farà degno;
et come già se' de' miei rari amici,
donna vedrai per segno
che farà gli occhi tuoi via piú felici. -

I' volea dir: - Quest'è impossibil cosa -;
quand'ella: - Or mira - et leva' gli occhi un poco
in piú riposto loco -
donna ch'a pochi si mostrò già mai. -
Ratto inchinai la fronte vergognosa,
sentendo novo dentro maggior foco;
et ella il prese in gioco,
dicendo: - I' veggio ben dove tu stai.
Sí come 'l sol con suoi possenti rai
fa súbito sparire ogni altra stella,
cosí par or men bella
la vista mia cui maggiore luce preme.
Ma io però da' miei non ti diparto,
ché questa et me d'un seme,
lei davanti et me poi, produsse un parto. -

Ruppesi intanto di vergogna il nodo
ch'a la mia lingua era distretto intorno
su nel primiero scorno,
allor quand'io del suo accorger m'accorsi;
e 'ncominciai: - S'egli è ver quel ch'i' odo,
beato il padre, et benedetto il giorno
ch'à di voi il mondo adorno,
et tutto 'l tempo ch'a vedervi io corsi;
et se mai da la via dritta mi torsi,

==>SEGUE
duolmene forte, assai piú ch'i' non mostro;
ma se de l'esser vostro
fossi degno udir piú, del desir ardo. -
Pensosa mi rispose, et cosí fiso
tenne il suo dolce sguardo
ch'al cor mandò co le parole il viso:

- Sí come piacque al nostro eterno padre,
ciascuna di noi due nacque immortale.
Miseri, a voi che vale?
Me' v'era che da noi fosse il defecto.
Amate, belle, gioveni et leggiadre
fummo alcun tempo: et or siam giunte a tale
che costei batte l'ale
per tornar a l'anticho suo ricetto;
i' per me sono un'ombra. Et or t'ò detto
quanto per te sí breve intender puossi. -
Poi che i pie' suoi fur mossi,
dicendo: - Non temer ch'i' m'allontani -,
di verde lauro una ghirlanda colse,
la qual co le sue mani
intorno intorno a le mie tempie avolse.

Canzon, chi tua ragion chiamasse obscura,
di': - Non ò cura, perché tosto spero
ch'altro messaggio il vero
farà in piú chiara voce manifesto.
I' venni sol per isvegliare altrui,
se chi m'impose questo
non m'inganò, quand'io partí' da lui. -

120
Quelle pietose rime in ch'io m'accorsi
di vostro ingegno et del cortese affecto,
ebben tanto vigor nel mio conspetto
che ratto a questa penna la man porsi

per far voi certo che gli extremi morsi
di quella ch'io con tutto 'l mondo aspetto
mai non sentí', ma pur senza sospetto
infin a l'uscio del suo albergo corsi;

poi tornai indietro, perch'io vidi scripto
di sopra 'l limitar che 'l tempo anchora
non era giunto al mio viver prescritto,

bench'io non vi legessi il dí né l'ora.
Dunque s'acqueti omai 'l cor vostro afflitto,
et cerchi huom degno, quando sí l'onora.
121
Or vedi, Amor, che giovenetta donna
tuo regno sprezza, et del mio mal non cura,
et tra duo ta' nemici è sí secura.

Tu se' armato, et ella in treccie e 'n gonna
si siede, et scalza, in mezzo i fiori et l'erba,
ver' me spietata, e 'n contra te superba.

I' son pregion; ma se pietà anchor serba
l'arco tuo saldo, et qualchuna saetta,
fa di te et di me, signor, vendetta.

122
Dicesette anni à già rivolto il cielo
poi che 'mprima arsi, et già mai non mi spensi;
ma quando aven ch'al mio stato ripensi,
sento nel mezzo de le fiamme un gielo.

Vero è 'l proverbio, ch'altri cangia il pelo
anzi che 'l vezzo, et per lentar i sensi
gli umani affecti non son meno intensi:
ciò ne fa l'ombra ria del grave velo.

Oïmè lasso, e quando fia quel giorno
che, mirando il fuggir degli anni miei,
esca del foco, et di sí lunghe pene?

Vedrò mai il dí che pur quant'io vorrei
quel'aria dolce del bel viso adorno
piaccia a quest'occhi, et quanto si convene?

123
Quel vago impallidir che 'l dolce riso
d'un'amorosa nebbia ricoperse,
con tanta maiestade al cor s'offerse
che li si fece incontr'a mezzo 'l viso.

Conobbi allor sí come in paradiso
vede l'un l'altro, in tal guisa s'aperse
quel pietoso penser ch'altri non scerse:
ma vidil' io, ch'altrove non m'affiso.

Ogni angelica vista, ogni atto humile
che già mai in donna ov'amor fosse apparve,
fôra uno sdegno a lato a quel ch'i' dico.

Chinava a terra il bel guardo gentile,
et tacendo dicea, come a me parve:
Chi m'allontana il mio fedele amico?




124
Amor, Fortuna et la mia mente, schiva
di quel che vede e nel passato volta,
m'affligon sí, ch'io porto alcuna volta
invidia a quei che son su l'altra riva.

Amor mi strugge 'l cor, Fortuna il priva
d'ogni conforto, onde la mente stolta
s'adira et piange: et cosí in pena molta
sempre conven che combattendo viva.

Né spero i dolci dí tornino indietro,
ma pur di male in peggio quel ch'avanza;
et di mio corso ò già passato 'l mezzo.

Lasso, non di diamante, ma d'un vetro
veggio di man cadermi ogni speranza,
et tutti miei pensier' romper nel mezzo.

125
Se 'l pensier che mi strugge,
com'è pungente et saldo,
cosí vestisse d'un color conforme,
forse tal m'arde et fugge,
ch'avria parte del caldo,
et desteriasi Amor là dov'or dorme;
men solitarie l'orme
fôran de' miei pie' lassi
per campagne et per colli,
men gli occhi ad ognor molli,
ardendo lei che come un ghiaccio stassi,
et non lascia in me dramma
che non sia foco et fiamma.

Però ch'Amor mi sforza
et di saver mi spoglia,
parlo in rime aspre, et di dolcezza ignude:
ma non sempre a la scorza
ramo, né in fior, né 'n foglia
mostra di for sua natural vertude.
Miri ciò che 'l cor chiude
Amor et que' begli occhi,
ove si siede a l'ombra.
Se 'l dolor che si sgombra
aven che 'n pianto o in lamentar trabocchi,
l'un a me nòce et l'altro
altrui, ch'io non lo scaltro.

==>SEGUE
109
Lasso, quante fïate Amor m'assale,
che fra la notte e 'l dí son piú di mille,
torno dov'arder vidi le faville
che 'l foco del mio cor fanno immortale.

Ivi m'acqueto; et son condotto a tale,
ch'a nona, a vespro, a l'alba et a le squille
le trovo nel pensier tanto tranquille
che di null'altro mi rimembra o cale.

L'aura soave che dal chiaro viso
move col suon de le parole accorte
per far dolce sereno ovunque spira,

quasi un spirto gentil di paradiso
sempre in quell'aere par che mi conforte,
sí che 'l cor lasso altrove non respira.

110
Persequendomi Amor al luogo usato,
ristretto in guisa d'uom ch'aspetta guerra,
che si provede, e i passi intorno serra,
de' miei antichi pensier' mi stava armato.

Volsimi, et vidi un'ombra che da lato
stampava il sole, et riconobbi in terra
quella che, se 'l giudicio mio non erra,
era piú degna d'immortale stato.

I' dicea fra mio cor: Perché paventi?
Ma non fu prima dentro il penser giunto
che i raggi, ov'io mi struggo, eran presenti.

Come col balenar tona in un punto,
cosí fu' io de' begli occhi lucenti
et d'un dolce saluto inseme aggiunto.

111
La donna che 'l mio cor nel viso porta,
là dove sol fra bei pensier' d'amore
sedea, m'apparve; et io per farle honore
mossi con fronte reverente et smorta.

Tosto che del mio stato fussi accorta,
a me si volse in sí novo colore
ch'avrebbe a Giove nel maggior furore
tolto l'arme di mano, et l'ira morta.

==>SEGUE
Dolci rime leggiadre
che nel primiero assalto
d'Amor usai, quand'io non ebbi altr'arme,
chi verrà mai che squadre
questo mio cor di smalto
ch'almen com'io solea possa sfogarme?
Ch'aver dentro a lui parme
un che madonna sempre
depinge et de lei parla:
a voler poi ritrarla
per me non basto, et par ch'io me ne stempre.
Lasso, cosí m'è scorso
lo mio dolce soccorso.

Come fanciul ch'a pena
volge la lingua et snoda,
che dir non sa, ma 'l piú tacer gli è noia,
così 'l desir mi mena
a dire, et vo' che m'oda
la dolce mia nemica anzi ch'io moia.
Se forse ogni sua gioia
nel suo bel viso è solo,
et di tutt'altro è schiva,
odil tu, verde riva,
e presta a' miei sospir' sí largo volo,
che sempre si ridica
come tu m'eri amica.

Ben sai che sí bel piede
non tocchò terra unquancho
come quel dí che già segnata fosti;
onde 'l cor lasso riede
col tormentoso fiancho
a partir teco i lor pensier' nascosti.
Cosí avestú riposti
de' be' vestigi sparsi
anchor tra' fiori et l'erba,
che la mia vita acerba,
lagrimando, trovasse ove acquetarsi!
Ma come pò s'appaga
l'alma dubbiosa et vaga.

Ovunque gli occhi volgo
trovo un dolce sereno
pensando: Qui percosse il vago lume.

==>SEGUE


Basti che si ritrove in mezzo 'l campo
al destinato dí, sotto quell'arme
che gli dà il tempo, amor, vertute e 'l sangue,

gridando: D'un gentil desire avampo
col signor mio, che non pò seguitarme,
et del non esser qui si strugge et langue.

99
Poi che voi et io piú volte abbiam provato
come 'l nostro sperar torna fallace,
dietro a quel sommo ben che mai non spiace
levate il core a piú felice stato.

Questa vita terrena è quasi un prato,
che 'l serpente tra' fiori et l'erba giace;
et s'alcuna sua vista agli occhi piace,
è per lassar piú l'animo invescato.

Voi dunque, se cercate aver la mente
anzi l'extremo dí queta già mai,
seguite i pochi, et non la volgar gente.

Ben si può dire a me: Frate, tu vai
mostrando altrui la via, dove sovente
fosti smarrito, et or se' piú che mai.

100
Quella fenestra ove l'un sol si vede,
quando a lui piace, et l'altro in su la nona;
et quella dove l'aere freddo suona
ne' brevi giorni, quando borrea 'l fiede;

e 'l sasso, ove a' gran dí pensosa siede
madonna, et sola seco si ragiona,
con quanti luoghi sua bella persona
coprí mai d'ombra, o disegnò col piede;

e 'l fiero passo ove m'agiunse Amore;
e lla nova stagion che d'anno in anno
mi rinfresca in quel dí l'antiche piaghe;

e 'l volto, et le parole che mi stanno
altamente confitte in mezzo 'l core,
fanno le luci mie di pianger vaghe.
Manoscritto dell'inizio del Canzoniere dove comincia la poesia
Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono

Qualunque herba o fior colgo
credo che nel terreno
aggia radice, ov'ella ebbe in costume
gir fra le piagge e 'l fiume,
et talor farsi un seggio
fresco, fiorito et verde.
Cosí nulla se 'n perde,
et piú certezza averne fôra il peggio.
Spirto beato, quale
se', quando altrui fai tale?

O poverella mia, come se' rozza!
Credo che tel conoschi:
rimanti in questi boschi.